EPIGRAFIA ROMANA (ISTITUZIONALE)

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EPIGRAFIA ROMANA
(ISTITUZIONALE)
PROF. ALFREDO VALVO
A.A. 2015-16
Università Cattolica del Sacro Cuore - Facoltà di Lettere e Filosofia
Introduzione
Il corso (o seminario) di Epigrafia romana, per la facoltà di Lettere e Filosofia al completo, in tutti i
curricula disponibili, è tenuto dal professor Alfredo Valvo. Esso è esclusivamente istituzionale,
ossia dedito a spiegare i fondamenti ed i contenuti della disciplina, essendo uguale di anno in anno e
non variando, per cui non c’è necessità di controllare l’anno accademico di appartenenza. Esso
tratta l’epigrafia nel mondo latino repubblicano ed imperiale, facendo dei cenni teorici sulla storia
della disciplina, su metodi, strumenti e raccolte dell’epigrafia, sull’onomastica, le magistrature e
l’avanzamento territoriale romano, sull’alfabeto e molto altro, ma soprattutto concentrandosi su
lettura e commento delle epigrafi a partire dalle immagini proiettate in aula. Per affrontare il corso è
necessaria una buona conoscenza della storia romana ed una elementare conoscenza della lingua
latina. La bibliografia da preparare per l’esame consiste negli appunti delle lezioni, che rimangono
fondamentali, e nei due saggi A. Valvo, Piazza della Loggia: primo museo epigrafico d’Italia, in
Tradizione, trasmissione, traslazione delle epigrafi latine, a cura di F. Gallo - A. Sartori, Roma,
Bulzoni, 2015, pp. 37-52, ed A. Garzetti, Appendice di esercitazioni epigrafiche, in Id.,
Introduzione alla storia romana, Milano, Cisalpino, 19957, pp. 115-63. Per approfondimenti, si può
consultare A. Buonopane, Manuale di epigrafia latina, Roma, Carocci, 2009.
Nella presente dispensa sono riprodotti in maniera molto esauriente e completa gli appunti di tutte
le lezioni del professore, divisi in parte teorica, in cui si spiegano gli argomenti salienti di tipo
nozionistico, ed in parte pratica, quella preponderante, in cui si commentano le epigrafi,
trascrivendone sempre il testo e la traduzione italiana oltre al commento storico e linguistico. Le
immagini delle epigrafi sono in jpg e verranno fornite insieme alla dispensa scrivendo a
[email protected]. L’esame consiste in un colloquio orale in cui il professore interroga a
partire dall’immagine di qualche iscrizione, che chiede di leggere e commentare (e magari anche
tradurre), traendone i contenuti storici soprattutto, in minor parte linguistici.
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PARTE TEORICA
Introduzione
- L’epigrafia è una scienza autonoma solo a partire dalla scuola italiana di Attilio Degrassi, nata alla
metà del XX secolo, mentre per i secoli passati è stata una scienza ausiliaria della storia. Trattando
di fonti non letterarie, si occupa solo in minima parte di storia politica e militare, ma soprattutto di
storia sociale ed economica, andando spesso a smentire quelle letterarie ed essendo perciò più
realistiche. Esiste un’epigrafia di carattere archeologico, che si occupa della forma, cioè del
materiale scrittorio, della bellezza, della funzione all’interno della statua o del monumento, ma
esiste anche un’epigrafia di carattere storico, che si occupa del contenuto delle epigrafi, che serve
alla ricostruzione storica. Tre sono gli elementi necessari per comprendere un’epigrafe: il testo, che
deve essere chiaro e completo, senza possibilità di fraintendimenti e parti mancanti; il contesto, cioè
quando, dove e come, se per caso o per ricerca, è stata trovata l’epigrafe ed il suo livello d’uso,
ossia a che cosa serve (se è un oggetto, una parte di un monumento, se è stato riutilizzato ecc...); la
cronologia, cioè la datazione dell’epigrafe, dove l’andamento grafico data al secolo (è la paleografia
delle iscrizioni, cioè il modo di disegnare le lettere, che è tipico di alcune epoche soltanto), ma
l’anno consolare od imperiale data all’anno (cioè il nome di alcuni personaggi e delle loro cariche
politiche permette una datazione più precisa). Senza uno di questi elementi, l’epigrafe è inutile.
L’epigrafe si divide in righe, righi o linee. Lapicìda è il nome dell’incisore, ossia “colui che incide
la pietra”, dal verbo cedo, “tagliare”, e dal sostantivo lapis, “pietra”. È detto specchio epigrafico lo
spazio destinato alla scrittura. È detto supporto epigrafico il materiale su cui si scrive. È detto
rapporto modulare o modulo la dimensione, in altezza e larghezza, delle lettere incise. È detta
impaginazione la disposizione giustificata, cioè allineata in centro dai margini, dello specchio
epigrafico rispetto al materiale epigrafico.
- I segni diacritici (dal gr. diakrìno, cioè “giudicare” e quindi “distinguere”) sono dei caratteri, non
alfabetici né numerici, ma semplicemente segni, inseriti nell’edizione a stampa dell’epigrafe, che
servono a meglio precisare la lettura del testo: 1) il punto sotto di una lettera significa che tale
lettera è certa, anche se nell’epigrafe può essere caduta od illeggibile; 2) le parentesi quadre
indicano un’integrazione da parte dell’editore su di una o più lettere mancanti, che il lapicida ha
inciso ma sono illeggibili o cadute; 3) le parentesi tonde indicano lo scioglimento di
un’abbreviazione, perché le epigrafi, non avendo a disposizione molto spazio, tendono a presentare
le parole in modo abbreviato, solitamente troncandone la fine; 4) le parentesi graffe indicano
l’espunzione di una o più lettere errate, che il lapicida ha sbagliato ad incidere; 5) le parentesi
uncinate indicano l’aggiunta di una o più lettere, che il lapicida si è dimenticato, sbagliando, di
incidere.
Alfabeto e scrittura
- Nelle iscrizioni arcaiche, l’alfabeto usato dai Latini per scrivere in latino è greco oppure etrusco,
in quanto la scrittura è stata importata dai Romani da questi popoli. Peraltro, è a volte scritto in
modo sinistrorso, cioè da destra a sinistra, oppure bustrofedico, cioè seguendo l’andamento
dell’aratro, con una riga da sinistra a destra, la successiva da destra a sinistra, la successiva da
sinistra a destra e così via. Ma presto la prassi si standardizza nella scrittura destrorsa. L’alfabeto
che è importato a Roma arriva dalle colonie greche del Sud Italia ed è quello cosiddetto calcidese,
cioè usato nella città di Calcide dell’isola greca dell’Eubea e così nelle sue colonie dell’Italia
meridionale, come Cuma e Pitecussa, il quale però subentra a Roma tramite la mediazione degli
Etruschi. Prove di ciò sono il fatto che l’alfabeto romano arcaico usi il lambda calcidese per rendere
la L ed il gamma “lunato”, cioè tondeggiante, calcidese per rendere la G, ma questa lettera assume
non solo il valore di [g], bensì anche quello, che è totalmente etrusco, di [k]. Solo più avanti, al
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termine dell’età regia, i Romani approdano all’alfabeto latino propriamente detto per scrivere nella
propria lingua. Dall’età repubblicana in avanti, allora, l’alfabeto è latino ed è completo. L’unica
particolarità è che i Latini fino alla metà del III secolo aC utilizzano il grafema C (gamma lunato
calcidese) per rendere le occlusive velari sorda ([k], cioè la c dura di “cantina”) e sonora ([g], cioè
la g dura di “gatto”): le fonti letterarie, cioè Plutarco e Quinto Terenzio Scauro, tramandano che il
grafema G (ad indicare occlusiva velare sonora) viene introdotta soltanto con la riforma ortografica
di Spurio Carvilio, liberto del console omonimo del 234 aC (ecco perché, ad esempio, spesso Gaius
si trova scritto Caius). Infine, gran parte delle iscrizioni latine sono in scriptio continua, cioè scritte
senza la separazione tra le parole, e questo è valido sia per le iscrizioni arcaiche sia per quelle
imperiali (con al massimo dei puncti distinguentes, cioè dei punti tra alcune parole importanti per
segnare una pausa): ciò è dato da un lato per risparmiare spazio, dall’altro perché anche nei
manoscritti di papiro o pergamena non si usava lasciare spazio tra le parole, essendo facile per un
latino nativo capire dove finisce l’una e dove inizia l’altra. Le iscrizioni epigrafiche sono, inoltre,
sempre e comunque tutte maiuscole, mentre solo difficilmente e solo in età arcaica qualche lettera
può essere in corsivo.
Praenomen, nomen e cognomen
- In modo standard, il nome romano ha tre forme: il praenomen è uno dei quattordici nomignoli
canonici (Aulo, Gaio, Gneo, Decimo, Lucio, Marco, Manio, Publio, Quinto, Servio, Sesto, Spurio,
Tito, Tiberio) e si scrive per lo più abbreviato; il nomen è il gentilizio, cioè quello che indica
l’appartenenza della famiglia ad una gens (ad esempio, Cornelius, Tullius, Iulius, Claudius, Manlius
indica che si fa parte della gens Cornelia, Tullia, Iulia, Claudia, Manlia ecc...); il cognomen è il vero
e proprio nome personale di un individuo, il quale o è di nascita, cioè scelto dai genitori all’atto
della venuta al mondo, oppure è ex virtute, cioè è dato in vita per particolari meriti (l’Africano,
l’Emiliano, felix per le vittorie militari ecc...), per la fisiognomia (Calvus è calvo, Barbatus porta la
barba, Balbus balbetta, Cincinnatus ha i capelli ricci, Cicero ha un cecio nell’occhio, Vago ha
l’alluce sporgente, Graccus gracchia, Paulus è piccolo, Severus, Tacitus e Tranquillus sono buoni
ecc...).
- In età repubblicana avanzata, dopo praenomen e nomen, ma prima del cognomen, subentrano altri
elementi: 1) il patronimico, che non tutti hanno, ma mantengono solo quelli che non tradiscono la
propria origine (ad esempio, Lucii filius, Gaii nepos ecc... unico nella storia è Augusto che, avendo
divinizzato Cesare, diventa divi filius); l’ascrizione tribale, cioè l’indicazione del distretto
anagrafico da cui la famiglia, originariamente, proviene, in modo da razionalizzare la distribuzione
dei soli cittadini romani in senso geografico, ma non sempre è riportato, quasi fosse facoltativo,
dato che chi non possiede la cittadinanza non può averlo (i Milanesi erano Ouf., cioè Oufentina
tribu, i Bresciani erano Fab., cioè Fabia tribu). I cittadini adottati assumono nomen e cognomen
della famiglia adottiva, aggiungendo però anche il nome della famiglia d’origine con il suffisso –
anus (ad esempio Lucio Cornelio Scipione Emiliano indica un individuo proveniente dalla gens
Aemilia ed adottato dagli Scipiones della gens Cornelia, così come Augusto si chiama Gaio Ottavio
ma, adottato da Cesare, diventa Gaio Ottaviano). Le donne assumono come unico nome il
femminile del nomen del padre, quindi ci sono moltissime Cornelia, Tullia, Iulia, Aemilia, dove
però il nome poi non corrisponde più alla gens, dato che la donna passa giuridicamente nella
famiglia del marito una volta che si sposa e non appartiene più alla sua gens d’origine; inoltre, se
erano più d’una, venivano contraddistinte da un aggettivo numerale ordinale (secunda, tertia ecc...).
- Lily Ross Taylor, studiosa americana, è l’unica ad aver ricostruito la storia dell’ascrizione tribale
nei nomi romani, cui gli studi danno sempre poco rilievo, poiché, con l’età imperiale, va
scomparendo l’ascrizione geografica delle tribù. I cognomina iniziano ad essere indicati nella
sequenza onomastica solo a partire dal IV-III aC, quindi tutti i personaggi anteriori a questi tempi,
di cui le fonti letterarie riportano il cognome, sono inventati.
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- Dato che quasi ogni iscrizione, se integra, riporta qualche nome, è l’onomastica la branca di
maggior interesse e studio dell’epigrafia. I Finlandesi sono i maggiori studiosi odierni di
onomastica latina.
- Lucio Cornelio Silla, nell’81 aC, compila le sue liste di proscrizione, mandando a morte i suoi
nemici, esiliandoli o confiscandone il patrimonio, e così facendo decide di liberare i servi di questi
personaggi, rendendo liberti circa 10000 schiavi: dato che gli schiavi prendono il nome di chi li ha
liberati, negli anni ’70 sono attestati un numero spropositato di liberti e figli di liberti chiamati
Lucio Cornelio.
- Si può adottare un nuovo cognomen o modificare quello ricevuto facendone richiesta davanti ai
comizi curiati.
[...]
PARTE PRATICA
365) La fibula Praenestina, dal nome latino della città di ritrovamento, Praenestis, cioè a Preneste,
oggi Palestrina, nel Lazio, è scoperta nel 1871 da Wolfgang Helbig e conservata nel museo Pigorini
a Roma. Si tratta di una spilla a forma di dragone. La fibula è l’odierna fibbia, appunto uno spillone
per fermare sulla spalla destra la toga romana. Essa presenta una scritta sinistrorsa in caratteri
greco-etruschi, dove è la spilla che parla (in prosopopea, come succede sempre negli oggetti)
dicendo il dedicatario e l’artigiano costruttore. Non c’è stacco tra le lettere: si tratta di scriptio
continua. È datata al VI secolo aC, però uno studio di Margherita Guarducci del 1980 ne
dimostrerebbe l’inautenticità, dato che secondo la studiosa è fatta con un pantografo, cioè un
attrezzo contemporaneo degli architetti che ricalca una scritta preesistente, inoltre nell’analisi
materiale è risultata presente l’acqua ragia, che si usa per anticare gli oggetti e non è esistita prima
del Seicento. Quello che la rende così vera (o così facilmente e desideratamente credibile) è il fatto
che in poche parole sono raccolte e confermate tutte le ipotesi fatte dai glottologi sul latino arcaico.
Il testo recita “Manios med fhefhaked Numasioi”, cioè “Manio (oppure un bravo artigiano) mi ha
fatto per Numerio”. Manios è nominativo singolare come nella prima declinazione greca (-os),
tipico del latino arcaico prima dell’oscuramento da o in u (Manius), ma non si sa che cosa
significhi, eppure immanis in latino significa feroce, cattivo, dunque qua, senza il prefisso privativo
in-, vorrà dire “buono”, “bravo” lavoratore; forse invece è il nome proprio dell’artigiano costruttore.
Med è accusativo me con la -d epitetica alla fine, tipico del latino arcaico per i pronomi personali
(med, ted ecc…). Fhefhaked è un indicativo perfetto di facio, ma non come il classico feci, bensì su
modello dei perfetti greci, che molto spesso raddoppiano (in latino si trova in verbi come fefelli,
tetigi, cucurri ecc...). Numasioi è il dativo singolare greco, senza lo iota sottoscritto, e qui indica un
dativo arcaico latino, di vantaggio, prima ancora del rotacismo della s intervocalica, che poi diverrà
r (infatti in forma classica il nome è Numerius, non Numasius).
- 143) Ad Aquileia, nel Museo Nazionale, è presente questo cippo di pietra, trovato nel foro di
Aquileia. Aquileia è una delle più antiche e prestigiose città del mondo italico (il suo museo
epigrafico è secondo per numero soltanto a quello di Roma), dedotta a colonia nel 181 aC come
colonia di diritto latino da parte dei triumviri romani Lucio Manlio Acidino, Publio Scipione Nasica
e Gaio Flaminio, mandati dal senato romano a sbarrare la strada ai barbari che minacciavano i
confini orientali d’Italia. La sbozzatura dei caratteri sembra arcaica, nonostante la lapide sia
certamente posteriore al 181, ed il corpo inferiore è certamente ribassato, nel senso che l’iscrizione
è stata cancellata grattandola via e perciò “abbassando” l’intero specchio epigrafico, per poter poi
riscrivere sopra quanto si legge ora. “L(ucius) Manlius L(ucii) f(ilius) Acidi[nus] tri[umvir]
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Aquileiae colonia[e] deducundae”, cioè “Lucio Manlio Acidino, figlio di Lucio, triumviro, per
dedurre la colonia di Aquileia. Acidìno è il cognome di questo personaggio, triumviro della colonia.
Arcaismo è deducunda per deducenda: si tratta di un gerundivo con valore finale. Nel foro di
Aquileia c’era una statua che ricordava il fondatore della colonia: si tratta di questo Lucio Manlio
Acidino. La prima linea è più grande delle altre linee. La paleografia fa risalire l’iscrizione alla metà
del II aC: la m è ancora un po’ divaricata, la n ha il tratto obliquo sghembo, la a è molto divaricata;
tuttavia, non è arcaica, perché i tratti sono già dritti e squadrati.
- 167) Si tratta del celebre ponte Fabricio a Roma, sul Tevere, che è il più antico ponte romano
conservato nella sua struttura e nei suoi materiali originari (ponte Milvio e ponte Sublicio in
principio erano in legno). Esso collega l’Isola Tiberina alla terraferma sul lato orientale. È formato
da due arcate a sesto ribassato. L’epigrafe è incisa direttamente sui materiali lisci del ponte, nelle
sue arcate, e si trova identica da entrambi i lati e su entrambe le arcate, come a mostrarla a tutto il
mondo (questo stilema della doppia iscrizione, su ambedue i lati, in un ponte si trova anche nel
monte di Tiberio a Rimini: doveva quindi essere una prassi nota e diffusa), quindi è ripetuta per ben
quattro volte. L’isola Tiberina si trova sul Tevere ed è una sorta di guado utile al passaggio del
fiume: dall’inizio del III aC era un luogo in cui si ospitavano le persone malate, a mo’ di antico
lazzaretto, dato che un serpente, simbolo della medicina, imbarcatosi a Pessinunte, vicino a Troia, è
sbarcato sull’isolotto con una nave da carico e lì ha deciso di stabilirsi, di conseguenza i Romani vi
hanno costruito un tempio al dio Esculapio, protettore della medicina; attorno alla metà del I secolo
viene modificata, con terrapieni e calcestruzzo, affinché abbia simbolicamente una forma di nave,
così al centro dell’isola si pone un obelisco per farlo sembrare l’albero maestro della nave. È
proprio in questo periodo di modifica strutturale dell’isola che si crea il ponte Fabricio, accanto al
suo gemello, che collega alla terraferma sul lato occidentale, il ponte Cestio, non sopravvissuto.
L’iscrizione recita “L(ucius) Fabricius G(ai) f(ilius) cur(ator) viar(um) faciundum coeravit
eidemque probabit”, cioè “Lucio Fabrizio, figlio di Gaio, curatore delle strade, si è curato di far(lo)
ed ha approvato lo stesso”. Si noti l’imprecisione linguistica di coeravit al posto di curavit ed il
dittongamento, sintomo di un arcaismo ormai improbabile a quei tempi, per cui i è ancora ei in
eidemque al posto di idemque. Colloquiale è il costrutto di curo più il gerundivo, ma attestato nella
lingua dell’uso, mentre il verbo probo ha qui un significato tecnico che è quello del collaudo degli
edifici. L’iscrizione attesta quindi la costruzione del ponte da parte di Lucio Fabricio, un curatore
delle strade, nel 62 aC. Il ponte viene poi restaurato dai consoli Marco Lollio e Quinto Lepido nel
23, come attesta un’iscrizione più piccola posta sui due lati di una sola arcata, a causa di una piena
del fiume. I Romani sono storicamente abili nella costruzione dei fiumi, che risparmiano tempo e
fatica nelle comunicazioni commerciali e pure in guerra: essi deviano il corso del fiume con degli
ostacoli, creando un vuoto nell’acqua che, asciutta, permette di piantare dei piloni, su cui poi
innestano le passerelle.
- 213) “Vieam [p]recaream”, cioè “Via temporanea”. È un cippo ben spianato lungo tutta la
superficie, anche quella anepigrafa, che si pone sotto terra. L’uso di vieam per viam è
probabilmente un errore fonetico del lapicida. La desinenza am è espressa in nesso, cioè facendo
coincidere il lato destro della A con quello sinistro della M. Paleograficamente, le lettere sono
abbastanza diritte, ma non raggiungono la perfezione augustea, dato che la m è ancora molto
divaricata. Questo cippo esprime lo stesso concetto della targa precedente: è proprietà privata, ma si
concede il passaggio.
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