Giornate di studio “Sviluppo e occupazione tra europeismo e

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Giornate di studio “Sviluppo e occupazione tra europeismo e localismi”,
Napoli - Castel dell’Ovo, 3-4 maggio 2002.
La riforma dei servizi pubblici per l’impiego
di Patrizia Tullini
Sommario: 1. La disciplina del mercato del lavoro e il riparto costituzionale delle potestà legislative. Qualche
esercizio d’interpretazione con animus metodologico costruttivo. - 2. La dinamica normativa nel mercato del
lavoro: quel che resta del potere legislativo statale. - 3. (Segue). La fisionomia del legislatore regionale. Tecnica
normativa concorrente e determinazione statale dei <<princìpi fondamentali>>. - 4. Gli effetti della riforma
costituzionale sulla preesistente disciplina del mercato del lavoro. Il problema della successione nel tempo di
fonti diverse. - 5. Il riassetto dei poteri locali nel governo del sistema regionale per l’impiego (dal decentramento
amministrativo alla revisione costituzionale). - 6. (Segue). Ipotesi di riordino funzionale del mercato del lavoro e
rapporti fra i livelli territoriali.
1. La disciplina del mercato del lavoro e il riparto costituzionale delle potestà legislative.
Qualche esercizio d’interpretazione con animus metodologico costruttivo.
È comprensibile che, all’indomani della modifica del Titolo V, seconda parte, della
Costituzione, si guardi all’organizzazione del mercato del lavoro e alla disciplina dei servizi
per l’impiego come all’àmbito - tutto sommato più sicuro e meno contestabile - d’intervento
di quella potestà legislativa (concorrente e/o esclusiva: v. infra § 3) delle Regioni, che è
prevista dal nuovo testo dell’art. 117, co. 3°, Cost. Non è che la riforma costituzionale sia
proprio significativa in tal senso, tuttavia dopo l’introduzione dei princìpi del decentramento
amministrativo (cfr. d. lgs. n. 469/97) non è francamente immaginabile che s’intenda invertire
la rotta nella realizzazione del federalismo, o meglio regionalismo, legislativo.
Se emergono dubbi e timori legittimi per un’imprevedibile “regionalizzazione”
dell’intero settore del diritto del lavoro (Mariucci 2001, 415), dai contenuti e dagli sviluppi
incerti, viceversa il governo locale del mercato del lavoro è ormai una realtà giuridica,
istituzionale ed amministrativa. La creazione del <<sistema regionale per l’impiego>> (cfr.
art. 4, d. lgs. n. 469/97), mediante il decreto statale di conferimento e la conseguente legge
regionale, ha attuato una redistribuzione delle funzioni amministrative fra i diversi livelli
territoriali (statale, regionale, locale) applicando un vero e proprio regime giuridico (regole e
princìpi generali) d’impronta federalista (Pajno 2001, 670 ss.).
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In questo àmbito pare facilmente spendibile anche l’idea di un’auto-applicazione della
modifica costituzionale, che autorizzi le Regioni ad un esercizio immediato della propria
potestà legislativa senza attendere una disciplina statale d’implementazione: quanto meno
perché non si richiedono consistenti atti di trasferimento delle strutture amministrative, ed
esiste un quadro di “princìpi fondamentali” sufficientemente chiaro e condiviso.
Anzi, su questo percorso di auto-applicazione incombono già ulteriori proposte
d’innovazione del mercato del lavoro, di matrice statale, da attuarsi <<nel rispetto delle
competenze previste dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3>> (art. 1, d.d.l. n.
848/2001). Il progetto politico-normativo espresso dall’ampia delega <<in materia di
occupazione e di mercato del lavoro>> ambisce a produrre <<una riforma organica delle
regole>>, nel senso taumaturgico della <<massima semplificazione delle procedure di
collocamento>> e della <<massima efficacia dei servizi per l’impiego>> (Relazione al d.d.l.
n. 848, sub Servizi Pubblici all’impiego). Un altro schema di decreto legislativo (11 aprile
2002) recante <<disposizioni modificative e correttive del d. lgs. n. 181 del 2000>> ha fissato
i <<princìpi fondamentali>> per l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni, in ordine
all’<<individuazione dei soggetti potenziali destinatari>> di misure promozionali
dell’occupazione e, in particolare, alla <<revisione e razionalizzazione delle procedure del
collocamento>>.
A dire il vero, sul piano del metodo interpretativo della modifica costituzionale non
mancano le raccomandazioni ad evitare i possibili condizionamenti del passato, pur se recente
(ad es., l’eredità delle c.d. leggi Bassanini), che potrebbero indurre a letture “continuiste” e
riduttive del modello federalista (Cammelli 2001). Di fronte al carattere artificioso e un po’
confuso della ripartizione fra Stato e Regioni di materie intere o di “porzioni” delle stesse, in
base all’art. 117, co. 2° e 3°, Cost., si moltiplicano gli inviti ad adottare un animus costruttivo,
capace di superare l’intrinseca debolezza ideologica e simbolica dei processi di revisione che
sono sprovvisti dell’originario potere fondativo dell’ordinamento, <<per non lasciar priva la
Costituzione “novellata” di quel consenso che, solo, la rilegittima incessantemente>>
(Ruggeri, 2002; Pizzetti 2001a, 599).
Anche a voler seguire il monito autorevole degli addetti ai lavori, l’atteggiamento
metodologico costruttivo di un giuslavorista è messo a dura prova dal nuovo testo
costituzionale.
Gli approcci esegetici alla definizione delle singole materie e al significato delle
clausole costituzionali - in particolare, la <<tutela e sicurezza del lavoro>> che dovrebbe
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delimitare l’area della legislazione concorrente - sembrano destinati a produrre frutti modesti,
e per nulla affidabili (Persiani 2002). L’endiadi <<tutela e sicurezza>> non indica
propriamente un àmbito materiale, ma - come l’altra pseudo-materia della <<valorizzazione
dei beni culturali>> contrapposta alla <<tutela dei beni culturali>> - allude a forme particolari
di disciplina e ad aspetti funzionali della materia del lavoro. Questi ultimi sono naturalmente
contrassegnati da continui aggiustamenti e da equilibri dinamici che contrastano con la
staticità del riparto legislativo e con la definitività delle etichette nominali.
Gli
approcci
sistematici,
più
concentrati
sulla
ratio politico-costituzionale
dell’attribuzione della potestà legislativa, hanno il pregio di una maggiore raffinatezza
giuridica e comportano sicuramente un <<grado di astrazione maggiore>>, tuttavia
presuppongono l’adesione ad un disegno federalista dato a priori o già immaginato come
<<saldamente di tipo cooperativo>> (Zoppoli 2002, 154). E ciò risulta tutt’altro che pacifico:
nel segno opposto della competitività s’inscrivono, infatti, sia il principio della parità
giuridica fra il legislatore statale e quello regionale (v. infra § 3), sia la previsione
costituzionale di una doppia e simmetrica potestà esclusiva (dello Stato, nelle materie
tassativamente elencate e, nell’area residuale, a favore delle Regioni).
In termini generali, il lavoro interpretativo-ricostruttivo dei nomina delle materie del
riparto legislativo si prospetta ancora lungo; non resta, allora, che partire dal profilo
particolare, cioè dalla disciplina positiva relativa all’organizzazione e alla gestione dei servizi
pubblici per l’impiego.
In via di larga approssimazione, se è ragionevole affermare che la regolamentazione
dei rapporti di lavoro attenga - come tutti i rapporti fra privati o sottoposti al regime del diritto
privato - alla materia dell’<<ordinamento civile>> che è riservata allo Stato (art. 117, co. 2°,
lett. l), Cost.), è altrettanto plausibile ritenere che, invece, l’azione dei pubblici poteri di
promozione e di tutela dell’occupazione debba rientrare nell’area della legislazione
concorrente di Stato e Regioni (Dell’Olio 2002). A questo esito conduce, non tanto la
possibilità di considerare la disciplina del mercato del lavoro (nell’usuale scomposizione fra
politiche attive e passive) tra i significati astrattamente riferibili alla clausola <<tutela e
sicurezza del lavoro>>, quanto piuttosto la valutazione degli interessi - della loro natura e
dimensione (nazionale o locale) - che afferiscono a tale disciplina. Gli interessi giuridici che
s’innestano sulle materie del riparto legislativo, e giustificano l’intervento dei diversi livelli
normativi, possono offrire una guida meno insicura rispetto al significato nominale o al
contenuto semantico delle materie stesse.
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La funzione legislativa regionale costituisce, essenzialmente, la base di legalità delle
politiche pubbliche e dell’azione amministrativa, e si esprime anzitutto nella conformazione
ed organizzazione dei pubblici poteri (come comprova, del resto, la concentrazione della
competenza regolamentare a livello regionale: art. 117, co. 6°, Cost.) (Falcon 2001, 9). Il
radicamento in capo alla potestà regionale delle politiche dell’occupazione, degli interventi di
sostegno e di promozione del pieno impiego (servizi, incentivi, job creation), nella cornice
d’una legislazione statale per <<princìpi fondamentali>>, ha più d’una buona ragione
giuridica e ideale, cioè coerente al codice genetico di un modello federalista: dall’efficacia e
adeguatezza dell’azione pubblica su base locale, alla valorizzazione del pluralismo socioeconomico, alla tutela delle differenze sul territorio.
Da questo punto di vista, l’interprete della disciplina del mercato del lavoro è
indubbiamente avvantaggiato e potrebbe persino accontentarsi di questa provvisoria
conclusione sostenuta da una ragionevolezza almeno apparente, evitando di avventurarsi sul
difficile terreno della ri-collocazione sistematica dell’intera materia lavoristica nel nuovo
meccanismo costituzionale del riparto legislativo.
Occorre, tuttavia, dar conto di una ricorrente obiezione, per così dire, di sistema. Le
interpretazioni dottrinali che - ammessa la riserva statale per i rapporti individuali e collettivi
di lavoro - riferiscono alla legislazione concorrente solo <<la parte più propriamente
amministrativa del diritto del lavoro>> (Assemblea Cnel 24 gennaio 2002) (D’Auria 2001,
755; Angiolini 2001, 14; Garofalo 2001, 463; Rusciano 2001, 495), sono state giudicate
<<minimaliste>> (e, al contempo, eccessivamente <<stataliste>>). Da un lato, si ritengono
ingiustamente penalizzanti del ruolo politico assunto dalle Regioni nel progetto federalista;
dall’altro finirebbero per deprimere il tasso d’innovazione costituzionale alla soglia minima, e
ormai acquisita, della devoluzione amministrativa.
Si contrappongono, invece, letture più decisamente “regionaliste”, disponibili a
differenziare sul piano territoriale anche la disciplina sostanziale dei rapporti di lavoro,
proprio attraverso il canale privilegiato della legislazione concorrente (Ballestrero 2001, 423;
Roccella 2001, 503; Santucci 2001). In questa prospettiva, tutti (o i prevalenti) profili di
regolamentazione del mercato del lavoro, già interessati dal processo di decentramento
amministrativo, sarebbero a fortiori riconducibili nell’area esclusivo/residuale della
legislazione regionale (art. 117, co. 4°, Cost.) (Carinci 2002, 10; Varesi 2002, 122 ss.;
Zoppoli 2002, 158; Ciarlo 2001).
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Il ragionamento è accettabile se riguarda la materia <<della istruzione e della
formazione professionale>>, per il semplice motivo che è stata esclusa expressis verbis dalla
normazione concorrente (art. 117, co. 3°); mentre non può riferirsi indifferentemente
all’intera disciplina del mercato del lavoro, se non per un malinteso gusto estetico della
simmetria costituzionale.
L’argomento decisivo per l’opzione integralmente regionalista è offerto dalla
valorizzazione del criterio di residualità nel riparto legislativo, che esalta la polarità fra
esclusiva statale ed esclusiva regionale: come se tutto quanto viene sottratto allo Stato, in
termini di competenza esclusiva, dovesse rifluire necessariamente in quella residuale delle
Regioni (tranne che per le eccezioni nominate). In base a questa forma di “acquisto a titolo
derivativo” da parte degli enti regionali, l’elemento federalista diventa, più che un modello o
un progetto da realizzare, una vera pregiudiziale interpretativa: nel senso che, quando la
riforma costituzionale sia destinata ad incidere su un àmbito materiale già caratterizzato da un
ampio decentramento amministrativo - com’è la disciplina del mercato del lavoro - non
potrebbe che accentuare o accrescere il grado di devoluzione esistente. A ciò si aggiunge il
carattere “assoluto” della riserva a favore delle Regioni <<in riferimento ad ogni materia>>
non altrimenti assegnata (art. 117, co. 4°, Cost.): sebbene non emerga espressamente dal
disposto costituzionale, l’attribuzione legislativa dovrebbe assumere, per imprescindibili
esigenze di razionalità e logico-sistematiche, una valenza preclusiva di ogni intervento dello
Stato nella materia inglobata nella residua potestà regionale.
Proprio questa conclusione, tuttavia, suggerisce una doverosa cautela: nella misura in
cui la legislazione esclusiva/residuale delle Regioni interseca le libertà e i diritti fondamentali
della persona, come il diritto al lavoro e all’occupazione, che sono tutelati dalla Repubblica (e
da tutti gli enti costitutivi della stessa ex art. 114 Cost.). La riserva di una funzione legislativa
libera, per materie non enumerate, oltre ad avere un impatto simbolico rilevante nel sistema di
riparto costituzionale, ha soprattutto il significato di promuovere la capacità d’innovazione
della potestà regionale e la sperimentazione di tecniche normative originali rispetto a quelle
statali (Bin 2001a, 597; Torchia 2001, 265).
In ogni caso, vale la pena di riflettere sulla lettura troppo frettolosamente definita
<<minimalista>> e <<minimizzante>> che assegna al potere concorrente di Stato e Regioni la
differenziazione delle politiche del lavoro, degli strumenti organizzativi e delle modalità
gestionali, rafforzando il nesso tra responsabilità politica ed azione amministrativa dei poteri
locali.
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Non difetta certo il carattere innovativo rispetto al precedente riparto materiale che
assegnava alle Regioni “l’istruzione artigiana e professionale” e consentiva, al più, l’esercizio
di un potere legislativo di mera attuazione. Non si tratta neppure di un’interpretazione
<<minimalista>> sotto il profilo dell’estensione e dello spessore delle competenze regionali:
chi potrebbe affermare che, così intesa la clausola della <<tutela e sicurezza del lavoro>>, si
affida alle Regioni solo una parte marginale del diritto del lavoro ? Se tradizionalmente
questo settore dell’ordinamento è stato concepito come un insieme di regole ed istituti per la
regolamentazione dei rapporti di lavoro, <<oggi, invece, si prende atto che uno dei profili
fondamentali per realizzare il diritto al lavoro è l’organizzazione giuridica del mercato del
lavoro>>: è, quindi, il diritto del mercato del lavoro e il diritto orientato all’occupazione
(Napoli 1999, 60).
Tanto meno si può considerare un’interpretazione <<minimizzante>> rispetto al ruolo
politico della Regione come ente a fini generali: il criterio di misura, infatti, non può essere
solo quello dell’estensione del potere normativo, cioè la maggiore o minore apertura del
catalogo delle materie o pseudo-materie attribuite alla sfera regionale. Ciò che appare
radicalmente mutata è la fisionomia del legislatore regionale: la complessiva idoneità ad
interpretare gli interessi ed il bisogno di regolazione nell’àmbito economico-sociale, la qualità
e la forza giuridica dello strumento legislativo utilizzato, al quale si affianca - ad ulteriore
rinforzo - l’esercizio in esclusiva del potere regolamentare <<in ogni altra materia>> estranea
alla riserva statale (art. 117, co. 6°, Cost.).
2. La dinamica normativa nel mercato del lavoro: quel che resta del potere legislativo
statale.
Sul versante della legislazione statale esclusiva è stata giustamente sottolineata la
rilevanza della potestà di <<determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti
i diritti civili e sociali>> (art. 117, co. 2°, lett. m) Cost.): con la speciale avvertenza che non si
tratta di una materia riservata, quanto piuttosto d’un metodo d’intervento legislativo - una
competenza trasversale (Pizzetti 2001b; Falcon 2001, 5) - per l’attuazione dei diritti e delle
libertà fondamentali sull’intero territorio nazionale. È una potestà primaria che contrasta il
rischio di disarticolazione insito nella rottura dell’uniformità (e, ancor più, nel prevalere di
istanze competitive), conservando in capo allo Stato - a prescindere dal disegno formale di
distribuzione delle competenze legislative - la responsabilità e la garanzia unitaria (di
condizioni minime) di uguaglianza nell’esercizio dei diritti della persona.
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Nella tradizione giuridica e costituzionale la tutela delle posizioni fondamentali è stata
sempre saldamente custodita dal legislatore statale in ragione dell’esigenza di una disciplina
uniforme, a dimensione nazionale. Ne reca buona memoria l’art. 120, co. 1°, Cost. che, con
un’espressione ben più incisiva rispetto al precedente testo, vieta alle Regioni di <<limitare>>
in alcun modo <<l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale>>.
Sul dettato dell’art. 117, co. 2°, lett. m), si concentra ora il dibattito relativo ai
contenuti di un possibile modello federalista, alla tensione fra i diritti sociali e il
rafforzamento dei poteri autonomistici (e localistici), al tasso di uguaglianza/uniformità che si
ritiene accettabile (e desiderabile) nell’ordinamento giuridico.
Parte considerevole della dottrina lavoristica ha interpretato la previsione della lettera
m) secondo la consueta tecnica di riparto materiale, come se individuasse una riserva statale
per la regolamentazione dei fondamentali diritti (civili e) sociali <<a prestazione>>. Di
conseguenza, risulterebbero assegnati alla legislazione regionale (concorrente) sia la
protezione di altri diritti che non assurgono al catalogo delle posizioni giuridiche
fondamentali della persona che lavora, sia la tutela incrementale degli stessi diritti riservati, in
base ad un principio di sussidiarietà <<solo al rialzo>> (Ballestrero 2001, 423; Del Punta
2001, 435; Roccella 2001, 506).
In effetti, a voler considerare il tema del mercato del lavoro, non si può negare che in
forza dell’art. 117, co. 2°, lett. m) lo Stato sia tenuto ad assicurare sul territorio nazionale
almeno un <<livello essenziale>> di realizzazione del diritto fondamentale al lavoro e
all’occupazione, salva la facoltà delle Regioni d’incidere, attraverso le politiche
promozionali, la strumentazione tecnico-giuridica e la destinazione di risorse, su ciò che non
si riferisce allo standard essenziale di fruizione di tale diritto.
Tuttavia non si delinea, in tal modo, una relazione di sussidiarietà tra Stato e Regioni,
sia pure al rialzo, nell’esercizio della funzione legislativa. Il criterio metodologico desumibile
dalla lettera m) dev’essere tenuto presente ai fini del riparto legislativo, non già perché
autorizzi a selezionare le discipline del lavoro (fondamentali e non; unitarie e differenziabili),
ma nel senso che questa competenza statale è destinata ad attraversare verticalmente la
normazione concorrente (e quella residuale/esclusiva) delle Regioni, per garantire le
condizioni minime di effettività dei diritti sociali.
In questa prospettiva, il riferimento testuale alle <<prestazioni concernenti i diritti>>
fondamentali non pare addebitabile ad una difettosa redazione normativa, magari da
correggere in via interpretativa (Rossi-Benedetti 2002, 30 ss.). Al contrario, il contenuto della
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disposizione implica che lo Stato non può limitarsi a riconoscere i diritti sociali di rilevanza
costituzionale, quali posizioni giuridiche indisponibili e non negoziabili (cfr. Principi e Parte
I); quando l’effettività di tali diritti richiede l’erogazione di <<prestazioni>> pubbliche e
mezzi di garanzia positiva, lo Stato s’incarica di determinare i <<livelli essenziali>> e di
assicurarne l’accesso su tutto il territorio nazionale.
Non a caso alla potestà esclusiva dell’art. 117, co. 2°, lett. m) si collegano altre due
previsioni costituzionali: l’una, consente l’intervento sostitutivo del Governo rispetto agli enti
autonomi <<per la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali, prescindendo dai confini territoriali>> (art. 120, co. 2°); l’altra, introduce una
competenza perequativa dello Stato, nonché il potere di destinare <<risorse aggiuntive>> ed
<<interventi speciali>> per <<favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona>> (art.
119, co. 3° e 5°; art. 117, co. 2°, lett. e) (Pinelli 2001, 197 ss.).
In sintesi, l’interpretazione sistematica delle norme costituzionali relative alla
determinazione dei livelli essenziali di fruizione dei diritti fondamentali non conduce ad una
distribuzione di competenze legislative, né alla definizione dei limiti reciproci delle
attribuzioni fra Stato e Regioni. L’art. 117, co. 2°, lett. m) - in combinato disposto con gli artt.
119 e 120, co. 2° - intende riservare allo Stato l’intervento diretto di regolazione (ed
eventualmente l’attività amministrativa via potere sostitutivo del Governo) per l’attuazione
concreta, pur se al livello minimo, dei diritti della persona, vincolando la potestà regionale
nelle materie di legislazione concorrente ed esclusiva.
Questo percorso interpretativo si adatta, in modo particolare, al riconoscimento
costituzionale del diritto al lavoro (art. 4), inteso nel suo duplice profilo giuridico: quale
<<diritto di libertà>> della persona e come <<pretesa>> nei confronti dei pubblici poteri alla
predisposizione delle condizioni che lo rendono effettivo, mediante idonee politiche
promozionali dell’occupazione (D’Antona 1999, 17; Rusciano 1999, 25; Ferraro 1999, 57).
Nella disciplina del mercato del lavoro, l’esercizio della competenza trasversale da
parte dello Stato sottrae alla discrezionalità politico-legislativa delle Regioni, non solo (com’è
ovvio) il <<se>> della tutela del diritto all’occupazione (in quanto diritto fondamentale
“costituzionalizzato”), ma anche la determinazione del <<livello essenziale>> di attuazione di
tale diritto attraverso la strumentazione tecnica e l’attività positiva dei pubblici poteri (cfr., ad
es., l’art. 22, l. n. 328/2000 che definisce il <<livello essenziale delle prestazioni sociali>>
collegate all’art. 38 Cost. e, in particolare, i servizi di cui <<le leggi regionali prevedono ...
comunque l’erogazione>>). A questo <<livello essenziale>> sono correlati interessi ritenuti
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indisponibili e non differenziabili in sede locale: oltre <<la soglia dell’incomprimibile o
dell’invariabile che dev’essere sottratto alla mutevolezza delle scelte regionali>> (RossiBenedetti 2002, 32), la potestà normativa delle Regioni potrà selezionare altri interessi
meritevoli di protezione, ulteriori contenuti e nuove posizioni soggettive ricollegabili al
diritto al lavoro, individuando le modalità di tutela più appropriate.
L’accesso ai servizi per l’impiego in condizioni di uguaglianza, la distribuzione delle
occasioni di lavoro secondo criteri non discriminatori, la gratuità della prestazione pubblica
per la persona in cerca d’occupazione possono essere configurati come attributi indispensabili
della “prestazione-base” concernente il diritto al lavoro da garantire su tutto il territorio
nazionale. Attributi normativi che identificano il (primo nucleo del) “livello essenziale”
uniforme e non differenziabile del servizio pubblico da erogare in sede locale, in relazione
agli interessi indisponibili che si riassumono nella tutela costituzionale del diritto (cfr. l’art.
29, <<Diritto di accesso ai servizi di collocamento>>, Carta dei diritti fondamentali dell’UE,
7 dicembre 2000).
In conclusione, la linea interpretativa che si desume combinando la competenza
trasversale dello Stato e la clausola della <<tutela e sicurezza del lavoro>> non è quella descritta da una parte della dottrina - secondo cui sarebbe necessario (o possibile) distinguere
le discipline e i diritti del lavoro in base a gerarchie di valore (tutte da verificare) o approcci
quantitativo-incrementali. Viceversa, l’indicazione costituzionale è nel senso che nelle
materie di legislazione concorrente - e quindi, nella disciplina del mercato del lavoro - lo
Stato garantisce comunque lo standard essenziale delle prestazioni e dei servizi pubblici
concernenti i diritti sociali della persona.
A questa potestà di garanzia (minima) di uguaglianza è affidata, nel nuovo modello
costituzionale, la <<tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica>> (ex art. 120, co. 2°,
che <<in particolare>> comprende la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni connesse ai
diritti civili e sociali). Non v’è dubbio che - a prescindere dalla questione del riparto
legislativo e delle forme istituzionali del federalismo - l’effettività dei diritti fondamentali
metta in gioco la coesione sociale e la stessa unità politica nazionale (Gambino 2001, 351;
Dìez-Picazo 1999, 22).
A questo punto, non suscita eccessive preoccupazioni il tramonto (probabile, ma non
certo) della funzione statale di <<indirizzo e coordinamento>> concepita dalla giurisprudenza
costituzionale (in collegamento con il “limite” derivante dall’interesse nazionale) per la
protezione dei diritti e degli interessi non frazionabili (Cavalieri 2001, 202), e ancora prevista
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dall’art. 1, d. lgs. n. 469/97 a mo’ di cornice del conferimento alle Regioni e agli enti locali
della potestà attuativa e dei compiti relativi al mercato del lavoro.
Al di là delle sedi e delle forme espressamente stabilite - ad es., a proposito del
coordinamento informativo/statistico/informatico dei dati dell’amministrazione centrale e
locale (art. 117, co. 2°, lett. r), Cost.) - non si potrà imporre al potere normativo regionale
l’osservanza di esigenze unitarie, se non attraverso la determinazione statale dei livelli
essenziali di fruizione dei diritti sociali e l’individuazione dei <<princìpi fondamentali>> che
orientano la legislazione concorrente (v. infra § 3).
3. (Segue) La fisionomia del legislatore regionale. Tecnica normativa concorrente e
determinazione statale dei <<princìpi fondamentali>>.
Le difficoltà
esegetico-intepretative sollevate dalla riforma del Titolo V non
riguardano solo l’estensione della potestà normativa regionale - e la definizione dell’endiadi
<<tutela e sicurezza del lavoro>> - ma anche le caratteristiche della funzione legislativa
concorrente.
Una dottrina pubblicistica pressochè unanime (Pizzetti 2001b) sottolinea l’assoluta
parità gerarchica (e ontologica) fra la legge statale e quella regionale, ma restano incerti i
criteri ordinatori e d’integrazione reciproca fra le competenze di Stato e Regioni. Un’ardua
questione interpretativa concerne soprattutto il “limite” indiretto apposto con la discutibile
formulazione dell’art. 117, co. 3°, ult. periodo, che stabilisce la potestà regionale <<nelle
materie di legislazione concorrente ... salvo che per la determinazione dei princìpi
fondamentali riservata alla legislazione dello Stato>>.
Occorre chiedersi, infatti, se in ordine alla disciplina e al funzionamento del mercato
del lavoro si delinei un potere normativo condiviso, e di eguale spessore, fra Stato e Regioni,
ovvero se sia ipotizzabile una competenza generale a vantaggio dell’autonomia regionale
<<salvo che>> per i princìpi fondamentali dettati dal legislatore nazionale.
Volendo aderire a quell’approccio metodologico costruttivo secondo il quale <<gli
elementi di novità sono da valorizzare piuttosto che da sminuire>> (Cammelli 2001), sembra
preferibile apprezzare la modifica testuale dell’art. 117 Cost.: il potere normativo regionale
non si esplica più <<nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato>>; è
vero, invece, che la determinazione di tali princìpi è ora <<riservata>> al legislatore statale.
Anziché evocare l’apposizione di limiti o di vincoli per le leggi regionali, il dato
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costituzionale introduce piuttosto una separazione di competenze normative nell’àmbito
materiale concorrente (Bin 2001b, 622). Sarebbe perciò inammissibile una legislazione dello
Stato contenente regole, disposizioni di dettaglio e norme “sostitutive” (in nome dell’interesse
nazionale), che costringerebbe le Regioni nel vecchio ruolo dell’esercizio di una potestà
attuativa o integrativo-attuativa (in luogo di un potere normativo proprio e di pari dignità
gerarchica).
L’ambiguità linguistica con la quale sono state descritte le caratteristiche della
legislazione concorrente nasconde, probabilmente, una ben più profonda ambiguità politicoistituzionale che gli studiosi dell’architettura costituzionale dovranno impegnarsi a sciogliere.
Per il giuslavorista, tuttavia, la questione interpretativa, oltre che delicata, è anche urgente.
La revisione della disciplina del mercato del lavoro annunciata dal disegno di leggedelega n. 848/2001 si propone di determinare, per mezzo di <<uno o più decreti legislativi>>,
i <<princìpi fondamentali>> relativi ai servizi per l’impiego <<con particolare riferimento al
sistema del collocamento pubblico e privato>> (art. 1, co. 1°). Ed è facile avvedersi che,
nonostante l’omaggio formale alle <<competenze affidate alle Regioni in materia di tutela e
sicurezza del lavoro>>, non si stabiliscono princìpi generali o fondamentali ma, al contrario,
regole puntuali e analitiche (come, ad es., la <<certificazione della disoccupazione e della sua
durata>>; <<l’obbligo di comunicazione dell’assunzione>>). Si fissano, cioè, disposizioni
prescrittive che - è lecito presumere - saranno ulteriormente specificate e dettagliate con la
successiva emanazione dei decreti delegati (e l’uso dello strumento normativo conferma,
ancora una volta, che non si tratta di una legislazione per princìpi) (Lassandari 2002; Filì
2002, 33 ss.). Non è diverso il tenore del decreto statale (11 aprile 2002), modificativo del d.
lgs. n. 181/2000, che ha assegnato alle Regioni la definizione degli <<indirizzi operativi>>
per l’attività dei servizi all’impiego, secondo una tecnica autorizzatoria che è più adeguata ad
una legislazione secondaria, di mera attuazione.
Il rischio attuale, dunque, non è rappresentato dall’inerzia del legislatore regionale,
alla quale si teme di non poter supplire o rimediare se si riduce la potestà dello Stato nei
termini di una normazione-quadro. La prospettiva più probabile è che un’uguale disponibilità
della materia relativa al mercato del lavoro da parte di entrambe le fonti si risolva, di fatto,
nella prevalenza di quella statale: vuoi per una certa vischiosità ereditata dal passato o per
altra ragione, la materia potrebbe essere in concreto sottratta o negata all’autonomia delle
Regioni.
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È da condividere, allora, l’idea che allo Stato debba essere riservata la mera
determinazione di direttive o di princìpi generali, per di più da intendersi <<in modo
largamente originale, non potendosi ribadire passivamente quelli elaborati dalla
giurisprudenza vigente il vecchio testo costituzionale>> (Luciani 2002, 20 s.). Tenuto conto
che la normazione di cornice non è rivolta ad un legislatore regionale di rango inferiore, non
si può concepire la riserva statale in funzione di limite o di freno all’innovazione legislativa
espressa a livello locale. E neppure può servire a contro-bilanciare una dilatazione del
catalogo delle materie o del contenuto delle etichette della legislazione concorrente: come se
un’opzione ultra-federalista affermata in sede di riparto delle attribuzioni in materia di lavoro
potesse (o dovesse) poi trovare un contrappeso nella definizione da parte dello Stato di
princìpi fondamentali sufficientemente restrittivi da scongiurare i timori d’una diseguale
frammentazione.
In termini funzionali, ciò che s’intravede nell’esercizio della competenza riservata per
princìpi fondamentali è l’espressione del nuovo ruolo costituzionale del livello centrale: in
parte ancora da chiarire e, in parte, già abbozzato dalla dottrina costituzionalista, inseguendo
il filo che ricollega la tutela delle esigenze unitarie dell’ordinamento con il <<principio di
leale collaborazione>> (art. 120, co. 2°, Cost.). Su questo titolo di riserva potrà
legittimamente fondarsi l’intervento legislativo a protezione degli interessi nazionali e unitari,
purchè si precisi che lo Stato non ne è l’unico interprete e tutore, essendo venuta meno la sua
supremazia gerarchica rispetto agli altri livelli di governo. Tutti gli enti para-ordinati che
costituiscono la Repubblica (art. 114, co. 1°, Cost.) sono tenuti, infatti, ad una cooperazione
leale per il soddisfacimento delle esigenze unitarie (Bin 2002).
4. Gli effetti della riforma costituzionale sulla preesistente disciplina del mercato del lavoro.
Il problema della successione nel tempo di fonti diverse.
Se si accoglie un criterio di così forte discontinuità nell’individuazione dei <<princìpi
fondamentali>> riservati allo Stato, non si potrà che essere cauti quanto alla possibilità di
desumerli dalla trama della legislazione vigente, anche perché è consentito dubitare della
sorte della produzione normativa (statale) antecedente alla revisione del Titolo V che
attualmente insiste sul terreno della legislazione concorrente.
La prassi costituzionale e giurisprudenziale suggerisce di escludere un’efficacia di
abrogazione implicita o d’invalidità sopravvenuta o d’inapplicabilità derivata a carico del
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preesistente quadro normativo (Ruggeri 2002), per evitare comprensibilmente lo stress del
legislatore regionale costretto a fronteggiare il vuoto normativo, oltre che per ragioni
d’opportunità e di ragionevolezza (così rilevanti nell’interpretazione costituzionale).
Da un lato, quindi, alle Regioni non resta che esercitare l’autonomo potere di
normazione senza attendere l’emanazione di leggi-quadro, appropriandosi con gradualità di
discipline (o di “porzioni” delle stesse) relative al mercato del lavoro in precedenza attribuite
esclusivamente al legislatore statale. Potrà essere superato, ad es., il limite posto dall’art. 3 d.
lgs. n. 469/97 all’intervento regionale nelle procedure di mobilità e nella gestione delle
eccedenze di personale: ferma la riserva statale per la tutela previdenziale (art. 117, co. 2°,
lett. o), Cost.), in sede locale potranno essere definite le competenze dei pubblici poteri, le
regole procedurali, le norme di raccordo tra i processi gestionali e le politiche attive del
lavoro.
D’altro lato, però, occorre verificare vòlta a vòlta la compatibilità della normativa
statale previgente rispetto ai nuovi parametri costituzionali del Titolo V, specie se si pretende
di desumere da questa i <<princìpi fondamentali>> utili per la legislazione concorrente.
L’ideazione e la realizzazione, in forma unitaria ed integrata, degli interventi e delle
attività promozionali dell’occupazione si ispirano ad un <<principio fondamentale>> di
settore che appare coerente con il nuovo quadro costituzionale: <<l’integrazione tra i servizi
per l’impiego, le politiche attive del lavoro e le politiche formative>> è prevista dall’art. 4,
co. 1°, d. lgs. n. 469/97; un’analoga direttiva generale di <<coordinamento ed integrazione>>
collega i servizi sociali <<con le politiche attive di formazione, di avviamento e di
reinserimento al lavoro>> (art. 3, co. 2°, l. n. 328/2000).
Una fondata questione di conformità costituzionale si pone, invece, per i <<princìpi e
criteri direttivi>> fissati dall’art. 4, d. lgs. n. 469/97 ai fini dell’organizzazione istituzionale
del <<sistema regionale per l’impiego>>. Non si tratta infatti di “principi fondamentali”, ma
di prescrizioni e di vincoli che hanno impedito alle Regioni di scegliere il proprio modello
organizzativo e di differenziare le strutture operanti nel mercato del lavoro, riducendo
<<l’àmbito della scelta politica del legislatore regionale ad un’attività di pura esecuzione di
una disciplina statale di dettaglio>>. La giurisprudenza costituzionale ha già dichiarato la
(parziale) incostituzionalità delle disposizioni di tipo organizzativo del decreto n. 469,
ritenute lesive delle prerogative regionali ed eccessivamente invasive dell’autonomia degli
enti territoriali persino in un regime di potestà meramente attuativa (C. cost. 23 marzo 2001,
n. 74).
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Tanto più risulterà fondata la censura d’incostituzionalità se si considera che, nel
contesto della revisione del Titolo V, l’organizzazione degli enti e degli apparati dipendenti
dalle Regioni non è rimessa alla legislazione concorrente, né a quella statale esclusiva (che si
occupa, invece, dell’<<ordinamento e organizzazione dello Stato e degli enti pubblici
nazionali>>: art. 117, co. 2°, lett. g), Cost.). Di conseguenza, va riconosciuta la competenza
regionale primaria ed esclusiva nell’organizzazione istituzionale del sistema per l’impiego,
con la salvaguardia dell’autonomia ordinamentale propria degli enti locali (Province e
Comuni) prevista dall’art. 117, co. 6°, Cost. (v. infra § 5).
La conservazione del quadro normativo preesistente, pur sottoposto alla prova di
resistenza rispetto alla modifica costituzionale, non mancherà di porre altri problemi
interpretativi sotto il profilo della successione nel tempo di normative e di fonti diverse, in
ragione dei mutati confini delle potestà legislative di Stato e Regioni.
Le difficoltà concettuali non riguardano, in realtà, l’espansione del potere normativo
regionale (sino a trasformarlo in potere concorrente o esclusivo): sarà possibile mantenere o,
viceversa, modificare e sostituire a livello locale le leggi di organizzazione dei servizi per
l’impiego (di rango “minore”), già emanate in base all’art. 4, d. lgs. n. 469/97. Un dubbio
potrebbe porsi, invece, in relazione alla scelta delle Regioni di modificare o di abrogare le
leggi ed i regolamenti statali contenenti le regole e le procedure del collocamento (cfr. l. n.
56/87; art. 25, l. n. 223/91; art. 9-bis, l. n. 608/96; d.p.r. n. 442/2000), così da realizzare quella
semplificazione ed innovazione amministrativa che il d.d.l. n. 848/2001 e il decreto
recentemente approvato (11 aprile 2002) intendono attuare solo con l’input del governo
centrale.
In linea di principio, si è già ammesso l’intervento legislativo negli àmbiti materiali
“regionalizzati” in graduale sostituzione della regolamentazione statale, purchè siano
osservati i criteri del riparto costituzionale (e il limite generale dell’irretroattività rispetto alla
riforma del Titolo V). Anzi, per le esigenze particolari e analitiche della disciplina
procedurale del collocamento, le Regioni potrebbero utilmente far ricorso anche alla riserva
di potere regolamentare che è prevista in ogni materia di legislazione concorrente e
residuale/esclusiva (art. 117, co. 6°, Cost.).
S’intuiscono appena, ma in modo evidente, le sottostanti e complesse questioni
relative alla successione cronologica di fonti diverse, alla deregolamentazione attuabile a
livello regionale, all’esigenza di prevedere uno stabile assetto (probabilmente in sede
statutaria) delle relazioni inter-normative tra le fonti regionali (art. 123 Cost.). Tuttavia è
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facilmente prevedibile - com’è ormai tendenza generale dell’ordinamento - una notevole
diffusione della disciplina regolamentare di rango regionale, che potrà succedere nel tempo e
sostituirsi anche a normative statali previgenti nelle materie ora attratte nell’area di
competenza delle Regioni.
In relazione ai compiti del collocamento pubblico non vanno trascurati alcuni punti
problematici di raccordo e di coordinamento con la potestà regolamentare degli altri enti
locali (spec. la Provincia), che è garantita dal nuovo testo costituzionale per i fini
organizzativi propri e dell’azione amministrativa (v. infra § 6). L’attenzione deve rivolgersi
allora al rinnovato assetto costituzionale della potestà amministrativa, che dovrà comportare
una rimeditazione dei criteri attuali di distribuzione delle funzioni di governo del mercato del
lavoro e dei servizi pubblici per l’impiego.
4. Il riassetto dei poteri locali nel governo del sistema regionale per l’impiego (dal
decentramento amministrativo alla revisione costituzionale).
Seppure si condivide la tesi che la disciplina organizzativa dei servizi regionali per
l’impiego emanata in base al d. lgs. n. 469/97 non possa ritenersi automaticamente abrogata o
illegittima in conseguenza della revisione costituzionale, emerge tuttavia un profilo di
notevole contrasto con il nuovo Titolo V. Il livello privilegiato dall’art. 118 Cost. per
l’allocazione ottimale delle funzioni amministrative è il Comune, mentre il decreto n. 469 con una scelta politico-normativa peraltro contestata - ha valorizzato l’ente provinciale.
L’opzione a favore della Provincia riguarda non solo la gestione e l’erogazione dei
servizi relativi all’incontro fra domanda ed offerta di lavoro, ed eventualmente di quelli
connessi alle politiche attive (art. 4, co. 1°, lett. e-g), d. lgs. n. 469), ma la stessa intestazione
di alcuni compiti rilevanti nel sistema regionale per l’impiego. In base all’art. 4, co. 1°, lett.
a), infatti, il legislatore regionale è stato vincolato ad attribuire al livello provinciale la
titolarità di tutte le funzioni relative al collocamento pubblico.
L’interrogativo che si pone, in via preliminare, è se questa scelta debba ora ritenersi
“recessiva”: cioè, se la Provincia sia “delegittimata” dalla riforma costituzionale a conservare
le funzioni ed i compiti conferiti con le norme statali e regionali di organizzazione del
mercato del lavoro.
Nessuno degli esperti amministrativisti sembra disposto ad ammettere la valenza
abrogativa dell’art. 118, co. 1°, Cost., sebbene sia incontestabile la primazia del ruolo
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comunale (Corpaci 2001; D’Auria 2001b, 215). Il disegno delle autonomie locali si presenta
aperto e sufficientemente dinamico <<sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione
ed adeguatezza>>: correttamente si sottolinea che la norma costituzionale individua regole e
criteri organizzativi per la distribuzione delle funzioni amministrative (derogabili, al fine di
<<assicurarne l’esercizio unitario>>), senza assumere un’efficacia attributiva diretta.
L’interpretazione “debole” e l’applicazione solo “tendenziale” di tali criteri non
impedisce, comunque, di assumerli come parametri di legittimità rispetto alla preesistente
disciplina statale di conferimento che, di fatto, se ne discosta (come, appunto, il d. lgs. n.
469/97).
Il giudizio di conformità costituzionale dovrebbe considerarsi implicito e pressochè
scontato per i decreti attuativi della l. n. 59/97 e per le leggi regionali conseguenti che hanno
fissato le competenze amministrative dei poteri locali: così argomenta quella parte della
dottrina pubblicista secondo cui la revisione costituzionale avrebbe finalmente dato
“copertura” al decentramento realizzato alla fine degli anni Novanta, operando la saldatura e
la “stabilizzazione” del sistema amministrativo (Mangiameli 2002; Gambino 2001b). Del
resto, l’intestazione all’ente provinciale dei compiti relativi al collocamento sembra
soddisfare, ragionevolmente, quei princìpi di sussidiarietà/differenziazione/adeguatezza che
sono già stati applicati dal decreto n. 469 e che il testo costituzionale si limita a convalidare,
rendendoli intangibili dalla fonte legislativa ordinaria.
Senza dubbio, però, le Regioni sono libere di modificare, con propria legge, l’attuale
assetto del mercato del lavoro in base ad una valutazione discrezionale dell’ampiezza delle
funzioni amministrative da attribuire: rafforzando il livello provinciale con il conferimento
aggiuntivo di compiti di politica attiva o, al contrario, allocando altrove (ad es. ai Comuni) le
competenze in materia di servizi per l’impiego. Tutt’al più sembra da escludere, in linea di
principio, un’avocazione di tali funzioni a livello regionale ed un nuovo accentramento del
governo del mercato del lavoro in contrasto con il criterio di sussidiarietà verticale e con
l’indicazione preferenziale per l’ente comunale.
Peraltro, la riforma costituzionale non impedisce a priori ad ogni livello territoriale,
compreso quello regionale, di assumere in proprio poteri amministrativi e gestionali dei
servizi pubblici. Che la legge regionale sia abilitata (in astratto) ad intestare funzioni
amministrative in capo alle stesse Regioni si desume direttamente dall’art. 118, co. 1°, Cost.,
mentre l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale <<per lo svolgimento di
attività d’interesse generale>> (art. 118, ult. co.) si riferisce all’esercizio di compiti collocati a
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tutti i livelli territoriali. Ciò significa che l’art. 118 Cost. non offre un avallo - neppure
implicito - allo schema organizzativo del mercato del lavoro delineato dal d. lgs. n. 469/97, il
quale tende(va) a separare il ruolo di “regia” della Regione da quello operativo-gestionale
svolto dall’ente provinciale. Il disegno autonomistico del Titolo V non conferma la necessità
di distinguere, da un lato, le funzioni d’indirizzo e di programmazione delle politiche del
lavoro e, dall’altro, l’attività di gestione e di erogazione dei servizi pubblici per l’impiego.
La fonte normativa idonea a realizzare una diversa ed originale distribuzione
funzionale nel mercato del lavoro non potrebbe non essere quella che complessivamente
regola la materia, cioè la potestà concorrente di Stato e Regioni. È alla tecnica costituzionale
del riparto legislativo che occorre far riferimento, considerato che l’intestazione dei compiti
amministrativi è compiuta <<con legge statale o regionale, secondo le rispettive
competenze>> (art. 118, co. 2°, Cost.).
Si è già osservato (v. retro § 3) che l’intervento dello Stato è circoscritto, in tale
àmbito materiale, alla definizione dei <<princìpi fondamentali>> e solo attraverso questo
canale è autorizzato ad esprimersi (eventualmente) sul punto dell’allocazione funzionale;
mentre non costituisce titolo ulteriore di legittimazione l’esigenza, pur riconosciuta dal dettato
costituzionale, di <<assicurare l’esercizio unitario>> delle funzioni conferite (art. 118, co. 1°,
Cost.). In questi termini, la direttiva generale dell’integrazione tra i servizi per l’impiego e le
politiche del lavoro, enucleata dalla normativa statale vigente (art. 4, co. 1°, d. lgs. n. 469/97),
potrà ancora indirizzare l’assetto delle competenze amministrative ad opera del legislatore
regionale (in aggiunta e ad ulteriore specificazione dei criteri direttamente posti dall’art. 118,
co. 1°, Cost.).
5. Ipotesi di riordino funzionale del mercato del lavoro e rapporti fra i livelli territoriali.
Una nuova distribuzione dei compiti fra i livelli di governo del mercato del lavoro
dovrà tener conto della dotazione di risorse necessarie per consentire, ai sensi dell’art. 119,
co. 4°, Cost., di <<finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite>>. Per
soddisfare il principio ora “costituzionalizzato” del finanziamento integrale e per evitare la
sovrapposizione e/o la duplicazione degli apparati amministrativi si prospetta, infatti,
l’esigenza del trasferimento di beni, risorse finanziarie, umane e strumentali non solo da parte
dello Stato, ma anche delle Regioni.
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In altre parole, ogni progetto di riordino non potrà prescindere dalla garanzia
costituzionale di autonomia - organizzativa (e statutaria), regolamentare e finanziaria - che è
riconosciuta, al pari delle Regioni, agli enti locali c.d. “minori”. Il potere normativo regionale
di ri-disegnare il sistema locale per l’impiego, abbandonando il prototipo rigido ed
eccessivamente uniforme del decreto n. 469, incontra una doppia serie di limiti: dall’alto, la
potestà statale di determinazione dei princìpi generali che è suscettibile d’interferire sul
versante dell’allocazione dei compiti; dal basso, la riserva costituzionale di potestà
amministrativa e regolamentare a favore dei livelli sub-regionali, <<in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite>> (art. 117, co. 6°,
Cost.).
La discrezionalità legislativa delle Regioni di delineare il profilo organizzativo dei
servizi per l’impiego si colloca su questo difficile (e ancora incerto) crinale.
Può ritenersi ormai superato il pericolo della deriva verso un centralismo regionale di
vecchio stampo che mortifichi le autonomie locali “minori” (sollecitando l’intervento
“tutorio” dello Stato), ma si profila un rischio opposto, non trascurabile, di compressione
dell’autonomia regionale tra i due ritagli di competenze riservate, verso l’alto e verso il basso.
Quanto meno, l’incrocio di potestà amministrative (statutarie ed organizzative) e
regolamentari, rispettivamente attribuite alle Regioni e agli enti locali titolari di funzioni, è
suscettibile d’innescare una situazione di potenziale conflittualità.
In relazione al collocamento pubblico, le Province sono in grado sin d’ora di
rivendicare una piena autonomia decisionale quanto all’organizzazione (uffici, strutture), al
funzionamento dei Centri per l’impiego, alle modalità di svolgimento dell’attività di
mediazione pubblica, alla promozione dell’iniziativa privata sulla base del principio di
sussidiarietà orizzontale. Un altro terreno sul quale potrebbe emergere una competitività
immediata fra i livelli territoriali è quello delle regole e delle procedure dell’incontro tra
domanda ed offerta di lavoro, tenuto conto che l’ente provinciale - titolare della funzione
amministrativa - ora dispone anche del potere normativo-regolamentare di disciplinarne
l’esercizio (v. retro § 4).
I numerosi rinvii alla potestà regionale contenuti nella disciplina statale vigente, e in
particolare nel regolamento di semplificazione del collocamento (d.p.r. n. 442/2000),
potrebbero ora essere raccolti dalla Provincia. Detto altrimenti: <<i criteri di organizzazione,
le modalità, le specificazioni ed i tempi di attuazione>> del regolamento statale, anziché
essere <<definiti ... con provvedimento regionale>> (art. 1, co. 1°, d.p.r. n. 442), potrebbero
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già ricadere nella riserva di competenza regolamentare del soggetto pubblico che è titolare
della funzione del collocamento. Tanto più che, salvo il rapporto di subordinazione gerarchica
rispetto alla legge regionale di conferimento e di organizzazione dei servizi per l’impiego,
non sembrano porsi, in questo caso, insuperabili difficoltà sul versante della successione delle
fonti.
Le regole giuridiche per risolvere la conflittualità latente fra i livelli di governo locale
sono ancora tutti da esplorare. Per ora s’intravedono solo gli effetti negativi, nel senso di una
possibile sovrapposizione delle potestà regolamentari (di Regioni ed enti locali) che
concorrono nello stesso àmbito, ovvero di svuotamento della riserva costituzionale in danno
dell’uno o dell’altro soggetto pubblico.
Anzitutto non è chiaro se il potere regolamentare degli enti c.d. “minori” - che è
previsto, ma non disciplinato da norme costituzionali - sia concepito come esclusivo e
tendenzialmente in grado d’impedire, nel proprio campo, l’interferenza della potestà
regionale. Considerato poi che la riforma costituzionale sembra collegare strettamente la
riserva di competenza regolamentare al processo di conferimento - quasi applicando un
principio di parallelismo - si potrebbe anche ipotizzare che vi debba essere una
corrispondenza tra la dimensione della funzione attribuita e l’estensione del potere normativo
dell’ente ricevente. Di conseguenza, il livello sovraordinato (la Regione) si priverebbe,
almeno in parte, della potestà di disciplinare l’organizzazione e lo svolgimento dei compiti
amministrativi conferiti.
La riflessione dottrinale sul punto è appena iniziata, e non è possibile ovviamente
azzardare conclusioni, ma solo immaginare linee di sviluppo riferibili al “settore” del mercato
del lavoro.
Nell’assetto costituzionale dei poteri locali improntato all’autonomia (organizzativa,
regolativa e finanziaria) e al principio di responsabilità nell’esercizio delle funzioni attribuite,
possono nascondersi nuovi rischi di dispersione e di frammentazione della disciplina del
mercato del lavoro, o peggio occasioni di conflittualità collegate alla rivendicazione di spazi
decisionali riservati in base ad interessi specificamente regionali, provinciali o locali. In tale
contesto, superata ogni logica di tipo gerarchico e le tentazioni centralistiche, dev’essere
valorizzato il ruolo regionale di snodo (e di equilibrio) fra le due linee di distribuzione delle
funzioni amministrative che seguono il riparto legislativo nella regolamentazione del mercato
del lavoro: quella verticale Stato-Regioni e quella orizzontale Regioni-enti locali.
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Questo ruolo regionale - che potrebbe esprimersi, ad es., mediante una disciplina
ordinamentale di cornice relativa alle politiche del lavoro e ai servizi pubblici locali costituisce un’imprescindibile premessa per la costruzione di un sistema regionale per
l’impiego davvero coeso ed orientato, secondo le direttive costituzionali, al principio della
<<leale collaborazione>> istituzionale.
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