Premessa
Tra i versi di Vermächtnis, cioè Lascito, con cui intendeva riassumere conclusivamente il messaggio del suo ultimo, sconfinato
romanzo, Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister (ben poco
letto e ben poco leggibile), Goethe pone un’indicazione densissima,
cui ho sempre cercato di restare fedele: Das alte Wahre, faß es an!
Una traduzione italiana di questo verso (peraltro poco felice dal
punto di vista poetico) potrebbe essere: Metti a frutto l’antico Vero!
È un’indicazione preziosa: abbiamo tutti il dovere, prima ancora di
andare narcisisticamente alla ricerca di nuove verità, di assimilare
fino in fondo quelle che esistono da sempre, che ci sono state pazientemente insegnate e che siamo chiamati a nostra volta a trasmettere a chi verrà dopo di noi. Questo è esattamente ciò che ho
cercato di fare scrivendo questo libro (che rielabora un piccolo libro che ho scritto alcuni anni fa e intitolato: Giustizia. Elementi per
una teoria) nella consapevolezza che quel Vero cui allude Goethe è
certamente antico, ma altrettanto certamente (e misteriosamente)
sempre nuovo.
Questo libro è dedicato a Luca e a Luciana, nella giornata che è
esclusivamente loro.
***
Un grosso libro, come diceva Callimaco, è un grosso guaio. Se
poi il libro in questione è un massiccio manuale o un corso universitario di grande mole, il guaio da grosso diviene grossissimo. Non
avendo il dono di Goethe di riassumere in un solo verso un intero
corso di lezioni, ho cercato comunque di minimizzare il danno e
mi sono deciso a pubblicare questo Corso di filosofia del diritto, nel
quale tento di confrontarmi con quell’antico Vero di cui parla Goethe, cercando di non dilatarne oltre misura le dimensioni. Il lettore
però si accorgerà ben presto che alla non eccessiva lunghezza di
questo corso si unisce una particolare densità del discorso, che ri15
chiede al lettore una riflessione, che potrà portargli via molto più
tempo di quanto egli non possa sulle prime immaginare. Un piccolo aiuto per discernere l’essenziale è dato al lettore dalla divisione
del testo in paragrafi e in sotto-paragrafi. Questi ultimi, evidentemente, accolgono riflessioni di carattere più particolare, digressioni e a volte dei veri e propri obiter dicta, di carattere accessorio e a
volte (ma solo a volte!) non essenziali. È anche utile rilevare che
spesso la comprensione dei paragrafi è facilitata da quella dei sotto-paragrafi. Il lettore lo verificherà da sé: come per imparare a
nuotare bisogna entrare in acqua e affrontarne le onde, così per
imparare a studiare bisogna immergersi nei libri e misurarsi con
essi, sapendo che da un libro non sarà mai possibile ottenere risposte alle proprie domande, se non dopo averle pazientemente ricercate.
16
1 | Insegnare
Secondo San Tommaso, docere est actus caritatis et misericordiae (In 4 Sententiarum, d. 49, q. 5, a. 3). L’espressione può apparire enfatica, ma è corretta. Può insegnare solo colui che sa. Ma non
basta sapere per insegnare: è necessario che ciò che si sa non venga
considerato da chi sa un proprio geloso possesso. È necessario che
chi sa decida di donare ad altri il proprio sapere, perché l’altro lo
condivida e ne sia (auspicabilmente) arricchito. Nell’insegnamento, quando è autentico, è implicita la generosità. Ed è per questo
che il debito che abbiamo con chi, insegnandoci qualcosa, ci ha
donato una parte di sé, è in qualche modo inestinguibile, come
emerge, sia pur indirettamente, dall’uso e soprattutto dal significato più profondo della parola Maestro, che tutti siamo ben in grado
di distinguere, nella sua valenza profonda, dall’uso e dal significato
che riserviamo alla parola “insegnante”: quando l’insegnamento
diviene magistero ha davvero raggiunto la sua pienezza.
2 | Insegnare filosofia
Si può insegnare la filosofia? Certamente sì, come si può insegnare qualsiasi congerie di nozioni. Ma non tutti coloro che conoscono la filosofia meritano l’appellativo di filosofi, così come non
tutti coloro che sono esperti di arte meritano di essere chiamati artisti. Il termine filosofia non indica solo un insieme di nozioni, che
può ben essere trasmesso dal maestro ai discepoli, ma più in generale un particolare modo di rapportarsi alla realtà, che il maestro
può indicare ai discepoli, senza però avere alcuna certezza che costoro siano capaci di recepirlo. È in questo senso, come ben sapeva
Aristotele, che la filosofia appartiene al novero di quelle forme di
sapere che non possono propriamente essere insegnate, così come
non possono propriamente essere imparate, ma che possono ciò
non di meno essere offerte alla riflessione. È in questo senso ristretto, ma rilevante, che ci si può anche, con molto coraggio, dedicare
all’insegnamento e all’apprendimento della filosofia.
3 | Cosa è la filosofia
La filosofia è conoscenza, basata sulla ragione. Ma si tratta di
una forma molto particolare di conoscenza (o, se così si preferisce
dire, si tratta di un uso molto particolare della ragione), che ha per
17
oggetto non le cose, per come esse si producono in un catena di
cause e di effetti (lo studio delle cose, nel senso cui ora si è accennato, è riservato alla scienza), bensì le cose per quello che è il loro
senso. A chi obietta che è rischioso dar credito a una forma di sapere, quale la filosofia, che pretende di poter accedere al senso,
senza avere la certezza di essere davvero in grado di conquistarlo
(ed effettivamente niente e nessuno è in grado di fornire questa
certezza) e nemmeno quella di saper elaborare un metodo adeguato a questo scopo, è possibile, seguendo il Socrate di Platone (Fedone, 114d), dare una sola risposta: è indubbio che questo rischio
esista, ma questo rischio è bello (kalós ho kíndynos).
3.1. Poiché il senso delle cose (la filosofia) non coincide con il
loro mero esserci (la fisica), la filosofia, inevitabilmente, è metafisica: è cioè un sapere che non nega l’esserci (cioè la fisica), ma individua la verità dell’esserci in una dimensione di ulteriorità, che
chiede di essere indagata e analizzata. Questa dimensione, questo
Hinterwelt, retro-mondo (come lo chiama Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte prima, § 3) costituisce, come scrive Adorno, lo
scandalo della filosofia, che si è cercato innumerevoli volte di rimuovere; ma resta fermo che la metafisica è ciò per cui esiste in
fondo la filosofia (Metafisica, trad. it., Einaudi, Torino, 2006, p. 3).
3.2. A questa considerazione possiamo anche riportare l’osservazione di Kant, quando scrive che “non c’è nessuna ragione umana … che possa sperare di comprendere semplicemente secondo
cause meccaniche la produzione sia pure di un filetto d’erba” (Cri4
tica del Giudizio, trad. it. Gargiulo-Verra, Bari 1979 , p. 285).
3.3. Secondo Aristotele, la filosofia nasce dallo stupore; dallo
stupore che esista una cosa, che avrebbe potuto non esistere; dallo
stupore che qualcosa che esiste possa cessare di esistere; dallo stupore che esista un mondo; dallo stupore che io stesso esista; dallo
stupore che esista in generale qualcosa anziché il nulla. La Bibbia,
nei Proverbi (30.18-19) esprime con accenti di alta liricità questo
stupore:
Tre cose mi sono difficili,
anzi, quattro che io non comprendo:
il sentiero dell’aquila nell’aria,
il sentiero del serpente sulla roccia,
il sentiero della nave in alto mare,
il sentiero dell’uomo in una donna.
3.4. Alfred North Whitehead, in Remarks (The Philosophical Review, 1937), riassume lo stupore “filosofico” (o, se si preferisce,
18
“metafisico”) in una domanda semplicissima, profonda e radicale,
destinata a restare sempre aperta: what is it all about?
4 | Filosofia e ideologia
Di conseguenza, l’atteggiamento fondamentale di chi fa filosofia
è primariamente contemplativo e solo successivamente, e non necessariamente, attivo. Agire per cambiare il mondo – o non agire
intenzionalmente, perché il mondo resti sempre come è, una paradossale forma di azione per omissione – può essere legittimo, giustificabile e in alcuni casi doveroso, ma solo a condizione che chi
pretenda di cambiare il mondo (o di cristallizzarlo, cercando di
farlo fuoriuscire dalla storia) lo abbia prima compreso, nella sua
identità e nelle sue ragioni, in modo da non fargli violenza. Chiamiamo ideologia la forza che muove coloro per i quali cambiare il
mondo, o imporgli un assoluto immobilismo, sono esigenze primarie e assolute, in alcuni casi perfino irriflesse; esigenze che spesso
non esitano a ricorrere alla brutalità, per raggiungere il proprio
scopo; esigenze attivate da fanatismo e spesso anche dalla logica
degli interessi, individuali o collettivi: logica, quest’ultima, di per sé
non stigmatizzabile, quando però chi opera per farla trionfare sia
rispettoso non solo degli interessi altrui, ma più prima ancora e in
generale dell’ordine oggettivo delle cose.
4.1. In questa prospettiva, tra filosofia e ideologia esiste un netto distacco, che in circostanze estreme può manifestarsi come un
conflitto, in cui la filosofia è destinata sempre ad uscire perdente e
i filosofi possono arrivare a correre il rischio di essere esiliati o espulsi dalla città (come pretese Catone dopo avere ascoltato i discorsi tenuti in Senato da Carneade – cfr. Plutarco, Cato maior, 2223) o addirittura di perdere la vita (come insegna la vicenda esemplare di Socrate). Sembra proprio, insomma, che non abbia del
tutto torto Thomas de Quincey, col suo humour tipicamente anglosassone, quando, in quel mirabile saggio che è Murder Considered
as One of the Fine Arts (L’ assassinio come una delle Belle Arti, 1827,
trad. it., Milano, 1977, p. 29), scrive che “è un fatto che ogni filosofo eminente o è stato ucciso o, quanto meno, è andato molto vicino
ad esserlo; al punto che se un uomo si dichiara filosofo e nessuno
ha mai attentato alla sua vita, può esser certo di non valere nulla”
(che nessuno, per settantadue anni, abbia mai attentato alla vita di
Locke è per de Quincey la dimostrazione irrefutabile della debolezza della sua filosofia).
19
5 | Filosofia e scienza
In epoca classica la prospettiva filosofica e quella scientifica
tendevano a sovrapporsi. Agli inizi dell’epoca moderna la scienza
conquista la propria autonomia grazie a una nuova consapevolezza metodologica, che vede nel sapere matematico l’unico paradigma adeguato al progresso della conoscenza, e nel rapporto empirico col mondo delle cose l’unica modalità adeguata per verificare la
correttezza di ipotesi cognitive. Nasce così un problema teoretico
nuovo, tuttora ampiamente irrisolto, quello epistemologico.
5.1. La modernità cerca di imporre l’idea che la scienza sia la
forma più adeguata o addirittura l’unica forma autentica del sapere, escludendo, o comunque riducendo, la significatività di forme
di sapere altre, come appunto quella filosofica, quella estetica,
quella religiosa, quella sapienziale. Di qui il costituirsi dello scientismo, la riduzione cioè della scienza a ideologia.
5.2. Spiace rilevare quanto grande possa essere l’ottusità degli
scienziati nei confronti di qualunque espressione umana che non
coincida con la logica del pensiero scientifico. Questa ottusità si
riassume nel modo più evidente nella battuta attribuita al grande
matematico francese Roberval, dopo che ebbe assistito alla prima
di una tragedia di Racine: “Non riesco a capire cosa Racine abbia
voluto dimostrare scrivendo quest’opera”.
5.3. Cosa ancor più grave, si sta moltiplicando la frequenza con
cui scienziati, pur grandi, annunciano la morte della filosofia, accusandola di “non aver tenuto il passo degli sviluppi più recenti della
scienza e in particolare della fisica”, per poi concludere – non si sa
se con maggiore ingenuità o maggiore arroganza – attribuendo alla
scienza la risposta alle domande filosofiche fondamentali: Perché
c’è qualcosa invece di nulla? Perché esistiamo? Perché questo particolare insieme di leggi e non qualche altro? (cfr. S. Hawking e L.
Mlodinow, The Grand Design, London, Bantam Press, 2010, p. 5).
6 | Le pretese egemoniche della scienza
Questa pretesa egemonica del sapere scientifico è confutata dal
fatto stesso che la prospettiva della scienza è necessariamente circoscritta, come dimostra il fatto che nessuna affermazione strettamente scientifica riesce ad esaurire la portata delle domande che
l’uomo è solito porsi: ad es. sappiamo descrivere il processo del
morire, ma rendere ragione del perché l’uomo muoia e del senso
che ha per lui non solo la morte, ma la consapevolezza della propria mortalità va al di là dell’orizzonte di discorso di qualunque teoria scientifica. In tal senso Wittgenstein poteva scrivere: “Noi sen20
tiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora
neppur toccati” (Tractatus logico-philosophicus, 6.52, trad. A.G.
Conte, Einaudi, Torino, 1968, p. 81).
6.1. Che la scienza sia circoscritta, si rende evidente anche dalla
sua ostilità per la ridondanza: è inutile cercare ulteriori dimostrazioni di un teorema, se quella già elaborata è soddisfacente, o continuare una sperimentazione, se quella già posta in essere ha fornito indicazioni, sia pure a livello probabilistico, assolutamente confortanti. La logica stessa conferma gli scienziati in questo atteggiamento: la legge di idempotenza di Boole spiega che dire due volte
la stessa cosa è dirla una volta sola. Appena però abbandoniamo il
piano circoscritto del sapere scientifico vediamo che le cose non
stanno più così: la richiesta che l’amata rivolge all’amante (e viceversa) tornami a dir che m’ami (chi ama la musica la trova mirabilmente espressa da Rossini nella Cambiale di matrimonio o da
Donizetti nel Don Pasquale) sconfigge la legge di idempotenza, rivelando tutti i limiti del pensiero astratto.
6.2. È molto facile, per uno scienziato, cedere al rischio del cinismo: il cinico, infatti, vive in un mondo ristretto, ridotto alla sua
misura; è colui “la cui limitata visione della vita lo spinge a vedere
le cose come sono, non come dovrebbero essere” (la definizione è
tratta dal Dizionario del diavolo di Ambrose Bierce) e non riesce a
comprendere che il come dovrebbero essere le cose è implicito nella
realtà stessa delle cose e può essere oggetto di autentica conoscenza filosofica.
6.3. Si consideri, inoltre, che il passaggio dal cinismo scientifico, cioè dal riduzionismo, al cinismo etico è molto facile. La ristretta prospettiva degli scienziati può trasformarsi nella ristretta prospettiva di chi non ha altro orizzonte se non se stesso e che, inevitabilmente e indebitamente, finisce per attribuire a tutti gli altri la
sua personale ristrettezza di vedute. È il paradigma di Francesco
Guicciardini, quando esorta il suo lettore con simili parole: “Non
crediate a costoro che predicano sì efficacemente la libertà, perché
quasi tutti, anzi non è forse nessuno che non abbia l’obietto agli
interessi particulari” (Ricordi, a cura di E. Pasquini, Garzanti, Milano, 1999, 66, p. 87). Contro il cinismo etico poco spazio hanno
gli argomenti filosofici: funzionano solo le testimonianze, come
ben avvertiva Benedetto Croce, quando osservava che se per i più
Parigi val bene una Messa, è pur vero che per alcuni (anche se pochi) una Messa vale molto più di Parigi. E sono proprio costoro,
ancorché pochi, a salvare la dignità del genere umano.
21
7 | La scienza è analitica, la filosofia è sintetica
Rivendicare la legittimità del sapere filosofico rispetto a quello
scientifico non significa quindi affermare che la filosofia studi una
realtà “separata” (le “idee”, la “trascendenza”, lo “spirito”, la “verità”), diversa da quella (la “natura”) studiata dalla scienza: la realtà
è una e non può che essere una sola. Ma gli scienziati la studiano
in una prospettiva analitica, e spesse volte formale, scomponendola
e riducendola ad un insieme di dati omogenei e calcolabili, mentre i
filosofi – come già aveva benissimo percepito Platone, Repubblica,
475b – cercano di conoscere la realtà tutta intera, cioè in una prospettiva sintetica (cogliendola pertanto come un insieme di significati, che rinviano l’uno all’altro e che non possono essere compresi
analiticamente e singolarmente). La scienza ha scoperto di riuscire
a progredire tanto più, quanto più riesce a isolare e a trattare separatamente le singole e molteplici dimensioni della realtà (in tal
senso l’unità della scienza non è materiale, ma – anche se questo
punto è molto controverso – metodologica); la filosofia pretende
invece, anche quando si avvicina a ogni singolo frammento di realtà, di cogliere il principio che lo rende intelligibile o cerca, se così
si preferisce dire, di tenere insieme tutte le dimensioni che danno al
reale, pur nella sua frammentarietà, un significato unitario. È per
questo che gli scienziati acquisiscono i propri dati, li oggettivano e,
per dir così li accumulano, per trasmetterli nella loro oggettività
alle nuove generazioni di scienziati; mentre la filosofia, quando riflette sulla realtà, non potrà mai oggettivarne il principio, ma solo
indicarlo: ed è in questo orientamento il lascito che ogni generazione di filosofi trasmette a quelle successive, un lascito che non avalla pigre certezze, perché va dagli eredi pazientemente riconquistato
(e senza peraltro alcuna certezza che tale riconquista possa andare
a buon fine e non si traduca piuttosto in una perdita).
7.1. In questo senso, la scienza non pensa: questa affermazione,
di Martin Heidegger (Che cosa significa pensare? trad. it., Sugarco,
Milano, 1988, p. 41), è indubbiamente provocatoria e scandalosa e
non cessa di irritare gli scienziati. Essa però non implica che la
scienza sia inferiore alla filosofia, ma semplicemente che scienza e
filosofia sono, come si è detto, forme diverse di conoscenza. Gli
scienziati non problematizzano la realtà che studiano (non si chiedono, ad es., cosa significhi “materia”, “corpo”, “energia”, “vita”),
ma l’assumono come presupposto fattuale: è proprio per questo
che riescono a dare al loro sapere una valenza produttiva.
7.2. Se si vuole rimarcare una differenza radicale tra scienza e
filosofia, basta portare l’attenzione sull’impegno intellettuale ri22
chiesto dall’una e dall’altra. La scienza è facile (indipendentemente
dal fatto che le teorie scientifiche possano essere astruse), mentre
la filosofia è difficile (indipendentemente dal fatto che le teorie filosofiche possano essere astruse), perché in generale è più facile
vivere nel frammento che orientare la propria vita all’intero. Quando otteniamo una risposta a un nostro quesito di carattere scientifico da parte di uno scienziato autorevole (del tipo: l’influenza ha
un’origine virale), smettiamo di porci domande: la risposta è a nostra disposizione. Non è così quando un filosofo, sia pur autorevole, fa un’affermazione (del tipo: Dio non esiste): sta a noi accettare
supinamente la risposta, così come sta a noi contestarla. È a questo che alludeva Kant, quando parlava del lavoro filosofico come di
un lavoro erculeo (Von einem erhobenen vornehmen Ton in der Philosophie, trad. it., D’un tono da signori assunto di recente in filosofia, in Kant, Scritti sul criticismo, Laterza, Bari-Roma, 1991, p.
258); è questo che intuiva perfettamente Goethe (Sprichwörtlich,
432-433), elaborando il detto: Zerstücke das Leben, du machst dir
leicht/Vereinige es und du machst dir’s schwer, e cioè:
Scomponi la vita
e te la renderai facile;
riuniscila
e vai incontro al difficile.
8 | Fede e sapere
La svalutazione epistemologica della fede è tipica dell’epoca
moderna. Hume la riduce, sbrigativamente, a belief, a una convinzione che trova origine nel sentimento (An Inquiry concerning
Human Understanding, 1748, V.2.); Kant, analogamente, valuta la
fede come un tener per vero, sufficiente sul piano soggettivo, ma insufficiente sul piano oggettivo. Il loro errore sta nel ritenere che solo attraverso l’uso della ragione ci si possa addentrare nell’universo
del sapere, quando né la scienza, né la filosofia (sia pur portate al
massimo della razionalizzazione) possono avere la pretesa di esaurire lo scibile; esistono altre modalità di conoscenza autentica, anche se irriducibili a quella degli scienziati e a quella dei filosofi,
modalità realmente capaci di istituire un rapporto tra il mondo e
l’uomo e di orientarne la vita. È vera conoscenza quella sintesi di
bontà e intelligenza denominata un tempo sapientia cordis; è vera
conoscenza la percezione estetica del bello; è vera conoscenza
quella della fede, prima ancora che per i contenuti teologici che essa può trasmettere, per la stabilità che essa conferisce al credente
23
nel suo rapportarsi al mondo. È in questo senso che Ludwig Wittgenstein poteva scrivere che “il senso della vita – cioè il senso del
mondo – possiamo chiamarlo Dio ... credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso” (Quaderni, 11.06.1916, trad. it., pp. 173174) e che Karl Jaspers nel 1948 poteva parlare di un philosophischer Glaube, di una fede filosofica (cfr. Jaspers, La fede filosofica,
trad. it., Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005).
8.1. Anche sotto un altro profilo emerge il peculiarissimo rilievo
epistemologico della fede: essa offre una solida base alla speranza,
intesa come apertura di orizzonti, di possibilità oltre il tempo, di
trionfo della giustizia sull’iniquità. È quanto emerge dalle splendide parole conclusive che John Donne scrisse per il suo epitaffio, e
che ancora oggi possiamo leggere sulla lapide che copre la sua
tomba nella cattedrale di San Paolo a Londra: in occiduo cinere,
aspicit eum, cuius nomen est Oriens. Da queste parole del poeta inglese è ben percepibile la dimensione teologale della fede, che riconduce il credere in qualcosa alla fede in qualcuno. In questo senso la fede non è qualcosa che si ha, ma qualcosa che si riceve, anche se questo ricevere è condizionato all’assenso di chi riceve, poiché, secondo la frase di S. Agostino, nessuno credere potest nisi volens (In Joannis Evangelium, 26.2). Se, da una parte è vero che non
si può credere contro la propria volontà, è però anche vero che lasciarsi indurre a credere non è atteggiamento arbitrario e ingenuo,
nemmeno nei bambini (che fanno benissimo a credere di essere
amati dai loro genitori): nutrire fede in qualcuno (massimamente
in Dio o nei suoi profeti o messaggeri) aiuta l’uomo a spalancare gli
occhi e anche se non gli consente la certezza sul contenuto della fede stessa lo aiuta a penetrare nell’ordine del reale con ben maggiore profondità di quanto non consentano la scienza o la metafisica.
9 | La logica
La filosofia ha per oggetto l’essere, cioè il mondo delle cose (in
senso lato la natura) e pretende di appurarne la verità, in modo
compiuto (e non solo nella prospettiva calcolante delle scienze). La
logica ha invece per oggetto il pensiero, cioè verità che non hanno
carattere naturalistico, a cui cioè non corrispondono cose, in quanto sono verità di pura ragione: non esiste quindi alcun criterio empirico per accertare la correttezza logica di un assioma, di un postulato o di un teorema. Il fascino della logica, per il pensiero classico, dipende dalla corrispondenza tra essere e pensiero, cioè dalla
coerenza tra le modalità di funzionamento del pensiero umano e
l’ordine delle cose naturali: una coerenza talmente enigmatica, da
24
indurre alcuni filosofi a vedere in essa una prova dell’esistenza di
Dio, quale unico suo possibile garante.
9.1. Quando si arrivò a scoprire (prima con l’elaborazione delle
geometrie non euclidee, poi con lo studio analitico dei paradossi)
che i principi della logica possono essere pensati senza contraddizione non come necessari, ma come puramente ipotetici, se ne dedusse da parte di alcuni una sorta di scandaloso divorzio tra il pensiero e la realtà e l’abbandono di qualsiasi paradigma (genericamente) giusnaturalistico. Gran parte della filosofia moderna può
essere letta come il tentativo di rispondere a questo scandalo. Le
risposte che sono state elaborate sono state spesso geniali, ma si
sono rivelate alla fin fine come veri e propri vicoli ciechi. Hegel
con la sua dialettica ha cercato di superare la logica classica ricostruendola su nuove basi. Altri hanno ritenuto possibile interpretare l’ordine del mondo rigettandone ogni interpretazione naturalistica e adottando modelli meramente convenzionalistici. Il limite
della dialettica è stato quello di sottoporre le verità di ragione non
alla verifica della natura, ma alle mere verità di fatto (ne è seguito
che hegelianamente, nulla di ciò che mai si sia dato nella storia è
condannabile, perché tutto ciò che è avvenuto – ivi comprese le
peggiori nefandezze – avrebbe una sua necessità dialettica: di qui,
ad es., l’intollerabile scomparsa nello storicismo assoluto della categoria del male). Il limite del convenzionalismo è che, insistendo
nel sostenere che in logica non c’è morale, cioè che qualsiasi paradigma è teoreticamente legittimo, quanto qualsiasi altro, non riesce comunque a rendere ragione del perché alcune convenzioni
siano obiettivamente più fruttuose di altre.
10 | La logica giuridica
La logica classica si applica al diritto in molti modi; grazie ad
essa è verificabile la correttezza delle argomentazioni che gli avvocati sottopongono ai giudici, così come quella delle motivazioni attraverso le quali il giudice arriva alla sentenza. Le logiche postclassiche ben poco invece servono al diritto. La dialettica hegeliana
è giuridicamente inutilizzabile; essendo analogabile, per riprendere il famoso esempio di Hegel, alla nottola di Minerva che si alza in
volo solo alla fine del giorno, essa è una forma di pensiero che
giunge a maturazione solo dopo lo svolgersi degli eventi, mentre il
diritto ha la pretesa di prevenirli e di orientarli. Il convenzionalismo, soprattutto quello più esasperato, che separa radicalmente
forma e contenuto dei discorsi e abolisce, come extra-scientifico,
ogni riferimento del pensiero alla realtà, non ha né pretende di a25
vere alcun carattere normativo: svuotando il sapere giuridico di
ogni dimensione valoriale, esso lo considera come un mero insieme di norme, la cui coerenza è logicamente controllabile, ma il cui
contenuto è cognitivamente irrilevante.
10.1. Da queste premesse Kelsen, dopo aver analizzato le diverse metodologie per garantire logicamente la coerenza, la completezza e l’unità di un sistema di norme, conclude che la determinazione operata dal giudice di come applicare la norma al caso concreto ha un carattere assolutamente discrezionale, non è suscettibile cioè di valutazione logica. Per fare un esempio apparentemente
incongruo (ma che trova la sua giustificazione in un analogo esempio kantiano) Kelsen fa la parte del gastronomo, che dopo aver
elaborato raffinatissime ricette e invitato il cuoco a utilizzarle,
concluda che comunque non c’è alcuna possibilità di valutare, una
volta preparate e presentate le pietanze, quale sia il loro obiettivo
valore gastronomico.
10.2. L’unico autentico contributo della logica post-classica alla
scienza giuridica consiste nell’aver mostrata vana la pretesa logicistica di dar vita ad ordinamenti giuridici di carattere normativo
dotati di coerenza assoluta. Il più famoso teorema logico del Novecento, il teorema di Kurt Gödel, dimostra come sia impossibile costruire un sistema (e quindi anche un sistema giuridico) privo di
contraddizioni (cfr. V. Mathieu, Sistemi logici e sistemi giuridici.
Impossibilità di un’autofondazione formale, in Mathieu, Luci ed ombre del giusnaturalismo, Giappichelli, Torino, 1989, pp. 57-66). Ne
segue che qualsiasi appello alle norme giuridiche – e in particolare
a quelle costituzionali – non può avere un mero fondamento formalistico, ma deve aprirsi a una dimensione valoriale, cioè a quel
raccordo tra essere e pensiero, tanto aborrito da gran parte della filosofia moderna.
11 | Filosofia generale e filosofie particolari
La filosofia andrebbe sempre declinata solo al singolare: come
tentativo di cogliere in modo sintetico, cioè semplice, la realtà, essa
non può che essere sintetica o, il che è lo stesso, “semplice”. Anche
quando si applica a dimensioni specifiche del reale (il bello, il giusto, il buono, il politico, l’utile, ecc.) la filosofia cerca sempre di
cogliere attraverso di esse il senso unitario che lo sorregge: in tal
senso gli antichi parlavano, non a torto, di universum (il tentativo
di sostituire tale concetto con quello di multiversum o di pluriversum, è ideologico e ingenuo nello stesso tempo: in un pluriverso
non ci sarebbe comunicazione alcuna, né propriamente alcuna
26
possibilità di conoscenza). In tal senso va inteso il motto di Periandro, uno dei Sette Sapienti: meléta tò pân, cioè prenditi cura di
tutto.
11.1. Le c.d. filosofie particolari non sono capitoli o derivazioni
logiche di un’unica, sovrana filosofia generale, ma diverse strade,
che partono dal particolare, per accedere all’unitarietà del reale.
Ogni filosofia di è propriamente una filosofia da: la filosofia del diritto è quella filosofia che parte dal diritto per parlare del sociale,
della giustizia, dell’uomo, della sua verità e infine, semplicemente,
della verità tout court.
12 | Filosofia e Teoria del diritto
Pur avendo nello jus lo stesso oggetto di studio, la Filosofia del
diritto, diversamente dalla Teoria generale del diritto, assume una
prospettiva antropologica per elaborare i propri concetti. Mentre la
teoria si limita a descrivere il fenomeno diritto, depurandolo da ogni dimensione antropologica, la filosofia vuole coglierne il senso.
La teoria, riflettendo sul diritto, incontra le norme e le istituzioni e
può spingersi fino a riformulare se stessa come logica giuridica o
come sociologia del diritto; la filosofia incontra il senso delle norme
e delle istituzioni e pone nell’uno come nell’altro caso questioni di
giustizia.
12.1. Teoria generale del diritto e Filosofia del diritto sono quindi
forme di sapere diverse, ma convergenti. L’illusione scientista, secondo la quale non esisterebbe sapere al di fuori di quello scientifico, induce alcuni giuristi a ritenere che la Teoria generale del diritto, come unica forma di conoscenza scientifica del diritto, sia anche l’unico legittimo approccio allo studio del diritto stesso. Chiunque conosca l’esperienza giuridica, e quella forense in particolare,
e come in essa si manifestino e si intreccino tutte le dimensioni
dell’humanum, aspirazioni, pretese, rivendicazioni, ostilità, inganni, violenze, frodi, forme di limpida generosità e di solidarietà, in
breve le esigenze umane di ogni tipo e natura, comprende facilmente che non può conoscere realmente il diritto chi non sia in
grado di rapportarlo a quell’orizzonte di senso, che denominiamo
attraverso il termine giustizia.
13 | Critica dello scetticismo
È sufficiente rilevare l’infinita gamma delle opinioni soggettive
(quot homines, tot sententiae, avvertiva Terenzio, Phormio, a. II, sc.
IV.14.454) per ritenere che nessuna tra esse sia vera? Possiamo anche concordare con l’amara affermazione che leggiamo in Umano,
27
troppo umano di Nietzsche: Tutta la vita umana è profondamente
immersa nella non verità (Menschliches Allzumenschliches, § 34):
questa dolorosa ammissione comporta però di necessità una professione di fede nello scetticismo, cioè un’assunzione teorica contro
l’idea di verità? Questo è un punto che lacera la cultura contemporanea.
13.1. Lo scetticismo può manifestarsi in diverse maniere. Molte
volte assume le vesti del riduzionismo, che non è un autentico scetticismo: esso infatti non nega la verità in generale, ma solo la verità di una particolare dimensione del reale. Si nega ad es. che il diritto abbia una sua verità, perché lo si ritiene riducibile alla politica
e alla verità di quest’ultima. Altre volte gli scettici si oppongono alla verità in nome di una verità ad essa paradossalmente superiore,
quella dell’anti-dogmatismo, nella convinzione che l’appello alla verità sia proprio ed esclusivo dei fondamentalisti e dei dogmatici.
L’errore non sta nel professare l’anti-dogmatismo, ma nel non considerare che solo nel nome della verità è possibile smascherare gli
errori, le indebite presunzioni (e a volte le vere e proprie follie) dei
dogmatici: che costoro facciano un cattivo uso del riferimento alla
verità non toglie nulla al carattere critico di questo concetto. La
forma più diffusa di scetticismo, nella cultura contemporanea, è
però quella dello scetticismo radicale. Nella prospettiva che ci interessa, questo è l’atteggiamento di colui che ritiene che il diritto non
abbia verità, o perché la verità in assoluto non esiste o perché la
verità non è accessibile da parte dell’uomo. Da questa dottrina deriva l’inaccettabile riduzione del diritto a mera statuizione positiva,
giustificata solo dalla volontà sovrana del legislatore, in quanto
non giustificabile in sé e per sé. A parte i suoi rovinosi esiti sul
piano della prassi, sui quali ritorneremo, questa dottrina è teoreticamente insostenibile, perché non tiene conto che verità è concetto
trascendentale, è cioè uno di quei concetti di cui è impossibile disfarsi, perché – come ben mostra l’antichissimo argomento usato
contro gli scettici – nel momento stesso in cui sostengo che la verità non esiste faccio un’affermazione vera (o che comunque ritengo
e propongo come tale). In tal senso Austin ci ricorda che truth è un
extraordinary word (La verità, trad. it., in Saggi filosofici, Guerini e
Ass., Milano, 1990, p. 122: l’opera però è del 1950). Riferirsi alla
verità, con buona pace degli scettici, è quindi inevitabile.
14 | Scetticismo e idea di giustizia
Se i discorsi che la filosofia del diritto fa in tema di giustizia
fossero shakespearianamente (Macbeth, V.5) assimilabili a una sto28