CORSO DI MACROECONOMIA
COSA ABBIAMO
IMPARATO
Affermazione n.1
• “L’Italia è un paese ricco. La ricchezza privata
ammonta quasi a 9 mila miliardi di euro (fonte:
Banca d’Italia). Allora non capisco come si possa dire
che il PIL dell’Italia è più o meno 1600 miliardi di
euro, o che la nostra crescita sia anemica”.
Una possibile risposta
• PIL e ricchezza sono due cose diverse. La ricchezza
(mobiliare o immobiliare) è uno stock, e corrisponde
all’accumulazione dei risparmi passati. Il PIL è un flusso,
ed è il valore (se nominale) o quantità (se reale) della
produzione di beni e servizi finali in un determinato arco
di tempo. E la crescita del PIL indica di quanto, da un
anno all’altro, questa produzione cambi in termini
percentuale.
• Quindi se l’Italia è un paese che ha accumulato una
grande ricchezza privata, questo semmai è lo specchio o
di un risparmio privato molto ampio in passato, o di un
risparmio pubblico molto basso in passato. La capacità di
generare reddito oggi, invece, è un’altra cosa.
Affermazione n.2
• “Ho letto da qualche parte che quando il tasso di
disoccupazione scende, non necessariamente
significa che un maggior numero di persone sta
lavorando. Ci deve essere un errore…com’è
possibile?”
Una possibile risposta
• Nessun errore. Il tasso di disoccupazione u è definito
come il rapporto tra disoccupati in cerca di
occupazione (U) e forza lavoro (LF). A sua volta, la
forza-lavoro è la somma di occupati (E) e disoccupati
in cerca di occupazione. Quindi:
u=
U
U +E
• Quindi se U = 200 e E = 800, il tasso di disoccupazione
è il 20%.
• Ora, se 20 disoccupati in cerca di occupazione
smettono…..di cercare occupazione (cioè diventano
disoccupati scoraggiati), U = 180.
• E allora il tasso di disoccupazione diventa:
180
u=
= 18,36%
180 + 800
• Il tasso di disoccupazione è sceso dal 20% al 18,36%,
ma questo non è avvenuto a causa dell’aumento del
numero degli occupati.
• E’ semplicemente la conseguenza della fuoriuscita
dalla forza-lavoro di 20 persone, che hanno smesso di
cercare occupazione.
Affermazione n.3
• “Ai governi non dovrebbe importare cosa fa la
Banca Centrale. Bisogna rispettare una sana
divisione dei compiti e delle responsabilità: i
governi si occupano della politica fiscale, la
Banca Centrale della politica monetaria”.
Una possibile risposta
• Il principio dell’indipendenza della banca centrale è
sacrosanto, e serve a garantire che l’obiettivo di stabilità
dei prezzi (= non provocare perdite di valore della moneta
nazionale nei confronti di acquisto di beni e servizi) non
venga inficiato dall’irresponsabilità fiscale dei governi o
dall’incapacità di realizzare riforme che innalzino il tasso
di crescita di lungo periodo.
• Tuttavia, le decisioni di politica monetaria sono molto
importanti per la finanza pubblica. Aumenti o diminuzioni
del tasso-strumento di politica monetaria (per l’areaeuro il tasso sulle Main Refinancing Operations) – se il
meccanismo di trasmissione funziona – influiscono su
tutta la curva dei rendimenti dei titoli finanziari.
• E quindi anche sul tasso di interesse corrisposto dal
governo ai sottoscrittori in asta dei titoli di Stato; e,
tramite questo, sul costo medio del debito, che
determina (insieme allo stock pre-esistente) la spesa per
interessi, la quale infine è parti dell’indebitamento netto
delle pubbliche amministrazioni.
• Ovviamente l’atteggiamento di politica monetaria è solo
una delle determinanti del rendimento dei titoli di Stato;
negli ultimi due anni sono divenuti molto più importanti i
fattori di rischio (soprattutto di credito), mentre nel
contempo abbiamo assistito all’inceppamento del
meccanismo di trasmissione degli impulsi di politica
monetaria lungo tutta la curva dei rendimenti.
Affermazione n. 4
• Se l’Italia ha un problema di scarsa crescita, è
perché non aumenta a sufficienza la spesa
pubblica.
Una possibile risposta
• L’aumento della spesa pubblica (così come
l’aumento dei trasferimenti o la diminuzione delle
tasse) rappresenta una politica fiscale espansiva,
che è senza dubbio utilizzabile per correggere uno
shock negativo di domanda aggregata, al fine di
riportare l’economia al suo livello di produzione di
lungo periodo. Tale politica espansiva, in una
certa misura, avviene in misura automatica
(tramite i cosiddetti “stabilizzatori automatici”);
ma può essere necessaria anche un’espansione
ulteriore e discrezionale.
• Vi sono tuttavia due considerazioni da fare:
• 1) L’azione di cui sopra deve comunque sempre
essere valutata in relazione alla sostenibilità
dell’aumento di spesa pubblica discrezionale; essa
infatti – ceteris paribus – determina un aumento del
disavanzo primario (aumentando il rapporto
debito/PIL) e in misura indiretta aumenta la crescita
nominale (diminuendo il rapporto debito/PIL), solo se
riesce nella sua impresa di stimolare l’attività
economica (e questo dipende dall’entità dei
moltiplicatori di spesa pubblica). Tutto questo deve
essere valutato ai fini della sostenibilità
intertemporale dell’accumulazione del debito.
• 2) Se invece l’aumento di spesa pubblica è funzionale
all’aumento del tasso di crescita del PIL sopra il
potenziale, allora tale manovra avrà effetti solo di
breve periodo sul livello del reddito (e quindi
sull’occupazione), ma nel lungo periodo avrà solo
effetti inflattivi.
• A meno che l’aumento di spesa pubblica non
comporti una maggior crescita di lungo periodo, le
cui determinanti sono la quantità di fattori produttivi
e la loro produttività totale. A quel punto la
questione si sposta dalla quantità di spesa pubblica,
alla qualità di spesa pubblica (se volete, dalla
macroeconomia alla microeconomia).
Affermazione n.5
• Abbiamo bisogno di una politica keynesiana
che aumenti la spesa pubblica, così facendo
aumentando il reddito molto più che
proporzionalmente (persino di 4 o 5 volte di
più!).
Una possibile risposta
• Questa affermazione è basata su un’analisi
abbastanza semplice del moltiplicatore della spesa
pubblica, che vede la sua dimensione dipendere in
maniera positiva (ed esclusiva) dalla propensione
marginale al consumo. Un parametro che, nella
teoria tradizionale keynesiana, è fisso ed esogeno.
• In realtà, la dimensione dei moltiplicatori ( = l’effetto
sul PIL di un aumento unitario della spesa pubblica) è
influenzato da una varietà di altri fattori.
• Ad esempio:
• 1) La reazione del costo del denaro: quanto più forte
è tale reazione positiva, tanto più “smorzato” risulta
l’aumento di domanda aggregata, in quanto
l’innalzamento del tasso di interesse deprime le due
componenti private della domanda aggregata (C ed
I) anche in presenza di un aumento della componente
pubblica (G).
• Nella nostra prima analisi, abbiamo sintetizzato il
punto 1) in “dipende dall’inclinazione della LM”.
• Nella nostra seconda analisi, lo abbiamo sintetizzato
invece con “dipende dalla reazione della banca
centrale all’aumento del Pil, e quindi dalla regola di
politica monetaria (=coefficiente ϴY )
• Nella nostra terza analisi, lo abbiamo sintetizzato
dicendo che “dipende da quanto il costo del credito
per famiglie e imprese - alle differenti scadenze - è
effettivamente influenzato dall’aumento di spesa
pubblica”.
• E abbiamo visto come tale canale dipenda in maniera
cruciale da come il premio al rischio sia influenzato
dall’aumento di spesa pubblica (e quindi da quanto
l’aumento di spesa pubblica venga percepito come
sostenibile nel lungo periodo).
• 2) Dipende da in che misura il sistema economico sul
lato dell’offerta reagisca allo stimolo espansivo
aumentando la produzione e non, invece, i prezzi.
• Nella nostra analisi, abbiamo sintetizzato il punto 2)
con “dipende dall’inclinazione della AS, che a sua
volta dipende dal grado di vischiosità dei prezzi”.
• Infatti, se il livello dei prezzi aggregato è molto
vischioso, l’aumento di domanda aggregata verrà in
maggior misura accomodato da aumenti di
produzione (AS tendente all’orizzontale). Se invece il
livello dei prezzi è molto flessibile, l’aumento di
domanda risulterà solo in prezzi più altri (AS
tendente al verticale)
• 3) Dalle aspettative degli agenti economici in
relazione alla sostenibilità di tale aumento di spesa
pubblica.
• Senza bisogno di aderire alla versione “estrema”
(l’Equivalenza Ricardiana), se i consumatori basano
le loro decisioni di spesa oggi anche sul reddito di
domani (oltre che quello di oggi!), allora c’è un’altra
dimensione da considerare:
• Se i consumatori percepiscono che tale aumento di G
oggi verrà controbilanciato da una riduzione di G (o
aumento di tasse) domani, allora potrebbero essere
indotti a risparmiare tutto o parte dell’aumento di
reddito disponibile derivante dallo stimolo espansivo.
• In termini formale, la PMC non è quindi un
parametro fisso ed esogeno, ma dipende da decisioni
intertemporali e razionali dei consumatori.
• Ovviamente, quanti più consumatori ci sono che sono
obbligati a far affidamento solo sul loro reddito di
oggi (e non di domani) per compiere le loro scelte di
consumo oggi (perché siamo in presenza di vincoli di
indebitamento), tanto meno forte sarà il
ragionamento precedente.
• 4) Infine tale affermazione si basa unicamente sugli
effetti della politica fiscale sulla domanda aggregata.
Esistono anche gli effetti di offerta.
• Se l’aumento di spesa pubblica implica – presto o
tardi – un aumento delle tasse, occorre considerare
che gran parte del gettito fiscale è ottenuto dalla
tassazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro) e
quindi, distorcendone la condizione ottimale (w/r =
PML/PMK), ne determina una minore accumulazione.
• E quindi una minor crescita potenziale, e una minor
crescita effettiva.
Affermazione n.6
• Che male vuoi che faccia un po’ di inflazione in
più? E comunque non basta che la banca
centrali annunci un obiettivo di inflazione più
alto, siamo stanchi delle chiacchiere!
Una possibile risposta
• La questione è divisa in due parti.
• Primo, se un po’ di inflazione in più davvero non
faccia male.
• Secondo, se davvero non basta annunciare un
obiettivo di inflazione più alta.
• Dal primo punto di vista, occorre ricordare che
l’inflazione ha un beneficio visibile: permette
l’aggiustamento al ribasso dei salari reali (in settori
che dovessero registrare disoccupazione, cioè
eccesso di offerta) senza bisogno di ridurre i salari
nominali (e quindi le retribuzioni).
• Vi sono tuttavia anche dei costi.
• In primo luogo, l’inflazione erode il valore della
moneta e del risparmio, diminuendone il potere
d’acquisto (erode anche il valore esterno della
moneta, vale a dire il tasso di cambio). Questo è un
costo anche nel lungo periodo (cioè dopo che il tasso
di interesse – inteso come remunerazione del
risparmio – si è adeguato alla crescita
dell’inflazione), in quanto “costringe” gli agenti
economici a detenere quanta meno liquidità possibile
per evitare la tassa da inflazione (il cosiddetto “costo
della suola delle scarpe”).
• 2) L’inflazione provoca problemi al sistema fiscale, sia
per quanto riguarda le tasse non aggiustate
automaticamente all’inflazione (come la tassazione
sulle plusvalenze finanziarie) sia per quanto concerne
il funzionamento dei sistemi fiscali progressivi
(problema del fiscal drug)
• 3) L’inflazione è l’aumento generalizzato del livello
dei prezzi; pertanto, diventa più difficile per gli agenti
economici distinguere tra variazioni assolute e
variazioni relative dei prezzi. Questo provoca una
distorsione dei prezzi relativi che invece , in
un’economia di mercato, hanno il ruolo chiave nel
guidare le dinamiche di domanda e di offerta.
• 4) rendendo incerto il valore della moneta,
l’inflazione complica la programmazione finanziaria a
lungo termine, il che è negativo per la crescita.
• 5) se l’inflazione è inattesa, questo provoca anche un
arbitraria redistribuzione di risorse dai creditori ai
debitori.
• Il secondo problema riguarda invece “gli annunci” e
“i fatti”.
• Assumiamo che la Banca Centrale operi con una Taylor
Rule e sulla base di un target di inflazione, come la
maggior parte delle banche centrali nel mondo.
• In presenza di aspettative adattive, alzare il target –
ceteris paribus – significa provocare un abbassamento
del tasso nominale, e quindi un abbassamento del tasso
reale e – tramite il meccanismo di trasmissione della
politica monetaria – una riduzione del costo-opportunità
di consumatore e investire per famiglie e imprese. Quindi
una politica monetaria espansiva. Se le aspettative sono
razionali, invece, l’adeguamento al nuovo equilibrio è
istantaneo (perché gli agenti economici già sanno dove si
va a finire).
Affermazione n.7
• Ieri lo spread ha toccato quota 600….ancora
un paio di giorni così e lo Stato italiano andrà
in default!
Una risposta possibile
• Lo spread di cui – normalmente – si parla sui
quotidiani è il differenziale di rendimento tra il BTP
decennale e un titolo tedesco di pari durata sul
mercato secondario, che è il mercato sul quale
vengono scambiati i titoli di Stato già emessi. I
rendimenti sul mercato secondario – come tutti i
prezzi - riflettono gli eccessi di domanda e di offerta.
Sappiamo bene che i rendimenti si muovono in senso
opposto ai prezzi, in quanto la diminuzione del valore
di un titolo (= prezzo) causa un aumento del suo
rendimento, poiché il valore di rimborso è sempre
100.
• Esempio: se un titolo oggi quota a 90, significa che
vale 90….ma a scadenza verrà rimborsato a 100, il
suo valore di emissione. Quindi, aldilà delle cedole
semestrali (che costituiscono il pagamento degli
interessi), se il prezzo di un titolo sul mercato
secondario scende, aumenta la plusvalenza che verrà
realizzata al momento della scadenza del titolo
stesso. Quindi aumenta il rendimento.
• Quindi rendimenti in salita significa prezzi in discesa,
cioè eccesso di offerta (coloro che vogliono vendere il
BTP sono più numerosi di coloro che vogliono
acquistarlo). Rendimenti in discesa significa prezzi in
aumento, cioè eccesso di domanda.
• Quindi l’aumento dello spread sul mercato secondario
può voler dire due cose:
• O i rendimenti sul BTP sono aumentati
• Oppure rendimenti sul BUND tedesco sono scesi
• Nel secondo caso, ovviamente, nulla accade sui titoli di
Stato italiani. Ma anche nel primo, non succede nulla di
immediato. Il costo medio del debito (l’interesse medio
pagato su tutto lo stock di passività finanziare, ottenibile
dividendo la spesa per interessi per lo stock di debito)
infatti viene influenzato solo dai tassi di interesse ai quali
i titoli di Stato vengono assegnati in asta (cioè sul
mercato primario). E, tra l’altro, il costo medio del debito
viene influenzato nella misura in cui la nuova media
ponderata risulta più alta (o più bassa), e quindi dipende
anche dal quantitativo di titoli emessi in asta.
• Tuttavia, i tassi di interesse della prossima asta sono
certamente influenzati da ciò che accade sul mercato
secondario. Se infatti il giorno prima dell’asta del
Tesoro un BTP decennale rende il 7% sul mercato
secondario (= il rendimento previsto per l’investitore
– sommando interessi e plusvalenza – è il 7%),
difficilmente l’asta riuscirà a piazzare i titoli di nuova
emissione ad un tasso inferiore al 7%....perché
nessuno avrebbe convenienza a sottoscriverli.
Affermazione n.8
• Ieri sono andato in banca a chiedere un
mutuo….mi hanno proposto un tasso del
6%....ma com’è possibile? Ieri ho sentito al
telegiornale che in questi mesi la BCE ha in
pratica quasi azzerato i tassi, portandoli allo
0,75%.
Una possibile risposta
• Il tasso di interesse manovrato dalla BCE è il tasso al
quale essa – ogni due settimane – immette liquidità nel
sistema prestandola ad alcune banche commerciali in
cambio di collaterale (le cosiddette “main refinancing
operations”). Se la BCE abbassa quel tasso, significa che
sta concedendo liquidità a breve termine alle banche ad
un costo inferiore.
• Tuttavia, questo è solo l’inizio del meccanismo di
trasmissione della politica monetaria, vale a dire il modo
attraverso cui questo impulso arriva effettivamente a
ridurre il costo-opportunità di consumare e investire (vale
a dire, l’impulso espansivo arriva a famiglie e imprese).
• Lo stimolo espansivo, cioè la riduzione dei tassi,
infatti deve trasmettersi lungo tutta la curva dei
rendimenti (= la relazione che lega ad ogni scadenza
un tasso di interesse diverso, che tiene conto del
rischio-durata) affinché possa realmente essere
efficace per l’economia reale.
• La banca, come ogni impresa, compra l’oggetto del
suo business ad un certo prezzo X, e lo rivende ad un
prezzo Y. La misura in cui Y è maggiore di X dipende
dal grado di concorrenzialità del settore
bancario….tanto maggiore esso è, tanto più la
differenza tra Y e X sarà minore.
• Per cui la banca non potrà mai abbassare il tasso alla
clientela (ad esempio quello che ti ha proposto per il
tuo mutuo) finchè non diminuisce il tasso al quale la
banca ha reperito quei soldi….
• E tale tasso – indicato dalla curva dei rendimenti, per
ogni scadenza – dipende non solo dall’atteggiamento
di politica monetaria, ma anche e soprattutto dai
fattori di rischio che abbiamo più volte ricordato
(oltre a quello durata, anche il rischio-liquidità, il
rischio-cambio, il rischio-inflazione e soprattutto il
rischio-credito).
• Quanto più questi rischi sono forti, tanto maggiore
sarà il premio al rischio e quindi il tasso di interesse
che una banca (così come una qualsiasi altra impresa
o lo stesso Stato) dovrà sborsare per finanziarsi sul
mercato. E quindi tanto maggiore sarà il tasso
praticato alla clientela, soprattutto in presenza di un
settore bancario poco concorrenziale.
• Riassumendo, se un mutuo è più o meno caro
dipende da:
• a) la politica monetaria: il tasso di riferimento della
BCE è alto o basso?
• b) le condizioni di finanziamento delle banche: i tassi
a breve termine (ad esempio l’Euribor, che indica il
prezzo al quale le banche si scambiano denaro)
oppure quelli a medio-lungo (i rendimenti delle
obbligazioni bancarie, a loro volta influenzati dai
fattori di rischio) sono alti o bassi?
• c) il grado di concorrenzialità del settore bancario.
Per una banca, il costo di reperire sul mercato un
euro addizionale è il costo marginale….la dimensione
del mark-up (P/MC) è influenzata dal grado di
concorrenzialità del settore.
Affermazione n.9
• I governi non avrebbero dovuto salvare le banche,
che sono state responsabili della crisi finanziaria.
Una possibile risposta
• Che le banche siano state responsabili di gravi errori
(nella fattispecie, un utilizzo eccessivo di leva
finanziaria e una errata valutazione del rischio), è
fuori dubbio. Al limite si può discutere di quanto la
«colpa» sia anche della cattiva (o assente)
regolamentazione.
• Tuttavia, una volta che il sistema bancario si è
trovato sull’orlo del fallimento in tutto il mondo
occidentale, i policy-maker hanno semplicemente
dovuto affrontare questa domanda: era possibile un
sistema economico senza banche?
• Non è possibile un sistema economico senza un sistema
finanziario, che ha il compito di incanalare il risparmio
verso gli investimenti («mercato dei fondi mutuabili»).
• Questo compito può essere svolto o dal mercato dei
capitali (in cui chi domanda fondi si rivolge direttamente
a chi offre fondi, emettendo strumenti finanziari quali
obbligazioni e azioni) o dal sistema bancario (in cui
esistono intermediari – appunto, le banche – che
mediano tra domanda e offerta di fondi).
• Negli Stati Uniti, il 70% del credito passa per il mercato
dei capitali, e il 30% nel mercato bancario. In Europa
queste percentuali sono invertite. In Italia, il 90% passa
per il settore bancario.
• Per cui, di fronte ad un sistema bancario che stava
collassando, la scelta di lasciarlo fallire avrebbe
implicato:
• A) un pesantissimo shock finanziario che si sarebbe
trasmesso all’economia reale (pensate a quello che è
successo con il fallimento della sola Lehman
Brothers)
• B) sostituire la funzione svolta dal sistema bancario
con un mercato dei capitali molto sviluppato (e
quindi sviluppare la Borsa, permettere alle piccole e
medie imprese di emettere strumenti finanziari, ecc).
SE VOLETE UN AIUTO NEL
RICOMPORRE I PEZZI DEL MOSAICO
• “Epilogo” sul libro, pp. 463-468
• “Quel che sappiamo e quel che ancora non
sappiamo”
THE END.
• Di tutte le frasi celebri dette da John Kennedy,
se ne ricordano sempre solo alcune.
• “Non chiedetevi cosa può fare il Paese per voi,
ma cosa voi potete fare per il Paese” è forse
quella che avete sentito più spesso. E’ tratto
dal suo discorso inaugurale, il 20 Gennaio
1961.
• In effetti non è facile scegliere il suo discorso
più bello.
• Il mio preferito è quello che tenne in
un’Università (l’American University di
Washington), il 10 giugno 1963, pochi mesi
prima di essere ucciso a Dallas, in circostanze
che ancora oggi rimangono oscure.
• In quell’indimenticabile discorso
(http://www.jfklibrary.org/AssetViewer/Aw3MwwJMf0631R6JLmAprQ.aspx)
citò due suoi predecessori.
Il terzo presidente degli USA, Thomas
Jefferson
• “Se questa nazione deve rimanere libera,
allora deve liberarsi dall’ignoranza”.
…e il 28esimo presidente, Woodrow
Wilson
• “Every man sent out from a
university should be a man of his
nation as well as as a man of his
time”
•GRAZIE