001225/01 copertina+retro+costa 29-05-2002 I I T TEMI 15:24 Pagina 1 E M S DELLA NUTRIZIONE Alterazioni metaboliche lipidiche Prevenzione multifattoriale dell’arteriosclerosi e controllo delle dislipidemie A cura di Alberto Notarbartolo Professore Ordinario. Direttore Dipartimento di Medicina Clinica e Patologie Emergenti. Cattedra di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo Con la collaborazione di Maurizio Averna, Carlo Maria Barbagallo, Vittorio Bottazzi, Angelo Cefalù, Silvia Decarlis, Lorena Fusaro, Ermanno Lanzola, Alberto Lombardi, Davide Noto, Francesco Polizzi, Enrica Riva, Gabriele Scalisi, Jacopo Tagliabue, Carlo Vergani ISTITUTO DANONE 011225/01 Prime 29-05-2002 15:23 Pagina II ISTITUTO DANONE P ER LA R ICERCA E LA C ULTURA M O T I VA Z I O N I DELLA E N UTRIZIONE OBIETTIVI anone è una società multinazionale operante nel settore alimentare. La sua “mission” istituzionale è quella di migliorare l’alimentazione umana, sia con prodotti di alta qualità ed elevato valore nutrizionale, sia con iniziative di ricerca e di divulgazione scientifica. In quest’ottica ha deciso di destinare risorse alla ricerca e alla cultura della nutrizione, dando vita all’Istituto Danone. D L’Istituto Danone si prefigge di: Incoraggiare la ricerca scientifica sul rapporto tra alimentazione e salute Promuovere una corretta educazione alimentare Diffondere i risultati della ricerca nutrizionale presso gli operatori della salute e dell’educazione alimentare Costituire un anello di giunzione tra il mondo scientifico e gli operatori della salute e dell’educazione alimentare Gli obiettivi dell’Istituto Danone sono quindi: Conoscere – attraverso la promozione di ricerche, proprie o di terzi, nel settore nutrizionale Far conoscere – attraverso attività editoriali e congressuali mirate a diffondere la cultura della nutrizione Per adempiere a questa missione, l’Istituto Danone si avvale di un Comitato Scientifico che rappresenta l’elemento propositivo, la fonte delle conoscenze e il garante della scientificità di tutte le attività dell’Istituto stesso. A far parte di questo Comitato sono stati chiamati, tra i massimi esperti nazionali dei vari settori della nutrizione umana, i professori Marcello Giovannini (Presidente), Ermanno Lanzola e Carlo Vergani (Vicepresidenti), Vittorio Bottazzi, Michele O. Carruba, Alberto Notarbartolo, Gianfranco Piva, Pierpaolo Resmini ed Enrica Riva. Sede Istituto Danone: Via Alserio, 10 – 20159 Milano 011225/01 Prime 29-05-2002 15:23 I I Pagina III T TEMI E M S DELLA NUTRIZIONE Alterazioni metaboliche lipidiche Prevenzione multifattoriale dell’arteriosclerosi e controllo delle dislipidemie A cura di Alberto Notarbartolo Professore Ordinario. Direttore Dipartimento di Medicina Clinica e Patologie Emergenti. Cattedra di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo Con la collaborazione di Maurizio Averna Alberto Lombardi Professore Associato di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo Specialista in Geriatria Cattedra di Gerontologia e Geriatria Università degli Studi di Milano Carlo Maria Barbagallo Ricercatore Cattedra di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo Vittorio Bottazzi Direttore Istituto di Microbiologia e Centro Ricerche Biotecnologiche Università Cattolica di Piacenza e Cremona Angelo Cefalù Dottorando di Ricerca Cattedra di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo Silvia Decarlis Specialista in Pediatria Clinica Pediatrica Ospedale San Paolo Università degli Studi di Milano Lorena Fusaro Specialista in Geriatria Cattedra di Gerontologia e Geriatria Università degli Studi di Milano Davide Noto Assistente Divisione di Medicina Interna Dottorando di Ricerca Cattedra di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo Francesco Polizzi Assistente Divisione di Medicina Interna Dottorando di Ricerca Cattedra di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo Enrica Riva Direttore Cattedra di Neonatologia e Patologia Neonatale Ospedale San Paolo Università degli Studi di Milano Gabriele Scalisi Assistente Divisione di Medicina Interna Dottorando di Ricerca Cattedra di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo Jacopo Tagliabue Specialista in Geriatria Cattedra di Gerontologia e Geriatria Università degli Studi di Milano Ermanno Lanzola Carlo Vergani Già Direttore del Centro Ricerche sulla Nutrizione Umana e la Dietetica Università degli Studi di Pavia Direttore Cattedra di Gerontologia e Geriatria Università degli Studi di Milano 011225/01 Prime 29-05-2002 15:23 Pagina IV Supplemento a “Lettera dell’Istituto Danone - ITEMS NEWS” Direttore Scientifico: Marcello Giovannini Comitato di Redazione: Vittorio Bottazzi, Michele O. Carruba, Ermanno Lanzola, Alberto Notarbartolo, Gianfranco Piva, Pierpaolo Resmini, Enrica Riva, Carlo Vergani Segreteria Scientifica: Carlo Agostoni, Arturo Della Torre Direttore Responsabile: Marcello Giovannini Editore e Redazione: Élite Communication Srl - Via Morimondo 2/5 - 20143 Milano Registrazione del Tribunale di Milano n. 567 del 17.09.1999 Tutti i diritti riservati Nessuna parte può essere riprodotta senza l’autorizzazione scritta dell’Editore Finito di stampare nel mese di Aprile 2002 Stamperia Artistica Nazionale - Torino 011225/01 Prime 29-05-2002 I 15:23 Pagina 3 ndice Introduzione 5 A. Notarbartolo L’approccio clinico, preventivo e terapeutico al paziente con patologie metaboliche aterogene 23 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici 85 E. Lanzola Stress ossidativo e antiossidanti naturali 111 M. Averna, C.M. Barbagallo, A. Cefalù, D. Noto Alimentazione e geni 121 M. Averna, A. Cefalù, A. Notarbartolo, D. Noto La genetica delle iperlipidemie 135 M. Averna, A. Cefalù, D. Noto Le ipoalfalipoproteinemie 149 L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento 161 S. Decarlis, E. Riva Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri V. Bottazzi 3 179 0441225/01 introduzione I 29-05-2002 15:22 Pagina 5 ntroduzione A. Notarbartolo È passato molto tempo dalle osservazioni di Anitschkow, che nel 1913 gli fecero pronunziare la frase: “non ci può essere ateroma senza colesterolo”; durante i successivi novant’anni su questo problema ci sono state infinite discussioni e spaventose dispute, che si sono rivelate stimolanti ma in gran parte sterili. Difatti i risultati dei recenti trial di prevenzione primaria e secondaria hanno dimostrato in modo inequivocabile che la riduzione del colesterolo plasmatico riduce la mortalità e morbosità coronarica del 30-40%, sia in soggetti con pregressa coronaropatia che in soggetti a rischio, utilizzando consigli alimentari, farmaci o entrambi. In questa introduzione, pertanto, io farò una breve storia di questo lungo percorso, accidentato, ma ricco di risultati clinici attuali e di promesse di nuove scoperte biologiche future. Nel 1948 a Framingham, piccola cittadina a ovest di Boston, iniziò un incredibile studio epidemiologico i cui ri- sultati sono a tutti noti, che dura tuttora e che ha coinvolto 2/3 della popolazione costituita da americani di ceppo italiano e irlandese. Questo studio ha contribuito a stabilire l’esistenza di una correlazione diretta tra mortalità coronarica e LDL-colesterolo (LDL-C) e inversa con l’HDL-C, che ha un effetto protettivo antiaterosclerotico, ed è attualmente la base su cui sono state costruite le Linee Guida di prevenzione cardiovascolare più diffuse nel mondo. In un capitolo apposito Carlo Barbagallo discuterà a fondo delle Linee Guida e della loro utilizzazione. Il colesterolo è stato citato come la “molecola più decorata in biologia”, poiché ben 13 premi Nobel, a iniziare dal 1928, se ne sono occupati, e in particolare M. Brown e J. Goldstein, a cui si deve la scoperta che il difetto del catabolismo delle LDL, che fa aumentare in modo drammatico il colesterolo nel sangue, è dovuto a un’alterazione specifica dei recettori per le LDL sulla superficie cellulare dei pazien- 5 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 6 Introduzione ti affetti da ipercolesterolemia familiare. Ma l’equazione “abbassare la colesterolemia per ridurre morbosità e mortalità coronarica” era altamente contestata nei primi anni settanta e ottanta. Nel 1975 furono pubblicati i risultati del Coronary Drug Project (CDP) su JAMA: questo studio aveva tentato di stabilire se in pazienti coronaropatici la somministrazione di clofibrato in una coorte di pazienti e di acido nicotinico nell’altro braccio per 5 anni fosse in grado, rispetto al trattamento convenzionale, di ridurre l’incidenza di nuovi eventi. Purtroppo i risultati immediati furono deludenti, e solo a distanza di 12 anni si constatò una piccola ma significativa riduzione della mortalità coronarica nei pazienti che erano stati trattati con acido nicotinico. Nel 1978 furono pubblicati sul Br Heart J i risultati del primo studio di prevenzione primaria con clofibrato, che dimostravano un’importante riduzione degli eventi non fatali coronarici; ma il farmaco, come ricorderanno i più anziani fra i lettori, dava notevoli disturbi gastrointestinali e calcoli colecistici, e un’analisi dei risultati dopo 9 anni di monitorraggio della casistica trattata dimostrò un aumento del 25% della mortalità totale nei trattati: questa fu una sentenza di morte per il clofibrato, ma anche un grave arresto lungo la strada della dimostrazione della giustezza dell’“ipotesi lipidica” dell’aterosclerosi e dei vantaggi per i pazienti derivanti dall’intervento sull’alterato pattern metabolico lipidico. Dunque agli inizi degli anni ottanta i nemici dell’“ipotesi lipidica” trionfavano e non sembrava che si muovesse nulla per la prevenzione dell’aterosclerosi; quella che era stata definita l’epidemia del XX secolo, l’aumento della mortalità coronarica verificatasi nei paesi altamente industrializzati negli anni cinquanta-sessanta e settanta, era stazionaria o tendeva a ridursi lentamente; si avvertivano i benefici della diffusione, nei paesi con SSN più ricco di risorse, delle unità di cura intensiva cardiologica, ma l’incidenza di episodi non fatali di cardiopatia ischemica era sempre elevata. La decade compresa tra il 1980 e il 1990 era tuttavia densa di avvenimenti importanti e di risultati promettenti. Nel 1981 veniva pubblicato l’Oslo Diet Heart Study condotto per 5 anni su soggetti maschi norvegesi sani; era uno studio di prevenzione primaria le cui misure fondamentali erano costituite da una riduzione del fumo (45% in meno) e del contenuto di grassi saturi e di colesterolo della dieta (con un calo del 6 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 7 A. Notarbartolo 13% della colesterolemia media totale). Il risultato, 45% in meno di eventi coronarici, non era chiaro tuttavia se fosse dovuto alla riduzione del fumo o a quella della colesterolemia. In realtà, come è stato dimostrato a Framingham proprio in quegli anni, quando i fattori di rischio coronarico si sovrappongono nello stesso soggetto, aumentano in senso geometrico la loro capacità aterogena; se un soggetto con colesterolemia di 200 mg/dl ha un rischio relativo (RR) di cardiopatia ischemica di 1, un soggetto con 260 mg/dl ha un RR raddoppiato, ma se interviene un secondo fattore di rischio il RR aumenta di 7-8 volte, e così via. Pertanto i vantaggi della contemporanea, stabile eliminazione per molti anni di 2 o 3 fattori di rischio induce una riduzione drammatica degli eventi, laddove l’eliminazione di un solo fattore di rischio ha un effetto modesto. In realtà, tornando all’Oslo Diet Heart Study, due più piccoli studi, e cioè il Los Angeles VA (Veterans Administration) condotto su reduci americani dalla guerra, e il London MRC con olio di soia, avevano ottenuto, riducendo i grassi saturi della dieta e sostituendoli con soia o grassi polinsaturi, un effetto benefico sulla colesterolemia. Tutti questi tentativi di indurre una riduzione della colesterolemia manipolando le abitudini alimentari di soggetti a rischio, prendevano spunto dalle osservazioni epidemiologiche del Seven Countries Study condotte per un ventennio da Ancel Keys e altri ricercatori, tra cui l’italiano A. Menotti, in gruppi di popolazione di tutto il mondo. Esse avevano evidenziato a 10 anni un’alta mortalità coronarica in popolazioni occidentali, USA, Finlandia, Europa del Nord, che avevano un alto consumo di grassi saturi e un’elevata colesterolemia, rispetto a popolazioni mediterranee del Sud Europa, che fanno largo uso di olio d’oliva e vegetali o legumi, o addirittura giapponesi, che hanno una dieta a base di pesce, riso e soia, e hanno valori di colesterolo sierico inferiori di circa 1/3 e una mortalità coronarica altrettanto più bassa, del 50-80%. Queste evidenze scientifiche non furono tradotte in quel periodo in campagne nazionali di miglioramento della qualità dell’alimentazione né in un interesse particolare da parte dei medici di medicina generale affaccendati nella routine quotidiana, o dei cardiologi interamente concentrati sull’aspetto tecnicistico e interventistico della loro pratica. Tuttavia in Finlandia, nel North Karelia, regione in cui la mortalità coronarica era particolarmente elevata, le autorità locali, motivate dai risultati di que- 7 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 8 Introduzione sti studi, decisero di intervenire sulla salute pubblica incoraggiando l’abbandono dell’abitudine al fumo e introducendo variazioni alimentari, negli anni tra il 1972 e il 1992. I cambiamenti della dieta consistettero fondamentalmente nella sostituzione del burro con margarine vegetali, nell’uso di latte parzialmente scremato rispetto al latte intero, di olio di semi di ravizzone (l’unico prodotto nel paese) per motivi economici come condimento al posto di altri grassi saturi, carne di maiale magro al posto delle carni grasse; inoltre il consumo di frutta fresca e vegetali triplicò. Il risultato di questi sforzi è che la mortalità cardiovascolare si è ridotta del 70% nel North Karelia; ma anche quella da tumori è ridotta del 45% e del 48% la mortalità generale. Come succede sempre quando si inducono importanti cambiamenti dello stile di vita, si sono avvantaggiati soprattutto donne e uomini giovani, mentre nei soggetti nel range d’età tra 65 e 74 anni la mortalità si ridusse meno, probabilmente perché gli anziani sono meno propensi a cambiare abitudini inveterate. Bisogna dire che le autorità sanitarie finlandesi si dedicarono, spinte dall’alta mortalità cardiovascolare e generale della loro regione, a campagne pubbliche di stimolo sulla popolazione, condotte da leader locali o internazionali stimati, a monitorare i supermercati e l’industria alimentare, a diffondere i consigli fin nei più piccoli villaggi, organizzando gare rivolte a premiare coloro che raggiungevano il valore più basso del colesterolo. Comunque questi metodi innovativi hanno dato il loro frutto, e questi risultati restano unici nella storia mondiale della sanità pubblica. Sul versante farmacologico il decennio compreso tra il 1980 e il 1990 fu particolarmente proficuo. Due grandi trial randomizzati e controllati con placebo (RCT) videro la luce: il Lipid Research Clinics Primary Prevention Trial con colestiramina, pubblicato nel 1984, e l’Helsinki Heart Study con gemfibrozil, pubblicato nel 1987. Il primo, su gruppi di popolazione maschile seguita per 5 anni nelle cliniche dei lipidi presenti su tutto il territorio nordamericano, documentò una riduzione degli eventi coronarici del 19% di contro a una riduzione media di colesterolo di 20 mg circa; il secondo, su una popolazione maschile finlandese seguita per 5 anni, documentò una riduzione degli eventi coronarici non mortali superiore al 30%, in seguito a una modesta diminuzione del colesterolo totale, ma una spiccata riduzione dei trigliceridi circolanti e un significativo aumento del- 8 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 9 A. Notarbartolo Tabella 1 Riduzione di LDL-C Correlazione tra la % di riduzione di LDL-C e la % di riduzione del rischio di CHD nel LRC-CPPT. Riduzione del rischio di CHD 11% 19% 35% 49% l’HDL-C. Anche per questi RCT arrivarono le critiche soprattutto dei cardiologi. Per quello condotto con colestiramina il risultato sembrò modesto e clinicamente irrilevante, ma un’attenta lettura dei dati mostra che nei pazienti aderenti alla terapia, a una buona riduzione dei valori basali di colesterolemia corrispondeva una caduta degli eventi coronarici del 40%, molto più elevata rispetto a coloro che non rispettavano le dosi di farmaco suggerite e in cui la riduzione modesta degli eventi corrispondeva a un modesto abbassamento del loro colesterolo sierico (Tab. 1); questa è la dimostrazione che riduzione di LDL-colesterolo (LDL-C) circolante e calo degli eventi coronarici vanno di pari passo, e il primo è direttamente causa del secondo, come era stato dimostrato negli studi sugli animali da esperimento e in quelli osservazionali epidemiologici. Per l’HHS condotto in Finlandia, sorsero problemi circa la sicurezza dei fibrati, come era già successo con il clofibrato, perché c’era stato un eccesso di mortalità generale nel gruppo farmaco, 7-8 casi, rispetto al placebo, un paio di casi, che dopo anni si scoprì essere dovuto a cause del tutto accidentali (incidenti di macchina, alcolismo, suicidi). Ulteriori prove dell’utilità di ridurre i valori di LDL-C provengono da uno studio particolarissimo condotto da Henry Buchwald e pubblicato definitivamente nel 1990, che seguì oltre 800 soggetti con pregresso infarto del miocardio, divisi in una metà seguita attentamente con la dieta, e l’altra sottoposta a bypass ileale parziale allo scopo di ridurre meccanicamente l’assorbimento intestinale di colesterolo: lo studio venne denominato POSCH, acronimo di Program On the Surgical Control of Hyperlipidemia. Lo studio era stato disegnato allo scopo di dimostrare se una stabile riduzione del colesterolo sierico, senza alcun intervento farmacologico, fosse in grado di indurre regressione o comunque rallentare la progressione delle placche coronariche, studiate con un sistema computerizzato angiografico in grado di calcolare su tutto l’albero coronarico visualizzato l’entità e il numero delle lesioni e le loro modificazioni dopo riduzione della colesterolemia. Il POSCH 9 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 10 Introduzione non solo dimostrò che la riduzione della colesterolemia induceva uno stop alla progressione della malattia ateromasica, ma anche che il numero di nuovi eventi coronarici nei soggetti operati era nettamente inferiore a quello dei soggetti seguiti solo con la dieta, e che ciò non era mediato da un farmaco. In quegli anni gli studi di progressione/regressione dell’aterosclerosi coronarica divennero frequenti: il bersaglio per i cardiologi che facevano queste ricerche era terribilmente allettante perché potevano toccare con mano i benefici di una terapia, utilizzando una delle tecniche da loro adorate! Furono così ultimati gli studi CLAS (1987), che utilizzò colestiramina e acido nicotinico, e quello NHLBI tipo II, entrambi favorevoli al trattamento: essi fecero da alfieri a una decina e più di studi successivi che utilizzarono i farmaci precedenti, più recentemente anche i fibrati, e associazioni con le statine, che avevano visto la luce alla fine degli anni ottanta e di cui adesso diremo, e perfino le variazioni drastiche dello stile di vita come nel Lifestyle Study, in cui l’eliminazione del fumo, un regime alimentare tendenzialmente vegetariano e un’intensa attività fisica indussero in un gruppetto di pazienti in poco più di un anno delle visibili riduzioni dell’entità delle lesioni coronariche. Facendo una metanalisi dei risultati degli studi di regressione dell’aterosclerosi coronarica, era anche evidente che se ogni studio aveva una casistica insufficiente, combinando gli eventi verificatisi in tutti gli studi, il trattamento ipocolesterolemizzante riduceva in modo netto tra il 30 e il 40% le recidive fatali e non fatali di cardiopatia ischemica. I cardiologi dunque cominciavano a cambiare parere, e nei grandi paesi occidentali, in testa gli Stati Uniti d’America, ma anche nell’Europa occidentale, Italia inclusa, cominciavano campagne dietetiche e sullo stile di vita, perché nel frattempo l’industria alimentare aveva confezionato tutta una serie di cibi e prodotti che sostituivano o addirittura raddoppiavano gli introiti perduti; inoltre molte multinazionali del tabacco orientavano i propri guadagni su settori del nuovo mercato alimentare. Era sbalorditivo per noi italiani, quando ci trovavamo per lavoro negli USA, accendere il televisore e vedere, durante gli spot pubblicitari, propagandati prodotti cholesterol free, ristoranti dove si mangiava senza grassi, menu contenenti spaghetti, paste alimentari, verdure e oli al posto delle creme e di dressings alla panna. Negli USA il motivo di questo cambiamento era evidente: la drastica riduzione del fumo di sigaretta, il miglioramento delle abitudini alimentari e un mi- 10 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 11 A. Notarbartolo gliore controllo della pressione arteriosa, avevano determinato un’interruzione dell’epidemia di malattia coronarica del ventennio precedente. Dunque era successo qualcosa che era andato al di là dei reali atteggiamenti preventivi dei medici di famiglia e le raccomandazioni delle Società Scientifiche, prima fra tutte quella Cardiologica, erano giunte al grande pubblico e ai mass media, bypassando gli operatori sanitari più lenti e restii di fronte alle novità scientifiche. Ma nella vecchia Europa, Italia all’avanguardia, lo scetticismo impera e dilaga, per cui si vedono guru dell’informazione con un antico retroterra scientifico, prevenuti, andare in televisione e sparare a zero sulle evidenze scientifiche, salvo cambiare totalmente idea dopo 4-5 anni. E difatti due articoli comparsi su riviste scientifiche distruggono gran parte del lavoro di centinaia di studiosi e di un ventennio di ricerche. Il primo è di Michael Oliver, un professore di cardiologia britannico molto ascoltato che scrive “Ridurre il colesterolo non riduce la mortalità”, e il secondo di un epidemiologo clinico, Muldoon, che in una metanalisi di numerosi studi di prevenzione riconosce che agendo sui grassi alimentari o trattando con farmaci si riducono gli eventi coronarici non fatali, ma torna sull’aumento delle morti accidentali nell’HHS commentate precedentemente; uno dei trial che include nel calcolo è il Minnesota Coronary Survey, in cui in pazienti ricoverati in un ospedale per malattie mentali, sottoposti a dieta ipolipidica, si verificò di tutto (suicidi, congelamenti, ustioni, fratture, reazioni da farmaci, annegamenti e così via); ora è veramente difficile pensare che una diminuzione della colesterolemia possa avere degli effetti sfavorevoli così vari! Dunque i cardiologi commentano apertamente che alla base del loro scetticismo verso il trattamento ipocolesterolemizzante per la prevenzione primaria e secondaria della cardiologia ischemica, sta l’osservazione che anche se si riducono eventi fatali e non fatali di mortalità coronarica, non si riduce la mortalità generale. E poiché l’unica differenza tra i cardiologi e gli dei è che Dio non si proclama cardiologo, l’ipotesi lipidica, pur provata nel mondo scientifico, ha difficoltà ad essere applicata nella comune pratica clinica. L’interrogativo che ci si doveva porre all’inizio degli anni novanta era: è più importante prolungare ulteriormente la durata della vita, ormai abbastanza lunga nei paesi occidentali, oppure migliorarne la qualità riducendo il numero di eventi ischemici cardiaci e delle loro complicanze? Ma come adesso vedre- 11 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 12 Introduzione mo non ci fu tempo per aprire un dibattito su questo punto, perché alla fine del 1994 vide la luce lo Scandinavian Simvastatin Survival Study o 4S, che dimostrò una riduzione altamente significativa della mortalità generale in soggetti con pregressa CHD dopo 5 anni di trattamento con la simvastatina e una riduzione stabile della colesterolemia totale del 29%. Nella Tabella 2 sono riassunti i principali risultati ottenuti in questo trial; i risultati sono brillanti anche in termini di NNT (numero di soggetti da trattare per prevenire un evento, mortale, non mortale o entrambi) che è il più attendibile indice clinico per stabilire l’efficacia di un trattamento, in quanto corrisponde all’inverso del rischio assoluto (RA) e quindi ha incorporato il rischio basale dei soggetti trattati. Inoltre l’NNT può essere utilizzato per confrontare l’efficacia di due differenti terapie per un’identica patologia (ad esempio farmaci antipertensivi e statine nella cardiopatia ischemica per la valutazione del numero di effetti avversi), per confrontare i risultati di due diversi trial, e infine è assolutamente essenziale nello studio medico per facilitare la decisione terapeutica, perché permette di valutare Tabella 2 Scandinavian Simvastatin Survival Study (4S). Disegno dello studio e valori lipidici basali • 4444 pazienti con cardiopatia ischemica • Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato • Durata media follow-up: 5,4 anni • Simvastatina 10-40 mg/die • Valori medi lipidi basali: Colesterolo Totale 261 mg/dl LDL-C 183 mg/dl Risultati • Modificazione dei parametri lipidici: -25% Colesterolo Totale -35% LDL-C -10% Trigliceridi +8% HDL-C • -30% rischio di mortalità globale (per tutte le cause) • -34% rischio di eventi cardiovascolari maggiori • -42% rischio di decessi per CHD accertata o sospetta 12 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 13 A. Notarbartolo Tabella 3 Cholesterol and Recurrent Events (CARE). Disegno dello studio e valori lipidici basali • 4159 soggetti con valori di colesterolo medio ai limiti della norma e pregresso IMA documentato • Età media: 59 anni • Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato • Pravastatina 40 mg/die • Colesterolo Totale medio basale 209 mg/dl • LDL-C medio basale 139 mg/dl Risultati • Modificazione dei parametri lipidici: -20% Colesterolo Totale -28% LDL-C -14% Trigliceridi +5% HDL-C • -24% rischio CHD fatale o IMA non fatale • -25% rischio reinfarti fatali e non • -27% necessità procedure di rivascolarizzazione • -31% rischio stroke anche l’aspetto economico di sottoporre un paziente a un trattamento. I risultati del 4S hanno praticamente risolto la controversia all’ipotesi lipidica, e, cosa ben più importante, hanno convinto i cardiologi e di conseguenza l’opinione pubblica dell’utilità del trattamento con statine dei soggetti affetti da CHD: la diffusione di questa pratica terapeutica ha contribuito da allora a salvare la vita di centinaia di migliaia di pazienti; Oliver pubblicò due articoli su Lancet e sul BMJ, Abbassiamo il colesterolo del paziente, adesso e Le statine preven- gono la malattia coronarica, asseren- do che “…quando i fatti cambiano, io cambio opinione. Voi cosa fate?”. Il 4S aveva affrontato una coorte di pazienti con colesterolo elevato e pregressa CHD, in cui si era avuta una riduzione del rischio assoluto (RRA) del 3%. Ma è esperienza comune che molti pazienti affetti da CHD hanno valori di colesterolo compresi tra 190 e 250 mg/dl: pertanto molto importanti sono i risultati pubblicati due anni dopo quelli del 4S, ottenuti nel CARE (1996), acronimo di Cholesterol and Recurrent 13 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 14 Introduzione Tabella 4 Long Term Intervention with Pravastatin in Ischemic Disease (LIPID). Disegno dello studio e valori lipidici basali • 49014 pazienti (1516 donne) con segni di CHD • Età: 31-75 anni • Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato • Pravastatina 40 mg/die • Valori medi lipidi basali: Colesterolo Totale 213 mg/dl LDL-C 146 mg/dl HDL-C 35 mg/dl Risultati • Modificazione dei parametri lipidici: -18% Colesterolo Totale -25% LDL-C -12% Trigliceridi +6% HDL-C • -23% eventi coronarici totali • -29% infarti fatali e non fatali • -20% ictus cerebrale • -31% mortalità per tutte le cause Events, condotto in USA e Canada, e nel LIPID (1998; Long Term Intervention with Pravastatin and Ischaemic Heart Disease), condotto in Australia e Nuova Zelanda, in cui le colesterolemie medie erano rispettivamente 210 e 220 mg/dl e i pazienti seguiti 4159 nel primo e 9014 nel secondo. I principali risultati ottenuti nei due trial sono descritti nelle Tabelle 3 e 4. Il RA dei pazienti inclusi è risultato 2,3% nel CARE e 2% nel LIPID; inoltre, analizzando insieme i vari studi epidemiologici (Fig. 3, p. 54), pos- siamo arrivare ad alcune conclusioni: – i soggetti con RA più alto (4S) hanno un maggior beneficio clinico (NNT=12) rispetto a quelli con RA più basso (CARE e LIPID: NNT=17 e NNT=20); – il RA più elevato si associa a valori basali di LDL-C più alti; – qualunque sia il RA basale il trattamento ha sempre una buona efficacia clinica. Dunque c’è evidenza che almeno tutti i pazienti con colesterolo totale superiore a 180 mg/dl e LDL-C superiore a 115 mg/dl, se affetti da CHD posso- 14 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 15 A. Notarbartolo no essere trattati con beneficio con statine; ciò vale per uomini e donne, diabetici e soggetti fino a 75 anni di età. Risolto dunque il problema della prevenzione secondaria, restava quello ben più gravoso, dato il numero, di possibili candidati al trattamento in prevenzione primaria, cioè soggetti che non avevano mai manifestato un episodio clinico di CHD. Nel 1995 veniva pubblicato il West of Scotland Coronary Prevention Study Group (WOSCOPS), condotto su 6595 uomini tra i 45 e i 64 anni trattati per 5 anni con pravastatina 40 mg al giorno: i risultati ottenuti sono indicati nella Tabella 5; va sottolineato che si ebbe riduzione importante anche della mortalità totale (RRR 22%, p<0,051), per un soffio non significativa, dimostrando che anche in prevenzione primaria un’efficace riduzione della colesterolemia (del 20%), con modesti e tollerabili effetti collaterali simili a quelli ottenuti con placebo, può indurre una riduzione non solo di eventi coronarici fatali e non fatali, come era stato ottenuto con HHS e LRC-CPPT, ma anche della mortalità totale. Nel WOSCOPS condot- Tabella 5 West of Scotland Study (WOSCOPS). Disegno dello studio e valori lipidici basali • 6595 uomini ipercolesterolemici senza precedenti infarti • Età: 45-64 anni • Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato • Durata media del follow-up: 4,9 anni • Pravastatina 40 mg/die, la sera • Colesterolo Totale medio basale 272 mg/dl • LDL-C medio basale 192 mg/dl Risultati • Modificazione dei parametri lipidici: -20% Colesterolo Totale -26% LDL-C -12% Trigliceridi +5% HDL-C • -31% rischio decessi per CHD e infarti miocardici non fatali • -33% rischio morte per cause cardiovascolari accertate o presunte • -22% rischio mortalità globale (per tutte le cause) 15 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 16 Introduzione Tabella 6 Air Force Coronary Artery Prevention Study (AFCAPS). Disegno dello studio e valori lipidici basali • 6605 soggetti (997 donne) senza segni di CHD • Età: 45-73 (maschi) e 55-73 (femmine) • Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato • Lovastatina 20 o 40 mg/die • Valori medi lipidi basali: Colesterolo Totale 228 mg/dl LDL-C 156 mg/dl HDL-C 37 mg/dl Risultati • Modificazione dei parametri lipidici: -18% Colesterolo Totale -25% LDL-C -15% Trigliceridi +6% HDL-C • -36% eventi coronarici totali • -35% infarti fatali e non fatali • -33% rivascolarizzazioni • -34% ricoveri per angina instabile to in Scozia la colesterolemia media dei soggetti arruolati nello studio era elevata (270 mg/dl); lo studio AFCAPS/Tex CAPS (Tab. 6) fu invece ideato per verificare se in 6605 uomini e donne sani texani reduci delle forze armate aeree degli USA, con colesterolo totale medio di 220, cioè 50 mg più basso che nel WOSCOPS, e HDL-C intorno a 37 mg/dl negli uomini e 40 nelle donne, quindi più basso dei valori medi della popolazione generale, il trattamento con lovastatina e dieta con bassi livelli di grassi saturi e colesterolo ali- mentare, fosse in grado di ridurre il rischio cardiovascolare. Anche in questi soggetti (Fig. 3, p. 54), un’RRA dello 0,7% rispetto all’RRA ottenuta nel WOSCOPS (1%), si ha una riduzione significativa degli eventi di CHD. Come si vede in questa figura, il confronto tra i due studi clinici in prevenzione primaria mostra che nel WOSCOPS l’efficacia clinica è maggiore rispetto all’AFCAPS, perché il rischio basale di cardiopatia ischemica è più alto e corrisponde a livelli basali di LDL-C più elevati, come si era visto negli studi di prevenzione se- 16 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 17 A. Notarbartolo condaria; inoltre il confronto tra 4S e WOSCOPS, entrambi con LDL-C basale elevato, ci dà un NNT di 12 per il 4S e di 43 per il WOSCOPS, a dimostrazione che non è importante solo il valore basale di LDL-C, ma il rischio basale del soggetto singolo, che è nettamente più alto se ha già avuto una CHD; lo stesso vale se confrontiamo AFCAPS con CARE e LIPID, in cui abbiamo un NNT di 86 per il primo e di 20 e 23 per i secondi. In termini di NNT, inoltre, il beneficio aumenta notevolmente se il rischio globale del soggetto (e quindi la presenza di più fattori di rischio) è aumentato (Fig. 2, p. 53). I trial di prevenzione primaria e secondaria hanno dunque risolto il problema del trattamento ipocolesterolemizzante con statine come farmaco di scelta, lasciando tuttavia ampi interrogativi irrisolti di impatto socioeconomico che saranno affrontati da altri autori in questo trattato. Restano altri interrogativi riguardanti “l’ipotesi lipidica”. Le alterazioni metaboliche riguardanti il colesterolo, con il retroterra genetico dell’ipercolesterolemia familiare (vedi La genetica delle iperlipidemie in questo volume) che è trattata da Averna et al, spiegano intorno al 40% degli eventi di CHD; d’altronde tutti i trial di intervento sulla colesterolemia hanno ottenuto al massimo una riduzione del rischio del 40%. Esiste tutta una serie di altri fattori di rischio, classici o antichi e nuovi, di cui trattano Barbagallo et al ne L’approccio clinico, preventivo e terapeutico al paziente con patologie metaboliche aterogene in questo volume, e la sindrome metabolica alla cui base ci sono anche alcune alterazioni genetiche del metabolismo lipidico e glicidico; fra queste l’iperlipemia familiare combinata, che tratta Averna nel capitolo appena citato, e le ipoalfalipoproteinemie, inquadrate magistralmente da Vergani che con i suoi collaboratori ha condotto ricerche in questo settore. Queste alterazioni metaboliche e i nuovi fattori di rischio costituiscono l’attuale settore di ricerca preferenziale, perché sono presenti nella gran parte dei soggetti a rischio di CHD; gli sforzi delle grandi industrie multinazionali farmaceutiche sono concentrati proprio per tentare di risolvere queste alterazioni. Le grandi Società Scientifiche sono consapevoli di questo problema e l’AHA (la più grande Società Scientifica – dei Cardiologi Americani – esistente al mondo) ha recentemente emanato le nuove Linee Guida (ATP III), che vengono descritte da Barbagallo e da Vergani. I fibrati sembra che agiscano favorevolmente: il VA-HIT, uno studio effettuato 17 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 18 Introduzione in soggetti coronaropatici con valori di LDL-C nei limiti normali ma con iper TG e ipo HDL-C, ha evidenziato dopo 5 anni di trattamento con gemfibrozil una RRR del 22% e un NNT di 23, a ulteriore dimostrazione che la riduzione dei TG e l’aumento dell’HDL-C determinano un’efficace protezione contro il reinfarto, soprattutto nei pazienti diabetici o con aumentata resistenza all’insulina, che costituivano la metà dei soggetti arruolati nel trial. Nel DAIS (acronimo di Diabetes Atherosclerosis Intervention Study), il fenofibrato somministrato per 4 anni ha indotto un arresto della progressione delle lesioni coronariche angiograficamente documentate, una riduzione degli eventi non fatali di CHD, dimostrando che i diabetici di tipo 2 con valori di colesterolemia borderline hanno la sindrome metabolica e traggono vantaggio della riduzione dei TG circolanti e dell’aumento dell’HDL-C; è probabile tuttavia che i fibrati agiscano soprattutto riducendo i remnant dei TG e le LDL piccole e dense, che sono particolarmente aterogene (vedi Barbagallo, L’approccio clinico,…) e che si formano soprattutto quando c’è un’iperTG. Un altro problema che è stato solo parzialmente affrontato riguarda le alterazioni lipidiche in età pediatrica; si tratta di forme prevalentemente ipercolesterolemiche, poiché il fenotipo della familiare combinata e delle forme di ipertrigliceridemia isolata si svelano molto dopo la pubertà, in quanto intervengono modificazioni peggiorative dello stile di vita: sono pertanto essenziali la prevenzione in età pediatrica e l’educazione sanitaria, che se ben condotta in giovane età sarà foriera di benessere futuro, ma è anche difficile da attuarsi data la delicatezza degli organismi in crescita. Questo argomento è affrontato da Riva e De Carlis della Scuola di Giovannini, che si è interessata in modo approfondito a questo problema anche producendo le Linee Guida della SINUPE, ufficialmente accettate dagli esperti italiani di lipidologia. Argomento di intense ricerche nel settore dell’aterosclerosi è lo stress ossidativo, cui vanno incontro durante il processo di invecchiamento, ma anche in presenza di malattie croniche o infiammatorie o degenerative, le proteine dell’organismo. Tra queste le apoproteine e le LDL sono tra i principali protagonisti: in Stress ossidativo e antiossidanti naturali è affrontato questo tema, come in Alimentazione e geni viene discusso quanto è scientificamente noto di tale rapporto. Come si vedrà più avanti, i trial con antiossidanti naturali hanno dato risultati confusi e contra- 18 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 19 A. Notarbartolo stanti, mentre delle buone regole alimentari, magistralmente proposte da Lanzola, hanno sempre dato risultati eccellenti. Questo perché nell’olio d’oliva, nel pesce, nei latticini freschi non fermentati, nelle verdure e nei vegetali, e persino nel vino e nel tè, sono presenti delle sostanze antiossidanti che spiegano i risultati ottenuti con gli interventi dietetici, che, lo ricordiamo, devono precedere e sempre accompagnare i trattamenti farmacologici. Un esempio tipico è il Lyon Diet-Heart Study, condotto in Francia su circa 400 pazienti con storia personale di malattia coronarica randomizzati a una dieta “mediterranea” tipica e completa rispetto a un’alimentazione “prudente” in cui erano soltanto ridotti i grassi saturi animali. Nella dieta “mediterranea” i soggetti erano incoraggiati a mangiare pane, vegetali, pesce e solo carni bianche tipo pollo e tacchino, frutta; a sostituire burro e creme con olio d’oliva o margarina vegetale da semi di ravizzone, e a bere piccole quantità di vino: dopo 27 mesi lo studio fu interrotto perché non era etico continuare in quanto 16 soggetti ebbero una recidiva infartuale contro 3 soltanto del gruppo “mediterraneo”, e la mortalità generale si ridusse anch’essa significativamente. Questo anche se le modificazioni ottenute nei valori di lipidi, pres- sione arteriosa e abitudine al fumo, fossero simili nel gruppo con dieta mediterranea rispetto a quello che seguiva una dieta precedente. È evidente che non è la riduzione delle LDL ad essere efficace in questo studio, ma la protezione antiossidante degli alimenti contenuti nella dieta dei paesi del Sud Europa: a un’analisi multivariata dei singoli elementi correlati ai benefici ottenuti nel trial, si vide dopo 4 anni che la riduzione dei grassi saturi era benefica, ma gli elementi particolarmente importanti risultarono un acido monoinsaturo, l’acido oleico, e l’acido alfalinolenico, che è un acido grasso omega-3, simile a quello contenuto nei pesci ma di origine vegetale: entrambi hanno uno spiccato effetto antiossidante. In conclusione, molto si è fatto in questi 50 anni di studi e ricerche; ma i risultati ottenuti sono niente di fronte alla mole di lavoro che attende in questo settore i ricercatori; siamo fiduciosi che se lavoreremo con umiltà, senza pregiudizi ma con tanta passione, miglioreremo la qualità della vita dei nostri pazienti. Speriamo che questo volume della collana Items pubblicata dall’Istituto Danone contribuisca un poco a raggiungere questo scopo. Alberto Notarbartolo 19 0441225/01 introduzione 29-05-2002 15:22 Pagina 20 Introduzione Riferimenti bibliografici Hannan PJ, Murray DM, Jacobs DR Jr, McGovern PG Parameters to aid in the design and analysis of community trials: intraclass correlations from the Minnesota Heart Health Program. Epidemiology, 5: 88-95, 1994. A co-operative trial in the primary prevention of ischaemic heart disease using clofibrate. Report from the Committee of Principal Investigators. Br Heart J, 40: 1069-1118, 1978. Hjermann I, Velve Byre K, Holme I, Leren P Effect of diet and smoking intervention on the incidence of coronary heart disease. Report from the Oslo Study Group of a randomised trial in healthy men. Lancet, 2: 1303-1310, 1981. 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JAMA, 251: 351-364, 1984. 21 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 l’ 15:21 Pagina 23 approccio clinico, preventivo e terapeutico al paziente con patologie metaboliche aterogene C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi Cattedra di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo – l’associazione deve essere forte, indipendente, graduale e continua, e l’incidenza della malattia deve aumentare con l’aumento del livello dei fattori di rischio; – devono esistere meccanismi mediante i quali il fattore di rischio contribuisce alla patogenesi della malattia; – l’intervento mirato alla riduzione del fattore di rischio in uno studio clinico controllato dovrebbe generalmente ridurre l’incidenza della malattia in questione. L’ipertensione arteriosa, le dislipidemie, il diabete, il fumo di sigaretta, l’obesità e l’inattività fisica sono fattori di rischio cardiovascolare modificabili; al contrario l’età, il sesso maschile e la predisposizione genetica, comprendente anche la familiarità positiva per cardiopatia ischemica (CHD) in età precoce, sono fattori di rischio cardiovascolare immodificabili. È oramai noto che i fattori di rischio hanno un’azione moltiplicativa, ed è quindi importante che il medico Fattori di rischio classici e cenni di terapia La malattia aterosclerotica è una malattia a genesi multifattoriale, in quanto non è dimostrabile un singolo elemento causale, ma esistono piuttosto una serie di condizioni che, sulla base dei dati forniti dai maggiori studi epidemiologici, si sono trovati associati più o meno strettamente alla malattia, e che assumono quindi un determinato valore predittivo, consentendo di selezionare i soggetti che presentano una maggiore probabilità di sviluppare la malattia stessa. Tali condizioni prendono il nome di “fattori di rischio”. Per valutare se un’associazione statistico-epidemiologica sia realmente causa di malattia, è necessario che vengano rispettati i seguenti criteri: – deve essere stabilita una sequenza temporale e causale tra fattori di rischio e malattia; 23 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 24 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico Tabella 1 • Età I fattori di rischio classici. • Sesso • Ipertensione arteriosa • Ipercolesterolemia • HDL-colesterolo • Diabete • Fumo di sigaretta • Trigliceridemia • Obesità • Inattività fisica • Storia familiare di CHD prematura e geni di suscettibilità • Fattori psicosociali e comportamentali • Caratteristiche etniche li tenga in considerazione costantemente nel loro insieme. Non ci si deve allora limitare alla valutazione singola di ognuno di essi, ma anche delle loro interazioni, calcolando il cosiddetto “rischio cardiovascolare globale” e soggettivizzando i parametri di riferimento lipidici, glicemici, ponderali e pressori in relazione ai diversi livelli di rischio cardiovascolare. Di seguito analizzeremo le principali informazioni sui fattori di rischio classici per la cardiopatia ischemica. uomini; nelle donne un comportamento similare si ha invece dopo i 50 anni di età, epoca in cui mediamente viene meno, con la menopausa, la caratteristica protezione ormonale del sesso femminile. In base alle stime del Framingham Heart Study, l’incidenza media a dieci anni di CHD, <1% nelle donne di 3034 anni di età, arriva a circa il 24% negli uomini di 70-74 anni. Si stima che oltre 3,6 milioni di pazienti anziani siano affetti da CHD e oltre il 60% dei pazienti ricoverati per infarto miocardio negli USA abbia un’età >65 anni; in queste stime si deve comunque considerare che l’incidenza di molti fattori di rischio, come l’ipertensione, l’iperlipidemia e il diabete, aumenta con l’età. Le lesioni aterosclerotiche delle arterie coronariche posso- Età È noto che, con l’aumentare dell’età, si ha un incremento progressivo del rischio di cardiopatia ischemica negli 24 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 25 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi no comunque avere inizio molto precoce, addirittura fin dai primi anni di vita, ma la loro evoluzione, rottura o fissurazione è accelerata in presenza di altri fattori di rischio. L’ipercolesterolemia di tipo genetico richiede una diagnosi precoce, perché in questi casi episodi di cardiopatia ischemica possono manifestarsi anche prima dei 40 anni. iperlipidemia genetica, mentre dopo la menopausa il rischio diventa sovrapponibile con gli uomini. In ogni caso, gli studi di prevenzione primaria e secondaria condotti finora hanno spesso discriminato le donne, e ciò ha comportato che al momento disponiamo di un numero di informazioni in campo epidemiologico di gran lunga superiori nei maschi rispetto alle femmine. Un aspetto interessante è comunque il fatto che la riduzione dei fattori di rischio e le strategie di popolazione in prevenzione primaria messe in atto negli ultimi vent’anni negli USA, hanno prodotto minori effetti nelle donne rispetto ai soggetti di sesso maschile. Questo sembrerebbe essere collegato all’abitudine al fumo di sigaretta che nelle donne non si è ridotta nella stessa misura degli uomini, e che quindi rimane un importante fattore di rischio per CHD nel sesso femminile. Sesso In termini assoluti la mortalità cardiovascolare è superiore nelle donne, e ciò sembra essere dovuto a un’aspettativa di vita maggiore nel sesso femminile rispetto a quello maschile. Nelle donne la CHD si manifesta con un ritardo di circa 10 anni rispetto agli uomini, risultando sempre comunque associata agli stessi fattori di rischio cardiovascolare (ipertensione, ipercolesterolemia, fumo di sigaretta, diabete mellito ecc.); ciascuno di questi, infatti, sembra aumentare il rischio di sviluppare la CHD in egual misura nelle donne e negli uomini, con la sola eccezione del diabete, che comporta un rischio cardiovascolare lievemente maggiore nelle donne rispetto agli uomini. La CHD è comunque rara nelle donne in premenopausa in assenza di diabete mellito o di grave Ipertensione arteriosa La stretta correlazione esistente fra ipertensione arteriosa ed eventi cardiovascolari è nota da tempo, ma solo negli ultimi decenni la ricerca scientifica è stata in grado di connotare il percorso patologico che porta l’elevata pressione arteriosa a determinare gravi danni della 25 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 26 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico funzionalità cardiaca fino allo scompenso. Nelle società industrializzate si assiste a un progressivo incremento della pressione arteriosa con l’avanzare dell’età. Questa tendenza è associata a un aumento soprattutto della pressione sistolica, che cresce fino all’ottava decade di vita, mentre la pressione diastolica tende a rimanere costante o a decrescere dopo la quinta o sesta decade come effetto dell’irrigidimento delle arterie, con conseguente incremento della pressione differenziale; infatti sempre maggiori evidenze attribuiscono a questo valore un ruolo di fattore predittivo indipendente di malattia coronaria e insufficienza cardiaca congestizia. Gli elevati livelli cronici di pressione arteriosa producono un importante danno d’organo attraverso due meccanismi principali: a) il danno endoteliale con amplificazione di eventuali processi aterosclerotici; b) il danno d’organo che può essere determinato dalle alterazioni emodinamiche associate agli elevati valori di pressione arteriosa e in particolare al progressivo aumento della resistenza all’eiezione del sangue dal cuore. A livello cardiaco il danno più imponente è dato dal sovraccarico emodinamico imposto al ventricolo sinistro dall’incremento delle resistenze periferiche: ciò comporta come risposta adattativa una serie di modificazioni strutturali e funzionali, che conducono in ultima analisi a ipertrofia ventricolare sinistra (IVS) e a compromissione della funzione diastolica e sistolica ventricolare, favorendo la progressiva evoluzione verso lo scompenso cardiaco. L’IVS predispone inoltre alla comparsa di importanti manifestazioni cliniche, come l’ischemia miocardica e le aritmie ventricolari, eventi collegati sia al maggiore consumo di ossigeno da parte del muscolo cardiaco ipertrofico, sia alla relativa inadeguatezza del microcircolo coronario rispetto alla crescita della massa ventricolare. I grandi studi epidemiologici degli ultimi tre decenni hanno mostrato in modo inequivocabile che il rischio cardiovascolare cresce progressivamente con l’aumentare della pressione arteriosa, individuando nell’ipertensione uno tra i principali fattori di rischio cardiovascolare. Gran parte delle evidenze deriva da due fonti principali: – studi prospettici osservazionali sull’incidenza di ictus e coronaropatia; – studi randomizzati sulla terapia antipertensiva. I primi forniscono i dati da cui può essere valutato l’effetto di prolungate differenze di riduzioni pressorie, mentre i secondi forniscono dati sugli effetti di ri- 26 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 27 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi duzioni a breve termine della pressione arteriosa. Tra gli studi unifattoriali di intervento ricordiamo lo studio Hypertension, Detection and Follow up Program, che comprendeva circa 10.940 individui appartenenti a 14 comunità degli Stati Uniti scelti fra 159.000 volontari. I risultati principali ottenuti durante il follow-up di 5 anni sono stati una riduzione del 17% della mortalità totale nel gruppo sottoposto a trattamento ipotensivo attivo (beta bloccanti, diuretici, calcio antagonisti e ACE-inibitori) verso placebo, che arrivava a raggiungere il 20% nel gruppo con una pressione diastolica di 90-104 mmHg. Alcuni tra i più importanti studi prospettici sono stati valutati in un lavoro di meta-analisi che ha preso in considerazione 9 studi osservazionali e circa 420.000 soggetti di 25 anni o più, studiati per un periodo di 6-25 anni, Tabella 2 Caratteristiche della popolazione esaminata in nove studi prospettici osservazionali sull’incidenza di coronaropatia. senza diabete o evento cardiovascolare prima dell’esame dell’arruolamento. Negli studi analizzati, effettuati in maggioranza su popolazione maschile (Tab. 2), la pressione all’arruolamento veniva rilevata nel corso di un’unica visita con una sola lettura oppure con la media di due misurazioni utilizzando uno sfigmomanometro a mercurio. I partecipanti di ciascuno studio sono stati divisi in 5 gruppi in relazione ai valori della pressione diastolica (<80, 80-90, 9099, 100-109, >109 mmHg) e il rischio di cardiopatia è stato calcolato per ognuna delle categorie rispetto al rischio globale dell’intera popolazione esaminata. Combinando tutti gli studi, sono stati calcolati mediante regressione logistica corretta in base a studio e sesso, i rischi relativi di ciascuna categoria. I risultati a 4 anni del Framingham Heart STUDIO Soggetti MRFIT screenes 350.977 Maschi (%) Età 100 35-57 Chicago Heart Ass 22.777 52 35-64 Whitehall 16.372 100 40-64 Puerto Rico 8.158 100 45-64 Honolulu 7.317 100 45-68 LRC prevalence 4.674 65 25-84 Framingham 4.641 44 40-69 Western Eletric 2.025 100 40-59 People’s Gas 1.402 100 40-59 27 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 28 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico Study sono stati utilizzati come guida dei livelli pressori sistolici e diastolici, in quanto i livelli pressori e medi per ognuna delle categorie non potevano essere calcolati direttamente, dato che le misurazioni pressorie effettuate durante il follow-up non erano riportate per tutte le popolazioni in esame. In questo studio l’incidenza a 30 anni di angina pectoris, infarto miocardio e morte improvvisa nel loro complesso è risultata del 20,2% nei maschi e del 10,1% nelle femmine tra i soggetti normotesi, del 39% nei maschi e del 18,2% nelle femmine tra i pazienti ipertesi lievi (pressione arteriosa sistolica e diastolica rispettivamente <140/159 e <90/94 mmHg), del 46,6% nei maschi e del 23,1% nelle femmine tra gli ipertesi più severi (pressione arteriosa >160/95 mmHg). Una relazione continua e diretta tra pressione arteriosa ed eventi coronarici è stata riscontrata anche nell’ambito del MRFIT. In particolare tra i 5540 maschi raccolti Tabella 3 Studi di intervento con farmaci ipotensivi. STUDIO con anamnesi positiva per IMA, è stata osservata una relazione tra pressione diastolica e morte coronarica. Ulteriori studi, infine, che si differenziano dai precedenti elencati solo per il numero di soggetti coinvolti, per il numero degli anni di follow-up e perché più recenti (Tab. 3), hanno continuato a dimostrare che il rischio cardiovascolare aumenta all’aumentare dei livelli pressori senza soluzione di continuità e senza che sia possibile individuare un valore soglia, sia per la sistolica che per la diastolica, soprattutto per l’importante e individuale interazione con gli altri fattori di rischio cardiovascolare. Ipercolesterolemia Un gran numero di studi ha documentato in modo inequivocabile la correlazione esistente fra livelli sierici di colesterolo totale e di colesterolo LDL N. pazienti Farmaco SHEP 4.736 Clortalidone STOP-Hyperten 1.672 Atenololo + idroclorotiazide ABCD HOT 950 18.790 HOPE Nisoldipina/enalapril Ca-antagonisti + diuretici, ACE, β-bloccanti ACE 28 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 29 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi con la malattia coronarica. Sebbene i fattori di rischio che influenzano la cardiopatia ischemica siano numerosi, il ruolo eziologico principale del colesterolo è attualmente ben definito. Tali evidenze che si sono manifestate nell’arco degli anni sono sia epidemiologiche che non epidemiologiche (Tab. 4). Vi sono evidenze storiche della progressione della cardiopatia ischemica nella nostra società quando ci si sottopone a una dieta ricca di grassi. Le popolazioni che hanno subito periodi di restrizione di grassi nella dieta e calo ponderale presentano meno aterosclerosi e cardiopatia ischemica durante e dopo il periodo di restrizione, come si è potuto provare nell’Europa centrale durante la seconda guerra mondiale. Ma tornando ai nostri giorni, sono numerosi i risultati di altri importanti studi angiografici e clinici che hanno dimostrato come il decorso clinico e la progressione della cardiopatia ischemica su base aterosclerotica in soggetti a maggiore rischio cardiovascolare, possono essere ridotti grazie a interventi terapeutici con farmaci ipolipemizzanti (statine ma anche fibrati), che agiscono riducendo i livelli di colesterolo totale e colesterolo-LDL e aumentando i livelli di colesterolo-HDL. L’ipercolesterolemia va considerata l’elemento centrale nell’ambito del rischio cardiovascolare. L’aterosclerosi, infatti, è un processo insidioso, che inizia con la comparsa di strie lipidiche e con la successiva progressione alle placche fibrose, possibili sedi e cause di stenosi vascolari o rottura e fissurazione delle stesse. È una malattia croni- Tabella 4 Evidenze del ruolo del colesterolo nei confronti della cardiopatia ischemica. Evidenze epidemiologiche • Incremento della colesterolemia e del rischio di coronaropatia in differenti paesi del mondo • Correlazione tra malattia coronaria e dislipidemie fra gli individui di una popolazione • Riduzione della malattia coronaria associata alla riduzione dei livelli di colesterolo Evidenze non epidemiologiche • Dati sperimentali su animali ipercolesterolemici • Presenza di LDL ossidate nella placca aterosclerotica • Disfunzione endoteliale relazionata a livelli di colesterolo 29 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 30 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico ca di tipo degenerativo infiammatorio, provocata da una risposta dell’intima delle arterie elastiche e muscolari di grosso e medio calibro a un insulto arrecato. Il meccanismo iniziale del processo sembrerebbe essere una modificazione delle LDL che si verifica per processi ossidativi, con conseguente alterazione della loro struttura, che permette loro di esercitare attrazione chemiotattica nei confronti dei monociti circolanti. Ne consegue una risposta infiammatoria nella quale i macrofagi attivati costituiscono infatti l’elemento cellulare tipico della maggior parte delle lesioni aterosclerotiche, trasformandosi rapidamente in cellule schiumose (foam cells). Le foam cell andranno poi incontro a processi necrotici con rilascio del loro contenuto negli spazi sotto-intimali, contribuendo alla formazione della stria lipidica. Il rilascio di numerose citochine e fattori di crescita potenzia la risposta infiammatoria indotta dalle LDL modificate e richiama neutrofili e altri macrofagi nel sito d’insulto. È l’inizio del processo aterosclerotico, un processo sempre uniformemente distribuito ma che colpisce solo alcune aree “critiche”. L’esame biochimico delle placche rileva due componenti principali: – componente proteica, – componente lipidica. Da quanto esposto risulta evidente l’instabilità della placca ed è deduttivo che proprio da questo dinamico processo istologico derivi la grande variabilità clinica dei quadri clinici attribuibili ai processi aterosclerotici, in quanto non tutte le placche esprimono lo stesso potenziale stenotico o trombotico e quindi non tutte sono ugualmente responsabili di quadri clinici. Semplificando molto diremmo che: a) a una placca stabile corrisponde il quadro clinico dell’angina stabile; b) a una placca instabile, cioè maggiormente predisposta a rotture e fissurazioni, quindi al rilascio di trombi, corrispondono l’angina instabile e l’infarto acuto del miocardio. Dal punto di vista epidemiologico l’interesse dei ricercatori sui livelli sierici di colesterolo totale, prima, e di LDLcolesterolo, risale a svariati decenni addietro, e nel corso degli anni si è dimostrata inequivocabilmente la presenza di una correlazione fra i valori sierici di tali parametri e il rischio di coronaropatia. Nel Multiple Risk Factor Intervention Trial (MRFIT), un campione di 360.000 uomini fra 35 e 57 anni è stato sottoposto a valutazione dell’assetto lipidico e seguito per 12 anni, mostrando un’importante correlazione fra livelli sierici di colesterolo e mortalità per coronaropa- 30 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 31 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi tia. La stessa correlazione è stata riscontrata anche per popolazioni differenti, sebbene con curve non sovrapponibili, nel Seven Countries Study, un importante studio che ha monitorato per ben 25 anni popolazioni provenienti da 7 aree geografiche diverse, mostrando una correlazione positiva tra mortalità coronarica e consumo di grassi saturi (entrambi fattori direttamente correlati alla colesterolemia). Nel Whitehall Study sono stati studiati 19.000 maschi deceduti per CAD, stratificati in fasce d’età di ampiezza pari a 5 anni, ed è stato calcolato il rischio relativo sulla base dell’incremento del colesterolo totale e sulla base della durata dell’ipercolesterolemia. Questo studio ha mostrato importanti risultati sull’efficacia predittiva dei livelli sierici di colesterolo totale in relazione all’età. L’evidenza tra ipercolesterolemia e malattia aterosclerotica è stata ancora supportata, oltre che da studi di epidemiologia osservazionale, anche da studi clinici d’intervento effettuati in pazienti in prevenzione primaria e prevenzione secondaria. Fra gli studi in prevenzione primaria senza intervento farmacologico ricordiamo lo studio di OSLO, dove sono stati selezionati 1232 uomini fumatori tra 40 e 49 anni con colesterolo totale fra 290 e 379 mg/dl: in questo studio l’inter- vento dietetico ha abbassato la media della colesterolemia da 315 a 280 mg/dl, mentre, in associazione alla riduzione del fumo, è stata riscontrata una riduzione del 45% dell’incidenza di infarti mortali e non mortali rispetto ai controlli in 5 anni. In prevenzione primaria con intervento farmacologico con statine lo studio di riferimento è il WOSCOPS, in cui 6595 pazienti di età tra 45 e 64 anni e con colesterolo medio di 272 mg/dl, sono stati trattati con pravastatina da 40 mg o placebo per un periodo di 5 anni. La statina ha ridotto colesterolemia di circa il 20%, e parallelamente si osservava una riduzione del rischio relativo di eventi coronarici maggiori del 31%. Molto importante è infine segnalare alcuni degli studi in prevenzione secondaria, come l’ormai storico 4S (Scandinavian Survival Simvastatin Study), che ha valutato 4444 soggetti di età fra 35 e 70 anni, con angina pectoris o pregresso infarto del miocardio e con livelli di colesterolo fra 212 e 309 mg/dl, trattati con simvastatina da 20 o 40 mg o placebo per un periodo medio di 5,4 anni. In questo studio la mortalità totale e coronaria si è ridotta rispettivamente del 30 e del 42% nei soggetti trattati con la statina in aggiunta alla terapia cardiologia convenzionale. Infine nello studio CARE (Cholesterol And Recur- 31 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 32 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico Tabella 5 STUDIO Principali studi di prevenzione primaria e secondaria della CHD mediante terapia ipolipemizzante con statine. Pazienti Farmaco Mortalità CHD IMA* WOSCOPS 6.595 PRAVA -22% -28% -31% AFCAPS/Tex CAPS 6.605 LOVA - -40% -37% 4S 4.444 SIMVA -30% -42% -34% CARE 4.159 PRAVA - -20% -24% LIPIDS 9.014 PRAVA -22% -24% -29% * Non fatale. rents Events) in 4159 pazienti con pregresso infarto del miocardio e trattati con Pravastatina da 40 mg o placebo, ma aventi come criterio di inclusione un colesterolo totale inferiore a 240 mg/dl, si è evidenziata una riduzione del 24% degli eventi clinici coronarici. Questi e altri importanti studi sintetizzati nella Tabella 5 lasciano pochi dubbi sulla possibilità di prevenire gli eventi cardiovascolari con un trattamento efficace dei livelli di colesterolo plasmatici. fegato, per essere quindi metabolizzato ed eliminato. Nonostante i bassi livelli di HDL-C sembrino aumentare lo stesso rischio per CHD in modo simile a elevati valori di colesterolo totale, le cause dell’ipoalfalipoproteinemia (sinonimo di bassi livelli di HDL-C) non sono oggi del tutto note. È comunque sicuro che, oltre a rilevanti influenze genetiche, siano coinvolti anche fattori esterni, e che correlazioni certe esistono tra bassi valori di HDL-C e obesità, ipertrigliceridemia, diabete mellito, sedentarietà e fumo di sigaretta. Oggi sono menzionabili numerosi studi epidemiologici sulla relazione tra i livelli di HDL-C e l’incidenza di CHD. In molti di questi, tale relazione inversamente proporzionale era significativa e testimoniava l’indipendenza della correlazione dei livelli di HDL-C con altri fattori di rischio coronarici. In alcuni altri vi era la tendenza verso un’incidenza più alta di CHD a valori più bassi di HDL-C, HDL colesterolo Da molto tempo è stato già osservato che elevate concentrazioni di HDL-colesterolo (HDL-C) sembravano conferire agli individui una certa protezione sugli eventi cardiovascolari. Il principale effetto protettivo dello HDL-C sarebbe correlato al trasporto inverso del colesterolo, dal circolo sistemico al 32 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 33 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi che mancava di poco la significatività statistica per errori probabilmente di tipo metodologico. Infine ricordiamo che bassi valori di HDL-C sono alla base di alterati ed elevati rapporti tra colesterolo totale o LDL-colesterolo (LDL-C) e HDL-C, che costituisce una delle più frequenti anomalie lipidiche presenti nella popolazione europea. Nello Studio PROCAM, durante lo screening venne riscontrato nel gruppo di soggetti asintomatici che presentavano un’anomalia lipidica complessa, e cioè caratterizzata da un rapporto LDL-C/HDL-C>5 e da livelli di Tabella 6 Studi epidemiologici sulla relazione inversa tra HDL-C e incidenza di cardiopatia ischemica. trigliceridemia >200 mg/dl (la cosiddetta “triade lipidica”), la maggiore incidenza di malattie cardiovascolari durante il follow-up. Diabete Il diabete mellito rappresenta attualmente una delle principali cause di morte negli USA, e l’elevata mortalità associata al diabete deriva in gran parte dall’aumentato rischio cardiovascolare, da 2 a 4 volte superiore rispetto a quello della popolazione normale. Le patologie Studio Paese Autore Tromso Heart Study Norvegia Miller 1997 USA Gordon 1977 Norvegia Enger 1979 Framingham Heart Study Oslo Study Israeli Ischaemic Heart Disease Israele Golburt 1985 Donolo Tel Aviv USA Brunner1987 MRFIT USA Watkins 1986 LRC-CPPT USA Jacobs 1990 Procam Germania Assman 1989 LRC-F USA Jacobs 1990 Helsinki Heart Study Finlandia Manninem 1986 Trinidad Trinidad Tobago Miller 1989 Caerphilly-Speedwell Gran Bretagna Swetna 1989 British Regional Heart Gran Bretagna Pocock 1989 Finlandia Salonen 1991 USA Stampfe 1991 Kuopio Physician’s Health Study 33 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 34 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico cardiovascolari sono responsabili del 60% dei decessi dei pazienti diabetici; il 41% di questi è dovuto a CHD. L’aumentata mortalità cardiovascolare rilevata nei pazienti diabetici deriva in gran parte dalla frequente associazione del diabete con altri fattori di rischio cardiovascolare, tra cui ipertensione, ipertrigliceridemia, ipercolesterolemia, obesità, aumentati livelli di fibrinogeno e ipertrofia ventricolare sinistra. Tuttavia, come ben evidenziato dal MRFIT, anche dopo correzione per ciascuno di questi fattori di rischio, i pazienti diabetici conservano una mortalità per cause cardiovascolari più elevata rispetto ai soggetti non diabetici. È stato quindi ipotizzato che l’aumentata incidenza di complicazioni macrovascolari nei pazienti diabetici dipenda direttamente dall’iperglicemia. Addirittura recentemente si è affermato che i soggetti con diabete di tipo II avrebbero un rischio di infarto del miocardio uguale a coloro che non sono diabetici, ma che hanno già avuto un precedente infarto del miocardio. In particolare poi viene cancellata nelle donne la protezione caratteristicamente legata al sesso. La riduzione dell’aspettativa di vita aumenta con la precocità di insorgenza del diabete e l’eccesso di mortalità nel diabete rispetto alla popolazione generale è dovuto alla macroangiopatia. I meccanismi patogenetici che possono spiegare l’eccesso di patologia cardiovascolare nel paziente diabetico sono tuttora in fase di studio e soltanto il diabete non è sufficiente a spiegare lo sviluppo e la progressione della patologia cardiovascolare. Il quesito che per molti anni ha interessato i clinici e gli epidemiologi, è infatti stabilire se l’eccesso di patologia cardiovascolare osservato nei diabetici possa essere spiegato da una più alta prevalenza dei maggiori fattori di rischio frequentemente presenti in questi pazienti, quali ipertensione arteriosa, dislipidemia, fumo. Svariati dati confermano che la mortalità cardiovascolare aumenta progressivamente con l’aumentare dei livelli di colesterolo, pressione arteriosa e fumo di sigaretta nei soggetti diabetici; tuttavia la mortalità è significativamente sempre più alta nei diabetici rispetto ai non diabetici; quando le variabili vengono esaminate in combinazione, si vede chiaramente che anche nei diabetici normolipidemici, normotesi e non fumatori, la mortalità cardiovascolare rimane sostanzialmente più alta rispetto ai soggetti non diabetici con le stesse caratteristiche. Ne deriva che l’ipercolesterolemia, l’ipertensione arteriosa e il fumo di sigaretta agiscono sia nei diabetici sia nei non diabetici, ma con un impatto significativamente mag- 34 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 35 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi giore sui primi. L’aterosclerosi del diabetico non si differenzia di molto da quella che si manifesta nella popolazione generale, se non per il fatto di manifestarsi molto più precocemente e con maggiore frequenza. Nel diabete mellito è però importante distinguere tra le noxae patogene in grado di causare un danno endoteliale, tra quelle legate “specificamente” all’alterato metabolismo dei carboidrati, da quelle legate ad altri fattori di rischio. Tra le noxae specifiche devono essere segnalati gli elevati livelli glicemici e alcune anomalie secondarie tipiche dei diabetici, quali le alterazioni ormonali, le modificazioni ematologiche, emoreologiche e infine la microangiopatia dei vasa vasorum. Tutti fattori che possono migliorare in seguito all’instaurazione di un equilibrio metabolico ottimale. Sono così numerose le vie fisiopatologiche attraverso le quali l’iperglicemia è in grado di accelerare la formazione della placca, e a queste si aggiunge la glicazione delle proteine strutturali della parete vasale, con formazione di composti finali di glicazione avanzata (AGE). La formazione di AGE comporta un aumentato richiamo di piastrine plasmatiche nella sede della lesione endoteliale e una maggiore degradazione e liberazione di prodotti di crescita da parte dei macrofagi, con conseguente ac- cumulo di tale materiale a livello della parete vasale. Purtuttavia, nel recente studio anglosassone UKPDS, che ha seguito per un lungo periodo di tempo un largo numero di soggetti diabetici trattati con terapia intensiva o convenzionale, si è visto che un ottimale compenso glico-metabolico è in grado di ridurre significativamente le complicanze microvascolari, mentre ha un limitato effetto sugli eventi macrovascolari, per prevenire i quali è necessario trattare i fattori di rischio presenti, ipertensione e ipercolesterolemia in testa. Il trattamento insulinico riduce l’incidenza e la progressione delle complicanze macroangiopatiche (retinopatia, nefropatia, neuropatia), come dimostrato anche dallo studio prospettico DIGAMI. Resta però ancora poco conosciuto l’effetto a lungo termine sulla CHD della terapia insulinica, in quanto gli effetti benefici potrebbero infatti attenuarsi nel tempo o viceversa rilevarsi ancora più nettamente positivi, in quanto i pazienti passano inesorabilmente a fasce di rischio maggiore. Discorso diverso vale per il diabete di tipo II, dove la CHD diventa la causa principale di morte indipendente dalla durata del diabete, e ciò anche per la contemporanea comparsa di altri fattori di rischio, come l’ipertensione e la disli- 35 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 36 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico pidemia. Gli studi che sono considerati pietre miliari di tali evidenze sono il Framingham Heart Study, dove le persone diabetiche di tipo II avevano un rischio relativo (diabetici vs non diabetici) di morte per malattia cardiovascolare di 2,1 per gli uomini e di 4,9 per le donne, e l’incidenza in 20 anni nei diabetici di nuovi eventi di cardiopatia coronaria era 1,7 volte maggiore nelle donne rispetto ai soggetti non diabetici. Nel MRFIT, i risultati a 12 anni dimostrano che la mortalità cardiovascolare in 5163 diabetici su circa 350.000 non diabetici (di età fra 35 e 70 anni) è di 4 volte più elevata fra i diabetici. Infine è sicuramente il caso di elencare alcuni casi di intervento su popolazioni di dislipidemici, che hanno preso anche in considerazione dei sottogruppi di diabetici, valutando anche gli effetti benefici di alcuni farmaci ipolipemizzanti (statine e fibrati) sul rischio cardiovascolare. Nell’Helsinki Heart Study, uno studio di prevenzione primaria condotto con un fibrato (gemfibrozil) in confronto con placebo, si è avuta una scarsa significatività statistica nella differenza della riduzione dell’incidenza di eventi cardiovascolari tra il gruppo diabetici e non. Nel sottogruppo del 4S condotto con Simvastatina nei 202 arruolati diabetici, si sono avuti dati di riduzione del rischio di eventi cardiovascolari maggiori pari al 55%. Nel CARE, i 586 diabetici hanno mostrato una riduzione del rischio del 25%. Nel VA-HIT, uno studio di prevenzione secondaria in soggetti ipoalfalipoproteinemici trattati con gemfibrozil, si è visto che il beneficio maggiore era limitato ai soggetti diabetici, con intolleranza glucidica e/o iperinsulinemia. Rimane da stabilire se l’aumentata prevalenza di diabete di tipo II registrata in tutto il mondo occidentale dipenda da un aumento dell’incidenza della malattia o dalla diminuzione della mortalità ad essa associata. Lo studio S. Antonio Heart Study, che valutava l’incidenza di diabete in soggetti adulti non diabetici al momento del reclutamento, ha evidenziato un’incidenza a 8 anni triplicata in diversi gruppi etnici valutati. A differenza di altri fattori di rischio, come ipertensione e dislipidemia precedentemente descritti, la cui prevalenza va progressivamente riducendosi, il diabete sembra destinato a interessare un numero sempre maggiore di persone. Fumo di sigaretta Il fumo di sigaretta è un altro importante fattore di rischio cardiovascolare. Numerosi studi prospettici hanno evi- 36 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 37 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi denziato un’aumentata incidenza di patologie cardiovascolari e di morte cardiaca improvvisa nei fumatori. In aggiunta, solo per cancro al polmone si calcolano circa 500.000 decessi ogni anno nei paesi della Comunità Europea, il 90% dei quali dovuti al fumo. Dopo anni di campagne contro il fumo, ad oggi in Europa il 25% della popolazione adulta risulta essere stabilmente fumatore, un valore preoccupante perché prelude al mantenimento di elevate percentuali di patologie correlate sia nel breve che nel lungo periodo. Da molti decenni le patologie correlate al fumo sono state identificate. Il fumo è considerato uno dei più potenti cancerogeni al mondo per l’uomo: oltre al tumore polmonare, che nel fumatore rappresenta un rischio 30 volte superiore rispetto al non fumatore, numerose altre patologie neoplastiche sono significativamente associate al fumo, quali tumori delle vie aeree superiori, dell’esofago, dello stomaco, del pancreas, della vescica, del rene e della cervice uterina. Nell’ambito delle malattie cardiovascolari, negli USA, sono stimate in 100.000 ogni anno le morti per infarto dovute al fumo e 23.000 quelle per accidenti ischemici cerebrovascolari. Purtuttavia, nonostante la chiara e ferma relazione esistente tra fumo e malattie cardiova- scolari, rimane ancora non perfettamente chiaro il meccanismo che è alla base di questo rischio. Si ipotizza che la nicotina e il monossido di carbonio determinino, per attivazione adrenergica, una vasocostrizione cutanea e l’aumento della frequenza cardiaca, oltre che iperaggregabilità piastrinica, aumento della pressione arteriosa, della contrattilità miocardica e della gittata cardiaca e quindi del consumo di ossigeno da parte delle fibrocellule miocardiche; possono ancora provocare spasmi coronarici e aumento della concentrazione plasmatica del cortisolo, del fibrinogeno e dell’insulina. Gli effetti sull’apparato cardiocircolatorio della nicotina sono in gran parte dovuti all’aumento delle catecolamine e degli acidi grassi e alla diminuzione della produzione della prostaglandina PGI2, che ha azione vasodilatatrice, da parte dell’endotelio vascolare. Il monossido di carbonio inoltre, avendo un’elevata affinità per l’emoglobina, determina, anche se presente in piccole dosi, la presenza di carbossiemoglobina, per cui riduce la quantità di ossigeno a disposizione dei tessuti e in particolare del miocardio, provocando alterazioni endoteliali ipossiche che hanno una grande importanza nella cascata di eventi che sono alla base dell’aterogenesi coronarica. 37 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 38 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico Tabella 7 Riduzione del rischio di eventi cardiovascolari in soggetti ipertesi dopo sospensione del fumo per almeno due anni. Sigarette/giorno Rischio uomo Rischio donna 10 -14% -24% 20 -34% -40% 40 -57% -54% Uno dei primi studi che ha permesso di rilevare come il fumo di sigaretta possa essere un fattore di rischio per accidenti cardiovascolari è stato il Lipid Research Clinics, che ha anche dimostrato come il gruppo fumatori presentava valori di colesterolo totale ed LDL più alti e più bassi valori di HDL-C rispetto ai non fumatori. Il Pooling Project, sintetizzando i dati di 54 studi pubblicati, ha confermato come il consumo di tabacco sia un fattore di rischio indipendente, come l’ipertensione arteriosa e l’ipercolesterolemia totale. Riguardo gli effetti del fumo sulla mortalità cardiovascolare, si è visto ancora che 10 sigarette al giorno aumentano il rischio di morte cardiovascolare del 18% negli uomini e del 31% nelle donne. L’incidenza di morte improvvisa è particolarmente elevata nei fumatori e aumenta all’aumentare del numero di sigarette. Nei soggetti che smettono di fumare il rischio di CHD si riduce rapidamente per ritornare simile a quello dei non fumatori (Tab. 7). Questo aspetto è stato valutato anche nel Framingham Heart Study, dove il rischio di morti per cause vascolari negli ex fumatori (20 sigarette/die per 30 anni) si è ridotto nel giro di un anno a livello dei soggetti che non avevano mai fumato. In questo senso la presenza di più fattori di rischio concomitanti amplifica il risultato se solo si considera che dallo studio di Framingham è risultato che la sospensione del fumo in un maschio iperteso e fumatore può ridurre il rischio di CHD del 40%, mentre l’effetto è minore (15%) quando un soggetto con le stesse caratteristiche è normoteso. Attualmente in molti paesi sviluppati sono in vigore leggi che limitano la pubblicità ai prodotti del tabacco e molti stati sono impegnati in campagne di prevenzione ed educazione sanitaria. La semplice abolizione dell’abitudine al fumo potrebbe produrre risultati in termini di prevenzione primaria e secondaria sovrapponibili o anche migliori rispetto a quelli ottenibili con terapie farmacologiche ed è per questo motivo che l’aboli- 38 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 39 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi zione del fumo rappresenta uno dei cardioni di tutte le strategie di intervento su popolazioni. sappiamo inoltre che spesso l’obesità e l’iperinsulinemia, come anche il diabete mellito, si associano a elevati livelli di trigliceridemia. Tali disturbi metabolici sono già presenti quando c’è un aumento modesto dei valori di trigliceridemia e possono sicuramente contribuire a rendere più complessi i rapporti con la cardiopatia ischemica. L’ipertrigliceridemia severa (>1000 mg/dl) con chilomicronemia (particelle di grandi dimensioni che comportano grandi problematiche anche di tipo emoreologico, in particola re a livello di alcuni tessuti come il pancreas) si associa invece prevalentemente alla pancreatite acuta (evenienza anzi praticamente ineluttabile nei casi di iperchilomicronemia), ma molto meno all’aterosclerosi coronarica. Ne risulta quasi un paradosso clinico: mano a mano che si abbassa la trigliceridemia, aumenta il rischio cardiovascolare, che è di gran lunga superiore nei soggetti con forme modeste, in cui maggiormente incidono le condizioni aterogene associate che abbiamo elencato precedentemente. Questo può rappresentare un’altra motivazione del fallimento di alcuni studi epidemiologici. Purtuttavia molti trial clinici hanno dimostrato che farmaci in grado di ridurre principalmente la trigliceridemia (fibrati) sono in grado di modificare il rischio cardiovascola- Trigliceridemia Il ruolo della trigliceridemia come fattore di rischio cardiovascolare rappresenta un rilevante problema clinico ed epidemiologico. In particolare, il quesito principale è se l’ipertrigliceridemia debba essere o meno considerata un predittore indipendente di rischio cardiovascolare, e questo perché elevati valori di trigliceridi plasmatici generalmente si associano a tutta una serie di alterazioni metaboliche di per sé aterogene. Tra questi, un ruolo di primo piano hanno sicuramente i bassi livelli di HDL-colesterolo: esistono comunque dati più o meno recenti che sembrerebbero confermare un ruolo della trigliceridemia sugli eventi cardiovascolari, scisso da quello delle HDL. Come detto precedentemente, l’incremento dei trigliceridi plasmatici è associato costantemente a una serie di alterazioni metaboliche potenzialmente pericolose, quali alterazioni della fase postprandiale e accumulo di particelle remnant, anormalità di composizione delle LDL, alterazioni della fibrinolisi e della coagulazione; 39 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 40 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico re quando utilizzati in pazienti con ipertrigliceridemia. Conseguentemente gli elevati livelli di trigliceridi possono quindi diventare un obiettivo del trattamento indipendentemente dall’abbassamento dei valori di LDL. La riduzione dei livelli di trigliceridemia, inoltre, modifica positivamente una serie di altre anomalie lipoproteiche in grado di alterare il rischio cardiovascolare, tra cui i bassi livelli di HDL, la presenza di LDL piccole e dense o le anomalie della fase postprandiale. Naturalmente, la riduzione del peso corporeo in pazienti in sovrappeso, come anche l’adozione di adatti programmi di esercizio fisico, sono in grado di ridurre i livelli di trigliceridemia, che rappresenta tra l’altro una delle modalità attraverso cui queste variazioni dello stile di vita sono in grado di modificare il rischio cardiovascolare. che complesse e non disponibili immediatamente. Il parametro che negli ultimi anni ha avuto la migliore applicabilità clinica è stato però il rapporto vita/fianchi, che rappresenta una semplice misurazione, facilmente praticabile in qualsiasi ambulatorio medico, altamente associata con altri fattori di rischio e predittiva di eventi clinici cardiovascolari. Recentemente sono emerse ulteriori informazioni che mostrano come la semplice misurazione della circonferenza addominale possa avere un potere clinico e predittivo sovrapponibile al rapporto vita/fianchi. L’obesità centrale tipicamente incrementa i livelli plasmatici di colesterolemia e la pressione arteriosa e abbassa i livelli di HDL-colesterolo. Predispone inoltre al diabete mellito di tipo II. Condiziona poi negativamente altri fattori di rischio: trigliceridemia, qualità delle LDL, resistenza insulinica e fattori protrombotici. Per tale motivo la valutazione dell’obesità come fattore di rischio indipendente è molto complessa, e spesso gli studi epidemiologici hanno dimostrato una riduzione del rischio relativo dopo aggiustamento per i fattori associati. Esistono comunque dati longitudinali che hanno dimostrato che l’obesità, e come detto principalmente quella centrale, predispone in maniera indipendente dagli altri fattori di Obesità Gli americani definiscono l’obesità un fattore di rischio cardiovascolare maggiore. Il rischio è notevolmente maggiore quando l’obesità ha una predominante componente addominale. Esistono diversi modi per valutare il tipo di obesità: molti di questi presuppongono l’impiego di attrezzature diagnosti- 40 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 41 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi rischio noti alla CHD. Tale associazione sembra essere maggiore nei maschi bianchi. In uno studio prospettico, gli uomini fra 40 e 65 anni con indice di massa corporea (BMI) tra 25 e 29 kg/m2, avevano il 72% in più delle probabilità di sviluppare una CHD fatale o non fatale dei soggetti che non erano in sovrappeso. In un altro studio, le donne con BMI fra 23 e 25 kg/m2, avevano il 50% in più di rischio di CHD di quelle con un BMI più basso. In una popolazione dell’Italia meridionale, Ventimiglia di Sicilia, è stato documentato che il sovrappeso e la distribuzione “centrale” del grasso si associavano in maniera indipendente alla mortalità totale e a quella cardiovascolare. Tale informazione risulta maggiormente inquietante se si considera che il sovrappeso e l’obesità stanno diventando un problema sociale in Italia, e questo soprattutto nelle fasce di età più giovani e nelle donne. Le relazioni assolute tra peso corporeo e morbosità e mortalità per CHD sono meno definite negli ispanici, indiani Pima e negri americani; in ogni caso l’obesità è un potente fattore di rischio per il diabete di tipo II, che è di per sé un fattore di rischio cardiovascolare maggiore. La riduzione del peso corporeo si associa a una modificazione del rischio cardiovascolare: purtuttavia comporta nello stesso tempo anche un miglioramento di tutte le condizioni associate al sovrappeso. In definitiva, anche se rimane molto da capire circa i meccanismi biologici che stanno alla base dell’associazione tra obesità e CHD, rimane fuor di dubbio che una forte relazione esiste. Per tale motivo, l’obesità va considerata un fattore di rischio per CHD e necessita di un trattamento diretto, mirato alla prevenzione e alla riduzione di peso delle persone in sovrappeso. Questo dev’essere una parte integrante di tutte le strategie di prevenzione a breve e a lungo termine. Inattività fisica Numerosi studi, incluso il Framingham Heart Study, hanno dimostrato che l’inattività fisica aumenta il rischio per la CHD. Il grado di inattività fisica che aumenta il rischio coronario indipendentemente dagli altri fattori di rischio maggiori non è noto. Di sicuro, l’inattività fisica ha effetti negativi su molti dei fattori di rischio noti e in particolare sul profilo lipidico (riduzione dei livelli di HDL-colesterolo). Anche se poi andasse considerata un fattore di rischio indipendente, al momento è estremamente difficile misurare in ma- 41 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 42 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico niera affidabile nei singoli individui i livelli di attività fisica. È questo uno dei motivi per i quali l’attività fisica non può essere oggi inclusa nella valutazione del rischio cardiovascolare globale. Nonostante questi limiti di valutazione, diversi studi hanno dimostrato che un’attività fisica regolare riduce il rischio per CHD. La rimozione dell’inattività fisica rappresenta quindi un obiettivo di trattamento specifico e indipendente. I medici dovrebbero sempre incoraggiare i loro pazienti a incrementare i propri livelli di esercizio fisico, anche se i pazienti ad alto rischio dovrebbero avere dei programmi guidati specifici. lipidemizzante. Infatti, a prescindere dal fatto che sia o meno utilizzata per modificare il trattamento nei singoli pazienti, l’anamnesi familiare è comunque imprescindibile nella clinica dei soggetti a rischio cardiovascolare. Un gentilizio positivo per CHD premature impone al medico almeno un richiamo al paziente per una completa valutazione dei familiari, sia per un’eventuale aterosclerosi subclinica sia per la presenza di fattori di rischio. Un problema strettamente connesso e che nel futuro avrà sempre maggiore rilevanza, riguarda la diagnosi genetica. Noi oggi abbiamo coscienza del fatto che esiste tutta una serie di geni che possono rappresentare elementi causali, oppure in grado di aumentare la suscettibilità all’aterosclerosi come conseguenza di interazione tra fattori genetici e ambientali. Tali fattori genetici sono costituiti da mutazioni e da semplici polimorfismi, cioè alterazioni che generano singole anomalie della sequenza del DNA senza modificazioni del gene, di cui però possono o meno alterare la funzione. Tali fattori sono stati solo parzialmente identificati. Tra i geni candidati ad avere un ruolo attivo nell’aumentare il rischio cardiovascolare, annoveriamo alcuni geni implicati nel metabolismo lipoproteico, nel sistema fibrinolitico e coagulativo, nel sistema re- Storia familiare di CHD prematura e geni di suscettibilità Ci sono pochi dubbi sul fatto che una storia familiare positiva per CHD premature conferisca un maggior rischio a qualsiasi livello degli altri fattori di rischio noti. In ogni caso, il grado di indipendenza dagli altri fattori e la potenza assoluta nell’incrementare il rischio non sono definiti. Le Linee Guida internazionali includono sempre la storia familiare per CHD prematura fra le situazioni che modificano l’intensità di una terapia ipo- 42 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 43 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi nina-angiotensina e anche nella funzione endoteliale e nel metabolismo della parete vascolare. Al contrario delle rare forme monogeniche con segni e sintomi clinici severi (come nel caso dell’ipercolesterolemia familiare), i polimorfismi genetici sono relativamente frequenti. Ciò implica che spesso un individuo porta più marker che predispongono al rischio cardiovascolare. Sono poi le caratteristiche di vita e comportamentali e/o fattori endogeni che sono in grado di modulare il rischio. In ogni caso, eccetto per alcuni geni specifici che hanno un effetto documentato su determinate situazioni intermedie (esempio polimorfismi dell’apoE e livelli di LDL-colesterolo) o cliniche (IMA), il ruolo di gran parte dei geni è controverso e non definito. Nonostante il grande progresso nel mappaggio del menoma umano degli ultimi anni, l’identificazione dei geni responsabili delle malattie cardiovascolari è ancora, quindi, in una fase precoce, e rappresenta una scommessa della ricerca medica del prossimo futuro. to della personalità e di elementi socioeconomici al rischio per CHD, e fattori specifici come l’ostilità, la depressione, l’isolamento sociale sono stati dimostra ti avere un ruolo predittivo. L’influenza del tipo di personalità è stata presa in considerazione da diversi studi epidemiologici, ed si è dimostrato che i soggetti caratterizzati da particolare aggressività, ambizione, ostilità, competitività e ansietà (personalità di tipo A) avevano un rischio raddoppiato di sviluppare eventi cardiovascolari. Tale associazione è stata spesso confermata, anche se tale tipo di personalità è di sovente associata ad altri fattori di rischio, come il fumo di sigaretta o l’ipertensione. I fattori comportamentali non sono inclusi nei vari algoritmi di valutazione del rischio cardiovascolare globale. Nonostante ciò, il medico deve prendere in considerazione tali condizioni nel singolo paziente quando una strategia di riduzione complessiva del rischio viene intrapresa. Caratteristiche etniche Fattori psicosociali e comportamentali La popolazione di Framingham rappresenta la popolazione mondiale più intensivamente studiata per la valutazione dei fattori di rischio cardiovascolari. Que- Esiste da molto tempo un grande interesse nella valutazione del contribu- 43 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 44 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico sto studio è di grande valore nel dimostrare come si sviluppa il rischio in questa popolazione. Poiché la popolazione di Framingham è largamente costituita da bianchi di origine europea, non è chiaro se il rischio assoluto attribuibile a questa popolazione è estendibile ad altre realtà. Evidenze disponibili suggeriscono che il rischio assoluto vari tra le differenti popolazioni indipendentemente dai fattori di rischio maggiori. Per esempio, il rischio assoluto tra i soggetti asiatici (indiani e pakistani) che vivono nelle società occidentali, appare essere due volte più elevato dei bianchi, anche a parità di fattori di rischio. Questo rischio differente deve essere tenuto in considerazione anche nella nostra società, che si avvia a diventare multietnica. Altre situazioni possono avere un rischio basale inferiore a quello di Framingham. È il caso degli hawaiani studiati nell’Honolulu Heart Study, che hanno solo 2/3 del rischio dei soggetti di Framingham. Nel Seven Countries Study, la popolazione giapponese aveva un rischio di CHD molto più basso delle altre popolazioni, ma come è noto anche l’area mediterranea, con alcune differenze, sembra essere una zona privilegiata in termini di rischio coronario, e questo sia per ragioni ambientali (per esempio l’alimentazione) che per motivazioni di tipo genetico (ad esempio una differente distribuzione dei polimorfismi dell’apoE). Il concetto di rischio cardiovascolare globale, le carte del rischio coronario I grandi trial di prevenzione primaria e secondaria hanno documentato in maniera inequivocabile che la riduzione dei livelli di colesterolo plasmatici è in grado di ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari. Cionondimeno la nuova visione della pratica medica, in relazione anche a necessità di tipo economico, fa emergere aspetti meno considerati in passato. Analizzando il rapporto costo/beneficio della terapia ipolipidemizzante con statine, la prevenzione primaria, al contrario della prevenzione secondaria, per essere efficace dovrebbe essere limitata ai soggetti nelle classi elevate di rischio, rendendo quindi necessario un approccio integrato al problema del rischio cardiovascolare da valutare in maniera globale. In tal senso è necessario affrontare il problema attraverso un approccio multiplo: da un lato strategie più generali di “popolazione”, e dall’altro programmi individuali indirizzati ai soggetti ad alto rischio. 44 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 45 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi La strategia di popolazione (rivolta cioè a tutti gli individui, sani, malati e predisposti) mira a ottenere una riduzione complessiva dei fattori di rischio attraverso semplici misure generali di ordine dietetico-ambientale e sanitario estendibili alla maggioranza dei soggetti. Queste comprendono innanzitutto l’adozione di iniziative concrete per l’identificazione di tutti i fattori di rischio coronarico, attraverso accurati programmi di screening facilmente praticabili in ciascun ambulatorio medico; quindi la consuetudine a fornire a tutti i pazienti consigli alimentari corretti, con una dieta a basso contenuto di grassi saturi e colesterolo. Tali obiettivi nutrizionali sono facilmente raggiungibili aumentando il consumo di alcuni alimenti molto diffusi nella nostra dieta (pasta, pane, verdure, legumi, frutta fresca, pesce, olio d’oliva ecc.) e riducendo quello di altri (carni rosse, uova, insaccati ecc.). Sono ancora di rilevante importanza l’eliminazione del fumo di sigaretta, l’ottenimento di un peso corporeo ideale ed eventualmente l’incremento dell’attività fisica. La strategia individuale va orientata invece a tutti i soggetti ad alto rischio, e cioè con una malattia cardiovascolare preesistente, con un’iperlipidemia genetica o che siano portatori di un elevato rischio cardiovascolare su base mul- tifattoriale. È probabilmente superfluo ricordare che se esistono alcuni dei fattori causali maggiori che abbiamo precedentemente descritto, si deve considerare che altre condizioni – ambientali, biochimiche, patologiche o perfino anamnestiche a tutti note – sono in grado di modificare il rischio cardiovascolare. Peraltro la coesistenza di differenti fattori di rischio in uno stesso soggetto amplifica il rischio stesso, poiché essi interagiscono tra di loro con un effetto non additivo ma moltiplicativo. Emerge quindi prepotentemente la necessità di una valutazione integrata, globale, del rischio individuale. Sono oggi disponibili numerosi strumenti, cartacei o informatizzati, in grado di analizzare il rischio cardiovascolare. Purtuttavia nessuno di essi è definitivo e in grado di incorporare tutti i fattori di rischio noti. Un esempio su tutti è la costante assenza della familiarità per cardiopatia ischemica, che rappresenta un’indicazione clinica di grandissima importanza, ma difficilmente riducibile a un parametro analizzabile dalle varie metodiche. In ogni caso il risultato finale è quello di spostare l’attenzione da un singolo fattore al rischio globale dell’individuo. La scelta di uno strumento rispetto a un altro non è semplice, ed esistono vari studi comparativi a proposito. La mag- 45 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 46 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico Figura 1 Carta del Rischio Coronarico in pazienti a rischio elevato di un primo evento cardiovascolare maggiore. DONNE UOMINI 4 5 250 6 Fumatori 300 mg/dl 150 8 mmol/l 4 7 200 5 250 6 Non-fumatrici 300 mg/dl 150 8 mmol/l 4 7 180 età 160 70 140 120 180 età 160 60 140 Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg) 120 180 160 160 140 140 120 120 180 180 160 160 140 140 120 120 160 50 140 140 120 120 180 180 età 160 40 140 120 180 età 160 30 140 120 mg/dl 180 180 età 160 mmol/l 180 4 5 150 6 200 7 250 8 mmol/l 300 mg/dl 4 150 Colesterolo 6 200 7 250 Oltre il 40% da 20% a 40% da 10% a 20% da 5% a 10% sotto il 5% 5 250 6 Fumatrici 300 mg/dl 150 8 mmol/l 4 7 200 5 250 6 300 7 8 180 età 160 70 140 120 180 età 160 60 140 120 180 180 età 160 160 50 140 140 120 120 180 180 160 160 140 140 120 120 180 180 160 160 140 140 120 120 8 mmol/l 300 mg/dl Colesterolo Livello del Rischio Molto alto Alto Moderato Lieve Basso 5 200 età 160 40 140 120 180 età 160 30 140 120 4 5 150 6 200 7 250 Colesterolo Come usare la Carta del Rischio Coronarico Tale carta permette di stimare il rischio di malattia coronarica nei soggetti che non hanno sviluppato una coronaropatia sintomatica o altre patologie aterosclerotiche. I pazienti con malattia coronarica sono già ad alto rischio e richiedono un intervento intensivo sullo stile di vita e, se necessario, una terapia farmacologica per ridurre i fattori di rischio. • Per stimare il rischio assoluto di un soggetto di sviluppare un evento coronarico in 10 anni, identificare la tabella corrispondente al sesso, alla condizione rispetto 46 Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg) mmol/l 200 Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg) 150 Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg) Non-fumatori mg/dl 8 mmol/l 300 mg/dl 4 5 150 6 200 7 250 8 300 Colesterolo al fumo e all’età. All’interno della tabella, identificare i quadrati indicanti i valori della pressione arteriosa sistolica (mmHg) di interesse e i valori di colesterolo (mmol/l o mg/dl). • L’effetto dell’età sui fattori di rischio può essere valutato all’interno della tabella. • I soggetti ad alto rischio sono coloro il cui rischio di sviluppare un evento coronarico in 10 anni supera il 20% oppure supererà il 20% se proiettati all’età di 60 anni. • Il rischio di malattia coronarica è più alto di 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 47 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi DONNE CON DIABETE UOMINI CON DIABETE 4 5 250 6 Fumatori 300 mg/dl 150 8 mmol/l 4 7 200 5 250 6 Non-fumatrici 300 mg/dl 150 8 mmol/l 4 7 180 età 160 70 140 120 180 età 160 60 140 Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg) 120 180 160 160 140 140 120 120 180 180 160 160 140 140 120 120 160 50 140 140 120 120 180 180 età 160 40 140 120 180 età 160 30 140 120 mg/dl 180 180 età 160 mmol/l 180 4 5 150 6 200 7 250 8 mmol/l 300 mg/dl 4 5 150 Colesterolo quello indicato nelle carte nel caso di soggetti con: • Ipercolesterolemia familiare • Storia familiare di malattia cardiovascolare • Bassi livelli di colesterolo HDL. In queste tabelle viene considerato un C-HDL di almeno 39 mg/dl (1,0 mmol/l) negli uomini e di 43 mg/dl (1,1 mmol/l) nelle donne. • Livelli di trigliceridi >180 mg/dl (2,0 mmol/l) • Età • Per individuare il rischio relativo di un individuo confrontare il rischio con quello di altri individui della stessa età. Il rischio assoluto qui 6 200 7 250 200 5 250 6 Fumatrici 300 mg/dl 150 8 mmol/l 4 7 200 5 250 6 300 7 8 180 età 160 70 140 120 180 età 160 60 140 120 180 180 età 160 160 50 140 140 120 120 180 180 160 160 140 140 120 120 180 180 160 160 140 140 120 120 8 mmol/l 300 mg/dl Colesterolo età 140 120 180 età 160 30 140 120 4 5 150 6 200 7 250 Colesterolo indicato può non essere applicabile a tutta la popolazione, specialmente in presenza di una bassa incidenza di malattia coronarica. Il rischio relativo è verosimilmente applicabile nella gran parte della popolazione. • L’effetto delle variazioni di colesterolo, fumo e pressione arteriosa possono essere valutate con l’utilizzo delle carte. Prevention of coronary heart disease in clinical practice Reccommendation of the Second Joint Task Force of European and other Societes on Coronary Prevention, European Heart Journal, 19: 1434-1503, 1998 47 160 40 8 mmol/l 300 mg/dl 4 5 150 6 200 7 250 Colesterolo 8 300 Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg) mmol/l 200 Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg) 150 Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg) Non-fumatori mg/dl 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 48 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico gior parte di essi si basa sui dati epidemiologici di Framingham o del Prospective Cardiovascular Munster Study (PROCAM). La Società Europea dell’Aterosclerosi (EAS) ha varato delle semplici Carte del Rischio basate sui dati epidemiologici del Framingham Study che tengono in considerazione sei fattori di rischio (età, sesso, colesterolemia, pressione arteriosa, fumo di sigaretta, diabete), e sono state quindi adottate per diffondere le proprie Linee Guida ai medici pratici. Tali Carte rappresentano un modello semplice, abbastanza affidabile, alla portata di tutti, in grado di valutare il rischio di avere un evento cardiovascolare importante (infarto del miocardio fatale o non fatale o morte coronarica) nei successivi 10 anni. Sono costituite da tabelle formate da quadrati colorati che corrispondono a uno specifico livello di rischio, e dal semplice incrocio dei fattori di rischio presenti è possibile ottenere la situazione del soggetto in esame (vedi Fig. 1). Sono diversificate, inoltre, in base al sesso, alla presenza del fumo di sigaretta e del diabete mellito. Purtuttavia le carte emanate dall’EAS, anche se senza dubbio valide, comportano dei problemi che è necessario conoscere per poterle utilizzare al meglio. Come di un farmaco il clinico deve infatti conoscere pregi (indicazioni ed efficacia terapeutica) e difetti (eventi avversi), anche di un tale strumento deve a maggior ragione essere a conoscenza dei vantaggi che possono comportate dal suo utilizzo ma anche degli eventuali problemi. Innanzitutto le Carte del Rischio sono state inserite dal legislatore nella Nota 13 che regola le norme di rimborsabilità dei farmaci ipocolesterolemizzanti. Iniziativa lodevole, che introduce a tutti gli effetti, nella nostra pratica clinica (per la prima volta), il concetto della prevenzione primaria (per coloro che hanno un rischio ≥20% di un evento nei successivi 10 anni). Tali indicazioni non vanno scambiate però con una Linea Guida di Trattamento emanata dal Ministero, ma come una pura e semplice regola per individuare i pazienti che hanno diritto all’esenzione della partecipazione alla spesa farmaceutica. Le Carte del Rischio, basate su una popolazione americana, senza dubbio sovrastimano il rischio rispetto alla nostra, che ha alimentazione e stile di vita, per buona parte del territorio, di tipo mediterraneo. Sono state prodotte recentemente delle Carte del Rischio Italiane, calcolate in base ai dati di tre studi epidemiologici, lo studio ECCIS, lo studio IRA-SCS (Aree Rurali Italiane del Seven Countries Study) e lo studio di Gubbio, compiuti in soggetti 48 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 49 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi italiani di ambo i sessi tra i 35 e 74 anni, inizialmente esenti da malattie cardiovascolari, con un follow-up complessivo di oltre 55.000 anni/persona. Anche queste Carte non sono esenti da critiche. Sono innanzitutto basate su dati non molto aggiornati, ed è noto che in Italia l’incidenza delle malattie cardiovascolari è in continuo aumento: in tal modo sottostimano il rischio attuale nella nostra popolazione; inoltre mettono insieme il rischio di malattia cardiovascolare con gli accidenti cerebrovascolari, e sono quindi poco comparabili con le Carte dell’EAS. L’aggiornamento e la capillare diffusione di queste carte potrà fornire al medico un ulteriore strumento per il calcolo del rischio nella popolazione italiana. Le carte attuali, poi, non tengono in considerazione alcuni fattori di rischio (HDL-colesterolo in prima istanza), sottostimano altri importanti fattori di rischio, come ad esempio il diabete, e, almeno per quanto riguarda la nostra popolazione, ne sovrastimano altri ancora, in particolare l’età. Questo perché tengono in considerazione in particolare il rischio assoluto, che è chiaramente incrementato con l’aumentare degli anni, e non il rischio relativo, che rappresenterebbe un parametro più affidabile nella valutazione del peso dei differenti fattori di rischio. La pressione arteriosa, inoltre, va conside- rata come valore “misurato” a prescindere da qualunque tipo di terapia farmacologia, e non come presenza o assenza di ipertensione: il soggetto iperteso ben trattato va quindi considerato alla stregua di un normoteso, anche in presenza di un danno d’organo. Un problema particolare esiste per l’approccio al paziente diabetico. Il diabete è stato infatti considerato un semplice fattore di rischio e non è stato estrapolato dal calcolo. Oggi però è universalmente riconosciuto che il diabetico andrebbe considerato alla stregua di un infartuato, per quanto riguarda il rischio cardiovascolare, e che per ridurre gli eventi cardiovascolari in questi soggetti la priorità va data al trattamento dell’LDL-colesterolo con obiettivi estremamente ambiziosi da raggiungere (LDL-colesterolo <100 mg/dl). Con la rigorosa applicazione delle Carte del Rischio, così, una donna diabetica di 60 anni, non fumatrice, ipertesa (PAS 180 mmHg), con una colesterolemia di 270 mg/dl, avrà un rischio moderato (10-20%), mentre un uomo di 70 anni, normoteso (PAS 110 mm/Hg), non fumatore, non diabetico, con una colesterolemia di 200 mg/dl, avrà un rischio elevato (20-40%). Una conseguenza è che tutti gli anziani, che hanno un rischio assoluto più elevato basato solo sull’età, avranno la possibi- 49 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 50 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico lità di essere trattati anche se con una scarsità di fattori di rischio, mentre i giovani con svariati fattori di rischio non sempre rientreranno nei criteri di esenzione. In questo caso, i vantaggi in termini di farmacoeconomia, cui primariamente si ispirano queste modifiche delle note, sono assolutamente da dimostrare, e ci riferiamo tra l’altro a una grossa percentuale di pazienti che il medico di medicina generale e il cardiologo visitano giornalmente. Che la valutazione globale del rischio cardiovascolare sia la modalità del futuro attraverso cui attuare la prevenzione cardiovascolare, è testimoniato anche dalla recente nuova edizione delle Linee Guida Americane (ATP III), che ha incluTabella 8 Linee Guida della National Cholesterol Education Program (NCEP) Export Panel sul Trattamento dei livelli elevati di colesterolo nell’adulto (ATP III). so la valutazione del rischio cardiovascolare globale nei criteri di valutazione degli obiettivi terapeutici. Rispetto alle Linee Guida Europee ci sono però delle differenze sostanziali, che vale la pena sottolineare. Il rischio cardiovascolare viene valutato attraverso un algoritmo, derivato sempre dal database di Framingham, che ha il vantaggio, per esempio, di valutare in maniera differente la pressione arteriosa “non trattata” da quella ottenuta sotto terapia farmacologia. Come mostrato nella Tabella 8, le nuove Linee Guida Americane, destinate ad essere come nel passato una traccia per il comportamento terapeutico del resto del mondo, considerano separatamente i diabetici e i soggetti con aterosclerosi Categoria di rischio Obiettivo terapeutico Modificazioni dello stile di vita Terapia farmacologica CHD o equivalenti di CHD* LDL-C<100 mg/dl LDL-C≥100 mg/dl LDL-C≥130 mg/dl (100-129 farmaci opzionali) 2 o più fattori di rischio** LDL-C<130 mg/dl LDL-C≥130 mg/dl LDL-C≥130 mg/dl (Rischio 10-20%) LDL-C≥160 mg/dl (Rischio <10%) 0o1 fattori di rischio** LDL-C<160 mg/dl LDL-C≥160 mg/dl LDL-C≥190 mg/dl (160-189 farmaci opzionali) * Diabete mellito, malattia aterosclerotica (arteriopatia periferica, aneurisma aorta addominale, arteriopatia carotidea sintomatica) o un rischio a 10 anni >20%. ** Età (≥45 anni negli uomini, ≥55 anni nelle donne), fumo di sigaretta, pressione arteriosa ≥140/90 mmHg o terapia farmacologia antipertensiva, HDL-C<40 mg/dl, storia familiare di CHD precoce (<55 anni nei parenti di primo grado maschi, <65 anni nei parenti di primo grado femmine). 50 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 51 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi Tabella 9 Classificazione dei livelli lipidici e della sindrome polimetabolica nell’ATP III. LDL-colesterolo • Ottimale <100 mg/dl • Vicino all’ottimale 100-129 mg/dl • Borderline alto 130-159 mg/dl • Alto 160-189 mg/dl • Molto alto ≥190 mg/dl Colesterolo Totale • Desiderabile <200 mg/dl • Borderline alto 200-239 mg/dl • Alto ≥240 mg/dl HDL-colesterolo • Basso <40 mg/dl • Alto ≥60 mg/dl Trigliceridemia • Normale <150 mg/dl • Borderline alto 150-199 mg/dl • Alto 200-499 mg/dl • Molto alto ≥500 mg/dl Sindrome polimetabolica • Obesità addominale Circonferenza vita >102 (maschi)/88 (femmine) cm • Trigliceridemia ≥150 mg/dl • HDL-colesterolemia <40 (maschi)/50 (femmine) mg/dl • Pressione arteriosa ≥130/85 mmHg • Glicemia ≥110 mg/dl polidistrettuale (considerati equivalenti di cardiopatia ischemica), e prendono anche in considerazione, finalmente, l’assetto lipidico in maniera globale, trac- ciando anche dei limiti innovativi rispetto al passato (ad esempio vengono considerate le basse concentrazioni di HDLC<40 mg/dl) e il problema, spinoso, 51 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 52 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico della sindrome polimetabolica (Tab. 9). Rappresentano quindi un reale passo avanti nella prevenzione cardiovascolare e, come già successo in passato, rappresenteranno sicuramente un modello cui ispirarsi. Nella valutazione del rischio globale bisogna tenere anche presente alcuni aspetti collegati. Innanzitutto il fatto che il rischio assoluto di una determinata categoria di soggetti, collegato strettamente con il rischio globale, ha grandi implicazioni pratiche, perché permette tra l’altro di calcolare il numero di soggetti da trattare per prevenire un evento (Number Needed to Treat, NNT), un parametro epidemiologico estremamente importante perché consente di trasferire in maniera abbastanza rapida i risultati dei trial clinici alla pratica clinica. L’analisi dei grandi studi epidemiologici in campo di prevenzione cardiovascolare con i farmaci ipocolesterolemizzanti ha mostrato che esisteva una grande differenza di rischio assoluto “basale” tra i diversi trial e che questo, ovviamente, si associava a una reale differenza in termini di NNT. Si va così da un rischio di eventi cardiovascolari del 3% annuo (30% in 10 anni) del 4S (NNT 12), la cui coorte era costituita da soggetti infartuati e ipercolesterolemici, fino a un rischio di 0,7% (NNT 86) del AFCAPS/Tex CAPS, in cui la coorte non aveva sofferto precedentemente di un infarto del miocardio, aveva livelli di colesterolemia normali e bassi livelli di HDL-colesterolo (≤40 mg/dl). Tale grande differenza è naturalmente dovuta anche e soprattutto al fatto che nel primo caso si tratta di soggetti che hanno già sofferto di un precedente evento cardiovascolare (infarto del miocardio), nel secondo di individui che ne erano esenti. Gli altri studi hanno individuato fra il 2 e il 2,3% il rischio assoluto del CARE e del LIPID (NNT rispettivamente 23 e 28; soggetti infartuati con diversi livelli di colesterolemia) e dell’1% il rischio assoluto del WOSCOPS (nessun infarto, ma presenza di ipercolesterolemia e spesso altri fattori di rischio). Rimane poi la questione del livello di rischio da considerare come limite per un trattamento farmacologico. Anche questo è un aspetto che abbraccia argomenti di tipo finanziario e socioeconomico più che medico in senso stretto, ma che va tenuto presente nella pratica clinica dei nostri giorni. Abbassare il livello di rischio per una terapia, significa aumentare in maniera forse indiscriminata il numero di pazienti eleggibili per quel dato trattamento e conseguentemente i costi, e viceversa aumentarlo si traduce in una riduzione dei soggetti da 52 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 53 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi trattare ma anche in un possibile incremento dei costi “indiretti” legati a patologie causate dal mancato trattamento, come ad esempio ricoveri per cardiopatia ischemica, infarto del miocardio e interventi di rivascolarizzazione. È naturale che il livello di rischio scelto deve come minimo essere pari a quello dei soggetti che abbiano già avuto un evento. I dati del WOSCOPS in termini di NNT avevano dimostrato che tra i soggetti che presentavano un’ipercolesterolemia iso- lata, il numero di individui da trattare per prevenire un evento era di circa 56, mentre se all’ipercolesterolemia si associavano l’ipertensione, la familiarità cardiovascolare o il fumo, questo numero scendeva rispettivamente a 24, 23 e 21; in presenza di malattia vascolare preesistente o di alterazioni minori dell’ECG si arrivava a 16 e 14 (Fig. 2). Esaminando insieme i vari trial per sottogruppi, risulta evidente che alcune fasce di individui in prevenzione primaria Figura 2 Numero di soggetti di età tra 45 e 64 anni da trattare per prevenire un evento cardiovascolare maggiore nello studio WOSCOPS. L’intera coorte WOSCOPS Ipertensione Storia familiare di CHD Fumo o HDL-C<42 mg/ml Malattia vascolare preesistente Anomalie minori all’ECG .......................................... Ipercolesterolemia isolata 0 56 40 24 23 21 16 14 20 40 60 80 Soggetti da trattare per prevenire un evento 53 100 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 54 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico Figura 3 M/F, lHDL, CT=(AFCAPS) M, ↑LDL, <55 aa. (WOSCOPS) M, ↑LDL, >55 aa. (WOSCOPS) WOSCOPS, tutti M, ECG alt., <55 aa. (WOSCOPS) M, ↑LDL, + F.R. (WOSCOPS) M, ECG alt., >55 aa. (WOSCOPS) F, LDL=, IMA (CARE) CARE, Tutti F, ↑CT, IMA Angina 4S, Tutti M/F = maschi/femmine ↓ HDL = bassi livelli di HDL CT = livelli di colesterolemia nella media ↑LDL = LDL-colesterolo elevato ECG alt. = presenza di alterazioni elettrocardiografiche +FR = presenza di fattori di rischio multipli IMA: presenza di infarto del miocardio M/F, >65 aa. (4S) Diabetici (4S) ............................................................................................... Rischio assoluto di infarto fatale e non fatale nei diversi studi di prevenzione primaria e secondaria divisi per sottogruppi. 0 Prevenzione primaria Prevenzione secondaria 1 2 3 4 5 6 7 Rischio assoluto per anno di IMA fatale e non fatale (%) 54 8 9 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 55 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi (Fig. 3, parte superiore), possono avere un rischio addirittura superiore a pazienti in prevenzione secondaria. Lo spettro di rischio non è quindi in grado di fare una netta discriminazione tra prevenzione primaria e secondaria, ed esiste una certa fascia di soggetti che non hanno avuto un episodio coronario clinicamente manifesto, ma che superano il limite del 2% annuo (20% in 10 anni). Un altro parametro importante nella valutazione dei costi sociali è anche il livello di rischio generale di una data popolazione. Dati anglosassoni dimostrano che circa l’11% della popolazione adulta residente nel Regno Unito ha un rischio uguale o superiore al 2% annuo, percentuale che scende al 3,4% nel caso di soggetti con rischio del 3% e allo 0,3% quando il rischio diventa del 4,5% annuo. Tutto ciò quindi dimostra che porre il cut-off di rischio per iniziare una terapia farmacologia al 2% annuo rappresenta un limite ragionevole, almeno in quella popolazione, ed è ciò che consigliano oggi le Linee Guida Europee e Americane, anche se dati più recenti suggerirebbero un vantaggio anche su livelli di rischio lievemente inferiori. Nel campo della prevenzione primaria è quindi fondamentale riuscire a discriminare nell’ambito dei soggetti “sani” quella fascia di persone che, avendo un rischio elevato, devono essere trattate in modo più aggressivo. Tale approccio terapeutico trova un razionale anche in altri campi, oltre a quello della terapia ipocolesterolemizzante, come dimostrato per esempio nel caso delle terapie antipertensive, dove la prescrizione di un farmaco sulla base di una valutazione del rischio globale ha delle implicazioni cliniche ed economiche migliori rispetto alla prescrizione basata sulla semplice misurazione della pressione. Possiamo concludere che un approccio globale ai fattori di rischio coronarico è quindi in grado di fornire al medico gli strumenti necessari per intervenire efficacemente nella prevenzione cardiovascolare, con grande beneficio nei confronti dei pazienti e riuscendo a rendere anche un contributo in termini di contenimento di spesa sanitaria, attraverso un’accurata selezione dei pazienti eventualmente candidati al trattamento farmacologico. Nuovi fattori di rischio e possibilità di trattamento In aggiunta ai maggiori fattori di rischio, una serie di altre condizioni o parametri sono stati identificati associarsi 55 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 56 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico Tabella 10 Nuovi fattori di rischio. • Insulinemia • LDL piccole e dense • Lipoproteina(a) • Remnant e Lipoproteine a Densità Intermedia (IDL) • LDL ossidate • Fattori protrombotici e coagulativi • Fattori infiammatori • Fattori infettivi • Alcol • Disfunzione endoteliale • Fattori cardiaci • Omocisteina • Microalbuminuria in vario modo al rischio cardiovascolare (Tab. 10). Anche se il loro contributo relativo ed eventualmente indipendente non è completamente documentato, e per questo non sono in nessun caso inclusi nella valutazione globale del rischio, la loro presenza può però incrementare notevolmente il rischio dovuto alla presenza degli altri fattori cosiddetti “maggiori”. Ciò non significa che essi non siano correlabili singolarmente al rischio cardiovascolare: tuttavia, spesso le relazioni con la cardiopatia ischemica (CHD) sono più complesse di quelle dei fattori di rischio “maggiori”. In alcuni casi, poi, esistono correlazioni statistiche significative con i fattori di rischio maggiori, che oscurano il loro potere predit- tivo indipendente. In altri casi, infine, la frequenza nella popolazione può non essere tale da riuscire a conferire un potere statistico rilevante; nonostante tutto, essi possono spesso essere importanti cause di CHD in determinati pazienti. Molte di queste condizioni rappresentano obiettivi diretti di interventi terapeutici, sia perché possibile causa di altri fattori di rischio maggiori, sia perché le evidenze di un loro ruolo nell’aterogenesi sono sufficientemente forti. Per tale motivo, la loro esclusione dal calcolo del rischio assoluto non implica necessariamente che tali fattori non siano clinicamente importanti, e il loro ruolo nella valutazione e nel trattamento dei pazienti a rischio cardiovascolare merita alcune specifiche valutazioni. 56 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 57 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi questo, l’iperinsulinemia, e con essa l’insulino-resistenza, è accompagnata da una moltitudine di fattori di rischio cardiovascolari che includono la presenza di un fenotipo lipoproteico aterogeno (elevati trigliceridi, LDL piccole e dense e bassi livelli di HDL-colesterolo), ipertensione arteriosa, uno stato protrombotico e, spesso, un’intolleranza glucidica. Tutto ciò è alla base della cosiddetta sindrome polimetabolica, una condizione altamente aterogena trattata in un’altra sezione di questo volume. L’iperinsulinemia viene inoltre acquisita nelle condizioni di sovrappeso, iperalimentazione e inattività fisica, anche se una componente genetica indubbiamente esiste. Le uniche possibilità terapeutiche disponibili nei pazienti non diabetici sono rivolte appunto alla rimozione di queste condizioni, e quindi riduzione del peso corporeo e aumento dell’esercizio fisico. Insulinemia Elevati livelli di insulinemia, e con essa l’inulino-resistenza che rappresenta un epifenomeno spesso associato all’iperinsulinemia, può promuovere lo sviluppo di lesioni ateromatose, e rappresenta quindi un altro potenziale fattore di rischio correlato con la CHD. Purtroppo non esistono dati su popolazioni non diabetiche a supporto di tale associazione. L’iperinsulinemia è infatti in genere presente sia nei diabetici non-insulino dipendenti (secondaria alla resistenza periferica all’ormone), che nei diabetici insulino-dipendenti (iatrogena). Gli studi disponibili che hanno correlato il rischio di cardiopatia ischemica con l’insulinemia, trovando una positiva associazione, non erano corretti per gli altri fattori di rischio, e così non è possibile fare valutazioni conclusive in mancanza di sicure informazioni epidemiologiche. I meccanismi di associazione tra la resistenza insulinica e l’aterogenesi sono complessi e probabilmente multifattoriali. Gli studi sperimentali hanno però documentato come l’insulina possa avere un’azione mitogena sulle cellule muscolari lisce della parete vasale, e che può incrementare la loro migrazione dalla media all’intima stimolata da altre sostanze. A prescindere da Lipoproteina(a) La lipoproteina(a) [Lp(a)] è una grossa lipoproteina basica, costituita da una LDL nativa la cui apoB100 è legata in modo covalente con l’apoproteina(a), una glicoproteina che è il marker specifico della Lp(a), attraverso un pon- 57 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 58 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico te disolfurico. È composta da una molecola di apoB di circa 500 kDa e una di apo(a) con massa variabile fra 300 e 800 kDa. A causa di questa variabilità di peso molecolare la Lp(a) assume un notevole polimorfismo strutturale con densità variabile. L’apo(a) è costituita da una serie di anelli di sequele aminoacidiche, variabili in numero da 13 a 40, denominati kringle, analoghi agli anelli numero 4 e 5 del plasminogeno. La concentrazione plasmatica di Lp(a) varia da 0,1 a 300 mg/dl e la distribuzione dei valori nella razza europea e nei bianchi e neri americani non è di tipo gaussiano, ma asimmetrica, con una lunga coda verso i valori più alti. Le concentrazioni plasmatiche di questa lipoproteina sono pressoché esclusivamente ereditabili, determinate in maniera predominate (>90%) dal gene dell’apo(a), e sono regolate da differenze nella sintesi epatica piuttosto che da un aumentato o ridotto catabolismo della lipoproteina. Per la sua analogia strutturale con il plasminogeno, è tuttora dubbio se la Lp(a) abbia un effetto protrombotico o proaterogeno. In ogni caso, numerosi studi sia caso-controllo che prospettici, hanno in genere documentato un ruolo predittivo, spesso indipendente, della Lp(a) nei confronti delle malattie car- diovascolari. Gli interventi dietetici e la maggior parte dei farmaci utilizzati nella terapia delle iperlipidemie, non sono risultati particolarmente efficaci nel ridurre i livelli plasmatici di questa lipoproteina. Farmaci ad azione puramente ipocolesterolemizzante, quali le resine a scambio ionico, il probucol o gli inibitori della sintesi di colesterolo (inibitori dell’HMG-CoA reduttasi), non inducono importanti modificazioni dei livelli plasmatici di Lp(a). Tra i fibrati, il gemfibrozil sembra non esercitare alcun effetto, mentre il bezafibrato risulta efficace nell’indurne un continuo e graduale calo. L’acido nicotinico e la neomicina sono i farmaci più efficaci nel ridurre le concentrazioni plasmatiche di Lp(a), pur non portando a una completa normalizzazione: purtroppo sono farmaci di scarso impiego clinico, a causa dei ben noti effetti collaterali. Di particolare efficacia risulta anche il trattamento con ormoni steroidei, utilizzati nella sindrome da postmenopausa, come anche l’uso di alcuni omoni androgeni (stazololo e danazolo). Considerando la scarsa efficacia dei trattamenti farmacologici fino ad oggi utilizzati, sembra quindi prematuro adottare delle Linee Guida per individuare soggetti con alti valori di Lp(a) allo scopo di prevenire la CHD. Dobbiamo attendere 58 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 59 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi nuove evidenze da trial clinici che la riduzione dei tassi circolanti di Lp(a) in soggetti ad alto rischio si associa a una ridotta probabilità di sviluppare eventi cardiovascolari (incluso stroke e arteriopatia periferica). Nel frattempo, l’unica cosa sicuramente utile nei soggetti con elevati livelli di Lp(a) è identificare e controllare eventuali fattori di rischio concomitanti. tern delle LDL sembrerebbe inoltre essere molto forte: il pattern B sarebbe influenzato da un’allele con una frequenza di 0,25-0,30 nella popolazione, ereditarietà autosomica dominante e una ridotta penetranza negli uomini prima dei 20 anni e nelle donne in età premenopausale. Fra i soggetti con livelli normali o modestamente aumentati di colesterolo totale, il rischio cardiovascolare è stato visto essere più elevato nei soggetti che presentano livelli più elevati di apoproteina B nelle LDL, e con una maggiore quantità di particelle di LDL circolanti con un basso rapporto colesterolo/apoB. Poiché man mano che si riducono le dimensioni delle lipoproteine, e quindi aumenta la densità delle stesse particelle, si osserva una riduzione del contenuto percentuale lipidico e un aumento delle proteine, ne deriva che la distribuzione delle LDL nei soggetti affetti da CHD è spostata verso le particelle più piccole e dense. Effettivamente l’incidenza di CHD, anche in soggetti normolipidemici, è significativamente aumentata nei soggetti che presentano il pattern B delle LDL rispetto ai soggetti con pattern A: è stato dimostrato che il pattern B si trova in almeno il 50% dei soggetti sopravvissuti a infarto del miocardio, con un incremento del rischio relativo di almeno tre LDL piccole e dense Le lipoproteine a bassa densità (LDL) non rappresentano una classe lipoproteica omogenea. Utilizzando particolari tecniche di laboratorio è infatti possibile evidenziare almeno quattro maggiori sottoclassi, diverse per densità, dimensioni e composizione, con una grande variabilità individuale. Tali sottofrazioni delle LDL avrebbero anche differenti funzioni metaboliche. Nella popolazione generale la distribuzione delle sottofrazioni delle LDL sembrerebbe avere un andamento bimodale: circa il 75% dei soggetti presenta una preponderanza di particelle più larghe, LDL-I o LDL-II, (pattern A), mentre il resto una predominanza di particelle più piccole e dense, LDL-III o LDL-IV (pattern B). L’influenza genetica su tali pat- 59 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 60 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico volte rispetto al pattern A. I differenti pattern delle LDL si associano anche ad altre alterazioni lipoproteiche: i soggetti che presentano il pattern B hanno livelli di trigliceridi, e apoB più elevati rispetto ai soggetti con pattern A, e livelli di HDL e apoA-I più bassi. Questo porterebbe a ipotizzare che il gene responsabile del pattern B avrebbe un ruolo anche in queste modifiche metaboliche correlate. Le multiple modificazioni lipoproteiche associate a questo pattern delle LDL, geneticamente determinato, hanno portato a definirlo come il “fenotipo lipoproteico aterogeno”. L’associazione del pattern B con altre alterazioni lipoproteiche e la frequente preponderanza di LDL piccole e dense in soggetti con iperlipidemia familiare combinata, una manifestazione patologica estremamente comune che si associa a una prematura CHD, aumentano anche la possibilità che lo stesso allele che predispone a questo profilo delle LDL possa contribuire allo sviluppo della stessa patologia. Dal punto di vista terapeutico non sono molti gli strumenti efficaci nella modificazione delle dimensioni delle LDL. La correzione di un’eventuale ipertrigliceridemia, che come detto si associa spesso al pattern B, comporta di frequente anche un cambiamento di pattern, mentre l’effetto diretto dei far- maci è stato dimostrato soltanto per l’acido nicotinico. Per altri farmaci, come le statine, l’azione in questo senso è stata soltanto ipotizzata, ma ancora non documentata. Quindi, oltre ai livelli di LDL-colesterolo, anche la “qualità” delle LDL circolanti sembrerebbe emergere come un nuovo importante fattore associato alla cardiopatia ischemica, sia per le potenzialità aterogene delle particelle più piccole e dense, sia per le alterazioni metaboliche associate. Questo aspetto del metabolismo lipoproteico va tenuto particolarmente in considerazione perché, ad esempio, potrebbe fornire la chiave di lettura di molti casi di precoce aterosclerosi in soggetti privi di fattori di rischio. Remnant e lipoproteine a densità intermedia (IDL) Queste lipoproteine sono rappresentate da quelle particelle che scaturiscono dalla parziale catabolizzazione, da parte degli enzimi lipolitici, delle lipoproteine ricche in trigliceridi (VLDL e chilomicroni). Durante la lipolisi si verifica una brusca deplezione dei trigliceridi di queste lipoproteine, con un accumulo relativo di colesterolo. Le particelle così prodotte sono particolarmente labili e 60 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 61 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi hanno una breve emivita plasmatica, in quanto vengono rapidamente eliminate dal fegato o ulteriormente catabolizzate a formare le LDL. Hanno però delle potenzialità aterogene elevate e la loro breve presenza in circolo rappresenta il maggiore ostacolo per produrre effetti negativi. Esiste una specifica patologia (iperlipoproteinemia di tipo III o malattia da remnant) caratterizzata dall’accumulo di tali lipoproteine, che ha un’elevata incidenza di malattie cardiovascolari. Anche in pazienti con malattia cardiovascolare è stato trovato un accumulo di remnant, e siccome la maggiore produzione di queste particelle è nelle fasi che seguono l’introduzione di cibo, esistono alcune teorie che individuano l’aterogenesi come un fenomeno postprandiale. La diffusione clinica di queste conoscenze presenta però degli ostacoli. I remnant presentano delle difficoltà di dosaggio, oggi in parte superate dall’introduzione di specifici test, che però risultano essere ancora complessi e costosi. Solo con tali test è stato recentemente possibile associare nella popolazione di Framingham l’incidenza di malattie cardiovascolari con la presenza in circolo di remnant. Per quanto riguarda il trattamento di tali anomalie, è da tempo noto che la terapia farmacologia con fibrati ha un be- nefico effetto, mentre meno dati sono disponibili per le statine. In relazione alla concomitante presenza di altre anomalie lipoproteiche o meno (ipertrigliceridemia, bassi livelli di HDL-colesterolo, ma anche sesso, iperinsulinemia e obesità), sono necessari ulteriori studi prospettici per chiarire il ruolo indipendente dei remnant nei confronti delle malattie cardiovascolari, ma soprattutto sarà necessario attendere test di misurazione più semplici e meno costosi per avere una routinaria misurazione di questo parametro. LDL ossidate Le LDL ossidate si pensa siano la forma aterogena delle LDL. Un’altra sezione di questo libro è dedicata a una più ampia trattazione di questo argomento. Comunque, anche se numerosi studi sembrano confermare questo aspetto, il ruolo protettivo degli antiossidanti nel prevenire l’ossidazione delle LDL è solo parzialmente confermato nell’uomo. Studi osservazionali ed epidemiologici, come anche trial randomizzati, non hanno fornito chiare indicazioni su questo aspetto. Comunque, nonostante la mancanza di un consenso generale, esistono dati che sembrerebbe- 61 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 62 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico ro rafforzare il concetto che un regolare apporto di antiossidanti nel cibo possa ritardare la progressione dell’aterosclerosi e che la ridotta suscettibilità all’ossidazione delle LDL possa rappresentare un ottimo marker di azione degli antiossidanti. Quando sarà possibile monitorare l’efficacia di una terapia antiossidante con marker di ossidazione validati, probabilmente avremo maggiori indicazioni sul ruolo potenziale delle vitamine e degli antiossidanti nei confronti delle malattie cardiovascolari. tori di rischio (come il fumo e l’età), esiste una serie di vie fisiopatologiche, acute o croniche, che possono giustificare questa stretta relazione e che comprendono la capacità di infiltrare la parete arteriosa, effetti emoreologici dovuti all’aumentata viscosità ematica, l’incrementata aggregabilità piastrinica e la formazione di trombi, e l’aumentata formazione di fibrina. Anche il ruolo delle piastrine nei confronti delle malattie cardiovascolari è stato valutato in maniera estesa. Le manifestazioni cliniche della CHD sono per lo più generate da una trombosi che si verifica su placche complicate, anche se non stenosanti, e in tal senso il ruolo delle piastrine è evidente. Del resto, numerosi studi effettuati con antiaggreganti piastrinici hanno fornito dati brillanti in relazione al rischio di eventi cardiovascolari; l’aspirina risulta essere il farmaco più studiato e va come tale considerato il trattamento standard, anche se dati positivi cominciano a emergere con i nuovi farmaci che agiscono a livelli differenti. Il sistema fibrinolitico agisce invece sul versante della risoluzione del trombo. Anche i fattori fibrinolitici possono essere importanti predittori di eventi aterotrombotici. Molti studi epidemiologici hanno riportato una positiva associazione tra alcuni marker di fibri- Fattori protrombotici e coagulativi Forti evidenze hanno correlato il rischio cardiovascolare con variabili emostatiche e coagulative. Una serie di marker sono stati in tal modo studiati (fibrinogenemia, fattore VII, VIII e di von Willebrand, aggregazione piastrinica, livelli plasmatici di D-dimero, attività fibrinolitica) con risultati generalmente positivi. Tra i parametri che presentano il maggior numero di informazioni c’è la fibrinogenemia, che oggi viene considerata universalmente un fattore indipendentemente associato al rischio cardiovascolare. Nonostante il fibrinogeno sia spesso correlato con altri fat- 62 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 63 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi nolisi (ad esempio t-PA o PAI-1) e il rischio cardiovascolare. Tali associazioni spesso però diventano non statisticamente rilevanti dopo l’aggiustamento con altre condizioni, come l’obesità o l’ipertrigliceridemia. Anche l’epidemiologia genetica ha dimostrato, tra l’altro, che polimorfismi di alcuni geni implicati nella fibrinolisi possono avere un ruolo importante nelle malattie cardiovascolari, ma l’impatto relativo sugli eventi clinici sembra essere modesto. Tali dati non sono pertanto conclusivi e lasciano aperta la questione se l’alterazione fibrinolitica sia una “causa” o eventualmente una “conseguenza” degli eventi clinici aterotrombotici. In ogni caso la misurazione dei parametri fibrinolitici per identificare i pazienti a rischio cardiovascolare è oggi assolutamente prematura. su dati sperimentali e clinici che suggeriscono un’influenza potenziale di determinati parametri sia plasmatici che tissutali sullo sviluppo della malattia coronaria, come anche nel predire eventi clinici in pazienti con una malattia aterosclerotica conosciuta. Numerosi marker sono stati studiati e la loro interdipendenza rimane comunque oscura. L’infiammazione è infatti uno dei fattori che maggiormente contribuiscono alla gran parte degli eventi, quali la rottura della placca e le alterazioni di ischemia/riperfusione. Elevate concentrazioni di proteine di fase acuta, come la proteina Creattiva, sono state trovate in pazienti con sindromi coronariche acute, e questo parametro è stato spesso associato con un’aumentata incidenza di eventi clinici cardiovascolari, mentre sembra anche predire il rischio in soggetti apparentemente sani. La fase acuta si associa con elevati livelli di fibrinogeno, notoriamente un importante fattore di rischio per CHD, aumentata viscosità ematica e attivazione piastrinica. La risposta immune è mediata dai leucociti circolanti e tissutali, in grado di interagire con le cellule (endotelio e cellule muscolari lisce). In questo processo si verifica anche la sintesi e la produzione di mediatori che comprendono molecole di adesione, citochine, metalloproteinasi e Fattori infiammatori Negli ultimi anni si sono accumulati molti dati che dimostrano un ruolo di determinati marker infiammatori locali e generali nei confronti della malattia aterosclerotica; tutto ciò in maniera indipendente e spesso complementare rispetto ai tradizionali fattori di rischio. Le informazioni che abbiamo sono basate 63 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 64 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico radicali liberi di ossigeno. Un ruolo chiave sembrerebbe avere l’interleuchina-6 (IL-6), un potente induttore della risposta di fase acuta. Nelle placche, i macrofagi e le cellule muscolari lisce esprimono l’IL-6, suggerendo un ruolo per questa citochina, insieme con l’IL-1 e il TNF-alfa, nella progressione dell’aterosclerosi. I livelli circolanti di IL-6 stimolano inoltre l’asse ipotalamo-ipofisi-surreni, e questo si associa a obesità centrale, ipertensione e insulino-resistenza. Anche l’associazione con molecole di adesione è stata studiata. In particolare, il sVCAM-1 sembra essere il parametro più specifico rispetto ad altri, in quanto i livelli sierici si correlano strettamente con l’estensione dell’aterosclerosi, e quindi potrebbe essere un marker precoce di malattia. È comunque importante sottolineare che al di là dei presupposti fisiopatologici, pochi dati epidemiologici sono disponibili. Recentemente, in uno studio epidemiologico prospettico effettuato in una popolazione siciliana, la semplice conta leucocitaria era predittiva di stroke nel follow-up, e dati sovrapponibili sono stati ottenuti in altre situazioni. Purtuttavia, servono ulteriori studi appositamente disegnati per capire meglio il ruolo dei marker infiammatori come predittori di malattie cardiovascolari. Fattori infettivi Esistono diverse evidenze che fattori infettivi possano essere implicati nei processi aterogeni. Le malattie cardiovascolari sono state associate da tempo a infezioni croniche mediate l’attivazione dei sistemi infiammatori. I dati disponibili riguardano principalmente la Clamidia pneumoniae, ma sia l’Helicobacter pylori che il cytomegalovirus sono stati ampiamente studiati. La Clamidia pneumoniae è stata ritrovata nelle placche aterosclerotiche, i livelli anticorpali si correlano con l’incidenza e la severità della malattia aterosclerotica e sono stati documentati linfociti T responsivi al batterio in pazienti con cardiopatia ischemica. Anche linfociti T derivanti da placche aterosclerotiche rispondono alla Clamidia. Studi epidemiologici hanno dimostrato l’associazione tra la Clamidia e i classici fattori di rischio cardiovascolari: ad esempio le infezioni da Clamidia sono più frequenti nei fumatori rispetto ai non fumatori, suggerendo che il fumo predispone all’infezione. Comunque, nonostante un parziale successo preliminare di alcuni trial con macrolidi, l’esatto meccanismo con il quale la Clamidia possa entrare nella parete endoteliale rimane ignoto. Il legame tra l’Helicobacter pylori e la 64 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 65 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi CHD, descritto da Mendall et al già dal 1994, è stato oggetto di molti studi epidemiologici e clinici; comunque, questi sono stati talmente eterogenei che risulta difficile fare una selezione di pazienti comparabile e indirizzarla sugli stessi end-point, ad esempio angina stabile o infarto acuto del miocardio. Le evidenze da studi su animali supportano l’ipotesi che l’Helicobacter pylori possa avere un ruolo importante nella fase acuta dell’infarto: il batterio causa aggregazione piastrinica e ha un’azione pro-coagulante nei topi da esperimento. Contribuisce anche all’aterosclerosi attraverso un meccanismo di autoimmunità contro le cellule endoteliali e aumentando le concentrazioni di omocisteina per una riduzione dei livelli di acido folico e cobalamina. L’esatto ruolo che però gioca non è del tutto definito: c’è chiaramente bisogno di nuovi studi epidemiologici e clinici che possano investigare con metodi appropriati e attraverso disegni prospettici e di intervento le possibili relazioni tra l’Helicobacter pylori e la CHD. Molto studiate sono state anche le interazioni tra il cytomegalovirus e la parete endoteliale, e anche sull’herpes simplex virus di tipo 1 esistono dati interessanti. Le infezioni con il cytomegalovirus sembrano essere maggiormente associate con il rischio di restenosi dopo angioplastica che con quello di un’aterosclerosi primitiva. Studi prospettici su larga scala sono necessari anche in questo caso per correlare l’infezione con il rischio futuro di malattie cardiovascolari. In tutte le associazioni tra fattori infettivi e malattia cardiovascolare, per rafforzare l’associazione dovrebbero comunque essere controllate le variabili confondenti, come altri fattori di rischio o anche lo status socioeconomico. Gli studi clinici con antibiotici per prevenire gli eventi clinici cardiovascolari sono in corso. Fino a quando i risultati non saranno disponibili, comunque, non è consigliabile prescrivere antibiotici a tale scopo. In ogni caso, molti dati saranno necessari per raggiungerlo, e soprattutto altri studi dovranno essere disegnati per definire il farmaco migliore e la dose ideale per ottenere la massima efficacia con il minor numero di effetti indesiderati. Alcol Studi osservazionali hanno attribuito un ruolo protettivo al consumo di alcol sullo sviluppo dell’aterosclerosi e della mortalità e morbilità cardiovasco- 65 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 66 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico lare. Una modesta assunzione di alcol ridurrebbe del 20-40% l’incidenza di eventi cardiovascolari. Un effetto protettivo addizionale è stato inoltre attribuito dai maggiori studi osservazionali al vino, in considerazione degli effetti antiossidanti e sull’aggregazione piastrinica. Gli effetti dell’alcol sono però estremamente complessi. La protezione può essere fornita dalla modulazione di altri fattori di rischio poiché l’alcol, in quantità limitate, aumenta le concentrazioni plasmatiche di HDL-colesterolo, ha effetti positivi sulla pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la contrattilità miocardica e sulla funzione endoteliale, mentre non interferisce con il peso corporeo e l’omeostasi glucidica. Esistono anche dati su un’azione diretta sull’aterogenesi. Le stesse quantità di alcol in presenza di una malattia cardiovascolare possono però avere un transitorio effetto emodinamico sfavorevole. L’abuso di alcol poi predispone a pericolose aritmie cardiache, all’ipertensione, a cardiomiopatie, allo stroke e alla morte improvvisa. Per tali motivi, nonostante i documentati effetti favorevoli, non esistono sufficienti evidenze da giustificare un’eventuale somministrazione di alcol nella prevenzione cardiovascolare. Disfunzione endoteliale Il ruolo attivo dell’endotelio vascolare è stato rivalutato negli ultimi anni in tutta una serie di situazioni. Il concetto passivo di parete come semplice contenitore è stato da tempo abbandonato e molte delle funzioni delle cellule endoteliali hanno una parte attiva nelle malattie cardiovascolari. In condizioni normali, l’endotelio vascolare ha un’azione di controllo sul tono vascolare, l’adesione piastrinica e leucocitaria, la formazione di trombi, la crescita cellulare, la formazione di matrice. Tali effetti sono generati attraverso un corretto bilanciamento della sintesi di differenti mediatori (ad esempio TNF-alfa, metalloproteinasi, prostaciclina, peptidi vasoattivi) in grado di modulare le differenti azioni. In condizioni di danno vascolare molte di queste conseguenze sono abolite o talora sovvertite. Se ciò rappresenta la causa o l’effetto della malattia aterosclerotica non è ad oggi noto, ma sicuramente tali alterazioni hanno un certo ruolo nell’evoluzione degli eventi clinici dal semplice danno anatomo-patologico. Uno dei meccanismi maggiormente studiati riguarda la modulazione del tono vascolare attraverso il sistema dell’ossido-nitrico (EDRF). Molte situazioni interferiscono notoriamente su tale sistema, in 66 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 67 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi particolare l’ipercolesterolemia, il diabete, l’età o il fumo di sigaretta, e per tale motivo è stato chiamato in causa nell’insorgenza delle manifestazioni cliniche acute della malattia aterosclerotica. È ancora prematuro considerare la disfunzione endoteliale come un fattore di rischio cardiovascolare indipendente, purtuttavia, oltre alla rimozione dei fattori interferenti, numerosi farmaci (e principalmente le statine) hanno un effetto positivo dimostrato sulla funzione endoteliale, e sul tono vascolare in particolare, in grado di giustificare la riduzione precoce di eventi clinici nei trial controllati. L’endotelio rappresenta quindi, in prospettiva, un nuovo target terapeutico nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. hanno a tale scopo documentato, in diverse categorie di soggetti (popolazione generale, anziani, ipertesi, infartuati o pazienti con scompenso cardiaco), un’associazione tra frequenza cardiaca e sviluppo di aterosclerosi ed eventi cardiovascolari. L’aggregazione di fattori di rischio in pazienti tachicardici può spiegare questa associazione, ma un ruolo ha anche l’iperattività simpatica, alla base della tachicardia, dell’ipertensione e di anormalità metaboliche. La riduzione farmacologia della frequenza cardiaca deve quindi rappresentare un obiettivo terapeutico aggiuntivo nell’ambito della prevenzione cardiovascolare. Omocisteina L’omocisteina è un aminoacido che non entra nella composizione delle proteine: esso rappresenta un composto cruciale nel metabolismo degli aminoacidi solforati. Un accumulo di omocisteina nel sangue può essere dovuto a difetti congeniti del metabolismo della metionina, e in particolare in alterazioni del gene della metiletilenetetraidrofolato redattasi, a carenze vitaminiche (vitamina B6 e B12) e a una serie di altre condizioni associate, tra cui età, fumo, farmaci, abuso di caffè e alcune patologie Fattori cardiaci Ipertrofia ventricolare sinistra, blocchi di branca, alterazioni aspecifiche del tratto ST e dell’onda T, rappresentano importanti predittori di rischio cardiovascolare, soprattutto per quanto riguarda la morte improvvisa. Anche la fibrillazione atriale ha un ruolo di primo piano, mentre sempre maggiori informazioni sono disponibili riguardo la frequenza cardiaca. Numerosi studi prospettici 67 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 68 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico (insufficienza renale, diabete). È presente nel 20-30% dei pazienti con arteriosclerosi prematura dei distretti vascolari coronarico, carotideo e periferico. Tale associazione è stata anche dimostrata in alcuni studi epidemiologici, tra cui il Framingham Heart Study, il Trombo Study, l’ARIC Study e anche il British Regional Heart Study. L’aumento del rischio conferito dall’omocisteina è graduale e indipendente da quelli di altri fattori. Le reali cause che possano spiegare perché l’omocisteina elevata predisponga alle malattie cardiovascolari non sono del tutto note. Alcuni meccanismi patogenetici sono stati però proposti. L’omocisteina è in grado di danneggiare le cellule endoteliali, permettendo la formazione della placca. Simultaneamente interferisce con la vasodilatazione mediata dall’ossido nitrico. L’omocisteina induce inoltre la proliferazione delle cellule muscolari lisce, inibisce la crescita endoteliale e stimola la sintesi epatica di apoB-100 e quindi di colesterolo. Un effetto importante potrebbe essere anche mediato dall’azione negativa dell’omocisteina sui sistemi ossidativi in vivo, che può portare al danno e alla disfunzione endoteliale. Livelli elevati di omocisteina promuovono inoltre la trombosi attraverso un’aumentata produzione di trombina. Ulteriori possibili meccanismi implicati nell’aterogenesi mediata dall’omocisteina includono: alterazione della regolazione di proteine associate con le membrane cellulari, ridotta biodisponibilità di ossido nitrico, accumulo di collagene e aumentata adesione di monociti e neutrofili all’endotelio. Elevati livelli di omocisteina possono essere abbassati attraverso l’assunzione, con il cibo o farmacologica, di acido folico. I pazienti possono quindi essere incoraggiati a consumare attraverso gli alimenti i livelli raccomandati giornalieri di acido folico, così come quelli delle vitamine B6 e B12; esistono anche dei preparati in grado di fornire farmacologicamente tali sostanze. Il mantenimento di normali valori di omocisteina nella prevenzione cardiovascolare appare estremamente promettente, soprattutto perché potrebbe rappresentare la modalità più economica di riduzione dell’incidenza di malattie coronariche. Comunque, benché le evidenze suggeriscano un ruolo indipendente dell’omocisteina nei confronti del rischio cardiovascolare, nessuno studio prospettico disegnato con l’obiettivo di dimostrare la riduzione delle malattie cardiovascolari attraverso la sommistrazione di folati e vitamina B6 è stato ancora completato, per cui rimane da provare in studi controllati che tale effetto sia 68 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 69 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi realmente ottenibile. Allo stato attuale, quindi, la misurazione dei livelli di omocisteina non è raccomandata per una valutazione del rischio globale, ma il suo dosaggio può essere utile in pazienti ad alto rischio. La Sindrome metabolica Con il termine di “Sindrome Metabolica” (Tab. 11) si identifica una forma morbosa caratterizzata dall’associazione di: diabete mellito tipo 2 o ridotta tolleranza glucidica (IGT, Impaired Glucose Tolerance), alterazioni lipidiche (caratterizzate generalmente da ipertrigliceridemia con riduzione dei valori di HDL-colesterolo e alterazioni qualitative delle LDL), sovrappeso o obesità (con aumento del tessuto adiposo centrale o intra-addominale), ipertensione arteriosa e iperuricemia. A questi fattori si aggiungono in molti casi altre condizioni concomitanti, quali l’aumento del fibrogeno, alterazioni fibrinolitiche, poliglobulia. È una patologia conosciuta da molto tempo e nel corso degli anni è stata differentemente definita da autori italiani e anglosassoni. Sinonimi sono “Sindrome X metabolica”, “Sindrome da insulinoresistenza”, “Sindrome polimetabolica”. L’insieme di queste alterazioni rappresenta un importante fattore di rischio cardiovascolare che promuove la rapida Microalbuminuria La microalbuminuria è una condizione in cui si ha un’incrementata escrezione urinaria di albumina, entro il range normale di escrezione proteica totale. Molti dati suggeriscono che è un marker di danno vascolare, specie nel diabete e nell’ipertensione, e ci sono dati anche sulla sua associazione con i tradizionali fattori di rischio e sul suo potere predittivo riguardo alle malattie cardiovascolari, limitato però ai pazienti diabetici. Il suo ruolo e la sua importanza nei pazienti non diabetici sono ancora controverse, per cui lo screening routinario non è allo stato attuale raccomandato nei soggetti non diabetici, anche se ipertesi. Tabella 11 Componenti della Sindrome metabolica. Insulino-resistenza ↑ Trigliceridi (VLDL) Iperinsulinemia ↓ Colesterolo HDL Intolleranza glucidica Ipertensione Obesità ↑ Uricemia 69 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 70 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico progressione del processo aterosclerotico. Numerosi studi hanno mostrato come ogni singola alterazione determinante la Sindrome metabolica giochi un ruolo decisivo nel suscitare il processo aterosclerotico, rappresentando di per sé un importante fattore di rischio cardiovascolare. Per tale motivo sono stati in larga misura già analizzati nelle sezioni precedenti di questo capitolo. Countries Study, MRFIT Study e altri ancora) hanno mostrato chiaramente una correlazione diretta fra tale tipo di alterazione e il rischio coronarico. Nella Sindrome metabolica la dislipidemia più frequentemente presente è la cosiddetta “triade lipidica”, caratterizzata dalla simultanea presenza di elevata colesterolemia totale, alti livelli di LDL-colesterolo e trigliceridemia, bassi livelli di HDLcolesterolo. Sono spesso presenti anche alterazioni qualitative delle LDL, con una predominanza di LDL piccole e dense, e anche un accumulo di particelle remnant. Diabete mellito Donne affette da diabete mellito, indipendentemente dalla sua associazione con la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa e l’obesità, sviluppano un’aterosclerosi paragonabile a quella di un maschio non diabetico, perdendo la relativa immunità all’aterosclerosi propria del periodo fertile; è importante, inoltre, ricordare come la genesi della micro e macroangiopatia diabetica sia composita, in quanto ad essa concorrono alterazioni della parete arteriosa, del sistema coagulativo e del sistema lipidico. Obesità e sovrappeso L’obesità non è stata, per lungo tempo, considerata come fattore di rischio aterogenico indipendente, perché i primi studi prospettici ritenevano che si correlasse con un aumentato rischio cardiovascolare in quanto associata a dislipidemia, ipertensione, iperglicemia, iperuricemia e inattività fisica. Tuttavia, dopo il follow-up della coorte di Framingham, è stato dimostrato che l’obesità fornisce, specie per i soggetti più giovani, un contributo indipendente all’aterogenesi. Inoltre, particolare attenzione è stata posta negli ultimi anni al Dislipidemia Nel caso della dislipidemia, numerosi studi (Framingham Heart Study, Seven 70 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 71 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi fenomeno delle continue oscillazioni del peso corporeo ( weight cycling ), in quanto alcuni dati epidemiologici deporrebbero per un maggiore rischio coronarico in questi soggetti. so associati a ipertensione, dislipidemia e obesità; tutto questo potrebbe costituire il riflesso della presenza di processi metabolici correlati tra loro. È stato inoltre dimostrato che l’iperuricemia provoca un incremento sia della produzione di radicali liberi che dell’ossidazione delle purine; tali alterazioni metaboliche sembrano indurre un indebolimento dei sistemi ossidativi cellulari e, di conseguenza, un aumento del rischio di danno ossidativo dell’endotelio vascolare. Ipertensione Arteriosa Anche l’ipertensione arteriosa rappresenta un importante fattore di rischio aterogeno; infatti, come ribadito nelle Linee Guida OMS-ISH del 1999, i livelli di pressione arteriosa sono correlati al rischio di patologia cardiovascolare in modo continuo, e ogni linea di demarcazione tra “normotensione” e “ipertensione” è pertanto arbitraria. Infatti, anche all’interno dei valori considerati come “normali”, i soggetti con pressione arteriosa più bassa hanno un rischio minore di patologia cardiovascolare. Da quanto esposto appare chiaro come tale sindrome consista in un insieme di disordini metabolici che spesso coesistono tra loro. Il legame fisiopatologico comune alle varie forme sembra essere l’insulino-resistenza e l’iperinsulinismo da essa derivante; essi sembrano rappresentare un fattore chiave nell’eziologia della Sindrome metabolica (Fig. 4). L’insulino-resistenza consiste nell’incapacità dell’insulina di esplicare le sue normali funzioni metaboliche a concentrazioni fisiologiche. Alcune indagini hanno dimostrato che l’azione dell’insulina è ridotta di circa il 40% nel diabete mellito non insulino-dipendente. Il fegato, il muscolo scheletrico e il tessuto adiposo sono tutti insensibili, cosicché l’aumentato rilascio di glucosio epatico e il ridot- Iperuricemia L’artrite gottosa è stata associata con un rischio aterogeno raddoppiato. È stata, inoltre, individuata una moderata correlazione tra uricemia e malattia coronarica, anche in assenza di gotta clinicamente manifesta. È da ricordare che elevati valori di uricemia sono spes- 71 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 72 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico Figura 4 Combinazione di tre distinti domain fisiopatologici a costituire la sindrome da insulino-resistenza: la Sindrome metabolica centrale (definita dall’associazione delle variabili raggruppate sotto il “fattore 1”), la ridotta tolleranza ai carboidrati (fattore 2) e l’ipertensione (fattore 3). I tre domain sono legati da mutue associazioni con l’iperinsulinemia (che riflette l’insulino-resistenza) e l’obesità. Sindrome dell’insulino-resistenza Sindrome metabolica centrale Ipertensione Ridotta tolleranza glucidica Fattore 2 Fattore 1 Fattore 3 Glicemia digiuno Insulina digiuno TG PAS BMI Glicemia 2 ore Insulina 2 ore Rapp. Vita/ fianchi HDL Colest. to assorbimento periferico contribuiscono entrambi all’iperglicemia (Fig. 5). I difetti che causano l’insensibilità all’insulina sono sconosciuti e apparentemente sono post-recettoriali. Possibili fattori contribuenti includono l’obesità, una predisposizione ereditaria e l’aumentato livello di glucagone; la stessa iperglicemia riduce anche la sensibilità dell’insulina (“tossicità del glucosio”). L’iperinsulinismo è dovuto a un’aumen- PAD tata resistenza periferica all’azione dell’ormone. Tale resistenza, tuttavia, non è presente in tutti i distretti: nel fegato, infatti, l’insulina esplica la propria normale azione e promuove un incremento della sintesi delle VLDL; in periferia, invece, la resistenza all’azione antilipolitica dell’ormone (data da una down regulation dei recettori insulinici) comporta la mobilizzazione dal tessuto adiposo degli acidi grassi liberi, il cui turn-over ri- 72 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 73 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi ➞➞ L’insulino-resistenza è associata al NIDDM, all’obesità e alla secrezione di insulina difettiva. Vari fattori genetici e ambientali potrebbero essere implicati. ➞ Figura 5 Cibo assunto Esercizio fisico Termogenesi? Ambiente intrauterino? Amilina? Geni diabetogeni Obesità Insulino-resistenza Ridotta funzionalità delle cellule α Tossicità del glucosio NIDDM IGT sulta, pertanto, aumentato. L’iperafflusso al fegato degli acidi grassi liberi incrementa ulteriormente la sintesi di VLDL. Il meccanismo della down regulation recettoriale periferica spiega anche l’insulino-resistenza e la conseguente ridotta tolleranza glucidica, frequentemente presenti nei soggetti obesi. Numerosi studi hanno portato evidenze a favore di un ruolo dell’insulinoresistenza come meccanismo metabolico alla base dell’associazione tra obesità, diabete mellito e ipertensione arteriosa, e di conseguenza dell’aumento di rischio cardiovascolare ad essa correlato. Tra i meccanismi attraverso i quali l’insulino-resistenza può portare allo svi- Glucosio luppo dell’ipertensione, un ruolo importate sembra essere svolto da un aumento del riassorbimento del sodio da parte del tubulo renale, e da un aumento dell’attività simpatica efferente (Fig. 6) Benché sia stato proposto che l’iperinsulinemia e l’insulino-resistenza rappresentino il fattore eziologico centrale nel determinismo della Sindrome metabolica, dati epidemiologici non supporterebbero tale ipotesi, dato che non spiegherebbe tutte le anormalità per tutti i gruppi; infatti, esistono dati, sia animali che umani, che suggeriscono come l’iperleptinemia piuttosto che, o sinergicamente con, l’iperinsulinemia, possa giocare un ruolo centrale nella 73 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 74 L’approccio clinico, preventivo e terapeutico Figura 6 Possibili meccanismi attraverso i quali una insulino-resistenza può indurre ipertensione arteriosa. Obesità Insulino-resistenza Iperinsulinemia Aumento attività SNS Variazioni reattività muscolare Variazioni trasporto cationico Aumento attività SNS Ipertensione arteriosa genesi del gruppo dei fattori di rischio che costituiscono la sindrome. Più recentemente sono stati identificati e proposti altri potenziali fattori eziologici della Sindrome metabolica, che comprendono la disfunzione endoteliale e la proteina stimolante l’acetilazione (Acetylation-Stimulating Protein, ASP). L’ASP rappresenta un serio nuovo candidato per un importante ruolo nell’insulino-resistenza; la via dell’ASP gioca un ruolo critico nel metabolismo e immagazzinamento degli acidi grassi; recenti studi hanno suggerito come l’inefficace immagazzinamento degli acidi grassi da parte degli adipociti sia dovuto a un difetto nella via dell’ASP, indotto dall’insulino-resistenza e dal diabete mellito tipo II. Inoltre, una maggiore predisposizione genetica alla Sindrome metabolica sembra essere determinata dal tipico stile di vita condotto nei paesi industrializzati, caratterizzato da diete a elevato contenuto calorico e di grassi, inattività fisica, consumo di alcol, fumo e stress; quindi appare evidente come la prevenzione e la terapia di questa sindrome implichino la rimozione di tali fattori. In conclusione, un corretto approccio terapeutico nei confronti di questa sindrome deve essere multidisciplinare, ovvero deve prendere in considerazione il controllo di ogni singolo fattore implicato nel determinismo della stessa. Il trattamento di tale sindrome è principalmente basato sulla riduzione del peso corporeo: ciò è possibile semplicemen- 74 1225/01 capitolo 1 29-05-2002 15:21 Pagina 75 C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi Riferimenti bibliografici te attuando una sostanziale modifica dello stile di vita (diete ipocaloriche-ipoglucidiche e ipolipidiche, incremento dell’attività fisica ecc.), che da sola è spesso in grado di determinare un notevole miglioramento e una completa correzione di tutte le anomalie metaboliche. Se questo non dovesse essere sufficiente, allora è opportuno prendere in considerazione una terapia multifarmacologica (ipoglicemizzante, ipolipidica, antipertensiva ecc.) che permetta un ottimale compenso delle alterazioni metaboliche. Abate N Obesity and cardiovascular disease. Pathogenetic role of the metabolic syndrome and terapeutic implications. J Diab Compl, 14: 154-174, 2000. Adams KF Jr New epidemiologic perspectives concerning mild-tomoderate heart failure. Am J Med, 110 (Suppl 7A): 6S-13S, 2001. 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In effetti la dieta deve apportare una quantità adeguata di lipidi, e tutti gli esperti concordano nel ritenere che il livello compatibile con la buona salute non dovrebbe superare il 30% delle calorie totali di un regime alimentare corretto. È un dato di fatto, tuttavia, che molti soggetti eccedono nel consumo di grassi, e spesso senza che siano rispettate le proporzioni tra i vari tipi di grasso, come si dirà più oltre. Il motivo di questo aumentato consu- mo di grassi è complesso: accrescimento della disponibilità di sostanze grasse economicamente convenienti, facilità di impiego, applicazioni gastronomiche. Per combattere questa tendenza, nelle ultime decadi sono state promosse in tutti i paesi affluenti varie campagne tese alla riduzione del consumo di grassi che, tra l’altro, ha portato varie industrie alimentari a produrre e immettere al consumo prodotti contrassegnati da diciture quali “a basso tenore di grassi” o “privi di grassi”. Paradossalmente, in molti casi, se è vero che il consumo di grassi ha subito una riduzione, non è diminuito nel complesso l’ammontare dell’apporto energetico, come risulta confermato dai dati relativi alla prevalenza del sovrappeso e dell’obesità nella popolazione. Inoltre, vari autori riconoscono che la campagna per la riduzione ad ogni costo dell’apporto di grassi può comportare involontariamente anche spiacevoli conseguenze per la salute, perché gli effetti sono differenti a seconda dei vari tipi di grasso interessati. 85 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 86 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici Natura e ruolo degli acidi grassi assorbiti I grassi presenti nell’organismo hanno una duplice origine, in quanto sono per una parte apportati dagli alimenti e per un’altra parte sintetizzati nel fegato o nel tessuto adiposo. Più del 95% dei lipidi alimentari è rappresentato da trigliceridi (che costituiscono la massa del tessuto adiposo); il restante 5% è dato dal colesterolo e dai fosfolipidi, essenziali per la formazione delle membrane. Gli acidi grassi costitutivi dei lipidi sono classificati in funzione della lunghezza della catena carboniosa e del numero dei doppi legami; sono definiti “saturi” gli acidi grassi senza doppi legami, monoinsaturi e polinsaturi se possiedono rispettivamente uno o più doppi legami. Gli acidi grassi polinsaturi, oltre ad essere più instabili alla cottura, sono anche molto più reattivi a livello metabolico rispetto agli acidi grassi saturi o monoinsaturi. Nell’organismo la composizione dei trigliceridi del tessuto adiposo e delle membrane richiede un rapporto equilibrato tra le diverse classi di acidi grassi. Il tessuto adiposo, infatti, è relativamente ricco di acidi grassi saturi e di acido oleico, mentre i lipidi di membrana contengono una proporzione più elevata (circa il 50%) di acidi grassi polinsaturi. Il colesterolo accompagna i lipidi durante il loro percorso, in particolare fino alle membrane cellulari, con conseguenze importanti sotto il profilo sia fisiologico che patologico. Per soddisfare il proprio bisogno di sostanze grasse l’uomo dispone di una grande varietà di fonti lipidiche. Teoricamente, in mancanza di apporto lipidico l’organismo è in grado di sintetizzare la maggior parte degli acidi grassi, ad eccezione di due acidi grassi insaturi: uno appartenente alla famiglia dell’acido linoleico, l’altro a quella dell’acido alfa-linolenico. È importante ricordare che questi due acidi grassi essenziali non possono essere sostituiti 86 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 87 E. Lanzola l’uno con l’altro. I grassi animali sono molto ricchi di acidi grassi saturi, che però non hanno tutti le stesse caratteristiche. I grassi dei pesci forniscono, tra gli altri, due acidi grassi a lunga catena, polinsaturi, caratterizzati da proprietà biologiche interessanti: l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA). La carne dei pesci non è in genere ricca di grasso, tuttavia, alcuni pesci contengono notevoli quantità di EPA (sgombro, tonno, salmone). Anche i grassi vegetali per la maggior parte contengono grassi polinsaturi: fanno eccezione gli oli di cocco e di palma. Alcuni oli (oliva, arachide) possiedono notevoli quantità di acido oleico (monoinsaturo), altri, grandi quantità di acido linoleico (girasole, mais, vinacciolo). L’acido alfa-linolenico è contenuto in quantità apprezzabili (8-10%) in alcuni oli quali olio di soja, canola, olio di noce. La nozione che i lipidi svolgono ruoli diversi in funzione della lunghezza della catena carboniosa, del numero dei doppi legami, della configurazione spaziale, ha portato a riconoscere la necessità che l’apporto alimentare venga ad essere equilibrato tra i vari tipi di grasso. In quest’ottica si è giunti al suggerimento – ampiamente diffuso – di ridurre il consumo di acidi grassi saturi a vantaggio dei polinsaturi, tenendo tuttavia presente che anche l’introduzione eccessiva di questi ultimi può rivelarsi controproducente. Il rapporto tra consumo di grassi e patologie correlate, con particolare riguardo alle coronaropatie ischemiche, non è però molto semplice, perché vi interferiscono altri fattori, quali attività fisica, abitudine al fumo di sigaretta, obesità, condizioni economico-sociali. Acidi grassi saturi Da tempo, ormai, si ritiene che un consumo elevato di grassi, e in particolare di grassi saturi, contribuisca pesantemente all’insorgenza di coronaropatie ischemiche. Tale assunto deriva in gran parte dagli studi epidemiologici, che hanno messo in correlazione il consumo di grassi saturi con la frequenza delle coronaropatie ischemiche. Nel cosiddetto Seven Countries Study (Keys 1995), l’introduzione di grassi saturi, espressa come percentuale delle kilocalorie totali introdotte, si dimostrò correlata con il tasso di mortalità per coronaropatie ischemiche nelle 16 popolazioni partecipanti allo studio, molto più dell’energia complessiva apportata dai grassi della dieta. In effetti 87 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 88 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici la popolazione della Finlandia, che presentava il tasso più elevato di mortalità per coronaropatie ischemiche, era caratterizzata dallo stesso consumo di grassi (40% dell’apporto energetico quotidiano) degli abitanti della regione (Creta) con il tasso minore. Un’analisi recente del Seven Countries Study ha evidenziato un’elevata correlazione positiva della mortalità per coronaropatie ischemiche con il consumo di quattro acidi grassi saturi a lunga catena e di acidi grassi trans (Kromhout et al 1995). Più recentemente, a proposito di questi ultimi, uno studio condotto per 14 anni su 80.082 donne di età compresa fra 34 e 59 anni (The Nurses’ Health Study), ha mostrato una correlazione positiva fra coronaropatie ischemiche e assunzione di acidi grassi trans, più consistente rispetto a quella per assunzione di acidi grassi saturi (Fig. 1; Hu et al 1997). Figura 1 88 Unsat ( 2% Energia) Trans Poly (2% Energia) Mono (2% Energia) Trans Trans Unsat (5% Energia) Sat Poly (5% Energia) Sat = grassi saturi Carbo = carboidrati Mono = grassi monoinsaturi Poly = grassi polinsaturi = sostituzione Sat -80 Mono (5% Energia) -60 Sat -40 Carbo (5% Energia) -20 Poly 0 Carbo (5% Energia) 20 Mono 40 Carbo (5% Energia) 60 Sat Variazioni del rischio di patologia coronarica (%) 80 ........................................ Variazioni stimate (in percentuale al 95% dei limiti fiduciari) del rischio di coronaropatie ischemiche in conseguenza di sostituzioni dietetiche isocaloriche. Aggiustate per i fattori di rischio coronarico e l’apporto totale di energia. Da Hu et al 2001. 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 89 E. Lanzola Figura 2 Effetti degli acidi laurico (12:0), miristico (14:0), palmitico (16:0), elaidico (trans-18:1), stearico (18:0), oleico (cis-18:1) e linoleico (18:2 n-6) sul colesterolo totale (TC), sul colesterolo LDL (LDL-C) e HDL (HDL-C). Da Frank et al, J Am Coll Nutrition 20, 1, 2001. mg/dl Variazioni della colesterolemia 1,6 1,2 0,8 0,4 0,0 -0,4 -0,8 -1,2 -1,6 TC LDL-C ................................................... 2,0 mmol/l ................................................... 2,4 HDL-C 0,062 0,052 0,041 0,031 0,021 0,01 0,00 -0,01 -0,021 -0,031 -0,041 12:0 (n=2) 14:0 (n=3) 16:0 (n=9) trans 18:1 (n=7) 18:0 (n=5) cis 18:1 (n=12) 18:2n-6 (n=16) Singoli acidi grassi (per ogni 1% di aumento energetico) Questa constatazione trova conferma nelle ricerche sul metabolismo di diversi acidi grassi saturi che manifestano effetti differenti sui livelli della lipidemia e delle lipoproteine plasmatiche (KrisEtherton et al 1997). In particolare gli acidi grassi saturi con 12-16 atomi di carbonio tendono a far aumentare i livelli plasmatici del colesterolo totale e di quello LDL, mentre l’acido stearico (18:0) non presenta – se confrontato con l’acido oleico (18:1) – nessun effetto sull’aumento della colesterolemia. 89 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 90 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici Gli effetti di questi acidi grassi sono illustrati nella Figura 2. Fra gli acidi grassi saturi che hanno la capacità di aumentare la colesterolemia, l’acido miristico (14:0) sembra essere più efficace dell’acido laurico (12:0) e dell’acido palmitico (16:0) (Temme et al 1996). Sebbene l’acido stearico abbia dimostrato – come già accennato – uno scarso effetto sui livelli di colesterolo totale e LDL, tuttavia esso può abbassare i livelli di HDL più di quanto facciano gli acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi, e tale effetto è stato riscontrato in modo particolare nelle donne (Yu et al). Ricerche di Aro et al hanno evidenziato che l’acido stearico – confrontato con gli acidi miristico e palmitico – abbassa i livelli sia di LDL che di HDL, cosicché i rapporti tra LDL e HDL e quelli tra apoB e apoAI restano in pratica invariati. L’acido stearico, inoltre, favorisce un aumento della Lp(a) e può attivare il fattore VII (Mitropoulos et al 1994) e compromettere la fibrinolisi (Furguson et al 1970). Queste osservazioni, unitamente a quanto è emerso dal Nurses’ Health Study, sopra ricordato, portano a ritenere non del tutto giustificata la distinzione tra acido stearico e gli altri acidi grassi saturi per quanto riguarda i consigli dietetici diretti a ridurre il rischio delle coronaropatie ischemiche (Hu et al 2001). Acidi grassi polinsaturi n-6 e n-3 Come è noto, numerosi studi hanno evidenziato un notevole effetto sulla riduzione della colesterolemia da parte degli oli vegetali, ricchi di acido linoleico (Grundy et al 1982). C’è da aggiungere che, a seguito di trial clinico-dietetici, si è potuto osservare come diete ricche di acidi grassi polinsaturi n-6 si siano dimostrate più efficaci nel ridurre i livelli della colesterolemia, rispetto a diete isocaloriche a basso tenore di lipidi ed elevato contenuto di carboidrati (Sacks 1994). Va segnalato, inoltre, che la correlazione inversa tra acidi grassi polinsaturi n-6 e coronaropatie ischemiche osservata nel corso del Nurses’ Health Study, è ancora più forte di quanto potesse essere predetto in base alle equazioni di Keys e di Hegsted ricavate da studi metabolici. Questa osservazione porta a ritenere che gli acidi grassi polinsaturi n-6 siano in grado di svolgere sull’apparato cardiovascolare effetti benefici che vanno oltre il solo miglioramento del profilo lipidemico. In realtà, ricerche sugli animali hanno evidenziato che un aumento dell’introduzione dei polinsaturi n-6 migliora la sensibilità all’insulina (Lovejoy 90 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 91 E. Lanzola et al 1992, Lovejoy 1999), e nel Nurses’ Health Study l’assunzione elevata di grassi polinsaturi n-6 ha portato a un abbassamento significativo dell’incidenza di diabete mellito (Hu et al 1999). Pertanto, sia le indagini di laboratorio che gli studi epidemiologici indicano che la sostituzione di grassi saturi a lunga catena con grassi polinsaturi riduce sostanzialmente il rischio di manifestazioni coronaropatiche. L’importanza degli acidi grassi polinsaturi n-3, eicosapentaenoico (EPA) e docosaesaenoico (DHA), è nata dall’osservazione della bassa frequenza di coronaropatie negli eschimesi, a dispetto del loro consumo elevato di grassi e di cibi ricchi di colesterolo. Ciò che sembrava un paradosso venne risolto da due ricercatori danesi, Bang e Dyerberg, i quali, confrontando la bassa mortalità per coronaropatie degli eschimesi in Groenlandia, con quella elevata dei danesi residenti in Groenlandia, ma caratterizzati da abitudini alimentari molto diverse, trovarono la soluzione dell’enigma analizzando la composizione delle diete tipiche degli eschimesi e dei danesi. Questi ultimi, infatti, avevano mantenuto le abitudini della madre patria con un’alimentazione ricca di colesterolo e grassi saturi forniti soprattutto dalla carne e dai prodotti lattiero-casea- ri. Gli eschimesi, viceversa, si alimentavano soprattutto con carne di foca, di balena e di pesci, alimenti ricchi di EPA e di DHA. Gli eschimesi, inoltre, presentavano nel sangue livelli elevati di questi acidi grassi n-3 che, catturati dalle piastrine, le rendevano meno suscettibili alla formazione di trombi (Dyerberg et al 1975, Dyerberg et al 1979). Recentemente è stata confermata la validità di queste osservazioni in una popolazione di circa 9000 persone, gli Inuiti, distribuita in un vasto territorio a nord di Quebec, in Canada, che, avendo conservato ancestrali abitudini alimentari, è caratterizzata da una dieta a base di pesci e di mammiferi marini, con il risultato che la loro mortalità per coronaropatie ischemiche è del 50% inferiore alla media generale degli abitanti della provincia del Quebec (Dewailly et al 2001). Allo stato attuale, dopo centinaia di ricerche sperimentali in animali, in colture cellulari e dopo numerosissimi trial, sia nella popolazione che clinici, appare bene delineato il razionale per cui gli acidi grassi n-3 dei pesci e di altri animali marini sono in grado di prevenire le coronaropatie ischemiche (Commor 1994); una sintesi del loro meccanismo di azione viene riportata nella Tabella 1. L’EPA e il DHA contenuti negli oli 91 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 92 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici Tabella 1 • Prevenzione delle aritmie cardiache (tachicardia ventricolare e fibrillazione) Azioni svolte dagli acidi grassi n-3 nella prevenzione delle coronaropatie ischemiche e della morte improvvisa. Da Connor, Am J Clin Nutr, 74, 2001. • Azione antitrombotica • Inibizione dell’accrescimento delle placche aterosclerotiche • Azione antinfiammatoria (inibizione della sintesi di citochine e mitogeni) • Stimolazione della produzione di ossido di azoto di derivazione endoteliale • Riduzione dei livelli plasmatici di triacilglicerolo, di colesterolo VLDL e incremento dei livelli plasmatici di colesterolo HDL di pesce proteggono quindi dal rischio di insorgenza dell’arteriosclerosi. Anche esperienze sui maiali e sulle scimmie portano a ritenere che la prevenzione dell’arteriosclerosi possa effettuarsi attraverso meccanismi diversi da quello della riduzione della colesterolemia (Davis et al 1987). L’effetto pronunciato dell’olio di pesce sull’iperlipidemia è stato documentato molto bene da ricerche di dietetica che hanno messo a confronto gli effetti di diete a elevato contenuto di olio di salmone, di oli vegetali e di grassi saturi (Phillpson et al 1985). L’olio di pesce diminuisce la concentrazione di trigliceridi plasmatici inibendo nel fegato la sintesi degli stessi e delle VLDL. La produzione di apolipoproteina B viene ridotta maggiormente dopo il consumo di olio di pesce che di oli vegetali, quali l’olio di cartamo o l’olio d’oliva. Una pronunciata iperlipemia postprandiale si verifica dopo ogni pasto ric- co di grassi e, come è ormai noto, le lipoproteine postprandiali sono aterogeniche e anche trombogeniche, in quanto provocano un aumento del fattore VII attivo che agisce da procoagulante. Il trattamento preliminare con olio di pesce riduce di molto la lipemia postprandiale e questo effetto, ovviamente, va riguardato sotto il duplice profilo antiaterogeno e antitrombotico (Harris et al 1988). Tuttavia l’azione di prevenzione delle coronaropatie ischemiche da parte del pesce e dell’olio di pesce non deve portare a credere che i vegetariani non abbiano la possibilità di approvvigionarsi di acidi grassi n-3. In effetti, precursore di EPA e di DHA nella sintesi metabolica è l’acido linolenico, contenuto in quantità elevata in alcuni oli vegetali quali canola, olio di soia, olio di semi di lino, olio di noce (Tab. 2). Da uno studio basato sull’assunzione di acido linolenico contenuto in margarina prodotta con canola, è risultato, 92 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 93 E. Lanzola Tabella 2 Contenuto di acido alfa-linolenico in vari oli e alimenti. Da Connor, Am J Clin Nutr, 69, 1999. Prodotto Acido alfa-linolenico (in % sul peso) Olio di lino 50,8 Olio di soia 7,0 Olio canola 9,3 Olio d’oliva 0,6 Cioccolato 0,1 Olio di mais 1,0 Olio di noce di cocco Tracce Olio di cartamo 0,4 Noci tostate 6,8 Nocciole tostate 0,2 Mandorle tostate 0,4 Arachidi tostate Tracce Anacardi tostati 0,2 Spinaci 0,12 Cavolini di Bruxelles 0,20 Cavolo 0,13 infatti, un aumento dei livelli ematici di EPA e contemporaneamente una riduzione del 70% del tasso di mortalità per coronaropatia ischemica e di morte improvvisa (De Lorgeril et al 1994). L’acido alfa-linolenico è un acido grasso n-3 essenziale per l’uomo, ma è anche particolarmente importante nella prima infanzia e nei bambini, oltre che nei pazienti mantenuti in vita con alimentazione artificiale (enterale e parenterale). La sintesi di EPA e di DHA dall’acido alfa-linolenico avviene per tappe enzimatiche successive di allungamento e di desaturazione, in analogia con i composti della serie n-6, come appare sinteticamente dalla Figura 3. L’azione della delta-6-desaturasi, che opera sugli acidi grassi essenziali di entrambe le serie per la sintesi dei derivati, costituisce un fattore limitante, in quanto acido linoleico e acido linolenico entrano in competizione tra loro per la desaturazione e l’allungamento della catena. Ne deriva l’importanza di un equilibrio sostanziale fra questi due acidi grassi nel regime alimentare. Poiché l’acido alfa-linolenico e il suo metabolita EPA riducono la formazione di trombos- 93 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 94 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici Figura 3 Sintesi dei derivati a lunga catena polinsaturi dagli acidi grassi essenziali precursori. Da Agostoni e Giovannini, Doctor Pediatria, maggio 2001. 18:2 n-6 acido linoleico (LA) 18:3 n-3 acido α-linolenico (ALA) desaturarsi ∆6 desaturarsi ∆6 18:3 n-6 acido γ-linolenico (GLA) 18:4 n-3 acido stearidonico elongasi 20:3 n-6 acido diomogammalinolenico desaturarsi ∆5 20:5 n-3 acido eicosapentaenoico (EPA) elongasi (2) desaturarsi ∆6 20:4 n-6 acido arachidonico (AA) β-ossidazione (nel perossisoma) 22:6 n-3 acido docosaesaenoico (DHA) sano A2 (vasocostrittore e proaggregante), per il loro effetto inibitore sia sulla conversione da acido linoleico ad acido arachidonico, sia sull’attività della ciclossigenasi (Kang, Leaf 1996, Kinsella 1987, Kinsella 1988, Nair et al 1997), un rapporto elevato acido alfalinolenico/acido linoleico dovrebbe portare alla diminuzione del rischio di coronaropatie ischemiche, riducendo la tendenza alla formazione di trombi. Contrariamente alle attese, i risultati di vari studi epidemiologici hanno messo in evidenza soltanto una modesta riduzione del rischio di coronaropatie ischemiche quando il rapporto acido alfalinolenico/acido linoleico è maggiore di 0,10. Il motivo più probabile di tale apparente irrazionalità risiede nel fatto che non è soltanto la produzione di prostanoidi, su cui influiscono i polinsaturi n-3, a incidere sull’insorgenza della coronaropatia ischemica. Gli acidi grassi polinsaturi n-6, infatti, abbassano il rischio di coronaropatia attraverso una riduzione del colesterolo LDL e altri effetti benefici, quali il miglioramento della sensibilità all’insulina (Lovejoy 1999) e l’abbassamento 94 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 95 E. Lanzola della soglia per la fibrillazione ventricolare (Nair et al 1997). Pertanto, poiché sia gli acidi grassi della serie n-6 che quelli della serie n-3 riducono il rischio di coronaropatie ischemiche, sia pure attraverso vie biologiche diverse, si spiega perché il rapporto tra le due serie presenti soltanto una debole correlazione con tale rischio. Comunque, mentre si ritiene generalmente che il rapporto tra le serie n-3/n-6 debba essere alquanto superiore a 0,10, esiste invece qualche controversia su come possa essere incrementato tale rapporto. Alcuni autori hanno proposto di aumentare l’introduzione di acidi grassi n-3, promuovendo il consumo sia di pesce che di prodotti vegetali che li contengono, altri, viceversa, consigliano una riduzione del consumo di acidi grassi n-6 (Berry 1997). In considerazione del notevole effetto protettivo dimostrato dagli acidi grassi polinsaturi n-6 nei riguardi delle coronaropatie ischemiche, sia a seguito dei numerosi studi epidemiologici che dei trial clinici, quest’ultima strategia non sembra consigliabile. Al contrario, i dati di cui disponiamo appoggiano la tesi della sostituzione dei grassi, sia animali che idrogenati, con oli vegetali che contengono acidi grassi, sia monoinsaturi che polinsaturi. Alcuni di questi oli, quali il canola e l’olio di soia, come è già stato accennato, contengono quantità non indifferenti di acido alfa-linolenico. Consigliabile, nello stesso tempo, un aumento del consumo di pesce fino ad almeno due volte alla settimana. Una tale linea di condotta presenta il vantaggio di incrementare il contenuto nella dieta di acidi grassi della serie n-3, senza sacrificare un apporto desiderabile di quelli della serie n-6, migliorando, nello stesso tempo, il rapporto n-3/n-6 (Krauss et al 2000). Nella Tabella 3 è riportato uno schema riassuntivo del ruolo degli acidi grassi polinsaturi a lunga catena (Agostoni e Giovannini 2001). Come risulta chiaramente, tali acidi svolgono un ruolo fondamentale non soltanto nell’età adulta, ma anche nel periodo fetale, neonatale e durante tutto il periodo infantile. È riconosciuto ormai il possibile ruolo dell’apporto prenatale di acidi grassi provenienti dalla madre, e fortemente dipendente dallo stato di nutrizione lipidica di quest’ultima. Pertanto, non solo l’apporto di acidi grassi polinsaturi durante la gravidanza e l’allattamento, ma anche l’apporto precedente può avere un ruolo attraverso l’accumulo di tali grassi nei depositi tissutali materni, il successivo passaggio al pool 95 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 96 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici Tabella 3 Schema riassuntivo del ruolo degli acidi grassi polinsaturi a lunga catena. Da Agostoni e Giovannini, Doctor Pediatria, maggio 2001. Acido arachidonico (AA) Acido Acido eicosapentaenoico docosaesaenoico (EPA) (DHA) Prevenzione NO, un eccesso del rischio risulta associato cardiovascolare a patologie di natura trombotica e cardiovascolare SÌ, produzione di fattori a debole attività pro-aggregante, diminuzione di TG circolanti SÌ, diminuisce i trigliceridi circolanti, previene la formazione della placca aterosclerotica Prevenzione del diabete SÌ, aumenta il grado di insaturazione delle membrane SÌ, modifica la sensibilità all’insulina delle membrane cellulari NO, incremento del rischio cardiovascolare Crescita fetale SÌ, è correlato NO, è sconsigliato e neonatale positivamente l’eccesso agli indici di crescita corporea neonatale SÌ, i livelli nel funicolo ombelicale sono correlati al peso alla nascita nei pretermine Sviluppo della retina e del sistema nervoso centrale SÌ, modula le attività di membrana rendendole più fluide, facilita il ricambio di rodopsina nei bastoncelli, si concentra nelle aree di connessione e organizzative della memoria nella corteccia prefrontale FORSE, ruolo neuro trasmettitoriale? veicolante e, attraverso il funicolo, al feto, soprattutto durante il terzo trimestre. Il lattante trova poi la sua fonte di acidi grassi polinsaturi nel latte materno, mentre per il bambino più grande le fonti sono le stesse del soggetto adulto. Oggi risulta bene accertata la funzione degli acidi grassi polinsaturi della serie n-3, e in particolare dell’acido docosaesaenoico, nelle prime fasi della vita, compresa quella intrauterina. La ba- NO, in pratica assente nei lipidi delle cellule nervose se fisiologica degli effetti positivi del DHA starebbe nella modulazione delle attività di membrana che vengono rese più fluide. Il DHA faciliterebbe tra l’altro il ricambio della rodopsina, e quindi un miglioramento della performance visiva, e contribuirebbe sostanzialmente a un potenziamento della memoria e dell’apprendimento (Agostoni et al 2000, Agostoni et al 1997). 96 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 97 E. Lanzola vegetali contengono in genere quantità abbastanza elevate di vitamina E, al contrario dei grassi animali. Acidi grassi monoinsaturi Numerose indagini epidemiologiche hanno ormai ampiamente confermato la correlazione inversa esistente fra l’introduzione di acidi grassi monoinsaturi e il tasso di mortalità generale, e in particolare il tasso di mortalità per coronaropatie ischemiche. Tale correlazione è specialmente evidente nei paesi mediterranei, dove le popolazioni usano l’olio d’oliva (particolarmente ricco di acido oleico) come principale fonte di grasso alimentare. Studi metabolici hanno dimostrato che la sostituzione di carboidrati con grassi monoinsaturi provoca un aumento delle HDL senza influenzare le LDL (Mensink e Katan 1992), e nello stesso tempo può migliorare la tolleranza al glucosio e la sensibilità all’insulina in pazienti affetti da diabete mellito (Garg et al 1992). Per giunta, i grassi monoinsaturi sono abbastanza resistenti ai fenomeni di ossidazione (Parthasarathy et al 1990). Le fonti non animali più importanti di grassi monoinsaturi sono l’olio d’oliva e l’olio canola, le noci e gli avocadi. Sia l’olio canola che le noci sono altresì fonti importanti di acidi grassi polinsaturi. Va anche ricordato che gli oli Acidi grassi “trans” Negli ultimi dieci anni si è andata modificando l’opinione riguardante gli acidi grassi “trans”, considerati fino al 1990 come innocui riguardo a un potenziale rischio per le coronaropatie ischemiche. Già nei primi anni novanta, Mensink e Katan avevano potuto dimostrare che un modesto aumento della colesterolemia indotta dagli acidi grassi trans era accompagnata in realtà da un aumento considerevole del colesterolo LDL e da una riduzione del colesterolo HDL. Poco tempo dopo, Willett et al misero in evidenza una correlazione positiva fra introduzione di acidi grassi trans e frequenza di coronaropatie ischemiche in un vasto campione di donne, e ipotizzarono che oli vegetali parzialmente idrogenati potessero contribuire all’instaurarsi di tale patologia. Nel 1994 Willett e Ascherio rafforzarono le loro osservazioni sugli effetti sfavorevoli degli acidi grassi trans, calcolando che negli Stati Uniti più di 30.000 decessi all’anno potevano essere attribuiti al 97 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 98 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici consumo di grassi vegetali parzialmente idrogenati. In effetti, l’associazione fra bassi livelli di HDL e coronaropatie ischemiche è molto consistente e significativa, ed è confermata dall’osservazione, fatta attraverso vari trial clinici random, che i farmaci in grado di far aumentare il livello delle HDL portano altresì a una riduzione dell’incidenza di coronaropatie ischemiche (Rubins et al 1999). Ma vi sono almeno altri tre meccanismi attraverso cui gli acidi grassi trans possono contribuire all’aumento delle coronaropatie. In primo luogo, fanno alzare i livelli di Lp(a) (Nestel et al 1992, Sundram et al 1997), notoriamente associata al rischio di coronaropatie ischemiche (Uterman 1989); in secondo luogo, provocano anche un incremento dei trigliceridi plasmatici (Katan et al 1995), essi pure associati a un aumento del rischio (Hokanson e Austin 1996, Stampfer et al 1996); inoltre, gli acidi grassi trans possono influenzare sfavorevolmente il metabolismo degli acidi grassi essenziali nonché l’equilibrio delle prostaglandine, inibendo l’enzima delta-6-desaturasi, con il risultato finale di promuovere la trombogenesi (Katan et al 1995, Kinsella et al 1981, Jones 1993). Recenti ricerche, infine, portano a ritenere che elevate introduzioni di trans possano favorire nell’uomo la resistenza all’insulina (Lovejoy 1999). Negli Stati Uniti, le fonti più importanti di acidi grassi trans sembrano essere la margarina di consistenza molto solida, le patatine fritte e vari prodotti da forno. È stato calcolato che una porzione media di patatine fritte contenga circa 5-6 grammi di acidi grassi trans, una frittella ne contenga 2 grammi e 25 grammi di cracker ne contengano circa 2 grammi (Katan 2000). In Europa la situazione sembra essere migliore, perché molto probabilmente i produttori si sono sensibilizzati presto su questi problemi sanitari, allarmati anche dalle ripercussioni sul mercato che si sarebbero potute avere. Secondo quanto riportato nei LARN (1996), l’assunzione di acidi grassi trans nell’alimentazione italiana è in media di solo 1,3 g/die, contro i 5-10 g rilevati in paesi con consumi elevati di grassi idrogenati. È comunque opportuno che l’assunzione di tali grassi non superi i 5 g/die. Conclusioni Allo stato attuale delle nostre conoscenze, ai fini della prevenzione del rischio di cardiopatie ischemiche, più che 98 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 99 E. Lanzola la quantità totale dei grassi ha importanza il tipo di sostanze grasse apportate dalla dieta; esiste ancora, inoltre, qualche incertezza sui rapporti ottimali tra i differenti tipi di acidi grassi. D’altra parte, sebbene si continui a credere che una dieta ipolipidica comporti una diminuzione del peso corporeo, in realtà trial clinici a lungo termine non hanno fornito prove sufficienti che una riduzione dell’apporto di grassi con la dieta comporti necessariamente una riduzione del peso (Willett 1998). Al contrario, vi sono dati che portano a ritenere che regimi alimentari ricchi di carboidrati raffinati possano accrescere il senso di fame e quindi, attraverso un eccesso di alimentazione, condurre al sovrappeso e all’obesità (Roberts 2000). Tabella 4 Livelli di assunzione raccomandati di acidi grassi essenziali. Categoria Per quanto attiene alla quota lipidica della dieta, da più parti viene ormai riconosciuto che la raccomandazione diffusa di seguire diete a basso tenore di grassi allo scopo di prevenire l’arteriosclerosi, e in particolare le coronaropatie ischemiche, è di per sé troppo semplicistica e non rispondente con esattezza alle attuali conoscenze scientifiche. È per questo motivo che già nell’edizione 1996 dei Livelli di assunzione raccomandati di energia e nutrienti per la popolazione italiana (LARN), viene segnalato che l’assunzione lipidica corretta dovrebbe essere caratterizzata da un giusto equilibrio tra le varie serie di acidi grassi con un buon apporto di 18:2 n-6 e 18:3 n-3 (Tab. 4). Età n-6 n-3 (anni) % energia g/die % energia g/die Lattanti 0,5-1 4,5 4 0,2-0,5 0,5 Bambini 1-3 4-6 7-10 3 2 2 4 4 4 0,5 0,5 0,5 0,7 1 1 Maschi 11-14 15-17 ≥18 2 2 2 5 6 6 0,5 0,5 0,5 1 1,5 1,5 Femmine 11-14 15-17 ≥18 2 2 2 4 5 4,5 0,5 0,5 0,5 1 1 1 Gestanti 2 5 0,5 1 Nutrici 2 5,5 0,5 1 99 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 100 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici In particolare viene raccomandato un livello pari all’1-2% delle calorie totali sotto forma di acido linoleico, e lo 0,2-0,5% come acidi grassi polinsaturi della serie n-3, con un rapporto, quindi, tra acido alfa-linolenico e acido linoleico compreso tra 0,10 e 0,50. Gli stessi LARN, peraltro, tenendo conto che un’eccessiva assunzione di acidi grassi polinsaturi può provocare danni sia di tipo metabolico che funzionale (formazione di lipoperossidi potenzialmente tossici, aumentata velocità di sanguinamento, alterazione della funzione immunitaria), prevedono limiti massimi di assunzione abituale di acidi grassi polinsaturi n-3 (max 5% dell’energia della dieta) e della quantità globale di polinsaturi n-3 e n-6 (max 15% della dieta). Anche le Linee Guida Americane, recentemente rivedute, hanno tolto l’accento dalla quantità di grassi totali, limitandosi alla raccomandazione che il pubblico scelga una dieta a basso contenuto di acidi grassi saturi e di colesterolo (Lovejoy 1999; US Department of Agriculture 2000). Le più recenti acquisizioni in tema di lipidi alimentari devono essere tradotte in applicazioni pratiche, e ciò comporta ovviamente un’intensa e accurata opera di educazione alimentare, da attuare anche in funzione delle abitudini alimentari e dei fattori di rischio sia degli individui che delle popolazioni. Nella prevenzione delle coronaropatie ischemiche, infatti, occorre distinguere due strategie. Una è costituita dalla prevenzione primaria, rivolta alla popolazione in generale, che ha lo scopo di facilitare modifiche dello stile di vita, tra cui le abitudini alimentari, così da ridurre i livelli della colesterolemia e quindi la prevalenza delle coronaropatie ischemiche. L’altra riguarda la prevenzione secondaria ed è rivolta ai pazienti già colpiti da infarto del miocardio o da altre patologie riconducibili all’arteriosclerosi. È intuitivo che soprattutto la prevenzione primaria, basata su interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici, in quanto diretta a larghi strati della popolazione non può che appoggiarsi a un’efficiente opera di educazione alimentare, come è già stato accennato. A questo proposito può essere utile ricordare che nel 1985, il National Cholesterol Education Program (NCEP) del National Heart, Lung and Blood Institute (National Institutes of Health) degli USA, ha dato inizio a un’operazione tesa a ridurre la prevalenza dell’ipercolesterolemia negli Stati Uniti. Da allora vari rapporti sono stati pubblicati dal NCEP, il più recente dei quali è il terzo 100 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 101 E. Lanzola rapporto su Ricerca, valutazione e trattamento dei valori elevati di colesterolemia negli adulti , noto come ATP III. Ciascuno dei rapporti AI, AII e AIII, concepiti come Linee Guida, ruota intorno a un argomento fondamentale. L’ATP I offre una strategia per la prevenzione primaria delle coronaropatie ischemiche nei soggetti che presentano livelli elevati di lipoproteine a bassa densità (LDL-colesterolemia ≥160 mg/dl) ovvero di soggetti con livelli di LDL-colesterolemia borderline, colesterolemia fra 130 e 159 mg/dl e caratterizzati da oltre 2 fattori di rischio (Tab. 5). L’ATP II, oltre a calcare l’accento sull’importanza del fattore alimentare come parte fondamentale dello stile di vita nella prevenzione, suggerisce il raggiungimento di un livello ancora più ridotto della LDL-colesterolemia (≤100 mg/dl) in soggetti con precedenti episodi di infarto del miocardio. L’ATP III, Tabella 5 Fattori di rischio per le coronaropatie ischemiche. infine, ribadisce – sulla base di studi ancora più recenti – i concetti già espressi in ATP I e II, e inoltre focalizza l’attenzione sulle modalità della prevenzione primaria in persone caratterizzate da molteplici fattori di rischio. Molti di questi soggetti possono ottenere notevole beneficio da un trattamento, teso ad abbassare le LDL, ancora più spinto di quello raccomandato in ATP II. In pratica l’ATP III prescrive un approccio multivariato dello stile di vita per ridurre il rischio di infarto del miocardio. Questo approccio è definito come “modifiche terapeutiche degli stili di vita” (TLC: Therapeutic Lifestyle Changes) e le sue caratteristiche fondamentali consistono in: – ridotta assunzione di acidi grassi saturi (<7% delle calorie totali) e di colesterolo (<200 mg al giorno) (Tab. 6); – incremento del consumo di vegetali apportatori di fitosteroli (2 g/die) e di Fattori di rischio per le coronaropatie ischemiche - Età: maschi ≥45 anni femmine ≥55 anni o menopausa precoce senza terapia estrogena sostitutiva - Storia familiare di coronaropatia ischemica prematura - Abitudine al fumo - Ipertensione - Colesterolo HDL <35 mg/dl - Diabete 101 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 102 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici Tabella 6 Composizione in nutrienti della dieta TLC. Nutriente Assunzione Raccomandata Grassi saturi* meno del 7% delle calorie totali Grassi polinsaturi fino al 10% delle calorie totali Grassi monoinsaturi fino al 20% delle calorie totali Grassi totali 25-35% delle calorie totali Carboidrati** 50-60% delle calorie totali Fibra alimentare 20-30 g/die Proteine circa 15% delle calorie totali Colesterolo meno di 200 mg/die Apporto energetico*** bilanciare assunzione e dispendio energetico per mantenere un peso corporeo desiderabile. Controllare che non si verifichi aumento di peso. * Gli acidi grassi trans devono essere presenti nella più piccola quantità possibile in quanto contribuiscono a far aumentare le LDL. ** I carboidrati dovrebbero derivare soprattutto da cibi ricchi in carboidrati complessi includendo cereali – soprattutto integrali – frutta, verdura. *** Il dispendio energetico giornaliero dovrebbe includere almeno una modesta attività fisica (approssimativamente 200 kcal/die). fibra solubile (10-25 g/die); – riduzione del peso corporeo. – incremento dell’attività fisica. In pratica le modificazioni dietetiche proposte dal National Cholesterol Education Program si traducono in due tipi di diete denominate Step I Diet e Step II Diet. La prima di queste è caratterizzata da un contenuto di grassi inferiore al 30% delle calorie totali e da un apporto di saturi compreso tra l’8% e il 10% delle calorie; il colesterolo è inferiore a 300 mg/die. La dieta Step II contiene la stessa percentuale di grassi, ma quelli saturi vengono portati al di sotto del 7% delle calorie totali e il colesterolo è inferiore a 200 mg/die (ATP II - NCEP). Con la dieta Step I la colesterolemia si abbassa dal 3% fino al 14% e dovrebbe essere misurata dopo 6 settimane di dieta e quindi dopo 3 mesi. Se i valori colesterolemici previsti non vengono raggiunti il paziente deve passare alla Step II Diet che può ulteriormente ridurre il colesterolo del 3%-7%. Entrambe le diete prevedono una varietà di alimenti appartenenti a tutti i 102 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 103 E. Lanzola gruppi alimentari e ciò assicura non soltanto la copertura del fabbisogno dei singoli nutrienti (in particolare vitamine e minerali) ma anche la compliance dei soggetti. È ovvio, tuttavia, che un’applicazione rigorosa della procedura proposta dal NCEP presuppone che l’elaborazione delle diete – che devono essere personalizzate in funzione dell’età, del sesso, dell’attività lavorativa e fisica dei singoli soggetti e tenere conto, inoltre, nei limiti del possibile, della preferenza e abitudini individuali – debbono essere elaborate da personale competente. A puro titolo di esempio vengono riportate quattro differenti diete adeguate a soggetti che necessitino – per il loro equilibrio energetico – di un apporto di 2.800 kcal/die. Tali diete, elaborate tenendo conto delle comuni abitudini alimentari italiane, variano per il contenuto di lipidi totali e relative frazioni, nonché per il contenuto di colesterolo e possono essere considerate, sotto questo aspetto, un’applicazione mediterranea delle diete Step I e II (le quattro diete sono state elaborate dalla dietista Rosella Bazzano dell’Università di Pavia). Si tratta, come già precisato, soltanto di esempio di diete che sono state elaborate a mero scopo dimostrativo tenendo presenti, fra l’altro, preferenze ipotetiche verso cibi e bevande compatibili con le finalità della dieta. Va precisato, inoltre, che un trattamento dietetico serio ed efficace, come quello delle diete Step I e Step II, presuppone che i menu dietetici siano almeno sette (uno per ciascun giorno della settimana) al fine di consentire un’opportuna rotazione e una varietà di piatti tale da minimizzare il rischio di drop out. In linea generale un buon equilibrio tra i vari acidi grassi (saturi, monoinsaturi, polinsaturi) può essere raggiunto impiegando nella preparazione dei pasti – ogni volta che sia possibile – olio di oliva o olio di semi a elevato contenuto di monoinsaturi e polinsaturi e limitando il numero di piatti ricchi di grassi animali e di alimenti con elevato tenore di grassi “non visibili”. Tuttavia, soltanto una buona educazione alimentare può contribuire a evitare due possibili errori, l’uno opposto all’altro, che, eufemisticamente, potremmo definire come Scilla e Cariddi, cioè a dire che da un lato la riduzione dei grassi visibili – compresi gli oli – conduca a un aumento dell’apporto di grassi saturi, e dall’altro che per ridurre l’apporto di grassi invisibili vengano eccessivamente penalizzati prodotti di origine animale, come la carne e i prodotti caseari. 103 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 104 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici Esempio di dieta Dieta da 2800 Kcal • proteine 13% • lipidi 30% di cui 10% saturi, 16% monoinsaturi, 4% polinsaturi • glucidi 52%, alcol 5% • colesterolo mg 190 Colazione - ml 300 di latte parzialmente scremato - g 50 di biscotti secchi Pranzo - g 80 di pane (una ciabattina) - fusilli al pomodoro preparati con g 120 di pasta, g 200 di pomodoro fresco, g 15 di grana (un cucchiaio e 1/2), basilico o altre erbe aromatiche a piacere - g 50 di prosciutto crudo - g 200 di melone Spuntino - una tazza di tè dolcificato con un cucchiaino di zucchero - 4 biscotti integrali tipo frollini Cena - riso e prezzemolo preparato con g 30 di riso, brodo vegetale e prezzemolo q.b., un cucchiaino di grana - g 80 di pane (una ciabattina) - g 100 di pollo allo spiedo - peperonata preparata con g 200 di peperoni, pomodori maturi, erbe aromatiche a piacere - g 250 di uva bianca - un bicchiere e 1/2 di vino rosso Dopo cena - una tazza di camomilla dolcificata con 1 cucchiaino di zucchero Condimenti È consentito consumare ml 40 di olio d’oliva extravergine nell’arco della giornata (pari a 8 cucchiaini da tè) 104 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 105 E. Lanzola Esempio di dieta Dieta da 2800 Kcal • proteine 11% • lipidi 30% di cui 7% saturi, 18% monoinsaturi, 5% polinsaturi • glucidi 56%, alcol 3% • colesterolo mg 172 Colazione - ml 250 di latte parzialmente scremato - g 30 di muesli senza zucchero Pranzo - g 80 di pane (una ciabattina) - risotto al radicchio preparato con g 80 di riso, radicchio rosso brasato, un cucchiaio di grana - g 100 di salmone alla piastra - insalata di soncino con noci (4 o 5) - g 200 di ananas al naturale Cena - g 280 di pizza margherita (tipo pizzeria) - g 80 di crostata con marmellata - una coppetta di macedonia di frutta fresca - una birra chiara media (ml 400) Condimenti È consentito consumare ml 30 di olio d’oliva extravergine nell’arco della giornata (pari a 6 cucchiaini da tè) oltre a quello contenuto nella pizza 105 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 106 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici Esempio di dieta Dieta da 2800 Kcal • proteine 13% • lipidi 25% di cui 10% saturi, 12% monoinsaturi, 3% polinsaturi • glucidi 57%, alcol 5% • colesterolo mg 148 Colazione - un bicchiere di spremuta d’arance dolcificato con un cucchiaino di zucchero - g 50 di pane tostato integrale - una confezione alberghiera di marmellata Pranzo - g 80 di pane (una ciabattina) - gnocchi al pomodoro preparati con g 250 di gnocchi di patate, g 200 di pomodori maturi, un cucchiaio di grana, basilico o altre erbe aromatiche a piacere - g 100 di coscia di tacchino al forno - insalata di indivia belga - una coppetta di macedonia di frutta fresca con un cucchiaino di zucchero Spuntino - un vasetto di yogurt alla frutta Cena - pasta e ceci preparata con g 80 di pasta, g 40 di ceci secchi, un cucchiaio di grana - g 80 di pane (una ciabattina) - g 100 di ricotta - g 200 di ratatouille di verdure - g 200 di frutta fresca di stagione - un bicchiere e 1/2 di vino rosso Condimenti È consentito consumare ml 35 di olio d’oliva extravergine nell’arco della giornata (pari a 7 cucchiaini da tè) 106 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 107 E. Lanzola Esempio di dieta Dieta da 2800 Kcal • proteine 13% • lipidi 25% di cui 7% saturi, 13% monoinsaturi, 5% polinsaturi • glucidi 59%, alcol 3% • colesterolo mg 166 Colazione - caffelatte preparato con ml 250 di latte parzialmente scremato, caffè q.b., dolcificato con un cucchiaino di zucchero - 6 fette biscottate integrali Spuntino - un pacchetto di cracker salati Pranzo - g 100 di pane tipo ciabatta - sogliola alla mugnaia preparata con g 150 di sogliola, farina q.b. - patate in insalata con prezzemolo preparate con g 300 di patate, prezzemolo q.b. - g 80 di insalata verde - g 200 di arance - un bicchiere di vino bianco o rosso - caffè dolcificato con g 5 di zucchero Spuntino - una tazza di tè dolcificato con un cucchiaino di zucchero - g 50 di biscotti secchi Cena - g 60 di pane (un panino) tipo rosetta - minestrone di riso preparato con g 30 di riso, g 250 di verdure miste e legumi, 1 cucchiaio di grana - g 50 di taleggio - g 200 di zucchine trifolate - g 200 di mele o altra frutta fresca di stagione - un bicchiere di vino rosso Dopo cena - un bicchiere di succo di frutta Condimenti A disposizione nell’arco dell’intera giornata ml 35 di olio d’oliva extravergine (pari a 7 cucchiaini da tè) da distribuirsi a crudo sulle vivande 107 1225/01 capitolo 2 29-05-2002 15:20 Pagina 108 Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici Riferimenti bibliografici Commor WE n-3 fatty acids and heart disease. 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Noto Cattedra di Medicina Interna Università degli Studi di Palermo Biologia del danno ossidativo logici, il cui risultato conduce all’ostruzione arteriosa e quindi all’evento clinico. Questa eterogeneità del processo patologico pone il problema di identificare il primum movens e quindi la causa iniziale del processo aterosclerotico. Mentre la teoria finora accettata proponeva la “denudazione” dell’endotelio arterioso come primo evento, più recenti osservazioni propongono una disfunzione più che un’alterazione meccanica endoteliale. La prima alterazione che può essere identificata anatomopatologicamente, è rappresentata dalla “stria grassa”, la fatty streak degli autori anglosassoni, rinvenuta come riscontro autoptico casuale anche in adolescenti. Questa lesione è una lesione infiammatoria pura, caratterizzata dalla presenza di un numero elevato di linfociti T e da macrofagimonociti. Una volta che il processo è attivo, numerosi fattori di rischio contribuiscono al suo mantenimento e accrescimento. La disfunzione endotelia- Da alcuni anni si accumulano evidenze che dimostrano come l’aterosclerosi debba considerarsi una patologia complessa, che sottende un meccanismo immunopatologico di tipo infiammatorio. È noto che elevati livelli di colesterolo LDL rappresentano il principale fattore di rischio per la malattia cardiovascolare, tuttavia, le modifiche dello stile di vita e l’utilizzo di nuove strategie farmacologiche hanno consentito soltanto una parziale riduzione dell’incidenza di tale malattia, che resta tuttora la principale causa di morte. La lesione aterosclerotica è localizzata prevalentemente in corrispondenza delle arterie elastiche di medio calibro e delle arterie muscolari. Il crescente numero dei fattori di rischio identificati per la malattia cardiovascolare mette in luce come la lesione aterosclerotica sia il risultato di diversi momenti fisiopato- 111 1225/01 capitolo 3 29-05-2002 15:19 Pagina 112 Stress ossidativo e antiossidanti naturali le altera le proprietà “anticoagulanti” della sua superficie, aumenta l’adesività e permeabilità di leucociti e piastrine, promuove la liberazione in situ di mediatori dell’infiammazione, citochine e fattori di crescita, generando un aumento dell’attività ossidativa nel sito di lesione da parte di numerosi agenti lesivi. Si determina quindi la distruzione progressiva della struttura della parete arteriosa, con progressiva creazione di una placca ateromasica. Negli ultimi anni, un considerevole interesse verso la valutazione dello stato ossido-riduttivo della placca, o redox state, ha permesso di chiarire come molti dei fattori di rischio, sia classici che di nuova acquisizione, agiscano sulla placca alterandone lo stato redox, sia favorendo i processi ossidativi, che riducendo il potere antiossidante proprio della parete arteriosa. Uno dei principali fattori di rischio della malattia cardiovascolare è rappresentato dall’ipercolesterolemia, e numerosi sono stati gli studi che hanno permesso di spiegare come il metabolismo lipidico giochi un ruolo nel mantenimento dello stato redox della parete arteriosa. È necessario però comprendere quali siano i principali sistemi che intervengono nella regolazione dei meccanismi ossido riduttivi. Composti reattivi dell’ossigeno (ROS) Da quando gli studi hanno posto l’attenzione sui meccanismi ossido-riduttivi della parete arteriosa, numerosi composti capaci di influenzare lo stato redox sono stati identificati. I più importanti sono rappresentati dai “composti reattivi dell’ossigeno”, detti ROS (reactive oxigen species), da radicali fra i quali il superossido, il radicale idrossile, che in parte sono generati da altri ossidanti, quali il perossido di idrogeno e il perossinitrito. Oltre all’azione ossidante, questi composti sembrano fungere da segnali responsabili dell’attivazione di meccanismi cellulari responsabili di disfunzione endoteliale. Alla luce di queste acquisizioni, il ruolo dell’ipercolesterolemia è stato rivalutato, in base alla possibilità che i ROS interagiscano con la maggiore disponibilità di lipidi all’interno della barriera endoteliale, alterandone lo stato redox. Molti punti rimangono ancora oscuri: infatti, i sistemi principali che iniziano la catena ossidativa dei lipidi intra-parete non sono ancora stati identificati. Il principale “bersaglio” ossidativo lipoproteico è rappresentato dagli acidi grassi insaturi presenti all’interno della placca sotto forma di esteri di colesterolo, fosfolipidi e nei trigliceridi. 112 1225/01 capitolo 3 29-05-2002 15:19 Pagina 113 M. Averna, C.M.Barbagallo, A. Cefalù, D. Noto Lipossigenasi, metalloproteasi LDL ossidate Secondo le ipotesi più recenti, l’alterazione cui vanno incontro con maggiore frequenza le lipoproteine è l’ossidazione. Le LDL possono essere ossidate da prodotti metabolici di quasi tutti i sottotipi cellulari presenti nella matrice della parete arteriosa. In una fase iniziale, una modesta ossidazione risulta nella formazione di “LDL modicamente ossidate” o MM-LDL nello spazio subendoteliale. Le MM-LDL inducono la produzione di fattori chemiotattici monocitari, come la proteina chemiotattica monocitaria 1 (MCP-1), ma anche fattori di differenziazione, come il fattore di differenziazione macrofagica M-CSF. Questi eventi conducono alla migrazione dei monociti nello spazio endoteliale e alla loro differenziazione in macrofagi, con liberazione di enzimi litici, come le metalloproteinasi, che determinano un’ulteriore ossidazione delle MM-LDL, che divengono francamente ossidate (ox-LDL). Le ox-LDL non vengono più riconosciute tramite il recettore naturale, il recettore LDL, ma da una serie di altri recettori, detti “spazzini”, o scavenger, i quali comportano l’accumulo di esteri del colesterolo all’interno di cellule macrofagiche, che si trasformano in cellule schiumose, o foam cells, che Questi verrebbero trasformati inizialmente in lipoperossidi (L-OOH), forse dall’azione della 15 lipossigenasi (15 LO). A supporto di questa osservazione, topi geneticamente modificati che sovraesprimono la 15 LO, presentano una maggiore presenza di aterosclerosi. Rimane da chiarire come un’enzima citosolico macrofagico possa interagire con lipoproteine presenti nella matrice della placca. Il ruolo della LO sarebbe quello di “esporre” lipoperossidi sulla superficie lipoproteica per ulteriore ossidazione, che comporta la formazione dei corrispondenti alcoli (L-OH) da parte di specifiche perossidasi, non riscontrate però nella matrice della placca. In via alternativa, dagli L-OH potrebbero essere generati radicali lipoperossilici (L-OO*) per intervento del radicale idroperossido (*OH). È noto che le LDL native, di per sé inducono il rilascio dell’anione superossido, che conduce alla formazione del perossinitrito, amplificando così la catena ossidativa. Recentemente sono stati identificati alcuni prodotti ossidanti delle mieloperossidasi, quali acido ipocloroso, residui tirosinici ridotti e la pirossifenilacetaldeide, che potrebbero essere coinvolti nell’ossidazione delle LDL. 113 1225/01 capitolo 3 29-05-2002 15:19 Pagina 114 Stress ossidativo e antiossidanti naturali rappresentano l’elemento lipidico caratteristico della placca lipidica ateromasica. Alcuni di questi recettori sono stati identificati ed è stato chiarito il meccanismo di attivazione. È stato identificato recentemente il recettore putativo per le LDL ossidate o LOX. Grazie a questo riscontro, la catena di eventi trascrizionali che consegue dall’internalizzazione delle ox-LDL alla risposta proinfiammatoria, è stata parzialmente chiarita. L’attivazione dei recettori per le LDL ossidate attiva i sistemi del TNF alfa, FAS, caspasi, protein-kinasi mitogeno attivata/kinasi JUN. Come risultato dell’attivazione di questi segnali, vengono generati diversi fattori di trascrizione redox-sensitivi; activating transcription factor 2, ets-like element kinase-dependent 1, AMPc response element binding protein, NFkB, complesso activator protein 1, p53, complesso cMyc/Max, fattore legante elongation 2 factor e il complesso activator protein 2. Questo meccanismo di attivazione genica comporta la sintesi di alcuni mediatori dell’infiammazione, come il tumor necrosis factor alfa (TNFa), interleuchina 1beta (IL1b) e l’interferon gamma (Ig), che si sono dimostrati in grado di stimolare la sintesi di enzimi capaci di innescare un ulteriore stress ossidativo, producendo ROS come la NADPH ossidasi, che è il principale produttore di anione superossido nell’endotelio, ma anche xantina ossidasi, ciclossigenasi, mieloperossidasi e lipossigenasi. L’NADPH ossidasi vascolare è responsiva a stimoli di parete, quali lo stress di parete (shear stress), ma anche a stimoli ormonali, fattori di crescita e citochine. La fonte di NADPH della placca è considerata la cellula monocito macrofagica, insieme a cellule della parte vascolare, cellule muscolari lisce, endoteliali e fibroblasti. Esperimenti con topi geneticamente carenti di NADPH macrofagica non hanno mostrato riduzione dell’estensione della placca indotta sperimentalmente, lasciando supporre un prevalente coinvolgimento di cellule residenti nella parete vascolare. Prospettive d’intervento Un potenziale ruolo protettivo degli antiossidanti naturali nei confronti della malattia cardiovascolare (MCV) è oggetto di discussione ormai da quasi vent’anni. I primi studi degli anni settanta e ottanta sembravano suggerire un ruolo protettivo della supplementazione dietetica con antiossidanti naturali, par- 114 1225/01 capitolo 3 29-05-2002 15:19 Pagina 115 M. Averna, C.M.Barbagallo, A. Cefalù, D. Noto ticolarmente vitamina E e beta carotene, e diversi studi osservazionali sembrarono correlare l’introito di antiossidanti con la riduzione dell’incidenza di MCV. Negli anni novanta, diversi trial su larga scala estesero le osservazioni iniziali e i risultati furono in qualche modo sorprendenti. Mentre lo studio Linxian in Cina dimostrò un effetto protettivo della somministrazione di alfa tocoferolo, beta carotene e selenio fornite a dosi naturali, negli Alfa Tocoferolo, Beta Carotene Cancer Prevention Study (ATBC) in Finlandia e Carotene and Retinol Efficacy Trial (CARET) negli USA, si è riscontrato che soggetti ad alto rischio per neoplasie, supplementati con dosi farmacologiche di antiossidanti svilupparono più neoplasie rispetto ai controlli, ed è stato registrato un incremento della mortalità cardiovascolare dell’11% nell’ATBC e del 26%, ma non significativo, nel CARET. Infine, nello studio ATBC si è evidenziata una maggiore incidenza di stroke emorragici. In contrasto con tali osservazioni lo studio CHAOS, in pazienti con malattia coronarica diagnosticata coronarograficamente, la supplementazione di vitamina E a dosi di 400 o 800 IU per 1,5 anni ha dimostrato una riduzione dell’incidenza del reinfarto, ma non una riduzione della mortalità cardiovascolare. A prima vista i risultati sembrano attribuire agli antiossidanti le migliori e le peggiori qualità. Alcune discrepanze possono essere spiegate dal tipo di selezione delle casistiche nei vari studi, dai dosaggi utilizzati (dosi nutrizionali vs farmacologiche, il tipo e l’associazione utilizzata). Mentre la somministrazione di un singolo nutriente ad alte dosi può non rappresentare un valido presidio, effetti positivi si dovrebbero attendere dall’uso di diversi antiossidanti a dosi nutrizionali, quali quelli contenuti in una dieta salutare. Il dato essenziale degli studi di intervento sembra essere che concentrazioni ottimali di antiossidanti plasmatici esercitano un effetto positivo, mentre ciò non è vero per la supplementazione ad alte dosi. Infatti, gli effetti negativi riscontrati nei suddetti studi si sono evidenziati nel gruppo di soggetti con concentrazioni di ossidanti più elevate (rispettivamente 18 e 12 volte i livelli iniziali nell’ATVB e CARET). La spiegazione di questo effetto paradosso delle alte dosi potrebbe essere dato dal fatto che, sebbene un eccesso di ossidazione possa essere responsabile dell’attivazione di sistemi che conducono alla formazione di placche instabili, come illustrato in precedenza, tuttavia un livello basale di produzione di radicali liberi è un processo fondamentale per 115 1225/01 capitolo 3 29-05-2002 15:19 Pagina 116 Stress ossidativo e antiossidanti naturali l’attivazione dei geni antiossidanti nelle cellule sottoposte a stress ossidativo. I radicali liberi intervengono anche nel processo apoptotico che rappresenta una difesa efficace nei confronti delle neoplasie e delle disfunzioni immunitarie. Va osservato che alcuni antiossidanti hanno dimostrato effetti pro-ossidativi se somministrati ad alte dosi. Tali osservazioni possono quindi spiegare come la somministrazione di alte dosi, farmacologiche, di antiossidanti, conduca alla fine a effetti negativi sulla patologia cardiovascolare e neoplastica che non sono evidenti con dosi “nutrizionali”. denziato attività ipocolesterolemizzante. L’alfa tocoferolo, un antiossidante capace di intrappolare i radicali perossilici liberi, è il principale e più potente antiossidante liposolubile presente nel plasma e nelle lipoproteine LDL. È però vero che sia gli studi animali che i trial controllati, come detto in precedenza, hanno mostrato risultati contrastanti. Riguardo agli studi animali, gli studi con supplementazione di vitamina E non hanno mostrato risultati certi, così come la combinazione di vitamina E e beta carotene. Recenti studi hanno rilevato che l’alfa tocoferolo ha azioni antiaterogeniche indipendenti dall’azione antiossidante sulle LDL, quali l’inibizione della protein-kinasi C e della proliferazione delle cellule muscolari lisce, e l’inibizione dell’espressione del recettore proinfiammatorio CD36. La reale importanza di queste azioni è comunque ancora oggetto di studio. Vitamina E Vitamina E è il nome collettivo di una serie di molecole che mostrano l’attività biologica propria dell’alfa tocoferolo. Le forme di vitamina E presenti in natura sono rappresentate da quattro tocoferoli e quattro tocotrienoli (alfa, beta, gamma e delta). I tocotrienoli differiscono dal tocoferolo per la presenza di una catena laterale insatura e sono potenti agenti ipocolesterolemizzanti e antiossidanti. Tuttavia solo l’alfa tocotrienolo ha mostrato attività antiossidante, mentre i tocotrienoli, purificati in un singolo studio su umani, non hanno evi- Carotenoidi I carotenoidi rappresentano una classe di pigmenti dal giallo al rosso presenti in ortaggi e frutta. La ricerca sull’attività antiossidante dei carotenoidi si è focalizzata sull’azione neutralizzante mostrata dal beta carotene e dal licope- 116 1225/01 capitolo 3 29-05-2002 15:19 Pagina 117 M. Averna, C.M.Barbagallo, A. Cefalù, D. Noto ne sull’ossigeno singoletto. Tuttavia non ci sono chiare evidenze che l’ossigeno singoletto, un composto reattivo dell’ossigeno, giochi un ruolo fondamentale sul processo aterogenico, e che la sua neutralizzazione riduca il rischio cardiovascolare. L’azione antiossidante è stata anche evidenziata in sistemi in vitro. Paradossalmente, l’addizione di altri carotenoidi, quali il licopene, negli stessi sistemi, in vitro, ha mostrato un effetto pro-ossidante. Questo denota come non esistano evidenze certe riguardo all’azione dei carotenoidi sulla stabilità delle LDL anche in vitro. tetroidropterina, una proteina coinvolta nella sintesi del nitrossido (NO), un potente vasodilatatore, da parte della nitrossido sintetasi (NOS) delle cellule endoteliali. Inoltre, nei soggetti sottoposti a trapianto cardiaco, la vitamina C incrementa la risposta ai nitrati e all’acetilcolina. Poiché tali risposte sono mediate dalla presenza del NO, questa rappresenterebbe un’evidenza indiretta della sua maggiore disponibilità indotta dalla vitamina C. Flavonoidi La relazione inversa tra l’assunzione di alimenti ricchi di flavonoidi, quali vino rosso, tè, liquirizia, e la riduzione del rischio di malattia cardiovascolare, può essere legata all’inibizione dell’ossidazione delle LDL, quindi alla riduzione della formazione delle cellule schiumose e in ultima analisi all’inibizione del processo aterosclerotico. In studi su animali, tali sostanze hanno dimostrato di ridurre la progressione dell’aterosclerosi. Tra i differenti tipi di flavonoidi, i flavonoli, flavanoli e isoflavanoidi sono i più potenti antiossidanti; tuttavia, all’interno delle singole classi esistono composti con diverso potere antiossidante. Per questo, alcuni alimenti in vitro han- Vitamina C La vitamina C, o acido ascorbico, è un antiossidante idrosolubile che inibisce la perossidazione lipidica, in vitro, anche in condizioni di stress ossidativo accentuato. Essa agisce sia trasportando i radicali in fase acquosa, che riconvertendo i radicali alfa tocoperossilici in alfa tocoferolo. I livelli circolanti vitamina C sono considerati un marker sensitivo per lo stress ossidativo, come quello che si realizza nel fumo di sigaretta o in corso di angina instabile. La vitamina C possiede inoltre una serie di funzioni biologiche, come la stabilizzazione della 117 1225/01 capitolo 3 29-05-2002 15:19 Pagina 118 Stress ossidativo e antiossidanti naturali no mostrato un potere antiossidante pari all’80-90% (liquirizia, vino rosso, estratto di ginepro) rispetto a un’inibizione del 70% del limone e della soia. L’effetto dei flavonoidi è legato al loro accumulo nelle lipoproteine e nelle cellule della parete arteriosa, come i macrofagi. La loro azione è legata all’inibizione della perossidazione tramite la rimozione delle ROS (reactive oxigen species) e al potere chelante sui metalli provvisti di potere ossidante. Inoltre, hanno il potere di attivare sistemi antiossidanti, come la glutatione perossidasi/reduttasi. Alcuni studi hanno mostrato che il potere antiossidante dei flavonoidi è anche legato al risparmio indotto di altri antiossidanti legati alle LDL. Il flavonoide glabridina ha mostrato in vitro la capacità di inibire il consumo di beta carotene e di licopene rispettivamente del 41% e 50% dopo stress ossidativo, ma non di vitamina E. Tuttavia non sono disponibili studi clinici controllati sugli effetti protettivi dei flavonoidi, che nei prossimi anni dovranno essere testati isolatamente e in sinergia con la somministrazione di altri antiossidanti. Acido linoleico coniugato Acido linoleico coniugato (CLA) è la sigla che indica una mistura di isomeri geometrici e posizionali dell’acido linoleico. L’interesse nei confronti di questa sostanza è nato dall’ipotesi che potesse intervenire nel processo carcinogenetico. Studi recenti hanno chiarito che gli isomeri c9, t11, t10 e c12 hanno diversi effetti biologici. L’idea che il CLA potesse proteggere le LDL dall’ossidazione per una potente azione antiossidante diretta, non si è rivelata valida per l’incapacità di stabilizzare le membrane cellulari dallo stress ossidativo in vitro. Tuttavia, è stato ipotizzato che l’auto-ossidazione del CLA produca acidi grassi furanici, che sono ritenuti protettivi nei confronti dalla tossicità ossidativo-mediata. 118 1225/01 capitolo 3 29-05-2002 15:19 Pagina 119 M. Averna, C.M.Barbagallo, A. Cefalù, D. Noto Riferimenti bibliografici Cardiovasc Res, 43: 562-571, 1999. Nigdikar SV, Williams NR, Griffin BA, Howard AN Consumption of red wine polyphenols reduces the susceptibility of low density lipoproteins to oxidation in vivo. Am J Clin Nutr, 68: 258-265, 1998. Azzi A, Breyer I, Feher M et al Specific cellular responses to [alpha]-tocopherol. J Nutr, 130: 1649-1652, 2000. Braunwald E Shattuck Lecture - cardiovascular medicine at the turn of the millennium: triumphs, concerns, and opportunities. N Engl J Med, 337: 1360-1369, 1997. Omenn GS, Goodman GE, Thorquist MD et al Effects of a combination of beta-carotene and vitamin A on lung cancer and cardiovascular disease. N Engl J Med, 334: 1150-1155, 1996. 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La ricerca nutrizionale moderna ha fatto proprie le conoscenze di biologia molecolare per identificare geni, enzimi e proteine strutturali che sono regolate a livello trascrizionale dalla dieta. I fattori dietetici esplicano numerosi effetti ple- iotropici sul metabolismo, e si sta tentando di identificare e integrare gli effetti dei singoli nutrienti in questo quadro complesso. Le tecniche di biologia molecolare, che permettono di misurare simultaneamente la risposta di molti geni attivamente trascritti in una qualsiasi cellula in risposta a diversi stimoli, permettono lo studio delle interazioni nutrienti-geni su larga scala, aumentando la comprensione dei fenomeni biomolecolari regolati dalla nutrizione. Poiché è possibile misurare direttamente l’espressione di molti più geni in un unico esperimento (Tab. 1 e Fig. 1), lo studio di profili di espressione di più geni diventerà un approccio sistematico. Da questo punto di vista l’espressione genica può essere la nuova frontiera della scienza clinica della nutrizione. 121 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 122 Alimentazione e geni Tabella 1 Vantaggi e svantaggi di alcune tecniche di biotecnologia per l’identificazione e lo studio dell’espressione genica. Metodo Vantaggi Svantaggi cDNA arrays Contemporanea analisi di molti geni: disponibile commercialmente, metodo semiquantitativo, utilizzo di piccole quantità di campione (RNA). Sensitività e specificità sconosciuta per evidenziare differenze; probabilmente specie-specifico; costoso; attualmente è disponibile un sottogruppo di tutti i geni. Analisi seriale dell’espressione genica Valutazione di tutti i geni espressi in un tessuto e/o cellula; assenza di specie-specificità; utilizzo di piccole quantità di campione; non dipende da database di geni noti sequenziati e quindi utilizzabile per l’identificazione di nuovi geni e/o di geni poco espressi. Richiede un laboratorio con attrezzature costose e software per analizzare i risultati. Proteomics Misura i prodotti funzionali dei geni (proteine); assenza di specie-specificità; non dipende da database di geni noti sequenziati. Sensitività e specificità sconosciuta per evidenziare differenze; richiede un laboratorio dotato di spettrometro di massa per identificare geni non presenti nei database; costoso; solo le proteine più abbondanti vengono evidenziate. 122 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 123 M. Averna, A. Cefalù, A. Notarbartolo, D. Noto Nutrizione, fenotipo e longevità Nessun esempio è così paradigmatico quale la potenza della dieta nel modificare lo stato di salute, in associazione all’osservazione degli effetti della Restrizione Calorica (CR) sulla longevità. Ad oggi, nessun intervento farmacologico, genetico o ambientale si è dimostrato efficace nel prolungare la vita media negli animali; tuttavia, la semplice restrizione calorica aumenta la vita media del 30-40% in un certo numero di organismi, compresi lieviti, Drosophilia, Caenorhabditis elegans, roditori e scimmie. Nonostante siano stati osservati effetti positivi con la riduzione calorica nei soggetti anziani, ridotta resistenza insulinica, incremento di sintesi di glucocorticoidi e aumento di sintesi di heat-shock protein, il meccanismo attraverso il quale la CR contribuisce a incrementare la vita media rimane sconosciuto. La CR potrebbe interferire con diversi processi associati all’età, tra i quali il metabolismo energetico, lo stress ossidativo e i fenomeni della “Ri- parazione del DNA”. Uno studio condotto da Lee et al è un esempio pionieristico dell’uso dei DNA arrays per esplorare gli effetti della CR e l’età, sull’espressione genica nel muscolo scheletrico di topo. Con questo approccio di laboratorio è stato possibile identificare alcuni geni coinvolti in un’ampia gamma di azioni metaboliche, con l’implicazione immediata che gli effetti dell’invecchiamento e della restrizione calorica sono ampi e tuttavia correlati. È in corso tutta una serie di studi al fine di identificare quei geni che sono alterati nell’invecchiamento e che sono “protetti” dalla restrizione calorica. D’altra parte, un problema fondamentale dei paesi industrializzati è l’incremento del tasso di obesità e di malattie correlate con gli squilibri metabolici connessi con l’obesità. Data la molteplicità di effetti dell’obesità che sono intimamente legati alla dieta, è richiesto un approccio globale anziché la ricerca di una singola causa-effetto. 123 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 124 Alimentazione e geni Figura 1 Campione 1 Esempio di identificazione di un gene (TEP1) con il metodo del cDNA arrays. Campione 2 mRNA TEP1 cDNA TEP1 DNA microarray Nutrizione e metabolismo L’obesità può rappresentare un problema familiare, ma l’influenza del genotipo sull’eziologia dell’obesità può essere attenuato o esacerbato da fattori non genetici (Fig. 2). Escluse alcune rare sindromi associate a obesità, le influenze genetiche sembrano operare attraverso geni di suscettibilità. Questi geni aumentano il rischio di sviluppare un determinato fenotipo ma non sono essenziali. La ricerca di geni legati all’obesità richiede un approccio ampio, che comprende studi di potenziali geni candidati derivanti da modelli animali, sindromi causanti obesità nell’uomo e ricerche genomiche su larga scala, con l’utilizzo di marcatori genetici. Con l’utilizzo di nuovi protocolli sperimentali in grado di indurre farmacologicamente differenze fenotipiche, si sta tentando di comparare profili di espressione di vari geni, al fine di capire le differenze fenotipiche associate alla malattia. Tale tipo di approccio sperimentale ha permesso di identificare simultaneamente il meccanismo di regolazione per l’assorbimento intestinale degli steroli e la causa di una malattia genetica, la sitosterolemia. Gli steroli vegetali, composti molto simili chimicamente al 124 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 125 M. Averna, A. Cefalù, A. Notarbartolo, D. Noto Figura 2 Interazioni fra geni e ambiente. GENI Sindromi monogeniche Geni di suscettibilità Obesità Obesità Capacità metabolica Cultura Attività fisica Alimentazione FATTORI AMBIENTALI hanno dimostrato che i prodotti proteici dei geni, ABCG5 e ABCG8, erano responsabili del trasporto inverso degli steroli e del colesterolo assorbiti sulla superficie delle cellule intestinali. Usando database genetici, è stato possibile identificare un gene omologo nell’uomo, che poteva essere implicato nella patologia umana. In effetti sono state identificate diverse mutazioni di questo gene nei soggetti affetti da sitosterolemia. In sintesi, questi soggetti non riescono a controllare il trasporto selettivo e controllato del colesterolo, e quindi aumenta l’assorbimento di vari steroli (steroli vegetali compresi). Questo stu- colesterolo, in condizioni di normalità sono assorbiti in quantità trascurabili, mentre i pazienti affetti da sitosterolemia assorbono grandi quantità di questi composti. Berge et al, utilizzando come animali da esperimento topi trattati con sostanze in grado di alterare il metabolismo lipidico, hanno studiato con la tecnica dei gene arrays il profilo di espressione genica in vari tessuti, confrontandolo con quello di topi normali. I geni differenzialmente espressi vennero studiati, e questi ricercatori furono in grado di identificare un nuovo gene appartenete alla famiglia dei geni ATPbindig cassette (ABC). Berge et al 125 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 126 Alimentazione e geni dio, come del resto altri, ha mostrato la notevole portata delle ricerche nel campo biomolecolare e genetico con l’identificazione di geni con grande impatto fenotipico utilizzando tecniche di epressione genica differenziale. Il valore dell’utilizzo di questo tipo di studi è stato confermato dalle ricerche condotte sulla leptina come regolatore del metabolismo adiposo. I modelli animali di obesità monogenica sono caratterizzati dalla precoce comparsa di obesità, iperinsulinemia e insulino resistenza. L’eziologia genetica dell’obesità nei topi da laboratorio ob è ben definita. Il gene ob è posizionato sul cromosoma 6 e viene espresso esclusivamente nel tessuto adiposo dei topi normali. Il prodotto di questo gene, chiamato leptina (leptos=magro), è non funzionante nei topi che sono omozigoti per la mutazione ob. L’importanza della scoperta della leptina come regolatore dell’energia prodotta dall’adipocita è stata stabilita con la dimostrazione che l’iniezione di leptina in un topo leptino-carente ( Ob/Ob) portava a una riduzione del consumo di cibo e una riduzione del peso corporeo. Inoltre, il coinvolgimento della leptina in numerosi funzioni metaboliche è stata dimostrata da Soukas et al, che ha condotto una serie di esperi- menti che hanno controllato tre differenti variabili. Gli esperimenti hanno valutato contemporaneamente tre fattori: a) la leptina, attraverso manipolazioni geniche e iniezione diretta; b) la dieta, attraverso la somministrazione di dieta ipercalorica, ipocalorica e isocalorica; c) il tempo, attraverso l’analisi di campioni a vari tempi dopo l’intervento. Attraverso analisi bioinformatiche, è stato possibile dimostrare che un certo numero di geni risponde alla leptina, e sono stati disegnati con esattezza i rapporti fra leptina, metabolismo e repressione coordinata di geni modulati dalla SREBP-1/ADD-1, una proteina necessaria all’attivazione di geni implicati nel metabolismo del colesterolo e degli acidi grassi. Variabilità genetica Gli sforzi per sequenziare il genoma umano condotti da consorzi pubblici (National Human Genome Initiative [NHGI]) e da privati (Celera Corporation) è adesso disponibile per la consultazione. Un gruppo appartenente al NHGI, Single Nucleotide Polymorphisms Consortium (SNPC), ha iniziato a individuare siti polimorfici nel genoma umano, che individuano importanti differenze fenotipiche nella popolazione 126 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 127 M. Averna, A. Cefalù, A. Notarbartolo, D. Noto (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/SNP/). Recentemente è stato comunicato che sono stati identificati circa 1,42 milioni di SNPs nel genoma umano. È già noto che vi sono molti polimorfismi che influenzano il rischio per coronaropatia. Lo studio dei polimorfismi genici (Fig. 3) mette a disposizione un potente strumento molecolare per studiare il ruolo della nutrizione sullo stato di salute dell’uomo. L’uso di queste informazioni, da applicare in studi clinici, metabolici ed epidemiologici, possono contribuire enormemente alla definizione di diete ottimali. Nel corso degli ultimi dieci anni, molti studi sono stati condotti al fine di valutare le interazioni tra geni e dieta. In questa sede prenderemo in considerazione alcuni geni candidati implicati nel metabolismo lipoapoproteico (apoE, apoB, apoCIII e apoA-I). Apolipoproteina E L’apolipoproteina E sembra essere un buon candidato per studi di interazione geni-dieta. Questa apolipoproteina gioca un ruolo importante nel metabolismo lipoproteico. Nell’uomo è un componenete strutturale dei chilomicro- Figura 3 Esempio di identificazione di un sito polimorfico. Esone Esone Sito di restrizione polimorfico Frammento di DNA amplificato con Reazione Polimerasica a Catena (PCR) Digestione con Endonucleasi di Restrizione Corsa elettroforetica in gel di agarosio o acrilamide 127 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 128 Alimentazione e geni ni e delle VLDL remnant, e media il riconoscimento del recettore delle LDL. Inoltre, l’apolipoproteina E è presente sulle HDL, dove potrebbe intervenire nei fenomeni di trasporto inverso del colesterolo. Sono note varianti geniche dell’apolipoproteina E che esprimono tre alleli comuni osservabili nella popolazione – E4, E3 e E2 – con frequenze alleliche nelle popolazioni caucasiche dello 0,15, 0,77 e 0,08, rispettivamente. Studi di popolazione hanno dimostrato che i livelli di colesterolo totale, LDL-colesterolo e apoproteina B sono più elevati nei soggetti portatori dell’isoforma E4, intermedi in quelli con isoforma E3 e più bassi in quelli con isoforma E2. Queste varianti alleliche sono responsabili di circa il 7% delle variazioni dei livelli di colesterolo nella popolazione generale. Le relazioni esistenti fra livelli di LDL colesterolo e varianti geniche dell’apolipoproteina E potrebbero essere dovute anche a fattori ambientali e fattori etnici. L’associazione dell’isoforma E4 dell’apoproteina E con livelli elevati di colesterolo plasmatico è maggiore nelle popolazioni che consumano una dieta più ricca in grassi saturi rispetto ad altre popolazioni. Questi dati suggeriscono che i livelli più elevati di LDL colesterolo osservati in soggetti portatori dell’isoforma E4 si manifestano principalmente in presenza di una dieta con caratteristiche aterogene, e che la risposta ai grassi saturi e al colesterolo alimentari possa variare tra individui con diversi fenotipi di apolipoproteina E. Le interazioni tra dieta e gene dell’apolipoproteina E sono state oggetto di diversi studi. Il DELTA Study (Dietary Effects on Lipoproteins and Thrombogenic Activity) è uno studio multicentrico controllato che ha esaminato le associazioni fra genotipi dell’apolipoproteina E e lipidi plasmatici in seguito alla riduzione di calorie fornite da grassi totali e grassi saturi, in una popolazione etnicamente mista di uomini e donne (n=103). Gli autori di questo studio non trovarono evidenze significative di interazione genedieta per le variabili lipidiche esaminate (colesterolo totale, LDL-colesterolo, HDL-colesterolo e trigliceridi), sia analizzando il gruppo nel suo complesso sia dopo analisi dei sottogruppi (uomini e donne, neri e bianchi). Quindi, in questo tipo di popolazione e con questo tipo di intervento dietetico, il genotipo dell’apolipoproteina E non predice il grado della risposta lipidica in seguito alla riduzione dei grassi saturi alimentari. Dall’analisi di altri studi che hanno esaminato le interazioni fenotipo/genotipo dell’apolipoproteina E in seguito a 128 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 129 M. Averna, A. Cefalù, A. Notarbartolo, D. Noto modificazioni dietetiche, si possono evidenziare risultati contrastanti. Un’interazione significativa tra dieta e gene dell’apolipoproteina E è stata riportata in studi che avevano esaminato coorti di soli uomini. Negli studi condotti con uomini e donne, gli effetti significativi furono notati solo tra gli uomini, suggerendo una sostanziale interazione tra gene e sesso. Inoltre, bisogna ricordare che nel DELTA Study era stato modificato solo l’apporto degli acidi grassi saturi, mentre nella maggior parte degli altri studi era stato modificato l’apporto di acidi grassi saturi e di colesterolo alimentare. Quindi è possibile che il colesterolo alimentare possa avere un ruolo importante in questa specifica interazione gene-dieta. L’esistenza di questi risultati contraddittori sulle relazioni esistenti fra genotipi dell’apoE e dieta, suggerì ai ricercatori del Women’s Healthy Lifestyle Project (WHLP) di valutare se in questa coorte di donne sane in età premenopausale (n=448), le variazioni dei livelli di colesterolo totale e LDL-colesterolo in sei mesi di intervento dietetico a basso tenore di grassi potevano essere correlate al genotipo dell’apoE. Non furono osservate relazioni significative fra genotipi dell’apoE e variazioni dei livelli di colesterolo totale e LDL-colesterolo. Questo risultato tende a confermare l’osservazio- ne che la risposta è legata al sesso. La malattia aterosclerotica pone le sue basi precocemente e la prevenzione dietetica della coronaropatia su base aterosclerotica dovrebbe iniziare durante l’infanzia. Sorprendentemente pochi studi hanno tentato di valutare le interazioni tra dieta e geni nei bambini. Dixon et al hanno valutato 125 bambini di età compresa fra 4 e 10 anni che partecipavano al Children’s Health Project. In questo studio le concentrazioni di colesterolo totale e LDL colesterolo nei bambini senza storia familiare per coronaropatia rispondevano di più alla riduzione di colesterolo alimentare rispetto ai bambini con una forte familiarità per coronaropatia; il fenotipo dell’apolipoproteina E e la lipoproteina(a) non influenzavano significativamente i livelli di lipidi plasmatici in relazione alle variazioni dietetiche. Fu inoltre notato che all’inizio dello studio non vi erano differenze di livelli di colesterolo fra i bambini portatori dell’allele E4 rispetto ai non portatori, suggerendo che gli effetti dell’apolipoproteina E4 sui livelli di colesterolo non vengono espressi a questa età nella popolazione studiata. Molte evidenze sono state raccolte per dimostrare che la lipemia postprandiale è correlata al rischio cardiovascolare. La risposta postprandiale è eteroge- 129 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 130 Alimentazione e geni nea, e molti fattori come l’età, l’attività fisica, il peso corporeo, i livelli lipidici a digiuno, la dieta e fattori genetici possono essere responsabili di questa variabilità. Il gene dell’apolipoproteina E è stato chiamato in causa come uno dei fattori genetici responsabili di tali effetti. L’isoforma E2 sembra ridurre la clearance dei remnant per via della minore affinità per il recettore. Di contro, l’isoforma E4 dovrebbe indurre una clearance più veloce. Tuttavia, studi che hanno comparato la risposta postprandiale dei trigliceridi in soggetti portatori di diversi genotipi dell’apolipoproteina E, hanno mostrato risultati contrastanti, specialmente per gli effetti associati all’allele E4. Wolever et al ha mostrato che un maggior consumo di fibre solubili non modifica il metabolismo postprandiale dei grassi nei soggetti portatori dell’allele E4; tuttavia, le fibre solubili aumentano l’assorbimento di grassi nei soggeti con genotipo E3/3, che potrebbe essere il risultato di un aumento del pool degli acidi biliari e un aumento della formazione di micelle. Sfortunatamente, gli autori non avevano un numero congruo di soggetti con genotipo E2, e gli effetti di questo allele su questa manipolazione dietetica rimangono sconosciuti. Sono stati proposti diversi meccanismi per spiegare queste differenze cor- relate all’apolipoproteina E in soggetti sottoposti a terapia dietetica. Alcuni studi hanno mostrato che l’assorbimento intestinale di colesterolo è correlato al fenotipo dell’apoE; i soggetti portatori dell’apoE4 assorbono più colesterolo rispetto ai portatori-non E4. Altri meccanismi, come la diversa distribuzione dell’apolipoproteina E sulle varie frazioni lipoproteiche, produzione di LDL ricche in apolipoproteina B, acidi biliari e sintesi del colesterolo, e clearance postprandiale delle lipoproteine, potrebbero essere coinvolti. Apolipoproteina A-I L’apolipoproteina A-I è la proteina principale delle HDL e il principale attivatore in vivo dell’enzima lecitincolesterol acil transferasi (LCAT). È inoltre un componente chiave del trasporto inverso del colesterolo. Il gene codificante per l’apolipoproteina A-I è unito in un cluster con i geni dell’apolipoproteina C-III e dell’apolipoproteina A-IV sul braccio lungo del cromosoma 11. Questa regione contiene molti polimorfismi (RFLPs). Una variante comune, una transizione adenina (A) - guanina (G) (G/A), è stata descritta a 75 paia di basi dal sito di inizio di trascrizio- 130 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 131 M. Averna, A. Cefalù, A. Notarbartolo, D. Noto ne del gene dell’apolipoproteina A-I. Molti studi hanno mostrato che i portatori dell’allele A, che ha una frequenza dello 0,15-0,20 nelle popolazioni caucasiche, hanno livelli di HDL più elevati rispetto ai portatori in omozigosi del più comune allele G. Gli effetti di questa mutazione studiati su 50 uomini hanno mostrato che i portatori dell’allele A presentano incrementi maggiori dei livelli di LDL colesterolo in seguito a una dieta ricca in grassi, rispetto ai portatori in omozigosi del comune allele G. I meccanismi responsabili di questi effetti non sono noti. Questa mutazione potrebbe avere un effetto diretto sull’espressione del gene dell’apolipoproteina A-I nel fegato e/o nell’intestino, come è stato dimostrato in alcuni studi, o potrebbe rappresentare l’effetto di una mutazione funzionale non conosciuta in uno dei geni vicini (apolipoproteina C-III e apolipoproteina A-IV). il legame delle lipoproteine ricche in apoE con il recettore per le LDL. Studi recenti hanno dimostrato la presenza di cinque polimorfismi (C641A, G630A, delezione di T625, C482T, e T455C) nella regione del promotore di questo gene. Queste mutazioni sono in linkage disequilibrium con il sito di restrizione SstI descritto nella regione 3’ non-translata di questo gene. Risultati preliminari hanno permesso di identificare una sequenza nucleotidica che si lega all’insulina, localizzata sul promotore di questo gene. Studi in vitro hanno dimostrato che l’attività di trascrizione del gene dell’apolipoproteina C-III è ridotta dall’insulina quando il promotore contiene la sequenza nucleotidica wildtype, ma questo fenomeno non è osservabile nelle sequenze mutate. Il polimorfismo SstI permette la distinzione di due alleli: S1 e S2. L’allele S2 è stato associato a elevati livelli plasmatici di trigliceridi, colesterolo, apolipoproteina C-III e all’aumento di rischio per coronaropatia. In uno studio condotto con la somministrazione di una dieta ricca in acidi grassi monoinsaturi, si poté osservare un significativo incremento dei livelli di colesterolo totale e LDL colesterolo nei soggetti portatori del genotipo S1/S1; una riduzione significativa di LDL colesterolo e apoB fu osservata Apolipoproteina C-III L’apolipoproteina C-III è un componente dei chilomicroni, VLDL e HDL. È sintetizzata principalmente nel fegato e in minor misura nell’intestino. In vitro, l’apolipoproteina C-III inibisce l’azione della lipasi lipoproteica e inoltre inibisce 131 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 132 Alimentazione e geni nei soggetti portatori del genotipo S1/S2. Quindi, sono state osservate interazioni significative gene-dieta (livelli LDL colesterolo, colesterolo totale e apolipoproteina B) in seguito a una modificazione dietetica. Altri studi sono necessari per valutare le interazioni di questo polimorfismo con diete ricche in acidi grassi saturi. studio ha valutato questa ipotesi e ha permesso di dimostrare che soggetti portatori del genotipo X-/X- hanno una risposta postprandiale alterata rispetto ai soggetti X+. Queste differenze osservate nel metabolismo delle lipoproteine in fase postprandiale potrebbero spiegare l’associazione di questo polimorfismo con il rischio di cardiopatia ischemica. Apolipoproteina B Conclusioni L’apolipoproteina B è il maggiore componente proteico delle LDL ed è il ligando specifico del recettore per le LDL. Sono stati descritti molti siti polimorfici di questo gene. Il polimorfismo per XbaI è una mutazione silente che interessa la terza base del codone 2488 (ACC>ACT) nell’esone 26. Questo polimorfismo è stato associato a una variabilità di livelli lipidici. L’allele X+ (presenza del sito di restrizione XbaI) è stato associato, in alcuni studi, a livelli più elevati di colesterolo totale, LDL colesterolo e/o trigliceridi. Paradossalmente, l’allele X- sembra essere più comune in soggetti con coronaropatia rispetto a soggetti di controllo. Questo suggerisce che altri fattori, come la risposta postprandiale, vanno ricercati per spiegare questa osservazione. Uno La “rivoluzione genomica” continua a costruire nuove basi di conoscenza, strumenti tecnologici e prospettive scientifiche nel campo della nutrizione umana. La ricerca nel campo della nutrizione sarà guidata attraverso le interazioni nutrienti-geni, la delucidazione della regolazione dei meccanismi biochimici e la caratterizzazione della risposta individuale alle manipolazioni dietetiche. Sono stati studiati molti geni candidati, tra i quali i geni codificanti per le apolipoproteine in diverse condizioni sperimentali. Tuttavia, a causa dei risultati contrastanti, altri studi sono necessari per ottenere maggiori informazioni. Molti studi non erano stati disegnati inizialmente per studiare le interazioni tra geni e dieta, e le conclusioni erano quindi derivanti da analisi successive di 132 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 133 M. Averna, A. Cefalù, A. Notarbartolo, D. Noto dati ottenuti precedentemente, usando nuove informazioni provenienti da analisi genetiche condotte a posteriori. Gli studi futuri devono essere attentamente disegnati in termini di numerosità del campione e prendendo in considerazione la frequenza degli alleli da studiare. Inoltre, non si è a tutt’oggi a conoscenza dei meccanismi responsabili degli effetti già descritti in letteratura. Gli interventi dietetici dovrebbero essere attentamente controllati in termini di colesterolo alimentare, acidi grassi, livelli di grassi, fibre e altri componenti minori quali i fitosteroli. È inoltre importante considerare che alcuni alleli possono avere una funzione primaria nella fase postprandiale; di conseguenza si dovrebbero disegnare studi per testare le interazioni geni-dieta sia a digiuno che dopo il pasto. Oltre alle interazioni genidieta, si dovrebbero analizzare interazioni gene-gene, anche se il numero elevato di partecipanti richiesto per tali studi e di conseguenza i costi potrebbero rendere questi studi non conducibili. Pertanto, si potrebbero selezionare i partecipanti allo studio in base alle varianti geniche; oppure si potrebbero utilizzare gli studi di coorte nei quali sono state raccolte informazioni sulla dieta. L’approccio finale potrebbe condurre il concetto di interazione gene-dieta oltre le unità metaboliche nel mondo reale. 133 1225/01 capitolo 4 29-05-2002 15:19 Pagina 134 Alimentazione e geni Riferimenti bibliografici Lopez-Miranda J, Ordovas JM, Ostos MA, Marin C, Jansen S, Salas J et al Dietary fat clearance in normal subjects is modulated by genetic variation at the apolipoprotein B gene locus. Arterioscler Thromb Vasc Biol, 17: 1765-1773, 1997. Dallongeville J, Fruchart JC Postprandial dyslipidemia: a risk factor for coronary heart disease. Ann Nutr Metab, 42: 1-11, 1998. Fields S, Kohara Y, Lockhart DJ Functional genomics. Proc Natl Acad Sci USA, 96: 8825-8826, 1999. International Human Genome Sequencing Consortium Initial sequencing and analysis of the human genome. Nature, 409: 860-921, 2001. 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La trasmissione della malattia è di tipo autosomico codominante. I soggetti che ereditano il gene malato da uno solo dei genitori e sono pertanto eterozigoti, presentano livelli di colesterolo plasmatico che sono il doppio dei livelli normali e tale aumento è già presente durante il periodo infantile. I soggetti che ereditano due geni malati, uno da ciascun genitore, e pertanto sono omozigoti, presentano livelli di colesterolo da 4 a 5 volte la norma. Negli omozigoti la malattia aterosclerotica si sviluppa precocemente e già in periodo infantile le arterie coronariche presentano estese lesioni ateromasiche. La frequenza della malattia è stimata essere di 1:500 per la forma eterozigote e di 1:1.000.000 per la omozigote. In Italia tali stime prevedono un numero di circa 120.000 eterozigoti e di circa 60 omozigoti. Nel mondo quindi sono prevedibili 10 milioni di eterozigoti e 5000 omozigoti. Esiste una seconda malattia monogenica responsabile di ipercolesterolemia a trasmissione familiare, la familial defective apolipoprotein B (FDB). In tale malattia il difetto è rappresentato dall’impossibilità da parte dell’apoproteina B – la proteina associata al colesterolo nelle LDL – di legare il recettore per le LDL. Anche per tale malattia la trasmissione è autosomica codominante e la frequenza stimata varia da 1:200 a 1:700 a seconda della nazione. Gli eterozigoti per tale forma presentano un’ipercolesterolemia che può essere sovrapponibile agli eterozigoti FH, ma può presentare livelli che ricordano l’ipercolesterolemia comune o poligenica. Il recettore LDL Il recettore LDL è una glicoproteina transmembrana di 839 aminoacidi 135 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 136 La genetica delle iperlipidemie che riconosce e lega due proteine, l’apoB-100 e l’apoE; in tal modo esso è in grado di rimuovere dal plasma le lipoproteine che contengono i suddetti ligandi: poiché tali lipoproteine trasportano la quasi totalità del colesterolo circolante, è evidente come il recettore LDL sia uno dei principali regolatori dei livelli di colesterolo plasmatico nell’uomo. Dal punto di vista della struttura, è possibile identificare in quella del recettore LDL 5 diverse regioni o domini (Fig. 1). Sono state identificate 5 classi di mutazioni che influenzano l’attività del recettore: – difetto di sintesi; – difetto di trasporto; – difetto di binding; – difetto di clustering; – difetto di recicling (Fig. 2). La clinica delle ipercolesterolemie familiari I soggetti con FH omozigote presentano livelli molto elevati di colesterolo totale, da 600 mg % a 1200 mg %, con valori medi intorno a 700 mg %. Tali elevati valori sono presenti dalla Figura 1 Il recettore delle LDL: domini funzionali. Recettore LDL o apoB/E. DOMINI GENE Dominio di legame ESONE 2-6 Dominio omologo al precursore EGF ESONE 7-14 1 2 3 4 5 6 7 NH2 A B C Dominio contenente catene zuccherine ESONE 15 Dominio transmembrana ESONE 16 e 17 Dominio citoplasmatico ESONE 17 e 18 COOH CISTEINA Recettore LDL o apo B/E 136 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 137 M. Averna, A. Cefalù, D. Noto Figura 2 Alterazioni strutturali e funzionali del recettore LDL. Le cellule normali internalizzano le LDL attraverso il recettore per le LDL. I soggetti FH esprimono un recettore alterato. Assenza di legame e internalizzazione delle LDL con il recettore. 3 1 2 4 5 Mut Class 1 2 3 4 5 Synthesis X Transport Binding Clustering Recycling X X X X nascita. Già nell’infanzia compaiono xantomi cutanei piani o tuberosi, tipici sono gli xantomi tendinei e la comparsa di arco corneale o gerontoxon. La precocità di comparsa degli xantomi correla con la gravità e la durata della malattia. Le sedi degli xantomi sono il tendine di Achille e i tendini estensori delle dita delle mani. A volte sono localizzati a livello del tendine patellare. È possibile valutare i depositi di colesterolo del tendine di Achille mediante metodiche radiografiche, ecografiche e più recentemente mediante RMN. Sono inoltre frequenti negli omozigoti gli xantomi piani a livello dei gomiti, delle ginocchia, dei glutei e delle pieghe interdigitali. L’esame istologico degli xantomi permette di evidenziare cellule cariche di colesterolo disperse tra le fibre collagene del tendine. Sono presenti anche xantelasmi che tuttavia non sono patognomonici, essendo presenti anche in soggetti normolipidemici. È presente un’accelerata aterosclerosi aortica e coronarica; la presenza di ateromi della radice aortica determina la precoce comparsa di un soffio sistolico sul focolaio dell’aorta e il rapido e progressivo coinvolgimento ateroscle- 137 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 138 La genetica delle iperlipidemie rotico dei principali rami coronarici determina la prematura insorgenza di manifestazioni cliniche di cardiopatia ischemica. La morte improvvisa coronarica o successiva a infarto miocardico esteso nei soggetti non trattati sopravviene entro la terza decade di vita. La precocità di inizio delle manifestazioni cliniche coronariche e il rischio di morte prematura correlano con i livelli di colesterolo plasmatico e questi a loro volta correlano con la gravità del difetto recettoriale. I soggetti recettorenegativi, in cui cioè la mutazione determina l’assenza di espressione del recettore LDL sulla membrana cellulare, avranno una prognosi più grave dei soggetti recettore-difettivi, in cui il difetto molecolare consente la presenza di un ridotto numero di recettori. Da notare come il sesso femminile non presenta un’evoluzione clinica più favorevole rispetto al sesso maschile; questo viene spiegato dall’assenza di differenze nei livelli di HDL-colesterolo tra maschi e femmine omozigoti per FH. I livelli di colesterolo plasmatico negli FH eterozigoti vanno da 300 mg % a 550 mg % con una media di 350 mg %. Negli eterozigoti le stimmate cliniche, xantomi-xantelasmi e arco corneale, sono le stesse ma compaiono più tardivamente. La presenza di xan- tomatosi sembra risentire di fattori genetico-razziali, essendo presente nel 75% delle casistiche nordeuropee e nel 40% delle casistiche italiane. L’aterosclerosi coronarica negli FH eterozigoti non trattati è presente nel 70% dei soggetti alla quinta decade di vita; la comparsa di manifestazioni cliniche è più precoce nei maschi mentre nelle femmine si sviluppa con circa una decade di ritardo. Rispetto ai soggetti non FH, gli eterozigoti non trattati manifestano i sintomi di cardiopatia ischemica circa 20 anni prima. FH e rischio cardiovascolare L’elevata prevalenza genetica della condizione di eterozigosi per FH, circa 120.000 soggetti in Italia, fa di questa popolazione un gruppo ad altissimo rischio di malattia cardiovascolare. Sono stati condotti numerosi studi volti a valutare se i fattori di rischio classici – ipertensione, fumo di sigaretta, diabete, Lp(a), omocisteina, sesso, età, LDL piccole e dense – possano in qualche modo influenzare la precocità di comparsa delle manifestazioni cliniche di cardiopatia ischemica. I risultati non sono ad oggi conclusivi: sembrerebbe che in una popolazione in cui i livelli di 138 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 139 M. Averna, A. Cefalù, D. Noto colesterolo sono così elevati, il potere predittivo statistico degli altri fattori di rischio venga in qualche modo oscurato; i determinanti più importanti sembrano essere i livelli di colesterolo e quindi lo stato recettoriale e il sesso. Sul piano clinico si impone la necessità di identificare al più presto possibile i soggetti eterozigoti per FH, allo scopo di instaurare una terapia aggressiva farmacologica con statine. FH definita I livelli di colesterolo devono essere superiori a 290 mg % negli adulti e a 260 mg % nei giovani di età inferiore a 13 anni; il colesterolo LDL superiore a 190 mg % negli adulti o 155 mg % nei ragazzi; devono essere inoltre presenti gli xantomi nel probando o nei parenti di primo o secondo grado. FH probabile? Possibile? Per porre la diagnosi di probabilità, oltre alla presenza dei valori di colesterolo totale e LDL di cui sopra, deve essere presente una storia familiare di infarto del miocardio prima dei 50 anni in almeno un parente di secondo grado o prima di 60 anni in un parente di primo grado, oppure ancora di valori di colesterolo totale superiori a 290 mg % in parenti di primo o secondo grado, anche in assenza di xantomi. La diagnosi di ipercolesterolemia familiare La diagnosi di FH viene posta utilizzando criteri clinici (Tab. 1); a seconda della “forza” dei criteri utilizzati si perviene a una diagnosi di FH probabile o definita. Tabella 1 Diagnosi clinica di FH. FH possibile • CT>290 mg/dl FH definita • CT>290 mg/dl in soggetti adulti o >260 mg/dl in ragazzi sotto i 16 anni d’età, o LDL-C>190 mg/dl in soggetti adulti o >155 mg/dl in bambini, più xantomi tendinei nel paziente o in parente di primo o secondo grado • Storia familiare di infarto del miocardio prima dei 50 anni in un parente di secondo grado o prima dei 60 anni in un parente di primo grado oppure CT>290 mg/dl in un parente di primo o secondo grado 139 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 140 La genetica delle iperlipidemie no costose e laboriose, hanno una sensibilità che oscilla dal 66% al 72%. Questo vuol dire che almeno un terzo dei probandi iniziali, anche al meglio delle possibilità di diagnosi molecolare attuali, potrebbe rimanere non diagnosticato. Questi dati rendono almeno oggi non proponibili strategie di screening per FH. D’altra parte, la diagnosi clinica basata sui valori del colesterolo totale e LDL, assieme alla storia familiare e all’eventuale presenza di xantomi, è sufficiente per la corretta impostazione della terapia. Va ricordato che la presenza in una famiglia di un bambino con colesterolo elevato assieme agli altri elementi, rende la diagnosi praticamente certa. In futuro, con la diffusione dei sistemi diagnostici basati sui micro-array, sarà molto semplice eseguire test con pannelli anche di centinaia di mutazioni. In Sicilia abbiamo recentemente condotto uno screening su pazienti con diagnosi clinica di FH “probabile”, utilizzando un pannello di 11 mutazioni note più le 2 mutazioni responsabili di FDB. I risultati hanno mostrato come la diagnosi molecolare di certezza venisse raggiunta solo in circa il 10% della casistica; questo conferma quanto siano importanti i criteri clinici definiti di FH. La diagnosi genetica Sono state identificate più di 750 mutazioni del gene del recettore per le LDL; una lista completa di tali mutazioni si può facilmente trovare al sito www.ucl.ac.uk/fh. In alcuni paesi quali il Sud Africa, il Quebec, la Norvegia, la Danimarca e la Finlandia, poche mutazioni sono responsabili della maggioranza dei casi di FH, mentre in Italia, così come in Inghilterra, Germania e Giappone, la situazione è più eterogenea; in Italia, ad esempio, sono state finora descritte 89 mutazioni, distribuite tra riarrangiamenti genici maggiori, piccole inserzioni o delezioni e mutazioni puntiformi. Molte volte la diagnosi di FH definita è facilmente raggiunta utilizzando i criteri clinici già descritti, altre volte per insufficienza di dati e per la tipologia stessa della famiglia rimangono dubbi diagnostici. L’identificazione della mutazione permette una diagnosi certa; l’eterogeneità mutazionale del nostro paese rende il compito più difficile dal punto di vista metodologico. Dall’esperienza dei programmi di screening per mutazione dei paesi nordeuropei sembrerebbe che partendo dalla diagnosi clinica di FH le varie strategie, che prevedono in ogni caso la sequenza del DNA e che quindi so- 140 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 141 M. Averna, A. Cefalù, D. Noto della FH con sensibili variazioni nei vari paesi. In genere l’ipercolesterolemia è più lieve degli FH (Fig. 3), anche se in taluni casi può essere difficile dai semplici livelli di colesterolo distinguere gli eterozigoti FH da quelli FDB. Il trattamento terapeutico è sovrapponibile a quello della FH eterozigote. La malattia del ligando presenta inoltre delle differenze nella risposta ai farmaci: sembrerebbe che i pazienti con FDB rispondano meno alle statine e in misura maggiore alle resine dei pazienti con FH classica. Si potrebbe quindi suggerire l’associazione di resine e statine come terapia elettiva della FDB. La familial defective apoB-FDB La FDB rappresenta il secondo difetto, relativamente frequente, che causa una ipercolesterolemia monogenica. La causa risiede in una mutazione puntiforme del gene dell’apoB, localizzato sul cromosoma 2. La sostituzione aminoacidica che ne deriva distrugge la capacità dell’apoproteina B di legarsi al recettore LDL; ciò determina in eterozigosi – la grande maggioranza dei pazienti sono eterozigoti – un aumento dei livelli di colesterolo LDL di circa 80 mg %. La frequenza della FDB è sovrapponibile a quella Figura 3 400 300 200 100 0 ............................... Livelli di LDL-C in soggetti eterozigoti per FH e per FDB. Controlli Nostri dati Casistiche della letteratura 141 FDB FH 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 142 La genetica delle iperlipidemie L’ipercolesterolemia familiare recessiva (ARH) La terapia dietetica Il primo approccio alla terapia delle iperlipidemie consiste nella modifica dei comportamenti alimentari. L’American Heart Association (AHA) suggerisce due step dietetici: nella AHA Step I Diet l’introito di grassi deve essere inferiore al 30%, con una quantità di saturi fra il 7% e il 10%, con i polinsaturi fino al 10% e i monoinsaturi fino al 5%; i carboidrati rappresentano il 55% o più della dieta e le proteine il 15% circa. L’introito giornaliero di colesterolo deve essere inferiore a 300 mg %, e l’introito calorico totale dev’essere disegnato in modo da raggiungere o mantenere il peso desiderato. In caso di insuccesso nel raggiungere gli obiettivi terapeutici in termini di LDL colesterolo e di trigliceridi, si passa allo Step II, che riduce ulteriormente l’introito di grassi saturi a meno del 7% e l’introito di colesterolo a meno di 200 mg %. Recentemente è stato definito il difetto molecolare della ARH. L’ipercolesterolemia familiare recessiva è stata descritta per la prima volta molti anni fa da Fellin et al. La caratteristica di questa forma è di ricorrere in modo sporadico nelle famiglie, con una tipica trasmissione recessiva, essendo i genitori del probando normocolesterolemici. Sono state raccolte alcune famiglie, molte di origine sarda, alcune turche e americane, ed è stata effettuata una ricerca sul genoma. È stato così identificato un gene sul cromosoma 1 che si presenta mutato nei pazienti affetti. Tale gene codifica per una proteina che ha il compito di stabilizzare il legame del recettore LDL con la membrana delle cellule epatiche. In assenza di tale proteina il fegato non è in grado di internalizzare le LDL, determinando così l’innalzamento dei valori di colesterolo plasmatico (Tab. 2) Tabella 2 Mutazioni responsabili di ipercolesterolemia familiare. • LDL-recettore - 96 delezioni - 27 inserzioni - 649 puntiformi • FH 1:500 - 1:100.000 • LDL-R adaptor protein (ARH) - 6 mutazioni • FH recessiva • ApoB - 5 puntiformi • FDB circa 1:500 142 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 143 M. Averna, A. Cefalù, D. Noto classi di farmaci attualmente di scelta per la FH eterozigote sono le resine e le statine. La colestiramina è la resina disponibile in Italia; essa lega nell’intestino gli acidi biliari e così interrompe il circolo entero-epatico e aumenta la conversione di colesterolo in acidi biliari. Un effetto metabolico indesiderato è l’incremento dei trigliceridi secondario all’accresciuta sintesi epatica di colesterolo e di VLDL. La riduzione attesa al dosaggio di 8 g due volte al dì è del 10-20%. L’indicazione principale è come terapia di associazione alle statine nei casi in cui si voglia ottenere un’ulteriore riduzione della colesterolemia, oppure in monoterapia in tutti quei casi di FH eterozigote in cui non è possibile utilizzare le statine: bambini in età prepubere; donne gravide; non responder. Le statine rappresentano i farmaci di scelta nel trattamento della FH. Sono inibitori competitivi dell’enzima rate-limiting della sintesi epatica di colesterolo, la HMG-CoA reduttasi. Riducono il colesterolo plasmatico, aumentando l’espressione dei recettori di membrana delle LDL. Oggi sono disponibili sul mercato italiano quattro statine che si differenziano per efficacia, liposolubilità e modalità metabolico-cinetiche (Tab. 3). La riduzione del LDL-colesterolo va- La terapia dell’ipercolesterolemia familiare eterozigote Le attuali Linee Guida per la prevenzione degli eventi cardiovascolari danno molta importanza al target terapeutico da raggiungere in termini di valori di LDL-colesterolo. Il goal terapeutico è di <160 mg % di colesterolo LDL per i soggetti senza altri fattori di rischio, <130 mg % per i soggetti con almeno due fattori di rischio e <100 mg % per i soggetti che già hanno manifestazioni cliniche di malattia cardiovascolare. Le Linee Guida inoltre suggeriscono sempre di raggiungere il target terapeutico prima utilizzando strategie basate sulla correzione dell’alimentazione e delle errate abitudini di vita, e in caso di fallimento prevedono il ricorso ai farmaci. I pazienti con ipercolesterolemia familiare in eterozigosi rappresentano un caso particolare per diverse ragioni: – i livelli di LDL-colesterolo sono di base molto elevati; – la correzione alimentare da sola è destinata all’insuccesso; – il rischio cardiovascolare è intrinsecamente così alto da richiedere una terapia farmacologica aggressiva. Per tali ragioni la scelta terapeutica sarà quella di utilizzare i farmaci. Le 143 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 144 La genetica delle iperlipidemie ria, a seconda della statina utilizzata, dal 30 al 60%. È possibile quindi scegliere la statina più idonea al raggiungimento del goal terapeutico nel singolo paziente. Le statine inoltre hanno un effetto anche sui trigliceridi; atorvastatina e simvastatina sono le più efficaci. Il colesterolo HDL in genere aumenta del 5-6% ma può arrivare fino a un massimo del 12%. Vengono eliminate per via epatica e in parte per via renale; sono quindi controindicate nelle malattie epatiche e nell’insufficienza renale. Le statine sono ben tollerate e la terapia è gravata da poco frequenti effetti collaterali. Particolare attenzione va posta sul rischio delle statine, quando associate a fibrati e immunosoppressori, di determinare rabdomiolisi. Questo effetto collaterale può inoltre presentarsi quando la statina venga prescritta a pazienti con insufficienza renale. Tabella 3 Le statine: parametri farmacocinetici a confronto. La terapia della FH omozigote Tali pazienti rappresentano il gruppo più consistente di non responder alla terapia statinica; questo perché l’assenza genetica del recettore LDL fa sì che non possano rispondere al farmaco con l’espressione dei recettori di membrana. D’altra parte i livelli di colesterolo di tali pazienti sono così elevati che l’uso delle resine porterebbe a una riduzione della colesterolemia insufficiente a prevenire la progressione della malattia aterosclerotica. In tali pazienti l’unico modo per aumentarne l’aspettativa di vita è la drastica riduzione della colesterolemia. Per raggiungere tale obiettivo bisogna ricorrere alla rimozione dal circolo delle LDL mediante terapie aferetiche. Le metodiche aferetiche oggi in uso sono selettive: l’immuno-adsorbimento di LDL, l’assorbimento delle LDL al de- Parametri Simvastatina Pravastatina Fluvastatina Atorvastatina farmacocinetici Assorbimento (%) 60 34 >90 ND Biodisponibilità (%) 5 20 30 12 Lipofilia sì no sì sì Emivita h 2 1,8 1,2 14 95-98 50 >98 98 sì no no sì CYP3A4 multipla CYP2C9 CYP3A4 Protein binding (%) Metaboliti attivi Vie di eliminazione 144 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 145 M. Averna, A. Cefalù, D. Noto stran-solfato e la precipitazione extracorporea di LDL mediante eparina che rimuove anche il fibrinogeno. L’efficacia di riduzione della LDL-colesterolemia ottenibile con tali procedure varia dal 60% al 75%. Diversi trial controllati hanno dimostrato l’efficacia della LDL-aferesi nel ridurre gli eventi e nel prolungare la sopravvivenza negli omozigoti. Quando inoltre l’efficacia antiaterosclerotica della LDL-aferesi viene misurata con l’ecografia vascolare, è possibile dimostrare un effetto di riduzione sull’ispessimento medio-intimale carotideo. 145 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 146 La genetica delle iperlipidemie L’iperlipidemia familiare combinata FCHL L’iperlipidemia familiare combinata (FCHL) vita. Altra caratteristica è quella della mutevolezza del profilo lipidico individuale e nel tempo il singolo individuo può sperimentare l’ipercolesterolemia o l’ipertrigliceridemia o ancora entrambi i difetti associati. Le alterazioni principali delle lipoproteine sono rappresentate dalla presenza di LDL particolarmente dense e con un livello di LDL-apoB>130 mg %. Alcuni pazienti con FCHL, pur avendo LDL-colesterolo normale, presentano livelli di apoB-LDL>130 mg %: questo sottogruppo di pazienti ha portato alla definizione del termine “iperapobetalipoprotenemia”. Sul piano clinico è molto rara la presenza di xantomi e soltanto il 10-20% dei bambini presenta l’alterazione del profilo lipidico. I soggetti FCHL hanno una storia familiare di cardiopatia ischemica prematura. Il difetto metabolico risiederebbe nel fegato, che produrrebbe un eccesso di apoB e VLDL: nei soggetti con meccanismi lipolitici efficienti si svilupperebbe l’ipercolesterolemia con aumento delle LDL, mentre nei soggetti La FCHL è una dislipidemia complessa la cui causa genetica è ancora sconosciuta. È stata alternativamente considerata un disordine monogenico o poligenico; recentemente il trait FCHL è stato associato a un locus sul cromosoma 1. Rappresenta la causa più diffusa di ipercolesterolemia nella popolazione generale, con una frequenza del 3-5/1000. È presente nel 20% dei soggetti con manifestazioni cliniche premature di cardiopatia ischemica. È caratterizzata da livelli elevati di LDL colesterolo e trigliceridi VLDL nell’ambito della stessa famiglia. La caratteristica peculiare di tale forma è quella dei cosiddetti fenotipi multipli nella stessa famiglia: i consanguinei all’interno di famiglie FCHL presentano l’aumento isolato del colesterolo LDL, l’aumento isolato dei trigliceridi VLDL o entrambe le alterazioni (Fig. 4). La malattia in genere è espressa nella quarta-quinta decade di 146 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 147 M. Averna, A. Cefalù, D. Noto Figura 4 Parte rilevante di una famiglia con iperlipemia familiare combinata. Gli individui rappresentati da 4 quadrati vuoti sono non affetti. I quadrati pieni rappresentano (dall’alto a sinistra, in senso orario): TG>90th percentile, HDL-C<10th percentile, LDL-C>90th percentile e apoB>90th percentile (in basso a sinistra). Da Aguilar Salinas, Arterioscler Thromb Biol, 17(1) January 1997: 72-82. 1 2 3 4 5 6 7 I 3 4 7 14 15 20 21 22 24 26 II che hanno un’attività lipoproteinlipasica funzionalmente ridotta si manifesterebbe l’ipertrigliceridemia con aumento dei trigliceridi VLDL. La mutevolezza del profilo lipidico dello stesso soggetto può essere spiegata dalla concomitante influenza di altri determinati metabolici, quali il diabete, l’obesità, l’ipotiroidismo, l’alcol o gli estrogeni. Nel tentativo di comprendere i meccanismi patofisiologici alla base della malattia, è stata estensivamente studiata una delle stimmate più comuni della FCHL e cioè l’insulino-resistenza. I soggetti FCHL, anche se magri, presentano un certo grado di insulino-resistenza; inoltre la capacità da parte dell’insulina di sopprimere la lipolisi del tessuto adiposo, è deficitaria nella FCHL. Da molti tale difetto viene considerato il trigger per l’iperafflusso di acidi grassi liberi al fegato che a loro volta determinerebbero l’incremento della produzione epatica di apoB e VLDL. La terapia dell’iperlipidemia combinata La terapia delle forme combinate presenta alcuni problemi legati essenzialmente alla variabilità del fenotipo clinico nel tempo: anche se il disordine prevalente è l’aumento del colesterolo LDL e dei trigliceridi, i pazienti possono 147 1225/01 capitolo 5 29-05-2002 15:18 Pagina 148 La genetica delle iperlipidemie divenire o prevalentemente ipercolesterolemici o prevalentemente ipertrigliceridemici. Della terapia dietetica si è detto precedentemente. Per quanto riguarda la scelta del farmaco dipende dal tipo di alterazione prevalente: le statine per l’aumento del colesterolo LDL e i fibrati per quello dei trigliceridi. Le resine non sono consigliate perché tendono ad aumentare i trigliceridi. L’associazione consigliata è quella di una resina con i fibrati, anche se bisogna superare i problemi di compilante da parte del paziente; l’associazione statine e fibrati, anche se razionalmente valida, non è consigliabile per il rischio di rabdomiolisi. Riferimenti bibliografici Hobbs HH, Brown MS, Brown MS Molecular Genetics of the LDL receptor gene in familial hypercholesterolemia. Hum Mutat, 1: 445, 1992. 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Marino G, Travali S, Reyes T, Wallace BR, Caldarella R, Travali S, Emmanuele G, Stivala F, Barbagallo CM, Cantafora A, Bertolini S, Notarbartolo A, Averna M Rapid screening of the LDL receptor point mutation FH Genoa/Palermo. Human Mutat, 13 (5): 412, 1999. Goldstein JL, Brown MS The LDL receptor locus and the genetics of familial hypercholesterolemia. Annu Rev Genet, 13: 259-289, 1979. Vega GL, Grundy SM In vivo evidence for reduced binding of low density lipoproteins to receptors as a cause of primary moderate hypercholesterolemia. J Clin Invest, 78: 1410-1414, 1986. Goldstein JL, Schrott HG, Hazzard WR, Bierman EL, Motulsky AG Hyperlipidemia in coronary heart disease. II. Genetic analysis of lipid levels in 176 families and delineation of a new inherited disorder, combined hyperlipidemia. J Clin Invest, 52: 1544-1568, 1973. 148 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 l 15:17 Pagina 149 e ipoalfalipoproteinemie L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani Istituto di Gerontologia e Geriatria Università degli Studi di Milano contengono prevalentemente colesterolo esterificato (CE). I remnant vengono rimossi dal circolo tramite i recettori “remnant” del fegato, che riconoscono l’apoE. Il CE in essi contenuto viene trasformato in colesterolo libero (CL) ad opera di una lipasi acida lisosomiale. Il pool epatico del colesterolo va incontro a diversi destini metabolici: viene trasformato in acidi biliari, eliminato come tale nella bile, incorporato nelle lipoproteine di sintesi epatica (Fig. 1). Metabolismo delle lipoproteine Recenti studi hanno consentito di chiarire ulteriori aspetti della via esogena ed endogena del metabolismo delle lipoproteine. La via esogena Il colesterolo e gli acidi grassi contenuti nella dieta vengono assorbiti dall’intestino e incorporati nei chilomicroni che, attraverso il circolo linfatico, entrano in circolo. A livello del microcircolo del tessuto adiposo e del muscolo, l’apoC-II, presente nei chilomicroni, attiva la lipasi lipoproteica (LPL), un enzima sessile che idrolizza i trigliceridi. Gli acidi grassi vengono depositati, sotto forma di trigliceridi, nell’adipocita, o vengono ossidati dalla cellula muscolare. Dai chilomicroni residuano particelle di minori dimensioni, i remnant, che La via endogena Le VLDL, o lipoproteine a bassissima densità, vengono sintetizzate dal fegato e contengono l’apoB-100. Il metabolismo delle VLDL è analogo a quello dei chilomicroni. A seguito dell’attività della LPL, le VLDL vengono trasformate in lipoproteine a densità intermedia (IDL). Le IDL interagiscono con il recettore LDL del fegato. Le IDL danno luogo 149 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 150 Le ipoalfalipoproteinemie Figura 1 Aspetti del metabolismo delle lipoproteine. CL = colesterolo libero CE = colesterolo esterificato HDLn = HDL native HDLm = HDL mature ACAT = acyl-coenzyme A: cholesterol-acyltransferase SRB1 = scavenger receptor, class B, type 1 LCAT = lecithin: cholesterolacetyltransferase CETP = cholesterol ester transfer protein LPL = lipoprotein lipase CERP = cholesterol-efflux regulatory protein ABC1 = ATP-binding-cassette, type 1 VLDL = very low density lipoprotein IDL = intermediate density lipoprotein LDL = low density lipoprotein LDL mod = LDL modificata Fegato Tessuti periferici HDLn ACAT2 CL Ac. biliari CE CL LCAT SRB1 CE HDLm Recettori ACAT1 CL CE CERP Recettore (ABC1) CETP Bile VLDL LPL alle LDL, lipoproteine a bassa densità. L’apoB-100, presente sulle LDL, interagisce con il recettore LDL, espresso nel fegato e nei tessuti extraepatici, e ciò porta all’internalizzazione delle lipoproteine. Il colesterolo presente nell’epatocita modula la sintesi endogena del lipide stesso. La rimozione dal circolo del C-LDL è dovuta per due terzi al sistema recettoriale e per un terzo a una via alternativa, dipendente da recettori non saturabili e non modulabili, posti su cellule prevalentemente di tipo macrofagico, le scavenger cells. Questa via alternativa si attiva in presenza di IDL LPL LDL OX LDL mod LDL modificate (per acetilazione, ossidazione ecc.). L’accumulo progressivo di esteri del colesterolo fa assumere alla cellula scavenger un aspetto “schiumoso” (foam cell ); la necrosi cellulare comporta la liberazione in situ del contenuto lipidico (Fig. 1). Nel fegato la trasformazione bidirezionale CL-CE è regolata dall’enzima acyl-coenzyme A: cholesterol-acyltransferase (ACAT 2). Il pool epatico del colesterolo è rappresentato, oltre che dal colesterolo di sintesi endogena, dal colesterolo delle lipoproteine che interagiscono con i recettori per i rem- 150 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 151 L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani nant, per le IDL, per le LDL e per le lipoproteine ad alta densità (HDL) (SRB1 - scavenger receptor, class B, type 1). Il fegato sintetizza le HDL native (HDLn) che trasportano lipidi polari, colesterolo libero e fosfolipidi e l’apoA-I. Le HDLn, che hanno una forma a disco, si trasformano nelle HDL mature (HDLm) per azione dell’enzima circolante lecithin: cholesterol-acetyltran- Figura 2 Ruolo della Cholesterol Efflux Regulatory Protein (CERP) e formazione delle HDL mature. La ATP-Binding Cassette transporter 1 gene (ABC-1) codifica la CERP, che consente l’efflusso di colesterolo dalla membrana plasmatica a doppio strato delle cellule. Nel liquido extracellulare l’apoA-I sequestra il colesterolo. Successivamente il colesterolo libero viene esterificato ad opera della lecithin: cholesterol acetyl-transferase (LCAT) e ciò consente la formazione delle HDL mature di forma sferica. Le HDL mature interagiscono con lo Scavenger Receptor Class B, type 1 (SRB 1). All’interno della cellula il colesterolo libero proviene dalla neosintesi o dal pool del colesterolo esterificato. La CERP è formata da due set di sei domini transmembrana, da una regione idrofobica e da due domini ABC intracitoplasmatici (Owen 1999). HDL nativa Uptake del colesterolo esterificato tramite SRB1 HDL matura Apo A-I Spazio extracellulare Spazio intracellulare Colesterolo libero Fosfolipide Colesterolo esterificato Apo A-I Dominio ABC SRB1 = Scavenger Receptor type B1 CERP (regione idrofobica) Sintesi del colesterolo libero Pool del colesterolo esterificato 151 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 152 Le ipoalfalipoproteinemie sferase (LCAT), che esterifica il colesterolo trasferendo un acido grasso polinsaturo in posizione 2 della lecitina al gruppo idrossilico del colesterolo libero. L’apoA-I è un attivatore della LCAT. La perdita del gruppo polare porta al trasferimento del CE nel core delle HDL, che assumono la forma sferica delle HDL mature (HDLm). In circolo si verifica un trasferimento tra HDLm, IDL e LDL del CE, mediato dalla cholesterol ester transfer protein (CETP). Il CL viene trasferito (Fig. 2) dai tessuti periferici alle HDL tramite la cholesterol efflux regulatory protein (CERP), che è una proteina transmembrana di 2201 aminoacidi codificata dal gene ATP-binding cassette, type 1 (ABC1), gene con 49 esoni sito sul cromosoma 21 (Langmann 1999, Owen 1999). Tabella 1 Principali cause di bassi livelli di HDL (da ATP III, modificato). L’enzima acyl-coenzyme A: cholesterol-acyltransferase (ACAT 1) regola la trasformazione CL-CE all’interno dei tessuti periferici. L’ipoalfalipoproteinemia Secondo l’Expert Panel on Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Cholesterol in Adults (ATP III), i bassi livelli di C-HDL rappresentano un fattore di rischio maggiore per la coronaropatia (coronary heart disease CHD). Secondo M. Marcil et al (Marcil 1999) il deficit di C-HDL è l’alterazione lipoproteica di più frequente riscontro nei pazienti con coronaropatia precoce: nel 4% dei casi è la sola alterazione riscontrabile, nel 25% dei casi si associa ad altre alterazioni lipoproteiche. Cause di bassi livelli di HDL Insulina resistenza Diabete mellito tipo II Elevati livelli di trigliceridi Sindrome metabolica Sovrappeso e obesità Inattività fisica Fumo di sigaretta Elevato introito di carboidrati Uso di farmaci (β-bloccanti, steroidi anabolizzanti, progestinici) 152 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 153 L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani La Tabella 1 riporta le principali cause dei bassi livelli di HDL. Il colesterolo non HDL (C-LDL+ C-VLDL) è un nuovo parametro introdotto dall’ATP III che deve essere preso in considerazione in presenza di ipertrigliceridemia (trigliceridi >150 mg/dl), poiché è indicativo del metabolismo dei trigliceridi. Si ottiene sottraendo al colesterolo totale (CT) il C-HDL (CT-CHDL); nel normale è pari al livello ideale di C-LDL+30 mg/dl. L’ATP III classifica come bassi i livelli di C-HDL Tabella 2 Dati biochimici principali in soggetti con ipoalfalipoproteinemia familiare, malattia di Tangier, deficit familiare di LCAT (Vergani 1981, Roma 1990, Vergani 1983, Pietrini 1985, Vergani 1984). inferiori a 40 mg/dl e come alti i livelli di C-HDL superiori a 60 mg/dl. Un alto livello di C-HDL è un fattore negativo per la CHD, annulla, cioè, la presenza di un fattore di rischio positivo. Le forme primitive di ipoalfalipoproteinemie sono classificate (Brewer 2001) nel seguente modo: 1) Ipoalfalipoproteinemia associata a un aumentato rischio di malattia cardiovascolare precoce: • alterazioni del gene dell’apoA-I; • ipoalfalipoproteinemia familiare; Malattia di Tangier Ipoalfalipoproteinemia familiare Deficit di LCAT mg/dl 137 122,8±33,8 530 Colesterolo mg/dl totale (vn: 176-240) 60 144,6±41 243 Colesterolo mg/dl esterificato (vn: 120-170) 104 98±28 15 Trigliceridi (vn: 55-150) Col-HDL (vn: 40-60) mg/dl 2 25,7±4,6 8 Col-LDL (vn: 76-145) mg/dl 32 116,2±38,2 198 Col-VLDL (vn: 12-29) mg/dl 27 23,4±5,4 37 Tracce 157±11,4 98 110 67±17,6 41 15,2 17± 4,2 Non dosabili ApoA mg/dl (vn: 213-295) ApoB (vn: 43-135) mg/dl LCAT nm/ml/h (vn: 19,6±6,5) 153 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 154 Le ipoalfalipoproteinemie • sindrome dell’ipertrigliceridemia-ipoalfalipoproteinemia. 2) Ipoalfalipoproteinemia non associata a un aumentato rischio di malattia cardiovascolare precoce: • malattia di Tangier; • defici di LCAT. Vengono qui riportate le principali caratteristiche cliniche e bioumorali dell’analfalipoproteinemia (malattia di Tangier), dell’ipoalfalipoproteinemia familiare e del deficit familiare di LCAT, con riferimento a una casistica personale (Vergani 1981; Roma 1990; Vergani 1983). La Tabella 2 riassume i dati biochimici principali delle tre forme di dislipidemia. La malattia di Tangier Descritta per la prima volta nel 1961 da Donald Fredrickson, trae la sua denominazione dall’isola di Tangier, posta di fronte alla costa atlantica degli Stati Uniti, dove è stato osservato il primo paziente. La malattia di Tangier è un disordine genetico autosomico recessivo, caratterizzato dall’accumulo di esteri del colesterolo nei linfonodi, nelle tonsille, nel fegato, nella milza, nell’intestino, nelle cellule di Schwann (Fig. 3). Il quadro lipidico è caratterizzato da bassi livelli del CT, con normale percentuale di colesterolo esterificato, da livelli normali o aumentati dei trigliceridi. Figura 3 Biopsia di nervo periferico del soggetto affetto da malattia di Tangier. Si osserva l’accumulo di lipidi nelle cellule di Schwann (Vergani et al 1986). 154 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 155 L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani Il C-HDL, le apoA-I e A-II sono molto bassi o pressoché assenti. Sono stati riportati circa 40 casi. Nel 1983 Vergani et al (Pietrini 1985, Vergani 1984) hanno descritto il primo caso italiano di malattia di Tangier. Il paziente A.Z., di sesso maschile, di anni 62, presentava neuropatia periferica, con interessamento anche del VII nervo cranico, perdita della sensibilità dolorifica e termica, tonsille giallo-biancastre e splenomegalia. La bile epatica e colecistica del paziente mostrava un basso indice di saturazione (Tab. 3). Di recente, in soggetti con deficit totale o parziale di HDL sono state riscontrate mutazioni del gene ABC-1 (Marcil 1999, Brook-Wilson 1999, Rust 1999). La CERP, codificata dal gene ABC-1, viene espressa nel fegato, nell’intestino, nel polmone, nella placenta. Un’alterazione della CERP, oltre a un ridotto trasporto centripeto del co- lesterolo dai tessuti periferici al fegato, comporta una mancata trasformazione delle HDLn in HDLm e un accelerato catabolismo delle apoA-I (Marcil 1999, Young 1999). S. Calandra et al hanno esaminato il DNA genomico del fratello con ipoalfalipoproteinemia del paziente (A.Z.) affetto da malattia di Tangier. In uno dei due geni codificanti per l’ABC-1 è stata riscontratauna mutazione dell’introne 2. Tale mutazione comporta una transversione G→C con completa eliminazione dell’esone 2. La proteina codificata, mancante di circa 60 aminoacidi, va incontro a una rapida degradazione (Altilia et al 2001). Ipoalfalipoproteinemia familiare L’ipoalfalipoproteinemia familiare è una sindrome che si trasmette con ca- Tabella 3 Composizione lipidica e indice di saturazione della bile epatica e della bile cistica in un soggetto affetto da Malattia di Tangier (Vergani 1984). Tra parentesi i valori normali ±1 D.S. Bile epatica Bile cistica Acidi biliari (%) 75 (71±67) 81,8 (73±7) Colesterolo (%) 2,4 (6,6±1,5) 3,5 (6,8±1,4) Fosfolipidi (%) 22,6 (22,4±5,2) 14,7 (20,2±4,9) Indice di saturazione 0,46 (1,13±0,28) 0,63 (1,01±0,23) 155 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 156 Le ipoalfalipoproteinemie Figura 4 Albero genealogico di una famiglia con ipoalfalipoproteinemia familiare (Vergani et al 1981). 1 2 3 I 4 5 6 7 8 ? 1 2 3 4 5 6 7 †58 anni 8 9 10 11 12 13 15 ? 1 2 39 anni 3 †36 anni 4 II 6 5 7 †51 anni 8 9 10 ? Deceduti Normali Infarto miocardico, morte 10 11 †49 anni 14 II 44 anni 9 ? †51 anni †57 anni 16 17 ? 18 ? 48 anni 11 12 ? 13 ? ? Non valutati HDL-C≤33 mg/dl rattere autosomico dominante. I criteri di definizione sono i seguenti: 1) C-HDL inferiore al 10° percentile della popolazione normale (33 mg/dl); 2) assenza di condizioni a cui l’ipoalfalipoproteinemia possa essere secondaria; 3) presenza di ipoalfalipoproteinemia in un parente di primo grado. È una sindrome che comporta un’alta incidenza di infarto miocardico precoce e morte improvvisa. Nella famiglia da noi descritta (Fig. 4), l’età media di comparsa degli eventi coronarici maggiori (infarto miocardico, morte im- provvisa) è di 41 anni. I livelli di CT e trigliceridi, l’attività delle lipasi e dell’LCAT sono nella norma, mentre sono bassi i livelli di C-HDL e di apoA-I (Vergani 1981). L’eziologia della malattia è probabilmente da attribuire a un’alterazione del gene ABC-1. La Figura 5 indica il catabolismo dell’apoA-I autologa in un soggetto con ipoalfalipoproteinemia familiare e in un soggetto normale. Il residence time dell’apoA-I autologa del soggetto con ipoalfa familiare (soggetto II-4 del pedigree della Figura 4) è diminuito, mentre la sintesi dell’apoproteina è normale (Roma 1990). 156 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 157 L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani ta come fish-eye disease. In questi casi è presente un’accentuata opacità corneale con l’aspetto “a occhio di pesce” (da ciò il nome della malattia) mentre sono assenti l’anemia e l’insufficienza renale (Vergani 1983). Il deficit familiare di LCAT Il deficit familiare di LCAT, descritto per la prima volta nel 1967 da Gyone e Norum, si trasmette con carattere autosomico recessivo. Sono presenti opacità corneale, anemia con cellule a bersaglio e nefropatia con albuminuria dovuta a deposizione di LDL anomale nei glomeruli (Fig. 6). Nei soggetti con deficit familiare di LCAT i livelli del CT e dei trigliceridi sono alti o normali, mentre il livello del CE è molto basso. Le HDL presentano alla microscopia elettronica la forma a disco propria delle HDLn (Fig. 7). Esiste anche una variante fenotipica del deficit di LCAT, no- Terapia della ipoalfalipoproteinemia La terapia dell’ipoalfalipoproteinemia secondaria si avvale della correzione della malattia sottostante. È importante identificare la sindrome metabolica, spesso associata all’ipoalfalipoproteinemia secondaria, il cui primum mo- Figura 5 Frazione della dose iniettata 1,00 0,50 0,10 0,05 Soggetti normali ............................... Curve di decadimento dell’apoA-I in un soggetto normale e in un soggetto affetto da ipoalfalipoproteinemia familiare. Nel soggetto con ipoalfalipoproteinemia il residence time è ridotto (Roma, Vergani et al 1990). 0 2 4 6 Soggetti ipoalfa 8 Tempo (giorni) 157 10 12 14 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 158 Le ipoalfalipoproteinemie Figura 6 Microscopia elettronica di biopsia renale in un soggetto con deficit familiare di LCAT. Sono presenti vacuoli e formazioni elettrondense con materiale eosinofilo in regione subendoteliale. Le cellule endoteliali sono in parte staccate dalla membrana basale e i processi pedicillari sono parzialmente fusi (Vergani et al 1986). vens è la resistenza periferica all’insuli- livelli ideali di LDL, quando i trigliceridi sono ≥200 mg/dl; • prevenire l’insorgenza di pancreatite acuta quando i livelli di trigliceridi sono superiori a 500 mg/dl. In questo caso bisogna ridurre i trigliceridi prima di abbassare i livelli di LDL con dieta a basso contenuto di grassi (≥15% delle calorie totali), controllo del peso, attività fisica, uso di fibrati. In presenza di bassi livelli di C-HDL na (Tab. 4). In presenza di ipertrigliceridemia con bassi livelli di C-HDL è necessario: • ridurre i livelli di LDL (obiettivo primario) per impedire la deposizione di colesterolo nei tessuti periferici; • controllare il peso; • aumentare l’attività fisica; • raggiungere livelli di colesterolo-non HDL che non superano di 30 mg/dl i 158 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 159 L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani Figura 7 Microscopia elettronica delle HDL native a forma di disco di un soggetto con deficit familiare di LCAT (Vergani et al 1983). Tabella 4 Criteri per l’identificazione della sindrome metabolica (da ATP III, modificato). Obesità addominale Uomini Donne Circonferenza della vita >102 cm >88 cm Trigliceridi ≥150 mg/dl Colesterolo HDL Uomini Donne <40 mg/dl <50 mg/dl Pressione arteriosa ≥130 / ≥85 mmHg Glicemia basale ≥110 mg/dl (<40 mg/dl) è necessario: • riportare a livelli normali le LDL (obiettivo primario); • controllare il peso; • intensificare l’attività fisica; • controllare i livelli di colesterolo-non HDL, quando i livelli dei trigliceridi sono compresi tra 200-499 mg/dl; • somministrare fibrati nei pazienti con CHD o con equivalenti CHD, quando i livelli dei trigliceridi sono >200 mg/dl. 159 1225/01 capitolo 6 29-05-2002 15:17 Pagina 160 Le ipoalfalipoproteinemie Riferimenti bibliografici Owen JS Role of ABC1 gene in cholesterol efflux and atheroprotection. The Lancet, 354: 1402-1403, 1999. Altilia S, Pisciotta L, Tagliabue J, Vergani C, Bertolini S, Tarugi P, Calandra S Deficit familiare di HDL dovuto a un difetto di splicing del m-RNA codificante la proteina ABC-1. 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Il problema della prevenzione dell’aterosclerosi in età pediatrica è oggetto di ampio dibattito: numerosi studi indicano che il processo aterosclerotico inizia in età pediatrica ed è correlato ai valori di colesterolemia, che valori elevati di colesterolo in età pediatrica sono predittivi di valori elevati in età adulta, e infine che i valori di colesterolemia sono correlati all’intake lipidico, specie di grassi saturi e di colesterolo. Per quanto non vi siano dati che correlino direttamente i livelli di colesterolo nel bambino con la malattia cardiaca dell’adulto, vi sono forti evidenze che questa associazione esista. I bambini a rischio di sviluppo di aterosclerosi precoce nell’età adulta in quanto ipercolesterolemici dovrebbero essere identificati precocemente. Gli esperti ritengono che i bambini con livelli di colesterolo superiori al 75° percentile dovrebbero essere considerati ipercolesterolemici e potenzialmente a rischio per malattia cardiaca nell’adulto. Per quanto molti esperti ritengano che anche l’ipertrigliceridemia sia un fattore di rischio per cardiovasculopatia (CAD) precoce, il rischio è meno definito rispetto a quello associato all’ipercolesterolemia. L’idea di un intervento preventivo precoce finalizzato alla riduzione dei valori di colesterolemia mediante una riduzione dell’apporto di lipidi nella dieta si basa dunque su evidenze indirette; essa ha dominato le raccomandazioni della maggior parte dei gruppi di consenso, primo fra tutti l’American Academy of Pediatrics (AAP), che fornisce le Linee Guida per la prevenzione dell’aterosclerosi in età pediatrica. Le più recenti Linee Guida Italiane sono state formulate dalla Società Italiana di Nutrizione Pediatrica (SINUPE), sotto la presidenza di M. Giovannini, e sono state pubblicate sulla Rivista Italiana di Pediatria nel 2000. 161 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 162 Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento famiglie a rischio, e quelli portatori di ipo-alfa-lipoproteinemia, obesità o altre dislipidemie non identificabili con la sola determinazione della colesterolemia. L’Expert Panel on Blood Cholesterol Levels in Children and Adolescents del National Cholesterol Education Program e l’AAP Committee on Nutrition consigliano che ai bambini con anamnesi familiare positiva per ipercolesterolemia (>240 mg/dl) venga misurato il livello di colesterolo totale; bambini con anamnesi familiare incompleta o non disponibile, o presenza di altri fattori di rischio per CAD, dovrebbero essere esaminati a discrezione del loro pediatra. Secondo le Linee Guida della SINUPE, la determinazione del quadro lipidico deve essere effettuata in tutti i bambini considerati a rischio in quanto appartenenti ad almeno una delle seguenti categorie: • bambini e adolescenti appartenenti a famiglie con almeno 1 parente di I o II grado (1 genitore o 1 nonno) con evidenze di CAD precoce (prima dei 55 anni di vita); per CAD precoce si intendono sia gli eventi acuti quali infarto miocardico, angina pectoris, ictus cerebri, ischemie cerebrali, vasculopatie periferiche o morte improvvisa, sia la documentazione di un’aterosclerosi coronarica mediante corona- La diagnosi Lo screening “universale”, ovvero la determinazione routinaria dei valori di colesterolemia in tutti i soggetti in età pediatrica, oltre a risultare costoso, non è attualmente consigliabile. Con uno screening “universale” potremmo sicuramente identificare tutti i soggetti affetti da dislipidemia grave su base genetica, ma in tal modo verrebbero anche selezionati e di conseguenza trattati inutilmente, con pericolose conseguenze psicologiche e con il rischio di carenze nutrizionali, un numero non trascurabile di soggetti con valori borderline e rischio cardiovascolare ridotto o poco aumentato: il riscontro occasionale di ipercolesterolemia in un bambino ha un notevole impatto psicologico sui genitori, che spesso sottopongono i figli a diete ipolipidiche non controllate; tali bambini vengono etichettati come malati da genitori e compagni, i loro stessi pediatri spesso richiedono una dieta speciale per la mensa scolastica, e la loro dieta presenta frequentemente carenze nutrizionali. Oltre a ciò, con uno screening universale tutti i soggetti risultati “negativi”, poiché con valori di colesterolemia totale nella norma, verrebbero rassicurati, e con essi anche quelli con rischio cardiovascolare elevato poiché provenienti da 162 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 163 S. Decarlis, E. Riva rografia, o il trattamento con angioplastica o by-pass aortocoronarico; • bambini e adolescenti con almeno 1 genitore con valori di colesterolo totale superiore a 240 mg/dl, o ipertrigliceridemia grave (>300 mg/dl) o valori ridotti di HDL (<35 mg/dl) (chiedendo di visionare direttamente i valori del quadro lipidico dei genitori); incoraggiare il genitore che non conosce il proprio assetto lipidico a eseguirne una determinazione; • bambini e adolescenti con anamnesi familiare dubbia o scarsa e incompleta che presentino fattori di rischio aggiuntivi quali: – obesità; – ipertensione arteriosa; – fumo di sigaretta; – sedentarietà; – abitudini alimentari particolarmente scorrette. Lo screening dei soggetti a rischio si basa pertanto principalmente sull’anamnesi familiare: dovrà essere indagato un bambino con familiarità positiva per ipercolesterolemia o CAD precoce; in realtà l’anamnesi familiare, se non è ben condotta, ha una sensibilità scarsa nell’identificare i soggetti a rischio: talora genitori e nonni sono troppo giovani per aver manifestato una cardiovasculopatia, talora la storia familiare è incom- pleta o poco chiara, specie nel caso di genitori separati; molto spesso i genitori non conoscono o non ricordano il proprio quadro lipidico, o sono inattendibili; spesso, richiedendo il reperto scritto del quadro lipidico dei genitori, si osservano valori di colesterolo totale e LDL molto più alti di quanto dichiarato, o si scopre un’ipo-alfa-lipoproteinemia (i valori ridotti di HDL costituiscono una precisa forma di dislipidemia con rischio elevato di CAD) o un’ipertrigliceridemia. La raccolta anamnestica deve dunque essere precisa e accurata. Lo screening selettivo resta comunque il metodo preferibile per due motivi: da un lato, per i soggetti appartenenti a famiglie senza rischio elevato di CAD è sufficiente intraprendere un intervento a partire dall’età adulta; dall’altro, le indicazioni dietetiche che dovrebbero essere fornite a tutta la popolazione sono comunque valide come primo livello di intervento anche nel bambino ipercolesterolemico. Livelli plasmatici di lipidi dall’età pediatrica all’età adulta Durante i primissimi mesi di vita i livelli di colesterolo aumentano, in gran 163 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 164 Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento parte a causa delle modificazioni delle LDL. Nel corso dei successivi 15-20 anni, sia nei maschi che nelle femmine, c’è scarsa variazione dei livelli di colesterolo totale; il valore medio fluttua intorno a 150-165 mg/dl. Durante questo periodo i livelli medi di colesteroloLDL rimangono leggermente inferiori a 100 mg/dl, sia nei maschi che nelle femmine. Nelle fasi precoci della vita i valori di colesterolo-HDL sono paragonabili nei maschi e nelle femmine; rimangono essenzialmente costanti nelle femmine, mentre diminuiscono marcatamente nei maschi durante la seconda decade, fino a un livello che viene conservato nell’età adulta. I livelli plasmatici di trigliceridi, al contrario, tendono ad aumentare transitoriamente, sia nei maschi che nelle femmine, durante il primo anno, cadono in media a 50-60 mg/dl negli anni seguenti, aumentano poi fino a una media di 75 mg/dl circa entro i 20 anni d’età. All’inizio dell’età adulta si verifica un marcato aumento del colesterolo plasmatico, dovuto quasi esclusivamente a un aumento del colesterolo-LDL. La velocità di incremento durante i successivi 30 anni è maggiore nei maschi rispetto alle femmine. Quando esso si associa alla diminuzione dei livelli di colesterolo-HDL, pone i maschi a rischio molto maggiore delle femmine per cardiopatia aterosclerotica, almeno fino alla menopausa. A causa delle variazioni dei lipidi con l’età, è molto più appropriato utilizzare tabelle di percentili età- o sesso- specifici quando si confrontino livelli tra diversi soggetti e per lunghi periodi di tempo, piuttosto che considerare solamente i livelli di colesterolo totale. L’alterazione del metabolismo lipidico di più frequente osservazione in età pediatrica è l’elevazione dei valori di colesterolo totale e LDL; le alterazioni dei valori di trigliceridi su base genetica difficilmente hanno piena espressione biochimica già dall’età pediatrica. I bambini possono avere livelli di colesterolo moderatamente aumentati per varie ragioni. Alcuni difetti genetici primitivi possono essere associati solo a lievi alterazioni dei livelli lipidici ematici. Inoltre, esistono cause secondarie di iperlipoproteinemia che devono essere prese in considerazione. Infine, abitudini dietetiche inappropriate, da sole o mediante l’interazione con uno qualsiasi dei fattori precedenti, possono contribuire ad aumentare moderatamente i livelli di colesterolo. Sebbene alcuni bambini soffrano di un’iperlipidemia familiare ben definita, la maggior parte degli individui con iperlipidemia, sia in età pediatrica che in età adulta, non ha una sindrome speci- 164 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 165 S. Decarlis, E. Riva fica, ma un’alterazione del metabolismo lipidico data dall’interazione di svariati fattori, sia genetici che ambientali, e denominata pertanto ipercolesterolemia poligenica (PH). Inoltre, sebbene in età adulta i soggetti con iperlipidemia abbiano un rischio aumentato di malattia cardiaca, non tutti gli individui iperlipidemici presentano clinicamente una malattia cardiaca. quadro lipidico (colesterolemia totale <180 mg/dl e LDL<110 mg/dl) dovranno essere rivalutati dopo 5 anni, e ciò al fine di evitare che si ingeneri un inopportuno stato di ansia nella famiglia nei confronti dello stato di salute di un bambino – almeno al momento – del tutto sano; nel frattempo dovranno essere fornite alla famiglia le indicazioni per un’alimentazione corretta ed equilibrata e per la prevenzione dei fattori di rischio secondari. In presenza di valori borderline (colesterolemia LDL tra 110 e 130 mg/dl), verranno fornite le medesime indicazioni dietetiche, sottolineando l’importanza del potenziamento dell’attività fisica e del mantenimento del peso corporeo ideale. La rivalutazione del quadro lipidico è consigliabile dopo 1 anno. Se dopo 1 anno i valori risulteranno ancora alterati, in caso di familiarità per CAD precoce sarà necessario inviare il soggetto a un centro clinico di riferimento con esperienza in dislipidemie pediatriche e nutrizione clinica, per Valutazione clinica Nella Tabella 1 sono indicati i valori del quadro lipidico da considerare accettabili, borderline, associati a rischio intermedio o a rischio elevato in bambini e adolescenti sottoposti allo screening. Il valore di colesterolo LDL costituisce un indice di rischio cardiovascolare più attendibile in età pediatrica rispetto alla colesterolemia totale. I bambini appartenenti alle famiglie a rischio che dopo due determinazioni presenteranno valori accettabili del Tabella 1 Categorie ottenute dallo screening del quadro lipidico. Da: SINUPE 2000. Colesterolo totale Colesterolo LDL Accettabile <180 mg/dl <110 mg/dl Borderline 180-199 mg/dl 110-129 mg/dl Rischio intermedio 200-249 mg/dl 130-159 mg/dl ≥250 mg/dl ≥160 mg/dl Rischio elevato 165 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 166 Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento l’inquadramento, l’approfondimento diagnostico e l’approccio terapeutico. Se i valori di colesterolemia risulteranno nel range di rischio intermedio o elevato (colesterolo totale superiore a 200 mg/dl e frazione LDL superiore a 130 mg/dl), sarà opportuno effettuare un approfondimento volto a escludere la presenza di una forma secondaria di dislipidemia. Le cause secondarie di dislipidemia sono elencate nella Tabella 2. Parallelamente sarà opportuno esaminare anche gli altri membri della famiglia, qualora questo non sia ancora stato fatto. Una volta escluse le forme secondarie e accertato che si tratta di una di- Tabella 2 Cause di dislipidemia secondaria. Da: SINUPE 2000. slipidemia primitiva, il soggetto a rischio intermedio o elevato e con familiarità per CAD precoce, così come il soggetto con rischio elevato e familiarità positiva per ipercolesterolemia, dovrà essere indirizzato a un centro clinico con esperienza in dislipidemie pediatriche e nutrizione clinica. Se la familiarità è positiva per ipercolesterolemia ma non per cardiovasculopatia precoce e il quadro lipidico del soggetto si situa nella categoria a rischio intermedio, si potrà comunque effettuare un primo intervento dietetico ed educazionale e rivalutare il quadro lipidico dopo 6-12 mesi. In caso di persistenza di ipercolesterolemia nella ca- Ipotiroidismo Sindrome nefrosica Uremia Disglobulinemie Lupus eritematoso sistemico Ipopituitarismo Sindrome di Cushing Iperlipemia diabetica e diabete mellito Terapia con glucocorticoidi, con estrogeni, alcolismo Glicogenosi Lipodistrofie Insufficienza epatica Colestasi Porfiria acuta intermittente 166 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 167 S. Decarlis, E. Riva tegoria a rischio intermedio, sarà opportuno inviare il bambino al centro di riferimento. Ogni bambino con valori del quadro lipidico a rischio elevato deve invece essere inviato a un centro di riferimento fin dalla prima diagnosi. Nella figura 1 è riportato l’algoritmo per l’identificazione e il trattamento dei soggetti a rischio. Inquadramento nosografico delle principali forme di dislipidemia con espressione in età pediatrica L’innalzamento dei valori di colesterolo totale plasmatico è il fenotipo biochimico di più frequente riscontro in età pediatrica; le altre forme genetiche di dislipidemia associate a ipertrigliceride- Figura 1 Algoritmo per l’identificazione e il trattamento dei bambini a rischio. Da: SINUPE 2000. PROFILO LIPIDICO: CT+TG+HDL+LDL (derivato) accettabile intermedio o elevato borderline Consigli dietetici Mantenimento peso ideale Stile di vita “sano” Consigli dietetici Mantenimento peso ideale Stile di vita “sano” Rivalutazione dopo 5 anni Rivalutazione dopo 1 anno accettabile Familiarità negativa per CAD precoce borderline intermedio o elevato Screening dei familiari Dislipidemia primitiva Dislipidemia secondaria Familiarità negativa per CAD precoce Cura della patologia di base Familiarità positiva per CAD precoce rischio elevato LDL ≤160 mg/dl Rinforzo dei consigli Controllo dopo 1 anno Esclusione di cause secondarie di dislipidemia Consultare un centro pediatrico di dislipidemie intermedio o elevato rischio intermedio LDL 130-159 mg/dl Consigli dietetici Mantenimento peso ideale Stile di vita “sano” Controllo dopo 6-12 mesi 167 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 168 Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento mia o riduzione della frazione HDL hanno espressione solitamente dopo lo sviluppo puberale. Si può approssimativamente affermare che in presenza di 20 bambini con ipercolesterolemia primitiva vi siano: • 1 soggetto affetto da ipercolesterolemia familiare (FH); • 3 soggetti affetti da iperlipidemia familiare combinata (FCHL); • 16 soggetti affetti da ipercolesterolemia poligenica (PH), determinata dall’aggregazione di molteplici geni che segregano indipendentemente, con effetto lieve ma additivo, su cui si inseriscono fattori ambientali che portano al fenotipo comune di ipercolesterolemia. La diagnosi di ipercolesterolemia familiare (FH) può essere posta in età pediatrica sulla base di criteri clinici e anamnestici ben precisi, oltre che con l’analisi genetica (costosa e non disponibile in tutti i centri); il difetto, a trasmissione autosomica dominante, è presente nella popolazione generale in circa 1 soggetto su 500 nella forma eterozigote, e in 1 soggetto su 1 milione nella forma omozigote. L’eterozigote presenta valori di colesterolo totale compresi fra 300 e 600 mg/dl nell’adulto (mediamente fra 250 e 350 mg/dl nel bambino), derivante da un aumento della sola frazione lipoproteica a bassa densità (colesterolo LDL); l’errore risiede nella mutazione di un singolo gene che codifica per il recettore delle LDL, deputato alla rimozione dal circolo di tali lipoproteine; il soggetto eterozigote presenta una riduzione variabile dell’attività recettoriale e un accumulo di LDL in diversi tessuti. Mentre la prima decade di vita è priva di sintomi clinici e nei soggetti affetti si osserverà unicamente il rialzo dei valori di colesterolo totale e LDL, a partire dalla fine della seconda decade si inizieranno a osservare depositi a livello oculare (arco corneale), cutaneo (xantomi cutanei e xantelasmi), e tendineo (xantomi principalmente a carico del tendine d’Achille); la cardiovasculopatia ischemica si manifesterà clinicamente nei soggetti non trattati intorno ai 40 anni nell’uomo e intorno ai 50 nella donna. Il soggetto omozigote possiede invece un’attività recettoriale pressoché nulla, livelli di colesterolo totale superiori a 600 mg/dl e potrà presentare sintomi clinici gravi anche nella prima decade e quasi costantemente nella seconda decade di vita, con elevata mortalità cardiovascolare se non trattato con LDL-aferesi. Un’ipercolesterolemia in età pediatrica si può riscontrare anche nei figli di soggetti affetti da iperlipidemia fami- 168 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 169 S. Decarlis, E. Riva liare combinata (FCHL), detta anche a fenotipi multipli, un’alterazione autosomica dominante piuttosto comune (frequenza stimata circa 1-2%) caratterizzata da espressioni fenotipiche diverse nei diversi membri della famiglia (infatti 1/3 dei soggetti avrà ipercolesterolemia, 1/3 ipertrigliceridemia, e 1/3 presenterà entrambe); inoltre lo stesso soggetto può passare da un fenotipo all’altro in diverse epoche della vita. Il colesterolo totale raggiunge valori fra 200 e 300 mg/dl, mentre l’innalzamento dei trigliceridi è tra 200 e 400 mg/dl. Il difetto metabolico sottostante sembra essere un’aumentata sintesi di VLDL da parte del fegato, da cui derivano LDL più piccole, dense e numerose, e pertanto più aterogene. Anche tale patologia si associa a maggiore incidenza di aterosclerosi, oltrecché a obesità, ipertensione e sindrome da resistenza insulinica. Un tipo relativamente nuovo di dislipidemia, è l’elevazione dei livelli di lipoproteina (a) o Lp(a), una lipoproteina con struttura quasi identica alle LDL, ma che possiede in aggiunta un’apoproteina, detta apo(a), con elevato grado di omologia con il plasminogeno. I livelli di Lp(a) risultano essere geneticamente determinati e poco influenzati dalla dieta o dal trattamento con farmaci ipolipemizzanti. Livelli elevati di Lp(a), superiori a 30 mg/dl, costituiscono fattore di rischio indipendente per CAD precoce e accidenti cerebrovascolari, probabilmente a causa di un effetto protrombogeno e antifibrinolitico. Si possono pertanto trovare soggetti con valori di colesterolo totale e LDL entro i limiti di norma, ma in cui la frazione LDL contiene elevati valori di Lp(a) (superiori a 30 mg/dl), e che pertanto saranno esposti a un rischio significativamente più alto di aterosclerosi rispetto ai soggetti normali. Vi sono numerosi altri nuovi fattori genetici e biochimici che contribuiscono ad aggravare il rischio cardiovascolare del soggetto dislipidemico, quali il fenotipo dell’apolipoproteina E e dell’apolipoproteina B, i livelli di omocisteina plasmatica e molti altri. Trattamento dietetico dell’iperlipidemia Secondo l’AAP-Committee on Nutrition, per i bambini iperlipidemici (colesterolo LDL medio >110 mg/dl) di età superiore a 2 anni, il migliore intervento iniziale è la modificazione dietetica. L’apporto alimentare dovrebbe fornire non più del 30% delle calorie totali come grassi (egualmente distribuiti tra saturi, monoinsaturi e polinsaturi) e non 169 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 170 Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento più di 100 mg di colesterolo/1.000 calorie (totale massimo 300 mg/24 h). Questa è definita come “dieta prudente” o dieta Step I dall’American Heart Association. L’AAP conferma queste raccomandazioni e suggerisce anche un limite inferiore per l’apporto dei grassi (non meno del 20% delle calorie totali). Si raccomanda che questa dieta venga adottata da tutti i membri della famiglia sopra i 2 anni di età, per incoraggiare una compliance ottimale e migliorare la salute. L’obiettivo minimo della dieta è quello di ottenere livelli di colesterolo LDL<130 mg/dl, mentre l’obiettivo ideale è di raggiungere livelli <110 mg/dl. Se questi scopi non vengono raggiunti anche dopo aver rinforzato la dieta Step I, dovrebbe essere presa in considerazione la dieta Step II (<7% di calorie in acidi grassi saturi e <66 mg di colesterolo/1.000 calorie, fino a un massimo di 200 mg/24 h). Le dietoterapie finora proposte e sperimentate nel trattamento dell’ipercolesterolemia in età pediatrica sono rivolte principalmente alla restrizione dell’apporto lipidico totale e di grassi saturi, sottolineando in modo marginale la necessità di mantenere un rapporto favorevole tra acidi grassi saturi, mono e polinsaturi, soprattutto essenziali; sta ora emergendo il ruolo degli acidi grassi in- saturi sulla regolazione di aggregabilità piastrinica, pressione arteriosa, metabolismo glucidico, funzione immunitaria, e, nel bambino, sullo sviluppo neuromotorio; nelle diete ipolipidiche spesso si osserva una riduzione della quota di insaturi assunti, che potrebbe portare, oltre che alle carenze di acidi grassi essenziali, anche a un effetto sfavorevole sul quadro lipidico e sugli altri fattori di rischio cardiovascolare. Diversi autori hanno suggerito l’opportunità di studiare in modo più approfondito delle diete centrate sulla modifica qualitativa, anziché quantitativa, della quota lipidica assunta; un’ipotesi interessante riguarda l’aumento della quota di monoinsaturi, che sembrerebbero avere effetto sul miglioramento del rapporto LDL/HDL. L’obiettivo principale da raggiungere nel trattamento dietetico dell’ipercolesterolemia del bambino, è quello di instaurare delle abitudini alimentari corrette che abbiano le maggiori probabilità di mantenersi nel tempo, fino all’età adulta. Le modifiche devono essere principalmente qualitative, volte ad ampliare il più possibile la scelta delle diverse categorie di alimenti; di per sé, solo pochissimi alimenti devono considerarsi vietati, tutti sono necessari purché assunti con una frequenza adeguata. Secondo le raccomandazioni della 170 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 171 S. Decarlis, E. Riva • apporto adeguato di fibre, che varia a seconda dell’età; negli Stati Uniti, per un calcolo rapido viene utilizzata la formula “Age+5” (grammi di fibre consigliate al giorno =5+età del bambino in anni); riteniamo opportuno consigliare una quota di fibre compresa fra età+5 ed età+10, per metà di fibre solubili e per metà di insolubili. Dal punto di vista pratico queste indicazioni dietetiche comportano l’assunzione quotidiana di 4 pasti principali (colazione, pranzo, merenda e cena) più 1 spuntino; le calorie giornaliere vanno ripartite correttamente: 20% tra colazione e spuntino, 40% a pranzo, 10% a merenda e 30% a cena. È importante che ogni giorno siano presenti: • 1 occasione in cui assumere latte o yogurt, preferibilmente del tipo parzialmente scremato (generalmente la prima colazione, in cui è consigliato associare cereali); • almeno 2 occasioni in cui assumere frutta e 2 in cui assumere verdura (in pezzi, non frullata); • in 2 occasioni (pranzo e cena) assumere sempre un pasto completo con carboidrati complessi, lipidi e proteine, e, per evitare di sovraccaricare in calorie la cena, preferire a pranzo pasta o riso con secondo piatto e con- SINUPE, la dieta ideale dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: • il 12-14% delle calorie totali costituito da proteine (con un rapporto tra proteine animali e vegetali di circa 1:1); • il 60% circa delle calorie totali costituito da carboidrati, principalmente di tipo complesso (rapporto ideale 3:1 fra complessi e semplici); • quota lipidica inferiore al 30%, ma non al di sotto del 25%, delle calorie totali giornaliere; • quota lipidica correttamente suddivisa fra acidi grassi saturi, monoinsaturi e polinsaturi: sarebbe ottimale un apporto di saturi inferiore al 10%, di monoinsaturi fra il 10 e il 15% e di polinsaturi fra il 5 e il 10% delle calorie totali giornaliere; gli acidi grassi polinsaturi devono essere associati a un adeguato apporto di antiossidanti, onde evitare la perossidazione lipidica cui essi sono particolarmente sensibili; questo significa utilizzare solo oli vegetali polinsaturi cosiddetti “dietetici” o “vitaminizzati”, cioè supplementati con antiossidanti; ricordiamo che l’olio di oliva extravergine ne garantisce invece un apporto elevato; • apporto giornaliero di colesterolo preferibilmente inferiore a 100 mg/1000 calorie, e comunque non superiore a 300 mg/die; 171 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 172 Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento torno, mentre a cena un piatto unico o una minestra. I 14 secondi piatti settimanali dovranno essere variati fra carne magra (3 volte alla settimana), pesce fresco o surgelato (3-4 volte alla settimana), ricco in DHA (pesce azzurro, merluzzo, salmone, tonno), evitando crostacei e molluschi, legumi (3-4 volte alla settimana) che – associati ai cereali in un “piatto unico” – sostituiscono non la verdura ma la carne, 1-2 volte alla settimana formaggi “magri”, 1-2 volte alla settimana salumi quali bresaola o prosciutto crudo senza grasso, 1 volta alla settimana uovo. Nella preparazione dei cibi è importante consigliare di moderare il consumo di sale e di condimenti, preferendo l’olio extravergine di oliva e la cottura al vapore, al forno, in umido, con pentola “antiaderente”. La tradizionale dieta mediterranea costituisce il modello ideale di dieta consigliabile, che negli ultimi anni viene proposta anche nei paesi con tradizioni alimentari differenti, come gli Stati Uniti. Quando si consiglia un intervento dietetico, è importante spiegare che la risposta alla dieta è variabile e generalmente i livelli del colesterolo LDL non scendono più del 10-15%. I genitori di solito hanno aspettative illusorie riguar- do alla riduzione del colesterolo con la dieta, che limita la compliance quando la risposta risulta scarsa. Bisogna pertanto spiegare che, anche se la risposta al trattamento dietetico iniziale è limitata, le potenzialità insite nell’acquisire uno stile di vita salutare nell’alimentazione comportano diversi benefici a lungo termine. Le modificazioni della dieta sono efficaci nel trattamento dell’iperlipidemia negli adulti e nei bambini sopra i 2 anni di età. Il Dietary Intervention Study for Children ha dimostrato l’efficacia e la sicurezza di una dieta a basso contenuto lipidico nei bambini ipercolesterolemici. In ogni caso, deve essere sottolineato che queste raccomandazioni si intendono soltanto per i bambini oltre i 2 anni di età. Bambini sotto l’età di 2 anni sottoposti a una dieta simile o più restrittiva e bambini più grandi posti a diete più restrittive da genitori precisi e rigorosi hanno mostrato uno scarso accrescimento. I bambini sotto i 2 anni di età necessitano di un maggiore apporto calorico per permettere la loro rapida crescita. A causa dell’elevato apporto calorico fornito dai cibi grassi, è concretamente difficile per bambini minori di 2 anni alimentarsi sufficientemente con cibi poveri di grassi e ottenere una cre- 172 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 173 S. Decarlis, E. Riva scita normale. Inoltre, un maggiore apporto dietetico di acidi grassi può essere necessario per ottenere un adeguato supporto di nutrienti necessari per il rapido sviluppo del sistema nervoso centrale. Ci dovrebbe essere sempre un’attenta supervisione per assicurare l’adeguatezza di qualunque modificazione dietetica nei bambini. Quando il pediatra di famiglia non possieda l’esperienza e la formazione necessaria per fornire una guida dettagliata per simili interventi nutrizionali, è indicato effettuare un primo inquadramento da parte di un pediatra nutrizionista, in un centro clinico di riferimento specifico per le dislipidemie pediatriche. Prima di intraprendere un programma di screening, il medico dovrebbe assicurare la disponibilità di tale specialista per i suoi pazienti. La crescita e lo sviluppo di ogni bambino sottoposto a trattamento dietetico dovrebbero essere monitorati e si dovrebbe riconsiderare la dieta specifica se la crescita o lo sviluppo risultassero alterati. È anche importante spiegare al bambino e alla sua famiglia che l’ipercolesterolemia durante l’infanzia è solamente un fattore di rischio e non una malattia e si dovrebbero sottolineare gli atteggiamenti positivi che il bambino e la sua famiglia possono attuare per ridurre i rischi. Altri fattori dietetici Una dieta ricca di fibre, soprattutto quelle solubili, ha un modesto effetto di riduzione del livello di colesterolo nei soggetti ipercolesterolemici. Tuttavia, le diete ricche di fibre dovrebbero essere utilizzate con attenzione nei bambini, poiché essi necessitano di un adeguato apporto calorico e di nutrienti. Gli acidi grassi monoinsaturi riducono i livelli del colesterolo LDL, mentre non modificano o fanno aumentare i livelli del colesterolo HDL, a differenza di quanto si osserva con una dieta ricca in acidi grassi polinsaturi, che comporta una riduzione sia del colesterolo LDL che HDL. Gli acidi grassi trans (oli vegetali parzialmente idrogenati), di comune riscontro nei cibi elaborati e nelle margarine, sembra facciano aumentare i livelli del colesterolo LDL, e forse anche della lipoproteina (a). Le diete vegetariane determinano un’ampia e significativa riduzione del colesterolo, unitamente a una sostituzione delle proteine animali con quelle vegetali e a una riduzione dei grassi e del contenuto di colesterolo nella dieta. Sebbene molti lavori abbiano dimostrato la sicurezza di una dieta vegetariana nei bambini, si dovrebbe prestare attenzione nel valutarne la completezza per lo sviluppo del bambino. 173 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 174 Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento Malgrado l’olio di pesce e gli antiossidanti abbiano scarsi effetti sui livelli del colesterolo, si è osservato che riducono il rischio di CAD mediante altri meccanismi (l’olio di pesce è utilizzato anche nel trattamento dell’ipertrigliceridemia grave). Tuttavia, poiché queste sostanze sono frequentemente somministrate a dosaggi farmacologici, se ne sconsiglia l’uso sui bambini in assenza di ulteriori esperienze. Può essere invece presa in considerazione una dieta ricca di questi nutrienti. Per esempio, stimolare un idoneo apporto dietetico di frutta e verdura aiuterà a ottimizzare le risorse naturali degli antiossidanti, come l’aumento dell’assunzione di pesce azzurro garantisce un’ottima fonte di acidi grassi omega-3. lattia coronarica precoce, come l’iperlipidemia, dovrebbero ricevere massima attenzione per cercare di minimizzare tutti gli altri fattori di rischio. Inoltre, molti di questi fattori di rischio sono tra loro correlati, e quindi ridurne uno può aiutare a ridurre gli altri (un aumento dell’attività fisica può far diminuire l’obesità, con conseguente riduzione di pressione arteriosa, livelli del colesterolo LDL e dei trigliceridi e, potenzialmente, riduzione del rischio per diabete mellito insulino indipendente, mentre aiuta anche a far aumentare i livelli del colesterolo HDL). Terapia farmacologica Analogamente all’Expert Panel of Hyperlipidemia in Children, anche la SINUPE ha raccomandato di utilizzare una terapia farmacologica nei bambini di età superiore ai 10 anni, dopo un adeguato trial (1 anno) di terapia dietetica, se: 1) il colesterolo LDL rimane superiore a 190 mg/dl; 2) il colesterolo LDL rimane superiore a 160 mg/dl e a) vi sia una familiarità per CAD (prima dei 55 anni di età) o b) persistano due o più fattori di ri- Stile di vita Il trattamento medico dell’ipercolesterolemia dovrebbe essere valutato nel contesto degli altri fattori, quali lo stile di vita e le condizioni correlate ai rischi per CAD, come l’inattività fisica, un’eccessiva sedentarietà, il fumo, l’ipertensione, l’obesità e il diabete. Questi dovrebbero essere controllati, ridotti, o se possibile eliminati. I bambini che continuano ad avere un fattore di rischio per la ma- 174 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 175 S. Decarlis, E. Riva schio nel bambino o nell’adolescente dopo energici tentativi di controllarli (diabete, ipertensione, fumo di sigaretta, bassi livelli di colesterolo HDL, obesità severa, inattività fisica). I farmaci che legano gli acidi biliari, o “resine” (colestiramina o colestipol), sono generalmente i farmaci di prima linea per il trattamento dell’ipercolesterolemia nel bambino. I farmaci che legano gli acidi biliari riducono primariamente il colesterolo LDL e non dovrebbero essere prescritti a pazienti con livelli di trigliceridi superiori a 300 mg/dl, poiché esacerbano l’ipertrigliceridemia. Questi composti non assorbibili interrompono il circolo biliare entero-epatico attraverso il legame degli acidi biliari nell’intestino e l’aumento della loro escrezione nelle feci. Da ciò deriva l’utilizzo del colesterolo epatico nella sintesi degli acidi biliari e il secondario aumento dei recettori epatici delle LDL. Come risultato si realizza un aumento della cattura di LDL dal sangue e una riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo LDL. È stata riscontrata una riduzione del 10-20% dei livelli di colesterolo LDL con terapia con colestiramina in bambini con ipercolesterolemia familiare e iperlipidemia familiare combinata. Tuttavia, si è ottenuta una scarsa compliance a lungo termine, a causa del gusto poco gradevole del farmaco e dei disturbi gastrointestinali quali nausea, flatulenza e stitichezza. In alcuni individui può essere tollerata anche una dose piena pari a 0,6 g/kg/die suddivisa ai pasti principali. Queste resine sono farmaci sicuri che non vengono assorbiti a livello sistemico; tuttavia sono insolubili e devono essere sospesi in abbondanti liquidi e sono perciò poco piacevoli da assumere. Vi sono recenti segnalazioni di una migliore compliance e tollerabilità, di minore incidenza di effetti collaterali e di una buona efficacia con dosi inferiori, pari a di 8 g/die, indipendentemente dal peso corporeo. L’utilizzo a lungo termine delle resine a scambio ionico non sembra interferire con crescita e sviluppo puberale; tuttavia vi sono segnalazioni di riduzione dei livelli plasmatici di vitamine liposolubili e di acido folico, di cui sarebbe inibito l’assorbimento intestinale. Recenti osservazioni documentano solo una riduzione dei livelli plasmatici di colecalciferolo (vitamina D) nei bambini in terapia con colestiramina. L’acido folico invece è necessario per il metabolismo dell’aminoacido omocisteina, i cui valori elevati sono un riconosciuto fattore di rischio indipendente per cardiovasculopatia. I bambini ipercolesterolemici in 175 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 176 Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento trattamento con resine a scambio ionico presentano livelli ridotti di folati serici ed elevazione dei valori di omocisteina plasmatica. Le attuali raccomandazioni suggeriscono perciò una supplementazione con acido folico e colecalciferolo in corso di terapia con resine. Gli inibitori della HMG-CoA reduttasi (statine), per quanto non approvati per l’uso nell’infanzia, sono stati utilizzati nei bambini con severa ipercolesterolemia che non tolleravano o non avevano un’adeguata risposta ai farmaci leganti gli acidi biliari. L’HMG-CoA reduttasi è un enzima che catalizza il passaggio limitante la velocità di biosintesi del colesterolo; l’inibizione di questo enzima riduce la sintesi di colesterolo e comporta un aumento dei recettori epatici di LDL. Il Canadian Lovastatin Children Study ha dimostrato una riduzione del 21-36% (risposta dose-correlata) nei livelli di colesterolo LDL nei ragazzi con ipercolesterolemia familiare trattati con 10-40 mg/die di lovastatina. Non sono stati notati effetti collaterali severi nel periodo di follow-up di 8 settimane. I possibili effetti collaterali delle statine includono disturbi gastro-intestinali, cefalea, disturbi del sonno, astenia e algie muscolari o articolari. Sono stati riportati rari casi di severa miopatia e persino rabdomiolisi in alcuni adulti trattati con inibitori della HMG-CoA reduttasi. Il rischio di una severa miopatia può aumentare nei pazienti che assumono alcuni altri farmaci, quali eritromicina, agenti antifungini, agenti immunosoppressivi e derivati del clofibrato, quali il gemfibrozil e la niacina. Le transaminasi epatiche dovrebbero essere monitorate nei pazienti che assumono le statine, ma è raro il riscontro di livelli elevati di transaminasi (superiori a tre volte i livelli normali) nei bambini. Tuttavia, dal momento che gli effetti a lungo termine delle statine rimangono incerti, il rapporto rischio-beneficio dell’uso di questi farmaci nei bambini dovrebbe essere considerato accuratamente. Essi vanno utilizzati con precauzione nelle ragazze con possibile gravidanza, poiché non è possibile escludere l’effetto teratogeno. Anche l’acido nicotinico è frequentemente utilizzato nell’adulto; tuttavia i suoi effetti collaterali (flushing, disturbi gastrointestinali, tossicità epatica) possono precluderne l’utilizzo nei bambini. Il pediatra di famiglia dovrebbe inviare presso centri specializzati tutti i bambini candidati a una terapia farmacologica. Sebbene la terapia farmacologica sia utilizzata comunemente nell’adulto per il trattamento dell’ipertrigliceridemia, è molto meno comunemente utilizzata nel bambino. I punti cardine della terapia 176 1225/01 capitolo 7 29-05-2002 15:16 Pagina 177 S. Decarlis, E. Riva nel bambino con ipertrigliceridemia sono la dieta, l’esercizio fisico e la perdita di peso. Un esperto dovrebbe eseguire un’attenta analisi del rapporto rischiobeneficio dell’uso della terapia farmacologica nei casi di ipertrigliceridemia grave con concomitanti complicazioni mediche. Non ci sono attuali raccomandazioni formali a riguardo della terapia dell’ipertrigliceridemia nell’infanzia. Findings from the PDAY Study. Pathobiological Determinants of Atherosclerosis in Youth (PDAY) Research Group. Natural history of aortic and coronary atherosclerotic lesions in youth. Arterioscler Thromb, 13: 1291-1298, 1993. Goldstein JL, Hobbs HH, Brown MS Familial Hypercholesterolemia. 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Nel corso dell’ultimo secolo molta attenzione è stata riservata alla possibilità di ridurre il livello di colesterolo del plasma attraverso la composizione della dieta. (Hepner et al 1979, Thakur et al 1981). Molto significativi sono, a questo proposito, i risultati delle ricerche di Eyssen del 1973, con la dimostrazione che animali germ-free accumulano nel sangue molto più colesterolo rispetto a quelli convenzionali. Dall’esame della letteratura emergono tuttavia risultati non sempre concordanti, ma questo non va disgiunto dal fatto che i composti ipocolesterolemici possono variare con la tipologia dell’alimento consumato e con le caratteristiche dei ceppi di microrganismi utilizzati nei processi fermentativi. Recentemente, yogurt e altri lattefermentati sono stati indicati come prodotti che contengono sostanze che contribuiscono ad abbassare il livello di colesterolo del siero. Così, ad esempio, un’azione diretta viene attribuita all’acido idrossimetilglutarico e all’acido orotico, mentre l’acido urico, presente nel latte, è stato identificato co- Attività ipocolesterolemiche con yogurt e altri latte-fermentati In questo contesto, diverse ricerche hanno indicato che il livello di colesterolo del siero può essere ridotto con il consumo di latte-fermentati 179 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 180 Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri me inibitore della sintesi del colesterolo (Ward et al 1982). Rimane di fondamentale importanza lo studio che nel 1974 hanno condotto Mann e Spoerry, con l’inequivocabile dimostrazione che il consumo di una buona quantità di latte fermentato da parte delle tribù africane dei Masai costituiva la ragione del mantenimento del loro basso livello di colesterolo del siero. Gli autori citati hanno inoltre rimarcato che questo avviene pur risultando i Masai consumatori di una dieta ricca in carne. Con successivi studi e ricerche viene anche dimostrato, sia per l’uomo che per gli animali, che l’attività ipocolesterolemica è evidente con la somministrazione di latte, ma lo è nettamente di più con il consumo di latte-fermentati, e da questo ne deriva l’indicazione che un fattore ipocolesterolemico è presente tra i metaboliti del processo di fermentazione. Da questo punto di vista, torna utile Tabella 1 Presenza in yogurt di alcuni componenti ad azione ipocolesterolemica. Da Jaspers et al 1984. tenere presente la composizione dello yogurt con differente contenuto di proteine e di carboidrati di partenza, come riportato in Tabella 1. L’acido idrossimetilglutarico si forma durante la fermentazione dello yogurt e secondo Nair e Mann, 1977, potrebbe essere considerato un fattore ipocolesterolemico. L’acido orotico (vitamina B13), che è pirimidina intermediario nella sintesi di acidi nucleici, durante la fermentazione diminuisce per circa il 50-60% (Navder et al 1990) rispetto al valore iniziale del latte e questo viene valutato positivamente perché induce equilibrio tra i fattori ipocolesterolemici; infine, si sottolinea che l’acido urico agisce come inibitore della sintesi del colesterolo (Ward et al 1982). A titolo di esempio, per dimostrare l’effetto ipocolesterolemico in persone adulte, in Tabella 2 vengono riportate le variazioni registrate da Jaspers et al, 1984, che hanno operato con tre tipi di % di nutrienti Acidità Proteine Carboidrati pH % acidità titolabile 4,0 3,8 4,2 6,1 6,4 7,0 4,20 4,34 4,65 * Acido idrossimetilglutarico 180 1,13 1,12 0,90 Concentrazione in ppm di HMG* Acido orotico Acido urico 180 156 115 23,2 17,3 28,2 16,8 15,2 18,2 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 181 V. Bottazzi Tabella 2 Concentrazione di lipidi nel siero di adulti che hanno consumato yogurt. Tabella 3 Concentrazione di lipidi nel siero di topi dopo consumo di yogurt e yogurt+Lactobacillus acidophilus. Tipo di yogurt e giorni di consumo Colesterolo HDL colesterolo LDL colesterolo totale (mg/dl) (mg/dl) (mg/dl) CHI 0 7 14 189 167 178 44 41 43 121 106 115 CHII 0 7 14 182 163 165 48 33 43 113 113 94 SHIII 0 7 14 178 173 156 42 41 42 118 114 95 Indicazioni Colesterolo (mg/dl) HDL colesterolo (mg/dl) LDL colesterolo (mg/dl) Trigliceridi (mg/dl) Controllo 168 54 97 91 Yogurt 157 52 88 87 116 51 47 89 Yogurt+ L. acidophilus yogurt, in quanto preparati con tre differenti colture di batteri lattici classici per produrre yogurt, vale a dire con Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus e Streptococcus thermophilus. L’inclusione di yogurt nella dieta porta, nella prima quindicina di giorni dall’inizio della somministrazione, a una diminuzione del colesterolo dell’ordine del 10-12%, con una tendenza però al rientro, con il prolungamento della somministrazione, ai valori del controllo. Dagli studi di Akalin et al, 1977, emerge però un particolare molto importante, e cioè che il consumo di yogurt supplementato con Lactobacillus acidophilus ha un effetto ipocolesterolemico molto più evidente rispetto allo yogurt normale. Operando con piccoli animali da laboratorio trattati per 56 giorni con yogurt e con yogurt più Lactobacillus 181 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 182 Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri acidophilus, sono stati ottenuti i risul- è sempre presente nel contenuto intestinale dell’uomo e degli animali e diverse sono le dimostrazioni che la sua somministrazione con l’alimento determina abbassamento del contenuto in colesterolo del siero (Grunewald 1982, Gilliland et al 1985, Danielson et al 1989, Buck et al 1994). Lactobacillus acidophilus viene frequentemente utilizzato nella preparazione di latte-fermentati, come acidophilus milk, oppure viene associato a tati riuniti in Tabella 3. Attività ipocolesterolemica con Lactobacillus acidophilus Lactobacillus acidophilus (Fig. 1) è uno dei microrganismi probiotici più importanti del gruppo dei batteri lattici, Figura 1 Ceppo di Lactobacillus acidophilus isolato da latte-fermentato probiotico. 182 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 183 V. Bottazzi Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus e Streptococcus thermophilus per ottenere un fermentato con an- 37°C (Buck et al 1994). Ugualmente, differenze esistono per quanto riguarda la tollerabilità verso i sali di bile. Vi sono ceppi che impiegano solamente due ore per aumentare in brodo colturale il valore di densità ottica di 0,3, quando altri, nelle stesse condizioni, impiegano anche sette ore. La tolleranza ai sali di bile, l’abilità a deconiugare i sali di bile e ad assimilare il colesterolo, come riportato in Tabella 4, possono variamente proporzionarsi in singoli differenti ceppi e assumere caratteristiche aggiuntive a quelle di specie. Sulla base anche di queste conoscenze, si effettua quindi la scelta dei ceppi quando si intende impiegarli come adiuvanti della dieta con attività ipocolesterolemica. In merito alla capacità di assimilare il colesterolo da parte di Lactobacillus acidophilus vi è ancora, a livello interpretativo, discussione, e Klaver e Van der Meer, 1993, ad esempio, sostengono che l’apparente assimilazione del cole- cora più elevate proprietà probiotiche. È però da osservare che non tutti i ceppi di Lactobacillus acidophilus risultano a questo riguardo sufficientemente attivi. Allo scopo della loro utilizzazione in alimentazione umana diventa fondamentale procedere a un accurato accertamento delle loro proprietà probiotiche. Con Lactobacillus acidophilus l’attività ipocolesterolemica viene valutata non solamente in funzione della produzione di acido idrossimetilglutarico o per la capacità di abbassare la quantità di acido orotico presente nel latte, ma anche per la capacità di assimilare il colesterolo, nonché per l’abilità a deconiugare i sali biliari e per la tolleranza verso i sali di bile. Da prove di laboratorio emerge che la quantità di colesterolo assimilato varia, a seconda del ceppo, da 83,3 a 20,5 µg/ml per 24 ore di sviluppo a Tabella 4 Caratteristiche di ceppi di Lactobacillus acidophilus con attività ipocolesterolemiche. Indicazione Quantità di Grado di Deconiugazione di ceppo colesterolo assimilato tolleranza verso dei sali di bile µg/ml in 24 ore a 37° i sali di bile µmole/ml K4 83,3 2,6 1,2 K2 53,0 2,0 1,1 K7 20,5 2,2 0,4 183 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 184 Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri Attività ipocolesterolemica con Lactobacillus casei, Lactobacillus reuteri e Lactobacillus gasseri sterolo sia invece dovuta all’abilità del microrganismo nel deconiugare i sali di bile. Gli autori citati sostengono, sulla base di esami di laboratorio, che il colesterolo non viene assimilato, bensì precipitato in presenza di sali di bile liberati per deconiugazione. Contemporaneamente, altri studiosi (Walker et al 1993) hanno però dimostrato che non esiste relazione significativa tra assimilazione del colesterolo e deconiugazione dei sali di bile. In aggiunta a quanto sin qui richiamato, si segnala che già nel 1986 Bottazzi et al dimostrano assimilazione di colesterolo da parte di Lactobacillus acidophilus e nel 1997 questa possibilità viene nuovamente confermata da Noh et al. Infine può essere ancora sottolineato che un forte effetto ipocolesterolemico con Lactobacillus acidophilus è stato dimostrato da Zacconi et al, 1992, operando con animali da laboratorio axenici, e poco tempo dopo De Rodas et al, dopo aver aumentato in suini il contenuto in colesterolo del siero con una dieta ricca di burro e di colesterolo cristallino, portandolo da 84,5 a 294,6 mg/dl, riescono a riportarlo a valori tra 100 e 150, a seconda dei soggetti, con la somministrazione per quindici giorni consecutivi di cellule di Lactobacillus acidophilus. Lactobacillus casei è un tipico mi- crorganismo probiotico che partecipa al processo per la riduzione del colesterolo nel sangue. Nell’esplicare quest’attività ipocolesterolemica, segue una via diversa da quella preferenziale prima vista per Lactobacillus acidophilus. L’assimilazione del colesterolo da parte di Lactobacillus casei è, si può dire, minima, mentre è molto forte la deconiugazione dei sali di bile, e per massimizzare la potenzialità nel ridurre la concentrazione del colesterolo del siero si selezionano i ceppi adiuvanti alimentari in funzione di questo carattere (Brashears et al 1998). L’attività ipocolesterolemica è nel complesso in funzione di una destabilizzazione delle micelle di colesterolo e di una coprecipitazione del colesterolo con i sali di bile deconiugati a pH inferiore a 6,0. Lactobacillus reuteri (Fig. 2) è un microrganismo di origine enterica che negli ultimi tempi ha molto attirato l’attenzione degli studiosi, in particolare per la sua alta resistenza sia al basso valore 184 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 185 V. Bottazzi Figura 2 Ceppo di Lactobacillus reuteri isolato da lattefermentato probiotico. del pH del succo gastrico (si conoscono ceppi che diminuiscono solamente di 2 unità log dopo permanenza per 24 ore a pH 2,0), che alla presenza dei sali di bile. La sua origine intestinale si collega con l’elevata tolleranza all’ambiente acido e alla bile, che rappresentano le barriere naturali all’entrata di microbiota esogeni nel tratto gastrointestinale. La somministrazione di Lactobacillus reuteri si traduce in una buona attività ipocolesterolemica e secondo Taranto et al, 2000, si può configurare con gli elementi che seguono: piccoli animali da laboratorio sono stati divisi in due gruppi, poi la dieta di uno di questi è stata arricchita di cellule di Lactobacillus reuteri e dopo sette giorni si è passati a supplementare in modo uguale le diete dei due gruppi con grassi, e questo allo scopo di raggiungere una condizione ipercolesterolemica; il risultato è stato che con il gruppo senza Lactobacillus reuteri l’aumento di colesterolo nel siero è stato 185 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 186 Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri dell’82%, mentre con il gruppo con Lactobacillus reuteri è stato del 38%. Questi risultati indicano chiaramente che Lactobacillus reuteri può agire efficacemente come profilattico adiuvante della dieta con effetto ipocolesterolemico. Un altro aspetto positivo legato a Lactobacillus reuteri è rappresentato dal fatto che esso agisce a dosi di aggiunta alla dieta veramente basse. Con Lactobacillus acidophilus, per ottenere un effetto positivo occorre somministrare 10 8-10 9 cellule vive al giorno (Speck 1976), con Lactobacillus reuteri ne sono sufficienti 104 al giorno. Ancora un’altra specie, e cioè Lactobacillus gasseri, di habitat enterico, è interessata ad abbassare il tenore di colesterolo (Usman, Hosono 1999). La deconiugazione di sodio taurocolato e la capacità di assimilare il colesterolo, come è stato recentemente dimostrato da ricercatori giapponesi (sono proprietà possedute da Lactobacillus gasseri. tato filante, ottenuto per intervento di streptococchi lattici mesofili, al quale vengono attribuite diverse attività benefiche. Fra queste, attenzione è stata riservata alla possibilità di manifestare influenza positiva nell’abbassare il colesterolo del siero. Ancora oggi, scarse sono le conoscenze sulla composizione del polisaccaride-proteine responsabile del filante, come pure scarse sono quelle sugli effetti fisiologici del latte-filante. Forsen et al, 1987, hanno attirato l’attenzione sull’attività immunostimolante e Nakajima et al, 1992, su quella ipocolesterolemica. In effetti, latte fermentato filante prodotto con Lactococcus lactis subsp. cremoris somministrato a ratti con una dieta ipercolesterolemica, ha un effetto ipocolesterolemico evidente già dopo tre giorni a partire dall’inizio del trattamento. Attività ipocolesterolemica con Bifidobacterium spp. Attività ipocolesterolemica con Lactococcus lactis subsp. cremoris Nel metabolismo del colesterolo, l’influenza dell’idrolisi dei sali di bile merita, come visto, larga attenzione, e negli ultimi anni è stato accertato che l’apporto che può dare il gruppo dei bifidobatteri (Fig. 3) è di grande interesse. Nel Nord Europa, e in particolare in Finlandia, vi è consumo di latte fermen- 186 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 187 V. Bottazzi Figura 3 Ceppo di Bifidobacterium isolato da lattefermentato probiotico. Nel 1999, uno screening per l’attività idrolasica su sali di bile, condotto da Tanaka et al, ha messo in evidenza che essa è comune per Bifidobacterium e Lactobacillus , mentre è assente in Lactococcus lactis, Leuconostoc mesenteroides e Streptococcus thermophilus . In generale i bifidobatteri hanno un’attività deconiugante i sali biliari superiore a quella dei membri del genere Lactobacillus; la differenza risulta anche di dieci volte a favore dei bifidobatteri. Vi sono inoltre, come dimostrato in Figura 4, differenze tra ceppi della stessa specie di bifidobatteri. È interessante, nello stesso tempo, sottolineare che la deconiugazione dei sali di bile è proprietà di quei ceppi di bifidobatteri che sono stati isolati dal contenuto intestinale o dalle feci di mammiferi che notoriamente sono ricchi di sali di bile coniugati e non coniugati. Ceppi di bifidobatteri delle stesse specie isolati da habitat diversi, vale a dire da ambienti senza sali di bile, non hanno l’attività idrolasica indicata. Della capacità a deconiugare i sali di bile da parte di bifidobatteri, parlarono già nel 1980 Ferrari et al, e nel 1995 Grill et al fornivano caratterizzazione dell’enzima specifico che interviene nel processo idrolitico. 187 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 188 Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri 12 10 BSH attività (unità/mg) Distribuzione dell’idrolasi (BSH) per sali di bile per differenti ceppi di bifidobatteri. Da Tanaka et al 1999. 8 6 4 2 0 B.l. = Bifidobacterium longum B.bi. = Bifidobacterium bifidum B.br. = Bifidobacterium breve ............................... Figura 4 B.I. B.bi. Oggi si ritiene (Thari et al 1996) che la rimozione del colesterolo con ceppi di Bifidobacterium fatti sviluppare in substrato liquido contenente bile, sia dovuta probabilmente alla contemporanea coprecipitazione con sali di bile deconiugati, e ad assimilazione durante lo sviluppo cellulare. Recentemente, Kociubinski et al, 1999, hanno mostrato, attraverso osservazioni al microscopio ottico e a quello elettronico a scansione, che con lo sviluppo su TPY-bile agar di Bifidobacterium pseudolongum si formano dei precipitati cristallini che contengono colesterolo. Con l’osservazione al microscopio elettronico a scansione della Figura 5, si vede a fianco dei batteri lattici un cri- B.br stallo a morfologia laminare che è tipico per colesterolo. Dei ceppi che sono stati controllati, il 55,6% mostra la formazione del precipitato cristallino, mentre lo stesso non è mai stato osservato con ceppi del genere Lactobacillus. Altre specie di bifidobatteri capaci di produrre il cristallo sono Bifidobacterium breve, Bifidobacterium infantis e Bifidobacterium animalis. Il cristallo che si forma è dato da più composti, e fra questi il colesterolo non rappresenta la parte più importante, ma ciò non toglie nulla al fatto che questa non sia una via per arrivare alla diminuzione del colesterolo, e quindi per avere un effetto ipocolesterolemico con l’alimentazione integrata con appropriati microrganismi probiotici. 188 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 189 V. Bottazzi Figura 5 Precipitato cristallino contenente colesterolo ottenuto con lo sviluppo su TPY-bile agar di Bifidobacterium pseudolongum osservato al microscopio elettronico a scansione. Da Kociubinski et al 1999. ottiene sia il frutto di un rapporto simbiotico che si stabilisce tra la microflora probiotica somministrata con la dieta e la microflora autoctona esistente a livello della porzione intestinale ciecale. Più recentemente, sempre Fukoshima et al (1999), hanno ulteriormente approfondito questo aspetto, e collegano l’effetto positivo con l’aumento di acidi grassi a corta catena liberati dalla microflora ciecale ricomposta. Quando aumenta la produzione di acidi grassi a corta catena, diminuisce anche il contenuto in colesterolo del fegato. La miscela di microrganismi utilizzata dai ricercatori giapponesi citati, era Attività ipocolesterolemica con la miscela di microrganismi probiotici Alcuni anni or sono, Fukushima e Nakano (1996), riferivano che una miscela di microrganismi è efficacemente in grado di abbassare nel siero sia la concentrazione del colesterolo, che di idrossi-3-metilglutarile-CoA riduttasi, e di determinare contemporaneamente un aumento di colesterolo e di acidi biliari nelle feci di piccoli animali di laboratorio. Si considera che il risultato che si 189 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 190 Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri data da batteri lattici, lieviti e germi sporigeni, con la partecipazione delle specie indicate in Tabella 5 e con l’assenza di rappresentanti del gruppo bifidobatteri. delbrueckii subsp. bulgaricus e di Streptococcus thermophilus, l’effetto viene attribuito alla formazione, durante la fermentazione di acido idrossimetilglutarico e alla sua messa in equilibrio con acido orotico, che viene diminuito durante la fermentazione lattica, e con acido urico. Con Lactobacillus acidophilus , largamente conosciuto come tipica specie probiotica, emerge la capacità a potere direttamente, durante lo sviluppo, assimilare il colesterolo, con la contemporanea deconiugazione dei sali biliari. Quindi l’attività ipocolesterolemica attribuita a Lactobacillus acidophilus è frutto delle due vie indicate, mentre per Lactobacillus casei è solamente in funzione della destabilizzazione delle micelle di colesterolo e di una coprecipitazione del colesterolo con i sali di bile deconiugati. Con la stessa via metabolica sem- Conclusioni Molti sono gli elementi a dimostrazione e quindi a sostegno che i lattefermentati, con il capostipite yogurt, e in particolare i microrganismi probiotici, spesso direttamente interessati alla conduzione dei processi fermentativi del latte, hanno proprietà specifiche per potere esercitare attività ipocolesterolemiche. Gli effetti ipocolesterolemici sono dovuti a diversi meccanismi, che possono trovare elencazione nel modo che segue. Con il consumo di yogurt e quindi con la partecipazione di Lactobacillus Tabella 5 Microrganismi che hanno contribuito alla formazione delle miscele. Da Fukushima et al 1999. Microrganismi sporigeni Batteri lattici Lieviti Bacillus subtilis Lactobacillus acidophilus Saccharomyces cerevisiae Bacillus megaterium Lactobacillus casei Candida utilis Bacillus thermophilus Lactobacillus plantarum Bacillus natto Lactococcus lactis Clostridium butyricum Streptococcus thermophilus e in aggiunta Enterococcus faecalis 190 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 191 V. Bottazzi bra agire Lactobacillus reuteri, che è da considerarsi specie enterica probiotica di grande interesse. Per Lactobacillus gasseri, la deconiugazione degli acidi biliari e la capacità di assimilare il colesterolo sono proprietà di specie recentemente dimostrate e interessanti per una specie decisamente enterica. Un’azione ipocolesterolemica è stata dimostrata anche con Lactococcus lactis subsp. cremoris utilizzato nella preparazione di latte filante. Parecchi membri del gruppo bifidobatteri hanno un’attività deconiugante i sali biliari nettamente superiore a quella accertata per Lactobacillus ; inoltre, con lo sviluppo di bifidobatteri si formano precipitati cristallini che contengono colesterolo. Questa proprietà non è di contro posseduta dai batteri lattici. Le specie più attive sono Bifidobacterium presudolongum , Bifido- bacterium breve, Bifidobacterium infantis e Bifidobacterium animalis. Infine è stato richiamato che, con un’associazione di microrganismi, l’attività ipocolesterolemica è accompagnata da un aumento della produzione di acidi grassi a corta catena e dalla diminuzione del colesterolo del fegato. Batteri lattici e bifidobatteri sono normali componenti della microflora intestinale dell’uomo e trovano associazione con la dieta per il mantenimento dello stato di salute e gli effetti promozionali, come visto, arrivano anche al controllo dei rischi legati a ipercolesterolemia. Probabilmente l’effetto positivo che si ottiene con questi gruppi di microrganismi è dovuto al contemporaneo intervento di più meccanismi, e la conoscenza di questi si pone alla base per la scelta dei ceppi da utilizzare come adiuvanti della dieta per raggiungere un risultato ipocolesterolemico. 191 1225/01 capitolo 8 29-05-2002 15:15 Pagina 192 Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri Riferimenti bibliografici Fukushima M, Nakano M Effects of a mixture of organisms, Lactobacillus acidophilus or Streptococcus faecalis on cholesterol metabolism in rats fed on a fat-and cholesterol-enriched diet. Br J Nutr, 76: 857, 1996. Akalin AS, Gonc S, Duzel S Influence of yogurt and acidophilus yogurt on serum cholesterol levels in mice. J Dairy Sci, 80: 2721, 1997. Fukushima M, Sumic Doi, Tetsu Ohashi, Tsuyoshi Endo, Hidetoshi Saitoh, Masuo Nakano A mixture of organism affects cholesterol metabolism together with rat cecal flora. Biosci Biotechnol Biochem, 63: 1160, 1999. 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