Giornate di studio “Sviluppo e occupazione tra europeismo e localismi”, Napoli - Castel dell’Ovo, 3-4 maggio 2002. La riforma dei servizi pubblici per l’impiego di Patrizia Tullini Sommario: 1. La disciplina del mercato del lavoro e il riparto costituzionale delle potestà legislative. Qualche esercizio d’interpretazione con animus metodologico costruttivo. - 2. La dinamica normativa nel mercato del lavoro: quel che resta del potere legislativo statale. - 3. (Segue). La fisionomia del legislatore regionale. Tecnica normativa concorrente e determinazione statale dei <<princìpi fondamentali>>. - 4. Gli effetti della riforma costituzionale sulla preesistente disciplina del mercato del lavoro. Il problema della successione nel tempo di fonti diverse. - 5. Il riassetto dei poteri locali nel governo del sistema regionale per l’impiego (dal decentramento amministrativo alla revisione costituzionale). - 6. (Segue). Ipotesi di riordino funzionale del mercato del lavoro e rapporti fra i livelli territoriali. 1. La disciplina del mercato del lavoro e il riparto costituzionale delle potestà legislative. Qualche esercizio d’interpretazione con animus metodologico costruttivo. È comprensibile che, all’indomani della modifica del Titolo V, seconda parte, della Costituzione, si guardi all’organizzazione del mercato del lavoro e alla disciplina dei servizi per l’impiego come all’àmbito - tutto sommato più sicuro e meno contestabile - d’intervento di quella potestà legislativa (concorrente e/o esclusiva: v. infra § 3) delle Regioni, che è prevista dal nuovo testo dell’art. 117, co. 3°, Cost. Non è che la riforma costituzionale sia proprio significativa in tal senso, tuttavia dopo l’introduzione dei princìpi del decentramento amministrativo (cfr. d. lgs. n. 469/97) non è francamente immaginabile che s’intenda invertire la rotta nella realizzazione del federalismo, o meglio regionalismo, legislativo. Se emergono dubbi e timori legittimi per un’imprevedibile “regionalizzazione” dell’intero settore del diritto del lavoro (Mariucci 2001, 415), dai contenuti e dagli sviluppi incerti, viceversa il governo locale del mercato del lavoro è ormai una realtà giuridica, istituzionale ed amministrativa. La creazione del <<sistema regionale per l’impiego>> (cfr. art. 4, d. lgs. n. 469/97), mediante il decreto statale di conferimento e la conseguente legge regionale, ha attuato una redistribuzione delle funzioni amministrative fra i diversi livelli territoriali (statale, regionale, locale) applicando un vero e proprio regime giuridico (regole e princìpi generali) d’impronta federalista (Pajno 2001, 670 ss.). 1 In questo àmbito pare facilmente spendibile anche l’idea di un’auto-applicazione della modifica costituzionale, che autorizzi le Regioni ad un esercizio immediato della propria potestà legislativa senza attendere una disciplina statale d’implementazione: quanto meno perché non si richiedono consistenti atti di trasferimento delle strutture amministrative, ed esiste un quadro di “princìpi fondamentali” sufficientemente chiaro e condiviso. Anzi, su questo percorso di auto-applicazione incombono già ulteriori proposte d’innovazione del mercato del lavoro, di matrice statale, da attuarsi <<nel rispetto delle competenze previste dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3>> (art. 1, d.d.l. n. 848/2001). Il progetto politico-normativo espresso dall’ampia delega <<in materia di occupazione e di mercato del lavoro>> ambisce a produrre <<una riforma organica delle regole>>, nel senso taumaturgico della <<massima semplificazione delle procedure di collocamento>> e della <<massima efficacia dei servizi per l’impiego>> (Relazione al d.d.l. n. 848, sub Servizi Pubblici all’impiego). Un altro schema di decreto legislativo (11 aprile 2002) recante <<disposizioni modificative e correttive del d. lgs. n. 181 del 2000>> ha fissato i <<princìpi fondamentali>> per l’esercizio della potestà legislativa delle Regioni, in ordine all’<<individuazione dei soggetti potenziali destinatari>> di misure promozionali dell’occupazione e, in particolare, alla <<revisione e razionalizzazione delle procedure del collocamento>>. A dire il vero, sul piano del metodo interpretativo della modifica costituzionale non mancano le raccomandazioni ad evitare i possibili condizionamenti del passato, pur se recente (ad es., l’eredità delle c.d. leggi Bassanini), che potrebbero indurre a letture “continuiste” e riduttive del modello federalista (Cammelli 2001). Di fronte al carattere artificioso e un po’ confuso della ripartizione fra Stato e Regioni di materie intere o di “porzioni” delle stesse, in base all’art. 117, co. 2° e 3°, Cost., si moltiplicano gli inviti ad adottare un animus costruttivo, capace di superare l’intrinseca debolezza ideologica e simbolica dei processi di revisione che sono sprovvisti dell’originario potere fondativo dell’ordinamento, <<per non lasciar priva la Costituzione “novellata” di quel consenso che, solo, la rilegittima incessantemente>> (Ruggeri, 2002; Pizzetti 2001a, 599). Anche a voler seguire il monito autorevole degli addetti ai lavori, l’atteggiamento metodologico costruttivo di un giuslavorista è messo a dura prova dal nuovo testo costituzionale. Gli approcci esegetici alla definizione delle singole materie e al significato delle clausole costituzionali - in particolare, la <<tutela e sicurezza del lavoro>> che dovrebbe 2 delimitare l’area della legislazione concorrente - sembrano destinati a produrre frutti modesti, e per nulla affidabili (Persiani 2002). L’endiadi <<tutela e sicurezza>> non indica propriamente un àmbito materiale, ma - come l’altra pseudo-materia della <<valorizzazione dei beni culturali>> contrapposta alla <<tutela dei beni culturali>> - allude a forme particolari di disciplina e ad aspetti funzionali della materia del lavoro. Questi ultimi sono naturalmente contrassegnati da continui aggiustamenti e da equilibri dinamici che contrastano con la staticità del riparto legislativo e con la definitività delle etichette nominali. Gli approcci sistematici, più concentrati sulla ratio politico-costituzionale dell’attribuzione della potestà legislativa, hanno il pregio di una maggiore raffinatezza giuridica e comportano sicuramente un <<grado di astrazione maggiore>>, tuttavia presuppongono l’adesione ad un disegno federalista dato a priori o già immaginato come <<saldamente di tipo cooperativo>> (Zoppoli 2002, 154). E ciò risulta tutt’altro che pacifico: nel segno opposto della competitività s’inscrivono, infatti, sia il principio della parità giuridica fra il legislatore statale e quello regionale (v. infra § 3), sia la previsione costituzionale di una doppia e simmetrica potestà esclusiva (dello Stato, nelle materie tassativamente elencate e, nell’area residuale, a favore delle Regioni). In termini generali, il lavoro interpretativo-ricostruttivo dei nomina delle materie del riparto legislativo si prospetta ancora lungo; non resta, allora, che partire dal profilo particolare, cioè dalla disciplina positiva relativa all’organizzazione e alla gestione dei servizi pubblici per l’impiego. In via di larga approssimazione, se è ragionevole affermare che la regolamentazione dei rapporti di lavoro attenga - come tutti i rapporti fra privati o sottoposti al regime del diritto privato - alla materia dell’<<ordinamento civile>> che è riservata allo Stato (art. 117, co. 2°, lett. l), Cost.), è altrettanto plausibile ritenere che, invece, l’azione dei pubblici poteri di promozione e di tutela dell’occupazione debba rientrare nell’area della legislazione concorrente di Stato e Regioni (Dell’Olio 2002). A questo esito conduce, non tanto la possibilità di considerare la disciplina del mercato del lavoro (nell’usuale scomposizione fra politiche attive e passive) tra i significati astrattamente riferibili alla clausola <<tutela e sicurezza del lavoro>>, quanto piuttosto la valutazione degli interessi - della loro natura e dimensione (nazionale o locale) - che afferiscono a tale disciplina. Gli interessi giuridici che s’innestano sulle materie del riparto legislativo, e giustificano l’intervento dei diversi livelli normativi, possono offrire una guida meno insicura rispetto al significato nominale o al contenuto semantico delle materie stesse. 3 La funzione legislativa regionale costituisce, essenzialmente, la base di legalità delle politiche pubbliche e dell’azione amministrativa, e si esprime anzitutto nella conformazione ed organizzazione dei pubblici poteri (come comprova, del resto, la concentrazione della competenza regolamentare a livello regionale: art. 117, co. 6°, Cost.) (Falcon 2001, 9). Il radicamento in capo alla potestà regionale delle politiche dell’occupazione, degli interventi di sostegno e di promozione del pieno impiego (servizi, incentivi, job creation), nella cornice d’una legislazione statale per <<princìpi fondamentali>>, ha più d’una buona ragione giuridica e ideale, cioè coerente al codice genetico di un modello federalista: dall’efficacia e adeguatezza dell’azione pubblica su base locale, alla valorizzazione del pluralismo socioeconomico, alla tutela delle differenze sul territorio. Da questo punto di vista, l’interprete della disciplina del mercato del lavoro è indubbiamente avvantaggiato e potrebbe persino accontentarsi di questa provvisoria conclusione sostenuta da una ragionevolezza almeno apparente, evitando di avventurarsi sul difficile terreno della ri-collocazione sistematica dell’intera materia lavoristica nel nuovo meccanismo costituzionale del riparto legislativo. Occorre, tuttavia, dar conto di una ricorrente obiezione, per così dire, di sistema. Le interpretazioni dottrinali che - ammessa la riserva statale per i rapporti individuali e collettivi di lavoro - riferiscono alla legislazione concorrente solo <<la parte più propriamente amministrativa del diritto del lavoro>> (Assemblea Cnel 24 gennaio 2002) (D’Auria 2001, 755; Angiolini 2001, 14; Garofalo 2001, 463; Rusciano 2001, 495), sono state giudicate <<minimaliste>> (e, al contempo, eccessivamente <<stataliste>>). Da un lato, si ritengono ingiustamente penalizzanti del ruolo politico assunto dalle Regioni nel progetto federalista; dall’altro finirebbero per deprimere il tasso d’innovazione costituzionale alla soglia minima, e ormai acquisita, della devoluzione amministrativa. Si contrappongono, invece, letture più decisamente “regionaliste”, disponibili a differenziare sul piano territoriale anche la disciplina sostanziale dei rapporti di lavoro, proprio attraverso il canale privilegiato della legislazione concorrente (Ballestrero 2001, 423; Roccella 2001, 503; Santucci 2001). In questa prospettiva, tutti (o i prevalenti) profili di regolamentazione del mercato del lavoro, già interessati dal processo di decentramento amministrativo, sarebbero a fortiori riconducibili nell’area esclusivo/residuale della legislazione regionale (art. 117, co. 4°, Cost.) (Carinci 2002, 10; Varesi 2002, 122 ss.; Zoppoli 2002, 158; Ciarlo 2001). 4 Il ragionamento è accettabile se riguarda la materia <<della istruzione e della formazione professionale>>, per il semplice motivo che è stata esclusa expressis verbis dalla normazione concorrente (art. 117, co. 3°); mentre non può riferirsi indifferentemente all’intera disciplina del mercato del lavoro, se non per un malinteso gusto estetico della simmetria costituzionale. L’argomento decisivo per l’opzione integralmente regionalista è offerto dalla valorizzazione del criterio di residualità nel riparto legislativo, che esalta la polarità fra esclusiva statale ed esclusiva regionale: come se tutto quanto viene sottratto allo Stato, in termini di competenza esclusiva, dovesse rifluire necessariamente in quella residuale delle Regioni (tranne che per le eccezioni nominate). In base a questa forma di “acquisto a titolo derivativo” da parte degli enti regionali, l’elemento federalista diventa, più che un modello o un progetto da realizzare, una vera pregiudiziale interpretativa: nel senso che, quando la riforma costituzionale sia destinata ad incidere su un àmbito materiale già caratterizzato da un ampio decentramento amministrativo - com’è la disciplina del mercato del lavoro - non potrebbe che accentuare o accrescere il grado di devoluzione esistente. A ciò si aggiunge il carattere “assoluto” della riserva a favore delle Regioni <<in riferimento ad ogni materia>> non altrimenti assegnata (art. 117, co. 4°, Cost.): sebbene non emerga espressamente dal disposto costituzionale, l’attribuzione legislativa dovrebbe assumere, per imprescindibili esigenze di razionalità e logico-sistematiche, una valenza preclusiva di ogni intervento dello Stato nella materia inglobata nella residua potestà regionale. Proprio questa conclusione, tuttavia, suggerisce una doverosa cautela: nella misura in cui la legislazione esclusiva/residuale delle Regioni interseca le libertà e i diritti fondamentali della persona, come il diritto al lavoro e all’occupazione, che sono tutelati dalla Repubblica (e da tutti gli enti costitutivi della stessa ex art. 114 Cost.). La riserva di una funzione legislativa libera, per materie non enumerate, oltre ad avere un impatto simbolico rilevante nel sistema di riparto costituzionale, ha soprattutto il significato di promuovere la capacità d’innovazione della potestà regionale e la sperimentazione di tecniche normative originali rispetto a quelle statali (Bin 2001a, 597; Torchia 2001, 265). In ogni caso, vale la pena di riflettere sulla lettura troppo frettolosamente definita <<minimalista>> e <<minimizzante>> che assegna al potere concorrente di Stato e Regioni la differenziazione delle politiche del lavoro, degli strumenti organizzativi e delle modalità gestionali, rafforzando il nesso tra responsabilità politica ed azione amministrativa dei poteri locali. 5 Non difetta certo il carattere innovativo rispetto al precedente riparto materiale che assegnava alle Regioni “l’istruzione artigiana e professionale” e consentiva, al più, l’esercizio di un potere legislativo di mera attuazione. Non si tratta neppure di un’interpretazione <<minimalista>> sotto il profilo dell’estensione e dello spessore delle competenze regionali: chi potrebbe affermare che, così intesa la clausola della <<tutela e sicurezza del lavoro>>, si affida alle Regioni solo una parte marginale del diritto del lavoro ? Se tradizionalmente questo settore dell’ordinamento è stato concepito come un insieme di regole ed istituti per la regolamentazione dei rapporti di lavoro, <<oggi, invece, si prende atto che uno dei profili fondamentali per realizzare il diritto al lavoro è l’organizzazione giuridica del mercato del lavoro>>: è, quindi, il diritto del mercato del lavoro e il diritto orientato all’occupazione (Napoli 1999, 60). Tanto meno si può considerare un’interpretazione <<minimizzante>> rispetto al ruolo politico della Regione come ente a fini generali: il criterio di misura, infatti, non può essere solo quello dell’estensione del potere normativo, cioè la maggiore o minore apertura del catalogo delle materie o pseudo-materie attribuite alla sfera regionale. Ciò che appare radicalmente mutata è la fisionomia del legislatore regionale: la complessiva idoneità ad interpretare gli interessi ed il bisogno di regolazione nell’àmbito economico-sociale, la qualità e la forza giuridica dello strumento legislativo utilizzato, al quale si affianca - ad ulteriore rinforzo - l’esercizio in esclusiva del potere regolamentare <<in ogni altra materia>> estranea alla riserva statale (art. 117, co. 6°, Cost.). 2. La dinamica normativa nel mercato del lavoro: quel che resta del potere legislativo statale. Sul versante della legislazione statale esclusiva è stata giustamente sottolineata la rilevanza della potestà di <<determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali>> (art. 117, co. 2°, lett. m) Cost.): con la speciale avvertenza che non si tratta di una materia riservata, quanto piuttosto d’un metodo d’intervento legislativo - una competenza trasversale (Pizzetti 2001b; Falcon 2001, 5) - per l’attuazione dei diritti e delle libertà fondamentali sull’intero territorio nazionale. È una potestà primaria che contrasta il rischio di disarticolazione insito nella rottura dell’uniformità (e, ancor più, nel prevalere di istanze competitive), conservando in capo allo Stato - a prescindere dal disegno formale di distribuzione delle competenze legislative - la responsabilità e la garanzia unitaria (di condizioni minime) di uguaglianza nell’esercizio dei diritti della persona. 6 Nella tradizione giuridica e costituzionale la tutela delle posizioni fondamentali è stata sempre saldamente custodita dal legislatore statale in ragione dell’esigenza di una disciplina uniforme, a dimensione nazionale. Ne reca buona memoria l’art. 120, co. 1°, Cost. che, con un’espressione ben più incisiva rispetto al precedente testo, vieta alle Regioni di <<limitare>> in alcun modo <<l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale>>. Sul dettato dell’art. 117, co. 2°, lett. m), si concentra ora il dibattito relativo ai contenuti di un possibile modello federalista, alla tensione fra i diritti sociali e il rafforzamento dei poteri autonomistici (e localistici), al tasso di uguaglianza/uniformità che si ritiene accettabile (e desiderabile) nell’ordinamento giuridico. Parte considerevole della dottrina lavoristica ha interpretato la previsione della lettera m) secondo la consueta tecnica di riparto materiale, come se individuasse una riserva statale per la regolamentazione dei fondamentali diritti (civili e) sociali <<a prestazione>>. Di conseguenza, risulterebbero assegnati alla legislazione regionale (concorrente) sia la protezione di altri diritti che non assurgono al catalogo delle posizioni giuridiche fondamentali della persona che lavora, sia la tutela incrementale degli stessi diritti riservati, in base ad un principio di sussidiarietà <<solo al rialzo>> (Ballestrero 2001, 423; Del Punta 2001, 435; Roccella 2001, 506). In effetti, a voler considerare il tema del mercato del lavoro, non si può negare che in forza dell’art. 117, co. 2°, lett. m) lo Stato sia tenuto ad assicurare sul territorio nazionale almeno un <<livello essenziale>> di realizzazione del diritto fondamentale al lavoro e all’occupazione, salva la facoltà delle Regioni d’incidere, attraverso le politiche promozionali, la strumentazione tecnico-giuridica e la destinazione di risorse, su ciò che non si riferisce allo standard essenziale di fruizione di tale diritto. Tuttavia non si delinea, in tal modo, una relazione di sussidiarietà tra Stato e Regioni, sia pure al rialzo, nell’esercizio della funzione legislativa. Il criterio metodologico desumibile dalla lettera m) dev’essere tenuto presente ai fini del riparto legislativo, non già perché autorizzi a selezionare le discipline del lavoro (fondamentali e non; unitarie e differenziabili), ma nel senso che questa competenza statale è destinata ad attraversare verticalmente la normazione concorrente (e quella residuale/esclusiva) delle Regioni, per garantire le condizioni minime di effettività dei diritti sociali. In questa prospettiva, il riferimento testuale alle <<prestazioni concernenti i diritti>> fondamentali non pare addebitabile ad una difettosa redazione normativa, magari da correggere in via interpretativa (Rossi-Benedetti 2002, 30 ss.). Al contrario, il contenuto della 7 disposizione implica che lo Stato non può limitarsi a riconoscere i diritti sociali di rilevanza costituzionale, quali posizioni giuridiche indisponibili e non negoziabili (cfr. Principi e Parte I); quando l’effettività di tali diritti richiede l’erogazione di <<prestazioni>> pubbliche e mezzi di garanzia positiva, lo Stato s’incarica di determinare i <<livelli essenziali>> e di assicurarne l’accesso su tutto il territorio nazionale. Non a caso alla potestà esclusiva dell’art. 117, co. 2°, lett. m) si collegano altre due previsioni costituzionali: l’una, consente l’intervento sostitutivo del Governo rispetto agli enti autonomi <<per la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali>> (art. 120, co. 2°); l’altra, introduce una competenza perequativa dello Stato, nonché il potere di destinare <<risorse aggiuntive>> ed <<interventi speciali>> per <<favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona>> (art. 119, co. 3° e 5°; art. 117, co. 2°, lett. e) (Pinelli 2001, 197 ss.). In sintesi, l’interpretazione sistematica delle norme costituzionali relative alla determinazione dei livelli essenziali di fruizione dei diritti fondamentali non conduce ad una distribuzione di competenze legislative, né alla definizione dei limiti reciproci delle attribuzioni fra Stato e Regioni. L’art. 117, co. 2°, lett. m) - in combinato disposto con gli artt. 119 e 120, co. 2° - intende riservare allo Stato l’intervento diretto di regolazione (ed eventualmente l’attività amministrativa via potere sostitutivo del Governo) per l’attuazione concreta, pur se al livello minimo, dei diritti della persona, vincolando la potestà regionale nelle materie di legislazione concorrente ed esclusiva. Questo percorso interpretativo si adatta, in modo particolare, al riconoscimento costituzionale del diritto al lavoro (art. 4), inteso nel suo duplice profilo giuridico: quale <<diritto di libertà>> della persona e come <<pretesa>> nei confronti dei pubblici poteri alla predisposizione delle condizioni che lo rendono effettivo, mediante idonee politiche promozionali dell’occupazione (D’Antona 1999, 17; Rusciano 1999, 25; Ferraro 1999, 57). Nella disciplina del mercato del lavoro, l’esercizio della competenza trasversale da parte dello Stato sottrae alla discrezionalità politico-legislativa delle Regioni, non solo (com’è ovvio) il <<se>> della tutela del diritto all’occupazione (in quanto diritto fondamentale “costituzionalizzato”), ma anche la determinazione del <<livello essenziale>> di attuazione di tale diritto attraverso la strumentazione tecnica e l’attività positiva dei pubblici poteri (cfr., ad es., l’art. 22, l. n. 328/2000 che definisce il <<livello essenziale delle prestazioni sociali>> collegate all’art. 38 Cost. e, in particolare, i servizi di cui <<le leggi regionali prevedono ... comunque l’erogazione>>). A questo <<livello essenziale>> sono correlati interessi ritenuti 8 indisponibili e non differenziabili in sede locale: oltre <<la soglia dell’incomprimibile o dell’invariabile che dev’essere sottratto alla mutevolezza delle scelte regionali>> (RossiBenedetti 2002, 32), la potestà normativa delle Regioni potrà selezionare altri interessi meritevoli di protezione, ulteriori contenuti e nuove posizioni soggettive ricollegabili al diritto al lavoro, individuando le modalità di tutela più appropriate. L’accesso ai servizi per l’impiego in condizioni di uguaglianza, la distribuzione delle occasioni di lavoro secondo criteri non discriminatori, la gratuità della prestazione pubblica per la persona in cerca d’occupazione possono essere configurati come attributi indispensabili della “prestazione-base” concernente il diritto al lavoro da garantire su tutto il territorio nazionale. Attributi normativi che identificano il (primo nucleo del) “livello essenziale” uniforme e non differenziabile del servizio pubblico da erogare in sede locale, in relazione agli interessi indisponibili che si riassumono nella tutela costituzionale del diritto (cfr. l’art. 29, <<Diritto di accesso ai servizi di collocamento>>, Carta dei diritti fondamentali dell’UE, 7 dicembre 2000). In conclusione, la linea interpretativa che si desume combinando la competenza trasversale dello Stato e la clausola della <<tutela e sicurezza del lavoro>> non è quella descritta da una parte della dottrina - secondo cui sarebbe necessario (o possibile) distinguere le discipline e i diritti del lavoro in base a gerarchie di valore (tutte da verificare) o approcci quantitativo-incrementali. Viceversa, l’indicazione costituzionale è nel senso che nelle materie di legislazione concorrente - e quindi, nella disciplina del mercato del lavoro - lo Stato garantisce comunque lo standard essenziale delle prestazioni e dei servizi pubblici concernenti i diritti sociali della persona. A questa potestà di garanzia (minima) di uguaglianza è affidata, nel nuovo modello costituzionale, la <<tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica>> (ex art. 120, co. 2°, che <<in particolare>> comprende la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni connesse ai diritti civili e sociali). Non v’è dubbio che - a prescindere dalla questione del riparto legislativo e delle forme istituzionali del federalismo - l’effettività dei diritti fondamentali metta in gioco la coesione sociale e la stessa unità politica nazionale (Gambino 2001, 351; Dìez-Picazo 1999, 22). A questo punto, non suscita eccessive preoccupazioni il tramonto (probabile, ma non certo) della funzione statale di <<indirizzo e coordinamento>> concepita dalla giurisprudenza costituzionale (in collegamento con il “limite” derivante dall’interesse nazionale) per la protezione dei diritti e degli interessi non frazionabili (Cavalieri 2001, 202), e ancora prevista 9 dall’art. 1, d. lgs. n. 469/97 a mo’ di cornice del conferimento alle Regioni e agli enti locali della potestà attuativa e dei compiti relativi al mercato del lavoro. Al di là delle sedi e delle forme espressamente stabilite - ad es., a proposito del coordinamento informativo/statistico/informatico dei dati dell’amministrazione centrale e locale (art. 117, co. 2°, lett. r), Cost.) - non si potrà imporre al potere normativo regionale l’osservanza di esigenze unitarie, se non attraverso la determinazione statale dei livelli essenziali di fruizione dei diritti sociali e l’individuazione dei <<princìpi fondamentali>> che orientano la legislazione concorrente (v. infra § 3). 3. (Segue) La fisionomia del legislatore regionale. Tecnica normativa concorrente e determinazione statale dei <<princìpi fondamentali>>. Le difficoltà esegetico-intepretative sollevate dalla riforma del Titolo V non riguardano solo l’estensione della potestà normativa regionale - e la definizione dell’endiadi <<tutela e sicurezza del lavoro>> - ma anche le caratteristiche della funzione legislativa concorrente. Una dottrina pubblicistica pressochè unanime (Pizzetti 2001b) sottolinea l’assoluta parità gerarchica (e ontologica) fra la legge statale e quella regionale, ma restano incerti i criteri ordinatori e d’integrazione reciproca fra le competenze di Stato e Regioni. Un’ardua questione interpretativa concerne soprattutto il “limite” indiretto apposto con la discutibile formulazione dell’art. 117, co. 3°, ult. periodo, che stabilisce la potestà regionale <<nelle materie di legislazione concorrente ... salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali riservata alla legislazione dello Stato>>. Occorre chiedersi, infatti, se in ordine alla disciplina e al funzionamento del mercato del lavoro si delinei un potere normativo condiviso, e di eguale spessore, fra Stato e Regioni, ovvero se sia ipotizzabile una competenza generale a vantaggio dell’autonomia regionale <<salvo che>> per i princìpi fondamentali dettati dal legislatore nazionale. Volendo aderire a quell’approccio metodologico costruttivo secondo il quale <<gli elementi di novità sono da valorizzare piuttosto che da sminuire>> (Cammelli 2001), sembra preferibile apprezzare la modifica testuale dell’art. 117 Cost.: il potere normativo regionale non si esplica più <<nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato>>; è vero, invece, che la determinazione di tali princìpi è ora <<riservata>> al legislatore statale. Anziché evocare l’apposizione di limiti o di vincoli per le leggi regionali, il dato 10 costituzionale introduce piuttosto una separazione di competenze normative nell’àmbito materiale concorrente (Bin 2001b, 622). Sarebbe perciò inammissibile una legislazione dello Stato contenente regole, disposizioni di dettaglio e norme “sostitutive” (in nome dell’interesse nazionale), che costringerebbe le Regioni nel vecchio ruolo dell’esercizio di una potestà attuativa o integrativo-attuativa (in luogo di un potere normativo proprio e di pari dignità gerarchica). L’ambiguità linguistica con la quale sono state descritte le caratteristiche della legislazione concorrente nasconde, probabilmente, una ben più profonda ambiguità politicoistituzionale che gli studiosi dell’architettura costituzionale dovranno impegnarsi a sciogliere. Per il giuslavorista, tuttavia, la questione interpretativa, oltre che delicata, è anche urgente. La revisione della disciplina del mercato del lavoro annunciata dal disegno di leggedelega n. 848/2001 si propone di determinare, per mezzo di <<uno o più decreti legislativi>>, i <<princìpi fondamentali>> relativi ai servizi per l’impiego <<con particolare riferimento al sistema del collocamento pubblico e privato>> (art. 1, co. 1°). Ed è facile avvedersi che, nonostante l’omaggio formale alle <<competenze affidate alle Regioni in materia di tutela e sicurezza del lavoro>>, non si stabiliscono princìpi generali o fondamentali ma, al contrario, regole puntuali e analitiche (come, ad es., la <<certificazione della disoccupazione e della sua durata>>; <<l’obbligo di comunicazione dell’assunzione>>). Si fissano, cioè, disposizioni prescrittive che - è lecito presumere - saranno ulteriormente specificate e dettagliate con la successiva emanazione dei decreti delegati (e l’uso dello strumento normativo conferma, ancora una volta, che non si tratta di una legislazione per princìpi) (Lassandari 2002; Filì 2002, 33 ss.). Non è diverso il tenore del decreto statale (11 aprile 2002), modificativo del d. lgs. n. 181/2000, che ha assegnato alle Regioni la definizione degli <<indirizzi operativi>> per l’attività dei servizi all’impiego, secondo una tecnica autorizzatoria che è più adeguata ad una legislazione secondaria, di mera attuazione. Il rischio attuale, dunque, non è rappresentato dall’inerzia del legislatore regionale, alla quale si teme di non poter supplire o rimediare se si riduce la potestà dello Stato nei termini di una normazione-quadro. La prospettiva più probabile è che un’uguale disponibilità della materia relativa al mercato del lavoro da parte di entrambe le fonti si risolva, di fatto, nella prevalenza di quella statale: vuoi per una certa vischiosità ereditata dal passato o per altra ragione, la materia potrebbe essere in concreto sottratta o negata all’autonomia delle Regioni. 11 È da condividere, allora, l’idea che allo Stato debba essere riservata la mera determinazione di direttive o di princìpi generali, per di più da intendersi <<in modo largamente originale, non potendosi ribadire passivamente quelli elaborati dalla giurisprudenza vigente il vecchio testo costituzionale>> (Luciani 2002, 20 s.). Tenuto conto che la normazione di cornice non è rivolta ad un legislatore regionale di rango inferiore, non si può concepire la riserva statale in funzione di limite o di freno all’innovazione legislativa espressa a livello locale. E neppure può servire a contro-bilanciare una dilatazione del catalogo delle materie o del contenuto delle etichette della legislazione concorrente: come se un’opzione ultra-federalista affermata in sede di riparto delle attribuzioni in materia di lavoro potesse (o dovesse) poi trovare un contrappeso nella definizione da parte dello Stato di princìpi fondamentali sufficientemente restrittivi da scongiurare i timori d’una diseguale frammentazione. In termini funzionali, ciò che s’intravede nell’esercizio della competenza riservata per princìpi fondamentali è l’espressione del nuovo ruolo costituzionale del livello centrale: in parte ancora da chiarire e, in parte, già abbozzato dalla dottrina costituzionalista, inseguendo il filo che ricollega la tutela delle esigenze unitarie dell’ordinamento con il <<principio di leale collaborazione>> (art. 120, co. 2°, Cost.). Su questo titolo di riserva potrà legittimamente fondarsi l’intervento legislativo a protezione degli interessi nazionali e unitari, purchè si precisi che lo Stato non ne è l’unico interprete e tutore, essendo venuta meno la sua supremazia gerarchica rispetto agli altri livelli di governo. Tutti gli enti para-ordinati che costituiscono la Repubblica (art. 114, co. 1°, Cost.) sono tenuti, infatti, ad una cooperazione leale per il soddisfacimento delle esigenze unitarie (Bin 2002). 4. Gli effetti della riforma costituzionale sulla preesistente disciplina del mercato del lavoro. Il problema della successione nel tempo di fonti diverse. Se si accoglie un criterio di così forte discontinuità nell’individuazione dei <<princìpi fondamentali>> riservati allo Stato, non si potrà che essere cauti quanto alla possibilità di desumerli dalla trama della legislazione vigente, anche perché è consentito dubitare della sorte della produzione normativa (statale) antecedente alla revisione del Titolo V che attualmente insiste sul terreno della legislazione concorrente. La prassi costituzionale e giurisprudenziale suggerisce di escludere un’efficacia di abrogazione implicita o d’invalidità sopravvenuta o d’inapplicabilità derivata a carico del 12 preesistente quadro normativo (Ruggeri 2002), per evitare comprensibilmente lo stress del legislatore regionale costretto a fronteggiare il vuoto normativo, oltre che per ragioni d’opportunità e di ragionevolezza (così rilevanti nell’interpretazione costituzionale). Da un lato, quindi, alle Regioni non resta che esercitare l’autonomo potere di normazione senza attendere l’emanazione di leggi-quadro, appropriandosi con gradualità di discipline (o di “porzioni” delle stesse) relative al mercato del lavoro in precedenza attribuite esclusivamente al legislatore statale. Potrà essere superato, ad es., il limite posto dall’art. 3 d. lgs. n. 469/97 all’intervento regionale nelle procedure di mobilità e nella gestione delle eccedenze di personale: ferma la riserva statale per la tutela previdenziale (art. 117, co. 2°, lett. o), Cost.), in sede locale potranno essere definite le competenze dei pubblici poteri, le regole procedurali, le norme di raccordo tra i processi gestionali e le politiche attive del lavoro. D’altro lato, però, occorre verificare vòlta a vòlta la compatibilità della normativa statale previgente rispetto ai nuovi parametri costituzionali del Titolo V, specie se si pretende di desumere da questa i <<princìpi fondamentali>> utili per la legislazione concorrente. L’ideazione e la realizzazione, in forma unitaria ed integrata, degli interventi e delle attività promozionali dell’occupazione si ispirano ad un <<principio fondamentale>> di settore che appare coerente con il nuovo quadro costituzionale: <<l’integrazione tra i servizi per l’impiego, le politiche attive del lavoro e le politiche formative>> è prevista dall’art. 4, co. 1°, d. lgs. n. 469/97; un’analoga direttiva generale di <<coordinamento ed integrazione>> collega i servizi sociali <<con le politiche attive di formazione, di avviamento e di reinserimento al lavoro>> (art. 3, co. 2°, l. n. 328/2000). Una fondata questione di conformità costituzionale si pone, invece, per i <<princìpi e criteri direttivi>> fissati dall’art. 4, d. lgs. n. 469/97 ai fini dell’organizzazione istituzionale del <<sistema regionale per l’impiego>>. Non si tratta infatti di “principi fondamentali”, ma di prescrizioni e di vincoli che hanno impedito alle Regioni di scegliere il proprio modello organizzativo e di differenziare le strutture operanti nel mercato del lavoro, riducendo <<l’àmbito della scelta politica del legislatore regionale ad un’attività di pura esecuzione di una disciplina statale di dettaglio>>. La giurisprudenza costituzionale ha già dichiarato la (parziale) incostituzionalità delle disposizioni di tipo organizzativo del decreto n. 469, ritenute lesive delle prerogative regionali ed eccessivamente invasive dell’autonomia degli enti territoriali persino in un regime di potestà meramente attuativa (C. cost. 23 marzo 2001, n. 74). 13 Tanto più risulterà fondata la censura d’incostituzionalità se si considera che, nel contesto della revisione del Titolo V, l’organizzazione degli enti e degli apparati dipendenti dalle Regioni non è rimessa alla legislazione concorrente, né a quella statale esclusiva (che si occupa, invece, dell’<<ordinamento e organizzazione dello Stato e degli enti pubblici nazionali>>: art. 117, co. 2°, lett. g), Cost.). Di conseguenza, va riconosciuta la competenza regionale primaria ed esclusiva nell’organizzazione istituzionale del sistema per l’impiego, con la salvaguardia dell’autonomia ordinamentale propria degli enti locali (Province e Comuni) prevista dall’art. 117, co. 6°, Cost. (v. infra § 5). La conservazione del quadro normativo preesistente, pur sottoposto alla prova di resistenza rispetto alla modifica costituzionale, non mancherà di porre altri problemi interpretativi sotto il profilo della successione nel tempo di normative e di fonti diverse, in ragione dei mutati confini delle potestà legislative di Stato e Regioni. Le difficoltà concettuali non riguardano, in realtà, l’espansione del potere normativo regionale (sino a trasformarlo in potere concorrente o esclusivo): sarà possibile mantenere o, viceversa, modificare e sostituire a livello locale le leggi di organizzazione dei servizi per l’impiego (di rango “minore”), già emanate in base all’art. 4, d. lgs. n. 469/97. Un dubbio potrebbe porsi, invece, in relazione alla scelta delle Regioni di modificare o di abrogare le leggi ed i regolamenti statali contenenti le regole e le procedure del collocamento (cfr. l. n. 56/87; art. 25, l. n. 223/91; art. 9-bis, l. n. 608/96; d.p.r. n. 442/2000), così da realizzare quella semplificazione ed innovazione amministrativa che il d.d.l. n. 848/2001 e il decreto recentemente approvato (11 aprile 2002) intendono attuare solo con l’input del governo centrale. In linea di principio, si è già ammesso l’intervento legislativo negli àmbiti materiali “regionalizzati” in graduale sostituzione della regolamentazione statale, purchè siano osservati i criteri del riparto costituzionale (e il limite generale dell’irretroattività rispetto alla riforma del Titolo V). Anzi, per le esigenze particolari e analitiche della disciplina procedurale del collocamento, le Regioni potrebbero utilmente far ricorso anche alla riserva di potere regolamentare che è prevista in ogni materia di legislazione concorrente e residuale/esclusiva (art. 117, co. 6°, Cost.). S’intuiscono appena, ma in modo evidente, le sottostanti e complesse questioni relative alla successione cronologica di fonti diverse, alla deregolamentazione attuabile a livello regionale, all’esigenza di prevedere uno stabile assetto (probabilmente in sede statutaria) delle relazioni inter-normative tra le fonti regionali (art. 123 Cost.). Tuttavia è 14 facilmente prevedibile - com’è ormai tendenza generale dell’ordinamento - una notevole diffusione della disciplina regolamentare di rango regionale, che potrà succedere nel tempo e sostituirsi anche a normative statali previgenti nelle materie ora attratte nell’area di competenza delle Regioni. In relazione ai compiti del collocamento pubblico non vanno trascurati alcuni punti problematici di raccordo e di coordinamento con la potestà regolamentare degli altri enti locali (spec. la Provincia), che è garantita dal nuovo testo costituzionale per i fini organizzativi propri e dell’azione amministrativa (v. infra § 6). L’attenzione deve rivolgersi allora al rinnovato assetto costituzionale della potestà amministrativa, che dovrà comportare una rimeditazione dei criteri attuali di distribuzione delle funzioni di governo del mercato del lavoro e dei servizi pubblici per l’impiego. 4. Il riassetto dei poteri locali nel governo del sistema regionale per l’impiego (dal decentramento amministrativo alla revisione costituzionale). Seppure si condivide la tesi che la disciplina organizzativa dei servizi regionali per l’impiego emanata in base al d. lgs. n. 469/97 non possa ritenersi automaticamente abrogata o illegittima in conseguenza della revisione costituzionale, emerge tuttavia un profilo di notevole contrasto con il nuovo Titolo V. Il livello privilegiato dall’art. 118 Cost. per l’allocazione ottimale delle funzioni amministrative è il Comune, mentre il decreto n. 469 con una scelta politico-normativa peraltro contestata - ha valorizzato l’ente provinciale. L’opzione a favore della Provincia riguarda non solo la gestione e l’erogazione dei servizi relativi all’incontro fra domanda ed offerta di lavoro, ed eventualmente di quelli connessi alle politiche attive (art. 4, co. 1°, lett. e-g), d. lgs. n. 469), ma la stessa intestazione di alcuni compiti rilevanti nel sistema regionale per l’impiego. In base all’art. 4, co. 1°, lett. a), infatti, il legislatore regionale è stato vincolato ad attribuire al livello provinciale la titolarità di tutte le funzioni relative al collocamento pubblico. L’interrogativo che si pone, in via preliminare, è se questa scelta debba ora ritenersi “recessiva”: cioè, se la Provincia sia “delegittimata” dalla riforma costituzionale a conservare le funzioni ed i compiti conferiti con le norme statali e regionali di organizzazione del mercato del lavoro. Nessuno degli esperti amministrativisti sembra disposto ad ammettere la valenza abrogativa dell’art. 118, co. 1°, Cost., sebbene sia incontestabile la primazia del ruolo 15 comunale (Corpaci 2001; D’Auria 2001b, 215). Il disegno delle autonomie locali si presenta aperto e sufficientemente dinamico <<sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza>>: correttamente si sottolinea che la norma costituzionale individua regole e criteri organizzativi per la distribuzione delle funzioni amministrative (derogabili, al fine di <<assicurarne l’esercizio unitario>>), senza assumere un’efficacia attributiva diretta. L’interpretazione “debole” e l’applicazione solo “tendenziale” di tali criteri non impedisce, comunque, di assumerli come parametri di legittimità rispetto alla preesistente disciplina statale di conferimento che, di fatto, se ne discosta (come, appunto, il d. lgs. n. 469/97). Il giudizio di conformità costituzionale dovrebbe considerarsi implicito e pressochè scontato per i decreti attuativi della l. n. 59/97 e per le leggi regionali conseguenti che hanno fissato le competenze amministrative dei poteri locali: così argomenta quella parte della dottrina pubblicista secondo cui la revisione costituzionale avrebbe finalmente dato “copertura” al decentramento realizzato alla fine degli anni Novanta, operando la saldatura e la “stabilizzazione” del sistema amministrativo (Mangiameli 2002; Gambino 2001b). Del resto, l’intestazione all’ente provinciale dei compiti relativi al collocamento sembra soddisfare, ragionevolmente, quei princìpi di sussidiarietà/differenziazione/adeguatezza che sono già stati applicati dal decreto n. 469 e che il testo costituzionale si limita a convalidare, rendendoli intangibili dalla fonte legislativa ordinaria. Senza dubbio, però, le Regioni sono libere di modificare, con propria legge, l’attuale assetto del mercato del lavoro in base ad una valutazione discrezionale dell’ampiezza delle funzioni amministrative da attribuire: rafforzando il livello provinciale con il conferimento aggiuntivo di compiti di politica attiva o, al contrario, allocando altrove (ad es. ai Comuni) le competenze in materia di servizi per l’impiego. Tutt’al più sembra da escludere, in linea di principio, un’avocazione di tali funzioni a livello regionale ed un nuovo accentramento del governo del mercato del lavoro in contrasto con il criterio di sussidiarietà verticale e con l’indicazione preferenziale per l’ente comunale. Peraltro, la riforma costituzionale non impedisce a priori ad ogni livello territoriale, compreso quello regionale, di assumere in proprio poteri amministrativi e gestionali dei servizi pubblici. Che la legge regionale sia abilitata (in astratto) ad intestare funzioni amministrative in capo alle stesse Regioni si desume direttamente dall’art. 118, co. 1°, Cost., mentre l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale <<per lo svolgimento di attività d’interesse generale>> (art. 118, ult. co.) si riferisce all’esercizio di compiti collocati a 16 tutti i livelli territoriali. Ciò significa che l’art. 118 Cost. non offre un avallo - neppure implicito - allo schema organizzativo del mercato del lavoro delineato dal d. lgs. n. 469/97, il quale tende(va) a separare il ruolo di “regia” della Regione da quello operativo-gestionale svolto dall’ente provinciale. Il disegno autonomistico del Titolo V non conferma la necessità di distinguere, da un lato, le funzioni d’indirizzo e di programmazione delle politiche del lavoro e, dall’altro, l’attività di gestione e di erogazione dei servizi pubblici per l’impiego. La fonte normativa idonea a realizzare una diversa ed originale distribuzione funzionale nel mercato del lavoro non potrebbe non essere quella che complessivamente regola la materia, cioè la potestà concorrente di Stato e Regioni. È alla tecnica costituzionale del riparto legislativo che occorre far riferimento, considerato che l’intestazione dei compiti amministrativi è compiuta <<con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze>> (art. 118, co. 2°, Cost.). Si è già osservato (v. retro § 3) che l’intervento dello Stato è circoscritto, in tale àmbito materiale, alla definizione dei <<princìpi fondamentali>> e solo attraverso questo canale è autorizzato ad esprimersi (eventualmente) sul punto dell’allocazione funzionale; mentre non costituisce titolo ulteriore di legittimazione l’esigenza, pur riconosciuta dal dettato costituzionale, di <<assicurare l’esercizio unitario>> delle funzioni conferite (art. 118, co. 1°, Cost.). In questi termini, la direttiva generale dell’integrazione tra i servizi per l’impiego e le politiche del lavoro, enucleata dalla normativa statale vigente (art. 4, co. 1°, d. lgs. n. 469/97), potrà ancora indirizzare l’assetto delle competenze amministrative ad opera del legislatore regionale (in aggiunta e ad ulteriore specificazione dei criteri direttamente posti dall’art. 118, co. 1°, Cost.). 5. Ipotesi di riordino funzionale del mercato del lavoro e rapporti fra i livelli territoriali. Una nuova distribuzione dei compiti fra i livelli di governo del mercato del lavoro dovrà tener conto della dotazione di risorse necessarie per consentire, ai sensi dell’art. 119, co. 4°, Cost., di <<finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite>>. Per soddisfare il principio ora “costituzionalizzato” del finanziamento integrale e per evitare la sovrapposizione e/o la duplicazione degli apparati amministrativi si prospetta, infatti, l’esigenza del trasferimento di beni, risorse finanziarie, umane e strumentali non solo da parte dello Stato, ma anche delle Regioni. 17 In altre parole, ogni progetto di riordino non potrà prescindere dalla garanzia costituzionale di autonomia - organizzativa (e statutaria), regolamentare e finanziaria - che è riconosciuta, al pari delle Regioni, agli enti locali c.d. “minori”. Il potere normativo regionale di ri-disegnare il sistema locale per l’impiego, abbandonando il prototipo rigido ed eccessivamente uniforme del decreto n. 469, incontra una doppia serie di limiti: dall’alto, la potestà statale di determinazione dei princìpi generali che è suscettibile d’interferire sul versante dell’allocazione dei compiti; dal basso, la riserva costituzionale di potestà amministrativa e regolamentare a favore dei livelli sub-regionali, <<in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite>> (art. 117, co. 6°, Cost.). La discrezionalità legislativa delle Regioni di delineare il profilo organizzativo dei servizi per l’impiego si colloca su questo difficile (e ancora incerto) crinale. Può ritenersi ormai superato il pericolo della deriva verso un centralismo regionale di vecchio stampo che mortifichi le autonomie locali “minori” (sollecitando l’intervento “tutorio” dello Stato), ma si profila un rischio opposto, non trascurabile, di compressione dell’autonomia regionale tra i due ritagli di competenze riservate, verso l’alto e verso il basso. Quanto meno, l’incrocio di potestà amministrative (statutarie ed organizzative) e regolamentari, rispettivamente attribuite alle Regioni e agli enti locali titolari di funzioni, è suscettibile d’innescare una situazione di potenziale conflittualità. In relazione al collocamento pubblico, le Province sono in grado sin d’ora di rivendicare una piena autonomia decisionale quanto all’organizzazione (uffici, strutture), al funzionamento dei Centri per l’impiego, alle modalità di svolgimento dell’attività di mediazione pubblica, alla promozione dell’iniziativa privata sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale. Un altro terreno sul quale potrebbe emergere una competitività immediata fra i livelli territoriali è quello delle regole e delle procedure dell’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, tenuto conto che l’ente provinciale - titolare della funzione amministrativa - ora dispone anche del potere normativo-regolamentare di disciplinarne l’esercizio (v. retro § 4). I numerosi rinvii alla potestà regionale contenuti nella disciplina statale vigente, e in particolare nel regolamento di semplificazione del collocamento (d.p.r. n. 442/2000), potrebbero ora essere raccolti dalla Provincia. Detto altrimenti: <<i criteri di organizzazione, le modalità, le specificazioni ed i tempi di attuazione>> del regolamento statale, anziché essere <<definiti ... con provvedimento regionale>> (art. 1, co. 1°, d.p.r. n. 442), potrebbero 18 già ricadere nella riserva di competenza regolamentare del soggetto pubblico che è titolare della funzione del collocamento. Tanto più che, salvo il rapporto di subordinazione gerarchica rispetto alla legge regionale di conferimento e di organizzazione dei servizi per l’impiego, non sembrano porsi, in questo caso, insuperabili difficoltà sul versante della successione delle fonti. Le regole giuridiche per risolvere la conflittualità latente fra i livelli di governo locale sono ancora tutti da esplorare. Per ora s’intravedono solo gli effetti negativi, nel senso di una possibile sovrapposizione delle potestà regolamentari (di Regioni ed enti locali) che concorrono nello stesso àmbito, ovvero di svuotamento della riserva costituzionale in danno dell’uno o dell’altro soggetto pubblico. Anzitutto non è chiaro se il potere regolamentare degli enti c.d. “minori” - che è previsto, ma non disciplinato da norme costituzionali - sia concepito come esclusivo e tendenzialmente in grado d’impedire, nel proprio campo, l’interferenza della potestà regionale. Considerato poi che la riforma costituzionale sembra collegare strettamente la riserva di competenza regolamentare al processo di conferimento - quasi applicando un principio di parallelismo - si potrebbe anche ipotizzare che vi debba essere una corrispondenza tra la dimensione della funzione attribuita e l’estensione del potere normativo dell’ente ricevente. Di conseguenza, il livello sovraordinato (la Regione) si priverebbe, almeno in parte, della potestà di disciplinare l’organizzazione e lo svolgimento dei compiti amministrativi conferiti. La riflessione dottrinale sul punto è appena iniziata, e non è possibile ovviamente azzardare conclusioni, ma solo immaginare linee di sviluppo riferibili al “settore” del mercato del lavoro. Nell’assetto costituzionale dei poteri locali improntato all’autonomia (organizzativa, regolativa e finanziaria) e al principio di responsabilità nell’esercizio delle funzioni attribuite, possono nascondersi nuovi rischi di dispersione e di frammentazione della disciplina del mercato del lavoro, o peggio occasioni di conflittualità collegate alla rivendicazione di spazi decisionali riservati in base ad interessi specificamente regionali, provinciali o locali. In tale contesto, superata ogni logica di tipo gerarchico e le tentazioni centralistiche, dev’essere valorizzato il ruolo regionale di snodo (e di equilibrio) fra le due linee di distribuzione delle funzioni amministrative che seguono il riparto legislativo nella regolamentazione del mercato del lavoro: quella verticale Stato-Regioni e quella orizzontale Regioni-enti locali. 19 Questo ruolo regionale - che potrebbe esprimersi, ad es., mediante una disciplina ordinamentale di cornice relativa alle politiche del lavoro e ai servizi pubblici locali costituisce un’imprescindibile premessa per la costruzione di un sistema regionale per l’impiego davvero coeso ed orientato, secondo le direttive costituzionali, al principio della <<leale collaborazione>> istituzionale. Riferimenti bibliografici Angiolini V. 2001 Legalità, uguaglianza e <<pluralismo>> giuridico: in margine alla Carta europea dei diritti e al dibattito italiano sul federalismo, in RGL, 3 ss. 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