16/08/23 relazione monfrinotti settimana liturgica

La lettera di papa Innocenzo I a Decenzio, vescovo di Gubbio
Chiesa di San Domenico
23 agosto 2016
La mia prima parola è un sincero “grazie” per essere stata invitato a intervenire in questa
seconda giornata della 67a Settimana Liturgica Nazionale per presentare il documento, la cui festa
millenaria ha spinto il CAL a scegliere come sede della Settimana la città di Gubbio. Attraverso il
mio intervento desidero partecipare a voi tutti le considerazioni maturate leggendo il testo della
Decretale di Innocenzo I inviata a Decenzio vescovo di Gubbio 16 secoli or sono, il 19 marzo 416.
Questo scritto -redatto in forma epistolare (lettera 25 dell’epistolario d’Innocenzo)- ha
valore letterario e documentario, fonte significativa che attesta il rapporto tra la chiesa di Roma e la
chiesa di Gubbio nei primi decenni del V secolo; ma non ci troviamo di fronte solo a una pagina di
antica letteratura cristiana o di storia antica il cui pregio è per così dire “d’antiquariato” ma di fronte
a un messaggio che, se pure occasionato da questioni di carattere essenzialmente liturgico, è volto a
confermare anzitutto la necessità di unità e concordia che deve realizzarsi tra tutte le chiese locali
(come appunto la chiesa di Gubbio) e la chiesa madre per eccellenza, che è la chiesa di Roma, la
chiesa di Pietro, la chiesa di origine.
Leggendo il testo, si prende progressivamente atto di come le risposte di Papa Innocenzo
non sono finalizzate unicamente alla soluzione delle questioni mosse da Decenzio (si suppone
rivolte per iscritto anche se il testo non è pervenuto)1 ma volte a stabilire il principio di base: la
prassi liturgica deve essere testimonianza del convergere della chiesa locale verso la chiesa di Roma
perché si possa parlare di unità ecclesiale.
In altre parole: non è tanto la modalità della prassi liturgica quella che più conta ma la sua
giustificazione, cioè il principio unitivo in base al quale viene legittimata.
La Decretale, nella sua struttura assolutamente lineare e in uno stile di legiferazione- è
costituita da 8 paragrafi corrispondenti alle 8 questioni di carattere liturgico e sacramentale per le
quali il vescovo Decenzio ritenne doversi appellare al papa:
-Il segno della pace
-I nomi di chi porta le offerte
-I fanciulli da cresimare
-Il digiuno del sabato
-Il frammento di pane lievitato
-L’imposizione delle mani ai battezzati che hanno peccato
- I penitenti che hanno commesso peccati gravi
- L’unzione del malato
Il vescovo di Gubbio, infatti, aveva registrato -all’interno della chiesa cui era preposto- una
difformità di comportamento da parte dei presbiteri e di altri vescovi, sintomo di un individualismo
che a sua volta era presupposto di allontanamento e di divisione. Sente quindi l’esigenza di chiedere
il parere del papa su come risolvere il problema delle differenze.
A ciascuna domanda Innocenzo risponde con una disposizione, con un “decreto”, da cui
appunto il nome di “Decretale”:
La pace sia data e scambiata dopo la consacrazione
1
cf. Nautin……..
-
I nomi di chi porta le offerte saranno declamati dopo l’offerta
I bambini saranno cresimati dal vescovo
Anche il sabato è giorno di digiuno come il venerdì
Il pane consacrato è inviato alle chiese urbane
Il vescovo autorizza l’imposizione delle mani sui posseduti
La riconciliazione dei penitenti il giovedì santo
Tutti possono dare l’estrema unzione usando il crisma consacrato dal vescovo
Non entro nel dettaglio delle singole risposte quanto piuttosto del principio fondamentale
che le accomuna e che è pronunciato con indiscussa autorevolezza soprattutto nell Premessa dalla
quale trapela anche l’amara costatazione di una riprovevole arbitrarietà nella prassi liturgica da
parte dei ministri.
Proprio nella Premessa viene consegnata infatti la chiave di lettura delle risposte e al tempo
stesso la giustificazione della indispensabile concordia tra la chiesa madre di Roma e le altre chiese.
Il papa, per motivare l’adempimento delle sue disposizioni, premette un principio
fondamentale o, più esattamente, ribadisce un postulato da cui non si può prescindere. E proprio nel
dettare le ragioni della concordia assicurava allo scritto quel carattere dogmatico che lo rende
ancora attuale .
Sicché il documento non può e non deve essere relegato nel tempo lontano e negli archivi di
una storia antica ma merita di essere riconsiderato anche al presente e permanere nella storia di
oggi.
Leggiamo il testo della Premessa.
Nella prima parte Innocenzo stabilisce immediatamente, senza alcuna riserva e senza
concedere eccezione, il principio universale e fondante da cui muove l’osservanza delle
disposizioni:
Se i sacerdoti del Signore volessero mantenere integre le istituzioni della Chiesa come ci
sono state tramandate dai Beati Apostoli, non si avrebbe nessuna diversità e nessuna variazione
all’interno degli stessi ordini e delle consacrazioni. Ma dal momento che ciascuno ritiene che
debba essere seguito non quello che è stato tramandato ma quello che gli pare, di conseguenza
succede che cose diverse sono osservate o celebrate in (altrettanto) differenti chìese o luoghi: e si
verifica uno scandalo per il popolo che, mentre ignora che le tradizioni antiche sono corrotte dalla
umana presunzione, ritiene che le chiese non siano in accordo tra di loro oppure che la
discordanza sia stata introdotta dagli apostoli o dai seguaci degli apostoli.
Chi infatti ignora o non sa che quanto è stato introdotto da Pietro, principe degli apostoli,
nella chiesa di Roma non abbia una certa autorità e, al contrario, ritenga che si debba prendere
esempio da altra parte ? Soprattutto perché è palese che in tutta l’Italia, le Gallie, le Spagne,
l’Africa e la Sicilia e nelle isole frapposte nessuno ha fondato una chiesa, eccetto coloro che il
venerabile apostolo Pietro o i suoi successori hanno costituito sacerdoti. Altrimenti dicano se in
quelle provincie sia capitato un altro degli apostoli oppure si tramandi che (vi) abbia insegnato. E
se non lo dicono, poiché mai lo hanno trovato, è necessario che rispettino quello che la chiesa di
Roma custodisce dalla quale non c’è dubbio che essi abbiano tratto principio; e mentre applicano
principi peregrini, non si accorgono di abbandonare il principio delle istituzioni. Quanto della
Chiesa è stato tramandato e fino a oggi è custodito, per tutte queste ragioni deve essere osservato e
non deve essere travisato.
Segue la seconda parte nella quale la Premessa accede a una nota più personale con
esplicito riferimento al vescovo di Gubbio che ben conosce la tradizione romana .
A lui il papa così si rivolge:
È pur vero che spesso la tua Carità è venuta nell’Urbe e ti sei unito a noi nella Chiesa e hai
preso atto della prassi (liturgica) sia nel consacrare i sacramenti sia negli altri riti legati ai misteri.
E noi siamo certi che ciò sia abbastanza sufficiente per informare la tua chiesa o per
riformarla qualora i tuoi predecessori non abbiano rispettato l’una o l’altra cosa, se non che tu hai
ritenuto che noi dovessimo essere consultati su alcuni punti. Riguardo ai quali rispondiamo non
perché crediamo che tu ignori alcune cose ma affinché con maggiore autorità tu possa formare i
tuoi oppure, se alcuni deviano dalle istituzioni della chiesa romana, ammonirli oppure senza
esitazione tu possa segnalarli affinché noi siamo in grado di conoscere chi sono quelli che
introducono novità o che ritengono debba essere osservata la consuetudine di un’altra chiesa
anziché quella romana.
********
La Decretale quindi fin dalle prime righe, quelle appunto introduttive, manifesta esplicita
contestazione e altrettanto esplicito dissenso nei confronti di quei sacerdoti i quali non vogliono
mantenere integre le istituzioni della Chiesa come sono state tramandate dai Beati Apostoli, ma
deliberatamente si allontano dalla tradizione per applicare una prassi arbitraria: ciascuno ritiene che
debba essere seguito non quello che è stato tramandato ma quello che gli pare.
Ora tale comportamento arbitrario non può essere né tollerato né approvato: il papa invita
Decenzio ad ammonire e addirittura a segnalare senza esitazione (= non esiti a) coloro così si
comportano affinché possa essere informato su quelli che introducono novità o che ritengono
debba essere osservata la consuetudine di un’altra chiesa anziché quella romana
Un incoraggiamento alla denuncia che esula da un autoritarismo in senso deteriore perché il
fine non è tanto quello di individuare e punire il sacerdote che introduce la forma nova e che agisce
secondo criteri ideati da lui stesso ma soprattutto quello di tutelare il popolo affinché i fedeli non
siano disorientati nella fede ecclesiale:
si verifica uno scandalo per il popolo che, mentre ignora che le tradizioni
antiche sono corrotte dalla umana presunzione, ritiene che le chiese non siano in
accordo tra di loro oppure che la discordanza sia stata introdotta dagli apostoli
o dagli stessi seguaci degli apostoli.
In altre parole: poiché la chiesa di Roma è la chiesa da cui scaturisce la tradizione grazie
all’operato evangelizzatore di Pietro, si afferma chiesa princeps per l’occidente così come princeps
apostolorum era Pietro grazie a quella “vocazione-mandato” voluta e realizzata da Cristo fondatore
della chiesa universale.
Pertanto, distacco dalla tradizione romana significa anche distacco dalla chiesa di Roma;
significa ledere il principio della unità e della unione voluto da Cristo prima ancora che da Pietro;
significa avviare un processo di separazione e di divisione.
Di conseguenza, la novità introdotta non è solo trasgressione da parte di uno o più ministri e
il problema non è confinato solo al loro comportamento di alcuni o di molti ma, quel che è peggio,
si trasforma in grave danno per la comunità dei fedeli i quali, di fronte a prassi differenti e a
consuetudini diverse, sia nell’amministrazione dei sacramenti sia in altre azioni di culto, potrebbero
attribuire tale diversità -letteralmente “agire in contrarietà”- non alla inosservanza del singolo che,
distaccandosi volutamente dalla tradizione, l’ha stravolta, ma agli stessi apostoli.
In altre parole, il popolo, ovvero la comunità dei fedeli, nella sua ignoranza o nella sua
ingenuità -ma qui potremmo dire anche nella naturale predisposizione di “fiducia” riposta nei
presbiteri e nei vescovi- potrebbe non rendersi conto che nella chiesa cui appartiene, quelle “novità”
significano tradire la tradizione la quale invece deve essere rispettata e garantita sulla base di uno
statuto che applicato da Pietro per primo è a lui consegnato da Cristo stesso, ragione prima della
unità ecclesiale la quale si rispecchia anche nella consonanza sacramentale: nella sostanza così
come nella forma.
Non solo: il popolo potrebbe ritenere addirittura che la difformità sia lecita, potrebbe
persino attribuire agli stessi apostoli la “non sintonia” e ritenere che l’unità ecclesiale e la fedeltà
alla tradizione non sia né un principio costitutivo della chiesa né vincolante.
I fedeli potrebbero dunque essere fuorviati e subire quello che Innocenzo a ragion veduta
definisce “scandalo”, da accogliere qui nel senso proprio del termine, cioè di “ostacolo” ovvero
d’“impedimento” alla retta fede.
Distaccarsi dalla tradizione che, grazie all’evangelizzazione e all’apostolato di Pietro, ha
avuto origine da Roma, che è stata difesa e mantenuta nei secoli, significa manifestare un dissenso
tale da porre le basi per uno smebramento, significa disgregare quell’edificio “chiesa” che era stato
da Cristo fondato su una “unica pietra” la quale, come il termine “scandalo” usato da Innocenzo
consente dedurre, diverrebbe paradossalmente ma non virtualmente “pietra d’inciampo” a causa di
coloro che infrangono la tradizione,
In verità -e qui mi sia permessa una riflessione esegetica che ritengo possa conciliarsi
con il pensiero e il dettato d’Innocenzo- la “pietra” su cui Cristo fonda la chiesa (secondo le
parole di Gesù in Mt 16,18) è “Pietro”: il significato della metafora e l’analogia Pietro-pietra
non sono posti in questione ma non si sottolinea mai abbastanza che quella pietra (che è
Pietro) è una sola la quale, nell’essere unica, doveva essere anche unificante e doveva
significare e garantire l’unità della chiesa universale costituita dalle tante chiese locali le
quali, nate dalla evangelizzazione nei diversi luoghi e nelle diverse regioni, proprio nell’essere
unite avrebbero formato la chiesa universale.
Di fatto: solo alla luce del principio di unità, intesa anche come unione, concordia,
consonanza, si comprende il valore di una liturgia che, nelle parole e nei gesti, sia compiuta
all’unisono; il che non significa “clonazione” ma consenso unanime della chiesa locale, del vescovo
che la rappresenta e del clero che ne fa parte, alla chiesa madre per eccellenza la cui tradizione
cementa la stessa chiesa di Roma con le altre chiese.
Non sappiamo se anche il vescovo di Gubbio abbia avvertito (e fino a che punto) lo
“scandalo” della differenza e la gravità dell’arbitrarietà liturgica allo stesso modo in cui l’avverte
Innocenzo; sta di fatto che il papa, nel rispondere, e prima ancora di disciplinare la prassi liturgica,
sente la necessità di affermare e ribadire il vincolo della tradizione torna a stabilire quel postulato
che conferisce valore e attualità al documento da lui firmato.
La voce d’Innocenzo è autorevole e al tempo stesso intransigente; le sue affermazioni sono
categoriche e il tono sovente severo ma a renderle tali non è il suo essere papa quanto l’autorità di
una tradizione che risale alle origini e che non è solo “costume” ma trasmissione di un deposito di
fede che si riflette e si manifesta anche nell’azione liturgica la quale, in certo senso, si può
considerare il linguaggio visibile e tangibile della fede, della presenza dello Spirito, della
dispensazione della grazia.
Deposito che va custodito e preservato affinché non venga corrotto: è questa infatti la
raccomandazione finale del papa a Decenzio:
Fratello carissimo, abbiamo provveduto a rispondere come abbiamo potuto a
tutte (le questioni) che la tua Carità ha voluto fossero esposte affinché la tua chiesa sia
in grado di conservare e custodire la tradizione romana dalla quale trae origine. Le
altre cose, che non era opportuno mettere per iscritto, le potremo dire una volta che
verrai e che saremo interrogati.
Sarà potenza del Signore anche fare in modo che la tua chiesa e i nostri
chierici, che prestano servizio negli uffici divini sotto il tuo episcopato, tu bene li
istruisca e possa mostrare agli altri il modello che devono imitare.
Innocenzo chiude la Decretale confidando nell’operato di Decenzio e assicurandogli -quasi
pronunciamento profetico- che, nel ricondurre la propria chiesa e i propri chierici alla chiesa di
Roma e alla tradizione di cui è sorgente, si manifesterà la potenza di Dio: il vescovo di Gubbio
(come del resto ogni vescovo) è il “braccio” di questa potenza mentre l’autorità e la forza
necessaria a tale operato sono di Dio e da Dio derivano.
Il papa-come la Decretale dimostra- si colloca egli stesso per primo nel solco della
tradizione, la rispetta e la rappresenta; si rivela apologeta della unità ecclesiale sulle orme di un
messaggio proclamato fin dalle più antiche testimonianze: mi riferisco in particolare a Ignazio
vescovo di Antiochia, martirizzato a Roma durante il principato di Traiano (98-117); egli è il
primo a essere definito doctor unitatis perché raccomanda all’interno della chiesa una sintonia pari
a quella delle “corde della cetra”, e tutti sanno che lo strumento non suona in modo melodioso ma
stridente se le corde non sono accordate sulla corda di riferimento; in analogia, non sarà mai
sinfonico il volto della chiesa se le comunità ecclesiali non saranno raccordate sulla chiesa di
Roma che -sono le parole d’Ignazio- “presiede anzitutto nella carità” .
Per Ignazio, come per Innocenzo, trascurare il fondamento della tradizione e non operare
in conformità significa negare il principio di fondazione e il mandato di Cristo.Viceversa,
osservare il modello -dovere primo dello stesso papa- significa garantire una sintonia che rende
ragione del titolo di “chiesa unica e universale” presieduta, diretta e guidata dalla chiesa romana.
E, soprattutto, che rende ragione dell’essere tralci di una unica vite, membra di un unico corpo.
Ecco perché “osservare il modello” non è asservimento ma condivisione, non è
sottomissione ma comunione, non è vassallaggio ma consenso, non è apatica esecuzione ma
corresponsabilità perché l’unità nasce concertata e sinfonica sull’unità del Signore Dio e della sua
Signoria: un solo Dio, una sola fede; un solo pastore, un solo gregge; una sola “pietra”, una sola
chiesa.
È questa l’attualità della Decretale scritta 1600 anni or sono; questo il valore di un
messaggio che merita memoria e celebrazione mentre chiede anche adempimento e auspica ancora
oggi che in ogni chiesa locale -e quindi nella chiesa universale, cioè “cattolica” nel significato
puro e primario del termine- si confermi lo statuto cristologico della unità affinché si possa
realizzare ogni giorno la dinamica trasformazione del principio di “unione” in quello di
“comunione”, affinché vita e sacramento siano l’unico volto dell’unica chiesa.