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TEMI
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DELLA
NUTRIZIONE
Alterazioni
metaboliche lipidiche
Prevenzione multifattoriale
dell’arteriosclerosi e controllo
delle dislipidemie
A cura di
Alberto Notarbartolo
Professore Ordinario. Direttore Dipartimento di Medicina
Clinica e Patologie Emergenti. Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Con la collaborazione di
Maurizio Averna, Carlo Maria Barbagallo, Vittorio Bottazzi,
Angelo Cefalù, Silvia Decarlis, Lorena Fusaro, Ermanno
Lanzola, Alberto Lombardi, Davide Noto, Francesco Polizzi,
Enrica Riva, Gabriele Scalisi, Jacopo Tagliabue, Carlo Vergani
ISTITUTO DANONE
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ISTITUTO DANONE
P ER
LA
R ICERCA
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C ULTURA
M O T I VA Z I O N I
DELLA
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N UTRIZIONE
OBIETTIVI
anone è una società multinazionale operante nel settore alimentare. La sua “mission”
istituzionale è quella di migliorare l’alimentazione umana, sia con prodotti di alta qualità
ed elevato valore nutrizionale, sia con iniziative di ricerca e di divulgazione scientifica. In quest’ottica ha deciso di destinare risorse alla ricerca e alla cultura della nutrizione, dando vita
all’Istituto Danone.
D
L’Istituto Danone si prefigge di:
Incoraggiare la ricerca scientifica sul rapporto tra alimentazione e salute
Promuovere una corretta educazione alimentare
Diffondere i risultati della ricerca nutrizionale presso gli operatori della salute e dell’educazione alimentare
Costituire un anello di giunzione tra il mondo scientifico e gli operatori della salute e
dell’educazione alimentare
Gli obiettivi dell’Istituto Danone sono quindi:
Conoscere – attraverso la promozione di ricerche, proprie o di terzi, nel settore nutrizionale
Far conoscere – attraverso attività editoriali e congressuali mirate a diffondere la cultura
della nutrizione
Per adempiere a questa missione, l’Istituto Danone si avvale di un Comitato Scientifico
che rappresenta l’elemento propositivo, la fonte delle conoscenze e il garante della scientificità di tutte le attività dell’Istituto stesso. A far parte di questo Comitato sono stati chiamati,
tra i massimi esperti nazionali dei vari settori della nutrizione umana, i professori Marcello
Giovannini (Presidente), Ermanno Lanzola e Carlo Vergani (Vicepresidenti), Vittorio Bottazzi,
Michele O. Carruba, Alberto Notarbartolo, Gianfranco Piva, Pierpaolo Resmini ed Enrica Riva.
Sede Istituto Danone: Via Alserio, 10 – 20159 Milano
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DELLA
NUTRIZIONE
Alterazioni metaboliche lipidiche
Prevenzione multifattoriale dell’arteriosclerosi
e controllo delle dislipidemie
A cura di
Alberto Notarbartolo
Professore Ordinario. Direttore Dipartimento di Medicina
Clinica e Patologie Emergenti. Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Con la collaborazione di
Maurizio Averna
Alberto Lombardi
Professore Associato di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Specialista in Geriatria
Cattedra di Gerontologia e Geriatria
Università degli Studi di Milano
Carlo Maria Barbagallo
Ricercatore Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Vittorio Bottazzi
Direttore Istituto di Microbiologia
e Centro Ricerche Biotecnologiche
Università Cattolica
di Piacenza e Cremona
Angelo Cefalù
Dottorando di Ricerca
Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Silvia Decarlis
Specialista in Pediatria
Clinica Pediatrica
Ospedale San Paolo
Università degli Studi di Milano
Lorena Fusaro
Specialista in Geriatria
Cattedra di Gerontologia e Geriatria
Università degli Studi di Milano
Davide Noto
Assistente Divisione di Medicina Interna
Dottorando di Ricerca
Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Francesco Polizzi
Assistente Divisione di Medicina Interna
Dottorando di Ricerca
Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Enrica Riva
Direttore Cattedra di Neonatologia
e Patologia Neonatale
Ospedale San Paolo
Università degli Studi di Milano
Gabriele Scalisi
Assistente Divisione di Medicina Interna
Dottorando di Ricerca
Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Jacopo Tagliabue
Specialista in Geriatria
Cattedra di Gerontologia e Geriatria
Università degli Studi di Milano
Ermanno Lanzola
Carlo Vergani
Già Direttore del Centro Ricerche
sulla Nutrizione Umana e la Dietetica
Università degli Studi di Pavia
Direttore Cattedra
di Gerontologia e Geriatria
Università degli Studi di Milano
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Supplemento a “Lettera dell’Istituto Danone - ITEMS NEWS”
Direttore Scientifico: Marcello Giovannini
Comitato di Redazione: Vittorio Bottazzi, Michele O. Carruba, Ermanno Lanzola, Alberto Notarbartolo,
Gianfranco Piva, Pierpaolo Resmini, Enrica Riva, Carlo Vergani
Segreteria Scientifica: Carlo Agostoni, Arturo Della Torre
Direttore Responsabile: Marcello Giovannini
Editore e Redazione: Élite Communication Srl - Via Morimondo 2/5 - 20143 Milano
Registrazione del Tribunale di Milano n. 567 del 17.09.1999
Tutti i diritti riservati
Nessuna parte può essere riprodotta senza l’autorizzazione scritta dell’Editore
Finito di stampare nel mese di Aprile 2002
Stamperia Artistica Nazionale - Torino
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ndice
Introduzione
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A. Notarbartolo
L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
al paziente con patologie metaboliche aterogene
23
C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi
Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
85
E. Lanzola
Stress ossidativo e antiossidanti naturali
111
M. Averna, C.M. Barbagallo, A. Cefalù, D. Noto
Alimentazione e geni
121
M. Averna, A. Cefalù, A. Notarbartolo, D. Noto
La genetica delle iperlipidemie
135
M. Averna, A. Cefalù, D. Noto
Le ipoalfalipoproteinemie
149
L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani
Alterazioni lipidiche in età pediatrica:
diagnosi, Linee Guida e trattamento
161
S. Decarlis, E. Riva
Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri
V. Bottazzi
3
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ntroduzione
A. Notarbartolo
È passato molto tempo dalle osservazioni di Anitschkow, che nel 1913 gli
fecero pronunziare la frase: “non ci può
essere ateroma senza colesterolo”; durante i successivi novant’anni su questo
problema ci sono state infinite discussioni e spaventose dispute, che si sono
rivelate stimolanti ma in gran parte sterili. Difatti i risultati dei recenti trial di
prevenzione primaria e secondaria hanno dimostrato in modo inequivocabile
che la riduzione del colesterolo plasmatico riduce la mortalità e morbosità coronarica del 30-40%, sia in soggetti
con pregressa coronaropatia che in
soggetti a rischio, utilizzando consigli
alimentari, farmaci o entrambi. In questa introduzione, pertanto, io farò una
breve storia di questo lungo percorso,
accidentato, ma ricco di risultati clinici
attuali e di promesse di nuove scoperte
biologiche future.
Nel 1948 a Framingham, piccola
cittadina a ovest di Boston, iniziò un incredibile studio epidemiologico i cui ri-
sultati sono a tutti noti, che dura tuttora
e che ha coinvolto 2/3 della popolazione costituita da americani di ceppo italiano e irlandese. Questo studio ha contribuito a stabilire l’esistenza di una correlazione diretta tra mortalità coronarica
e LDL-colesterolo (LDL-C) e inversa
con l’HDL-C, che ha un effetto protettivo antiaterosclerotico, ed è attualmente
la base su cui sono state costruite le Linee Guida di prevenzione cardiovascolare più diffuse nel mondo. In un capitolo
apposito Carlo Barbagallo discuterà a
fondo delle Linee Guida e della loro utilizzazione. Il colesterolo è stato citato
come la “molecola più decorata in biologia”, poiché ben 13 premi Nobel, a
iniziare dal 1928, se ne sono occupati,
e in particolare M. Brown e J. Goldstein, a cui si deve la scoperta che il difetto del catabolismo delle LDL, che fa
aumentare in modo drammatico il colesterolo nel sangue, è dovuto a un’alterazione specifica dei recettori per le
LDL sulla superficie cellulare dei pazien-
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Introduzione
ti affetti da ipercolesterolemia familiare.
Ma l’equazione “abbassare la colesterolemia per ridurre morbosità e mortalità coronarica” era altamente contestata nei primi anni settanta e ottanta.
Nel 1975 furono pubblicati i risultati
del Coronary Drug Project (CDP) su
JAMA: questo studio aveva tentato di
stabilire se in pazienti coronaropatici la
somministrazione di clofibrato in una
coorte di pazienti e di acido nicotinico
nell’altro braccio per 5 anni fosse in
grado, rispetto al trattamento convenzionale, di ridurre l’incidenza di nuovi
eventi. Purtroppo i risultati immediati furono deludenti, e solo a distanza di 12
anni si constatò una piccola ma significativa riduzione della mortalità coronarica nei pazienti che erano stati trattati
con acido nicotinico.
Nel 1978 furono pubblicati sul Br
Heart J i risultati del primo studio di
prevenzione primaria con clofibrato, che
dimostravano un’importante riduzione
degli eventi non fatali coronarici; ma il
farmaco, come ricorderanno i più anziani fra i lettori, dava notevoli disturbi gastrointestinali e calcoli colecistici, e
un’analisi dei risultati dopo 9 anni di
monitorraggio della casistica trattata dimostrò un aumento del 25% della mortalità totale nei trattati: questa fu una
sentenza di morte per il clofibrato, ma
anche un grave arresto lungo la strada
della dimostrazione della giustezza
dell’“ipotesi lipidica” dell’aterosclerosi e
dei vantaggi per i pazienti derivanti
dall’intervento sull’alterato pattern metabolico lipidico.
Dunque agli inizi degli anni ottanta i
nemici dell’“ipotesi lipidica” trionfavano
e non sembrava che si muovesse nulla
per la prevenzione dell’aterosclerosi;
quella che era stata definita l’epidemia
del XX secolo, l’aumento della mortalità
coronarica verificatasi nei paesi altamente industrializzati negli anni cinquanta-sessanta e settanta, era stazionaria o tendeva a ridursi lentamente; si
avvertivano i benefici della diffusione,
nei paesi con SSN più ricco di risorse,
delle unità di cura intensiva cardiologica, ma l’incidenza di episodi non fatali
di cardiopatia ischemica era sempre
elevata.
La decade compresa tra il 1980 e il
1990 era tuttavia densa di avvenimenti
importanti e di risultati promettenti. Nel
1981 veniva pubblicato l’Oslo Diet
Heart Study condotto per 5 anni su
soggetti maschi norvegesi sani; era uno
studio di prevenzione primaria le cui misure fondamentali erano costituite da
una riduzione del fumo (45% in meno)
e del contenuto di grassi saturi e di colesterolo della dieta (con un calo del
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A. Notarbartolo
13% della colesterolemia media totale).
Il risultato, 45% in meno di eventi coronarici, non era chiaro tuttavia se fosse
dovuto alla riduzione del fumo o a quella della colesterolemia. In realtà, come
è stato dimostrato a Framingham proprio in quegli anni, quando i fattori di rischio coronarico si sovrappongono nello
stesso soggetto, aumentano in senso
geometrico la loro capacità aterogena;
se un soggetto con colesterolemia di
200 mg/dl ha un rischio relativo (RR) di
cardiopatia ischemica di 1, un soggetto
con 260 mg/dl ha un RR raddoppiato,
ma se interviene un secondo fattore di
rischio il RR aumenta di 7-8 volte, e così via. Pertanto i vantaggi della contemporanea, stabile eliminazione per molti
anni di 2 o 3 fattori di rischio induce
una riduzione drammatica degli eventi,
laddove l’eliminazione di un solo fattore
di rischio ha un effetto modesto. In
realtà, tornando all’Oslo Diet Heart
Study, due più piccoli studi, e cioè il
Los Angeles VA (Veterans Administration) condotto su reduci americani dalla
guerra, e il London MRC con olio di
soia, avevano ottenuto, riducendo i
grassi saturi della dieta e sostituendoli
con soia o grassi polinsaturi, un effetto
benefico sulla colesterolemia. Tutti questi tentativi di indurre una riduzione della
colesterolemia manipolando le abitudini
alimentari di soggetti a rischio, prendevano spunto dalle osservazioni epidemiologiche del Seven Countries Study
condotte per un ventennio da Ancel
Keys e altri ricercatori, tra cui l’italiano
A. Menotti, in gruppi di popolazione di
tutto il mondo. Esse avevano evidenziato a 10 anni un’alta mortalità coronarica
in popolazioni occidentali, USA, Finlandia, Europa del Nord, che avevano un
alto consumo di grassi saturi e un’elevata colesterolemia, rispetto a popolazioni mediterranee del Sud Europa, che
fanno largo uso di olio d’oliva e vegetali
o legumi, o addirittura giapponesi, che
hanno una dieta a base di pesce, riso e
soia, e hanno valori di colesterolo sierico inferiori di circa 1/3 e una mortalità
coronarica altrettanto più bassa, del
50-80%.
Queste evidenze scientifiche non
furono tradotte in quel periodo in campagne nazionali di miglioramento della
qualità dell’alimentazione né in un interesse particolare da parte dei medici di
medicina generale affaccendati nella
routine quotidiana, o dei cardiologi interamente concentrati sull’aspetto tecnicistico e interventistico della loro pratica. Tuttavia in Finlandia, nel North Karelia, regione in cui la mortalità coronarica era particolarmente elevata, le autorità locali, motivate dai risultati di que-
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Introduzione
sti studi, decisero di intervenire sulla
salute pubblica incoraggiando l’abbandono dell’abitudine al fumo e introducendo variazioni alimentari, negli anni
tra il 1972 e il 1992. I cambiamenti
della dieta consistettero fondamentalmente nella sostituzione del burro con
margarine vegetali, nell’uso di latte parzialmente scremato rispetto al latte intero, di olio di semi di ravizzone (l’unico
prodotto nel paese) per motivi economici come condimento al posto di altri
grassi saturi, carne di maiale magro al
posto delle carni grasse; inoltre il consumo di frutta fresca e vegetali triplicò.
Il risultato di questi sforzi è che la mortalità cardiovascolare si è ridotta del
70% nel North Karelia; ma anche quella da tumori è ridotta del 45% e del
48% la mortalità generale. Come succede sempre quando si inducono importanti cambiamenti dello stile di vita,
si sono avvantaggiati soprattutto donne
e uomini giovani, mentre nei soggetti
nel range d’età tra 65 e 74 anni la mortalità si ridusse meno, probabilmente
perché gli anziani sono meno propensi
a cambiare abitudini inveterate.
Bisogna dire che le autorità sanitarie finlandesi si dedicarono, spinte dall’alta mortalità cardiovascolare e generale della loro regione, a campagne
pubbliche di stimolo sulla popolazione,
condotte da leader locali o internazionali
stimati, a monitorare i supermercati e
l’industria alimentare, a diffondere i
consigli fin nei più piccoli villaggi, organizzando gare rivolte a premiare coloro
che raggiungevano il valore più basso
del colesterolo. Comunque questi metodi innovativi hanno dato il loro frutto, e
questi risultati restano unici nella storia
mondiale della sanità pubblica.
Sul versante farmacologico il decennio compreso tra il 1980 e il 1990
fu particolarmente proficuo.
Due grandi trial randomizzati e controllati con placebo (RCT) videro la luce:
il Lipid Research Clinics Primary Prevention Trial con colestiramina, pubblicato nel 1984, e l’Helsinki Heart Study
con gemfibrozil, pubblicato nel 1987. Il
primo, su gruppi di popolazione maschile seguita per 5 anni nelle cliniche dei
lipidi presenti su tutto il territorio nordamericano, documentò una riduzione
degli eventi coronarici del 19% di contro a una riduzione media di colesterolo
di 20 mg circa; il secondo, su una popolazione maschile finlandese seguita
per 5 anni, documentò una riduzione
degli eventi coronarici non mortali superiore al 30%, in seguito a una modesta
diminuzione del colesterolo totale, ma
una spiccata riduzione dei trigliceridi circolanti e un significativo aumento del-
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Tabella 1
Riduzione di LDL-C
Correlazione tra la % di
riduzione di LDL-C e la %
di riduzione del rischio
di CHD nel LRC-CPPT.
Riduzione del rischio di CHD
11%
19%
35%
49%
l’HDL-C. Anche per questi RCT arrivarono le critiche soprattutto dei cardiologi. Per quello condotto con colestiramina il risultato sembrò modesto e clinicamente irrilevante, ma un’attenta lettura
dei dati mostra che nei pazienti aderenti
alla terapia, a una buona riduzione dei
valori basali di colesterolemia corrispondeva una caduta degli eventi coronarici
del 40%, molto più elevata rispetto a
coloro che non rispettavano le dosi di
farmaco suggerite e in cui la riduzione
modesta degli eventi corrispondeva a
un modesto abbassamento del loro colesterolo sierico (Tab. 1); questa è la dimostrazione che riduzione di LDL-colesterolo (LDL-C) circolante e calo degli
eventi coronarici vanno di pari passo, e
il primo è direttamente causa del secondo, come era stato dimostrato negli
studi sugli animali da esperimento e in
quelli osservazionali epidemiologici.
Per l’HHS condotto in Finlandia,
sorsero problemi circa la sicurezza dei
fibrati, come era già successo con il clofibrato, perché c’era stato un eccesso di
mortalità generale nel gruppo farmaco,
7-8 casi, rispetto al placebo, un paio di
casi, che dopo anni si scoprì essere dovuto a cause del tutto accidentali (incidenti di macchina, alcolismo, suicidi).
Ulteriori prove dell’utilità di ridurre i
valori di LDL-C provengono da uno studio particolarissimo condotto da Henry
Buchwald e pubblicato definitivamente
nel 1990, che seguì oltre 800 soggetti
con pregresso infarto del miocardio, divisi in una metà seguita attentamente
con la dieta, e l’altra sottoposta a bypass ileale parziale allo scopo di ridurre
meccanicamente l’assorbimento intestinale di colesterolo: lo studio venne denominato POSCH, acronimo di Program
On the Surgical Control of Hyperlipidemia.
Lo studio era stato disegnato allo
scopo di dimostrare se una stabile riduzione del colesterolo sierico, senza alcun intervento farmacologico, fosse in
grado di indurre regressione o comunque rallentare la progressione delle
placche coronariche, studiate con un sistema computerizzato angiografico in
grado di calcolare su tutto l’albero coronarico visualizzato l’entità e il numero
delle lesioni e le loro modificazioni dopo
riduzione della colesterolemia. Il POSCH
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non solo dimostrò che la riduzione della
colesterolemia induceva uno stop alla
progressione della malattia ateromasica,
ma anche che il numero di nuovi eventi
coronarici nei soggetti operati era nettamente inferiore a quello dei soggetti seguiti solo con la dieta, e che ciò non era
mediato da un farmaco. In quegli anni
gli studi di progressione/regressione
dell’aterosclerosi coronarica divennero
frequenti: il bersaglio per i cardiologi che
facevano queste ricerche era terribilmente allettante perché potevano toccare con mano i benefici di una terapia,
utilizzando una delle tecniche da loro
adorate! Furono così ultimati gli studi
CLAS (1987), che utilizzò colestiramina
e acido nicotinico, e quello NHLBI tipo
II, entrambi favorevoli al trattamento:
essi fecero da alfieri a una decina e più
di studi successivi che utilizzarono i farmaci precedenti, più recentemente anche i fibrati, e associazioni con le statine, che avevano visto la luce alla fine
degli anni ottanta e di cui adesso diremo, e perfino le variazioni drastiche dello stile di vita come nel Lifestyle Study,
in cui l’eliminazione del fumo, un regime
alimentare tendenzialmente vegetariano
e un’intensa attività fisica indussero in
un gruppetto di pazienti in poco più di
un anno delle visibili riduzioni dell’entità
delle lesioni coronariche.
Facendo una metanalisi dei risultati
degli studi di regressione dell’aterosclerosi coronarica, era anche evidente che
se ogni studio aveva una casistica insufficiente, combinando gli eventi verificatisi
in tutti gli studi, il trattamento ipocolesterolemizzante riduceva in modo netto tra il
30 e il 40% le recidive fatali e non fatali
di cardiopatia ischemica. I cardiologi
dunque cominciavano a cambiare parere, e nei grandi paesi occidentali, in testa
gli Stati Uniti d’America, ma anche
nell’Europa occidentale, Italia inclusa,
cominciavano campagne dietetiche e
sullo stile di vita, perché nel frattempo
l’industria alimentare aveva confezionato
tutta una serie di cibi e prodotti che sostituivano o addirittura raddoppiavano gli
introiti perduti; inoltre molte multinazionali
del tabacco orientavano i propri guadagni su settori del nuovo mercato alimentare. Era sbalorditivo per noi italiani,
quando ci trovavamo per lavoro negli
USA, accendere il televisore e vedere,
durante gli spot pubblicitari, propagandati prodotti cholesterol free, ristoranti dove
si mangiava senza grassi, menu contenenti spaghetti, paste alimentari, verdure
e oli al posto delle creme e di dressings
alla panna. Negli USA il motivo di questo
cambiamento era evidente: la drastica riduzione del fumo di sigaretta, il miglioramento delle abitudini alimentari e un mi-
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gliore controllo della pressione arteriosa,
avevano determinato un’interruzione
dell’epidemia di malattia coronarica del
ventennio precedente. Dunque era successo qualcosa che era andato al di là
dei reali atteggiamenti preventivi dei medici di famiglia e le raccomandazioni delle
Società Scientifiche, prima fra tutte
quella Cardiologica, erano giunte al
grande pubblico e ai mass media, bypassando gli operatori sanitari più lenti e
restii di fronte alle novità scientifiche.
Ma nella vecchia Europa, Italia
all’avanguardia, lo scetticismo impera e
dilaga, per cui si vedono guru dell’informazione con un antico retroterra scientifico, prevenuti, andare in televisione e
sparare a zero sulle evidenze scientifiche, salvo cambiare totalmente idea
dopo 4-5 anni. E difatti due articoli
comparsi su riviste scientifiche distruggono gran parte del lavoro di centinaia
di studiosi e di un ventennio di ricerche.
Il primo è di Michael Oliver, un professore di cardiologia britannico molto
ascoltato che scrive “Ridurre il colesterolo non riduce la mortalità”, e il secondo di un epidemiologo clinico, Muldoon,
che in una metanalisi di numerosi studi
di prevenzione riconosce che agendo
sui grassi alimentari o trattando con farmaci si riducono gli eventi coronarici
non fatali, ma torna sull’aumento delle
morti accidentali nell’HHS commentate
precedentemente; uno dei trial che include nel calcolo è il Minnesota Coronary Survey, in cui in pazienti ricoverati
in un ospedale per malattie mentali,
sottoposti a dieta ipolipidica, si verificò
di tutto (suicidi, congelamenti, ustioni,
fratture, reazioni da farmaci, annegamenti e così via); ora è veramente difficile pensare che una diminuzione della
colesterolemia possa avere degli effetti
sfavorevoli così vari! Dunque i cardiologi
commentano apertamente che alla base del loro scetticismo verso il trattamento ipocolesterolemizzante per la
prevenzione primaria e secondaria della
cardiologia ischemica, sta l’osservazione che anche se si riducono eventi fatali e non fatali di mortalità coronarica,
non si riduce la mortalità generale. E
poiché l’unica differenza tra i cardiologi
e gli dei è che Dio non si proclama cardiologo, l’ipotesi lipidica, pur provata nel
mondo scientifico, ha difficoltà ad essere applicata nella comune pratica clinica. L’interrogativo che ci si doveva porre all’inizio degli anni novanta era: è più
importante prolungare ulteriormente la
durata della vita, ormai abbastanza lunga nei paesi occidentali, oppure migliorarne la qualità riducendo il numero di
eventi ischemici cardiaci e delle loro
complicanze? Ma come adesso vedre-
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Introduzione
mo non ci fu tempo per aprire un dibattito su questo punto, perché alla fine
del 1994 vide la luce lo Scandinavian
Simvastatin Survival Study o 4S, che
dimostrò una riduzione altamente significativa della mortalità generale in soggetti con pregressa CHD dopo 5 anni
di trattamento con la simvastatina e una
riduzione stabile della colesterolemia totale del 29%. Nella Tabella 2 sono riassunti i principali risultati ottenuti in questo trial; i risultati sono brillanti anche in
termini di NNT (numero di soggetti da
trattare per prevenire un evento, mortale, non mortale o entrambi) che è il più
attendibile indice clinico per stabilire
l’efficacia di un trattamento, in quanto
corrisponde all’inverso del rischio assoluto (RA) e quindi ha incorporato il rischio basale dei soggetti trattati. Inoltre
l’NNT può essere utilizzato per confrontare l’efficacia di due differenti terapie
per un’identica patologia (ad esempio
farmaci antipertensivi e statine nella
cardiopatia ischemica per la valutazione
del numero di effetti avversi), per confrontare i risultati di due diversi trial, e
infine è assolutamente essenziale nello
studio medico per facilitare la decisione
terapeutica, perché permette di valutare
Tabella 2
Scandinavian
Simvastatin Survival
Study (4S).
Disegno dello studio e valori lipidici basali
• 4444 pazienti con cardiopatia ischemica
• Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato
• Durata media follow-up: 5,4 anni
• Simvastatina 10-40 mg/die
• Valori medi lipidi basali: Colesterolo Totale 261 mg/dl
LDL-C 183 mg/dl
Risultati
• Modificazione dei parametri lipidici:
-25% Colesterolo Totale
-35% LDL-C
-10% Trigliceridi
+8% HDL-C
• -30% rischio di mortalità globale (per tutte le cause)
• -34% rischio di eventi cardiovascolari maggiori
• -42% rischio di decessi per CHD accertata o sospetta
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A. Notarbartolo
Tabella 3
Cholesterol and
Recurrent Events
(CARE).
Disegno dello studio e valori lipidici basali
• 4159 soggetti con valori di colesterolo medio ai limiti della norma
e pregresso IMA documentato
• Età media: 59 anni
• Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato
• Pravastatina 40 mg/die
• Colesterolo Totale medio basale 209 mg/dl
• LDL-C medio basale 139 mg/dl
Risultati
• Modificazione dei parametri lipidici:
-20% Colesterolo Totale
-28% LDL-C
-14% Trigliceridi
+5% HDL-C
• -24% rischio CHD fatale o IMA non fatale
• -25% rischio reinfarti fatali e non
• -27% necessità procedure di rivascolarizzazione
• -31% rischio stroke
anche l’aspetto economico di sottoporre un paziente a un trattamento. I risultati del 4S hanno praticamente risolto la
controversia all’ipotesi lipidica, e, cosa
ben più importante, hanno convinto i
cardiologi e di conseguenza l’opinione
pubblica dell’utilità del trattamento con
statine dei soggetti affetti da CHD: la
diffusione di questa pratica terapeutica
ha contribuito da allora a salvare la vita
di centinaia di migliaia di pazienti; Oliver
pubblicò due articoli su Lancet e sul
BMJ, Abbassiamo il colesterolo del
paziente, adesso e Le statine preven-
gono la malattia coronarica, asseren-
do che “…quando i fatti cambiano, io
cambio opinione. Voi cosa fate?”.
Il 4S aveva affrontato una coorte di
pazienti con colesterolo elevato e pregressa CHD, in cui si era avuta una riduzione del rischio assoluto (RRA) del
3%. Ma è esperienza comune che molti
pazienti affetti da CHD hanno valori di
colesterolo compresi tra 190 e 250
mg/dl: pertanto molto importanti sono i
risultati pubblicati due anni dopo quelli
del 4S, ottenuti nel CARE (1996),
acronimo di Cholesterol and Recurrent
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Introduzione
Tabella 4
Long Term Intervention
with Pravastatin in
Ischemic Disease
(LIPID).
Disegno dello studio e valori lipidici basali
• 49014 pazienti (1516 donne) con segni di CHD
• Età: 31-75 anni
• Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato
• Pravastatina 40 mg/die
• Valori medi lipidi basali: Colesterolo Totale 213 mg/dl
LDL-C 146 mg/dl
HDL-C 35 mg/dl
Risultati
• Modificazione dei parametri lipidici:
-18% Colesterolo Totale
-25% LDL-C
-12% Trigliceridi
+6% HDL-C
• -23% eventi coronarici totali
• -29% infarti fatali e non fatali
• -20% ictus cerebrale
• -31% mortalità per tutte le cause
Events, condotto in USA e Canada, e
nel LIPID (1998; Long Term Intervention with Pravastatin and Ischaemic
Heart Disease), condotto in Australia e
Nuova Zelanda, in cui le colesterolemie
medie erano rispettivamente 210 e 220
mg/dl e i pazienti seguiti 4159 nel primo e 9014 nel secondo. I principali risultati ottenuti nei due trial sono descritti nelle Tabelle 3 e 4.
Il RA dei pazienti inclusi è risultato
2,3% nel CARE e 2% nel LIPID;
inoltre, analizzando insieme i vari studi epidemiologici (Fig. 3, p. 54), pos-
siamo arrivare ad alcune conclusioni:
– i soggetti con RA più alto (4S) hanno
un maggior beneficio clinico (NNT=12)
rispetto a quelli con RA più basso
(CARE e LIPID: NNT=17 e NNT=20);
– il RA più elevato si associa a valori
basali di LDL-C più alti;
– qualunque sia il RA basale il trattamento ha sempre una buona efficacia
clinica.
Dunque c’è evidenza che almeno
tutti i pazienti con colesterolo totale superiore a 180 mg/dl e LDL-C superiore
a 115 mg/dl, se affetti da CHD posso-
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no essere trattati con beneficio con statine; ciò vale per uomini e donne, diabetici e soggetti fino a 75 anni di età.
Risolto dunque il problema della prevenzione secondaria, restava quello ben
più gravoso, dato il numero, di possibili
candidati al trattamento in prevenzione
primaria, cioè soggetti che non avevano
mai manifestato un episodio clinico di
CHD. Nel 1995 veniva pubblicato il
West of Scotland Coronary Prevention
Study Group (WOSCOPS), condotto su
6595 uomini tra i 45 e i 64 anni trattati
per 5 anni con pravastatina 40 mg al
giorno: i risultati ottenuti sono indicati
nella Tabella 5; va sottolineato che si
ebbe riduzione importante anche della
mortalità totale (RRR 22%, p<0,051),
per un soffio non significativa, dimostrando che anche in prevenzione primaria un’efficace riduzione della colesterolemia (del 20%), con modesti e
tollerabili effetti collaterali simili a quelli
ottenuti con placebo, può indurre una
riduzione non solo di eventi coronarici
fatali e non fatali, come era stato ottenuto
con HHS e LRC-CPPT, ma anche della
mortalità totale. Nel WOSCOPS condot-
Tabella 5
West of Scotland Study
(WOSCOPS).
Disegno dello studio e valori lipidici basali
• 6595 uomini ipercolesterolemici senza precedenti infarti
• Età: 45-64 anni
• Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato
• Durata media del follow-up: 4,9 anni
• Pravastatina 40 mg/die, la sera
• Colesterolo Totale medio basale 272 mg/dl
• LDL-C medio basale 192 mg/dl
Risultati
• Modificazione dei parametri lipidici:
-20% Colesterolo Totale
-26% LDL-C
-12% Trigliceridi
+5% HDL-C
• -31% rischio decessi per CHD e infarti miocardici non fatali
• -33% rischio morte per cause cardiovascolari accertate o presunte
• -22% rischio mortalità globale (per tutte le cause)
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Introduzione
Tabella 6
Air Force Coronary
Artery Prevention Study
(AFCAPS).
Disegno dello studio e valori lipidici basali
• 6605 soggetti (997 donne) senza segni di CHD
• Età: 45-73 (maschi) e 55-73 (femmine)
• Randomizzato in doppio cieco, placebo-controllato
• Lovastatina 20 o 40 mg/die
• Valori medi lipidi basali: Colesterolo Totale 228 mg/dl
LDL-C 156 mg/dl
HDL-C 37 mg/dl
Risultati
• Modificazione dei parametri lipidici:
-18% Colesterolo Totale
-25% LDL-C
-15% Trigliceridi
+6% HDL-C
• -36% eventi coronarici totali
• -35% infarti fatali e non fatali
• -33% rivascolarizzazioni
• -34% ricoveri per angina instabile
to in Scozia la colesterolemia media
dei soggetti arruolati nello studio era
elevata (270 mg/dl); lo studio AFCAPS/Tex CAPS (Tab. 6) fu invece ideato
per verificare se in 6605 uomini e donne sani texani reduci delle forze armate
aeree degli USA, con colesterolo totale
medio di 220, cioè 50 mg più basso
che nel WOSCOPS, e HDL-C intorno
a 37 mg/dl negli uomini e 40 nelle
donne, quindi più basso dei valori medi
della popolazione generale, il trattamento con lovastatina e dieta con bassi livelli di grassi saturi e colesterolo ali-
mentare, fosse in grado di ridurre il rischio cardiovascolare. Anche in questi
soggetti (Fig. 3, p. 54), un’RRA dello
0,7% rispetto all’RRA ottenuta nel
WOSCOPS (1%), si ha una riduzione
significativa degli eventi di CHD. Come
si vede in questa figura, il confronto tra
i due studi clinici in prevenzione primaria
mostra che nel WOSCOPS l’efficacia
clinica è maggiore rispetto all’AFCAPS,
perché il rischio basale di cardiopatia
ischemica è più alto e corrisponde a livelli basali di LDL-C più elevati, come si
era visto negli studi di prevenzione se-
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condaria; inoltre il confronto tra 4S e
WOSCOPS, entrambi con LDL-C basale elevato, ci dà un NNT di 12 per il
4S e di 43 per il WOSCOPS, a dimostrazione che non è importante solo il
valore basale di LDL-C, ma il rischio
basale del soggetto singolo, che è nettamente più alto se ha già avuto una
CHD; lo stesso vale se confrontiamo
AFCAPS con CARE e LIPID, in cui abbiamo un NNT di 86 per il primo e di
20 e 23 per i secondi. In termini di
NNT, inoltre, il beneficio aumenta notevolmente se il rischio globale del soggetto (e quindi la presenza di più fattori
di rischio) è aumentato (Fig. 2, p. 53). I
trial di prevenzione primaria e secondaria hanno dunque risolto il problema del
trattamento ipocolesterolemizzante con
statine come farmaco di scelta, lasciando tuttavia ampi interrogativi irrisolti di
impatto socioeconomico che saranno
affrontati da altri autori in questo trattato. Restano altri interrogativi riguardanti
“l’ipotesi lipidica”.
Le alterazioni metaboliche riguardanti il colesterolo, con il retroterra genetico dell’ipercolesterolemia familiare
(vedi La genetica delle iperlipidemie
in questo volume) che è trattata da
Averna et al, spiegano intorno al 40%
degli eventi di CHD; d’altronde tutti i
trial di intervento sulla colesterolemia
hanno ottenuto al massimo una riduzione del rischio del 40%. Esiste tutta una
serie di altri fattori di rischio, classici o
antichi e nuovi, di cui trattano Barbagallo et al ne L’approccio clinico, preventivo e terapeutico al paziente con patologie metaboliche aterogene in questo volume, e la sindrome metabolica
alla cui base ci sono anche alcune alterazioni genetiche del metabolismo lipidico e glicidico; fra queste l’iperlipemia
familiare combinata, che tratta Averna
nel capitolo appena citato, e le ipoalfalipoproteinemie, inquadrate magistralmente da Vergani che con i suoi collaboratori ha condotto ricerche in questo
settore. Queste alterazioni metaboliche
e i nuovi fattori di rischio costituiscono
l’attuale settore di ricerca preferenziale,
perché sono presenti nella gran parte
dei soggetti a rischio di CHD; gli sforzi
delle grandi industrie multinazionali farmaceutiche sono concentrati proprio
per tentare di risolvere queste alterazioni. Le grandi Società Scientifiche sono
consapevoli di questo problema e l’AHA
(la più grande Società Scientifica – dei
Cardiologi Americani – esistente al
mondo) ha recentemente emanato le
nuove Linee Guida (ATP III), che vengono descritte da Barbagallo e da Vergani.
I fibrati sembra che agiscano favorevolmente: il VA-HIT, uno studio effettuato
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Introduzione
in soggetti coronaropatici con valori di
LDL-C nei limiti normali ma con iper TG
e ipo HDL-C, ha evidenziato dopo 5
anni di trattamento con gemfibrozil una
RRR del 22% e un NNT di 23, a ulteriore dimostrazione che la riduzione dei
TG e l’aumento dell’HDL-C determinano un’efficace protezione contro il reinfarto, soprattutto nei pazienti diabetici o
con aumentata resistenza all’insulina,
che costituivano la metà dei soggetti arruolati nel trial.
Nel DAIS (acronimo di Diabetes
Atherosclerosis Intervention Study), il
fenofibrato somministrato per 4 anni ha
indotto un arresto della progressione
delle lesioni coronariche angiograficamente documentate, una riduzione degli
eventi non fatali di CHD, dimostrando
che i diabetici di tipo 2 con valori di colesterolemia borderline hanno la sindrome metabolica e traggono vantaggio
della riduzione dei TG circolanti e
dell’aumento dell’HDL-C; è probabile
tuttavia che i fibrati agiscano soprattutto
riducendo i remnant dei TG e le LDL
piccole e dense, che sono particolarmente aterogene (vedi Barbagallo,
L’approccio clinico,…) e che si formano soprattutto quando c’è un’iperTG.
Un altro problema che è stato solo parzialmente affrontato riguarda le alterazioni lipidiche in età pediatrica; si tratta
di forme prevalentemente ipercolesterolemiche, poiché il fenotipo della familiare combinata e delle forme di ipertrigliceridemia isolata si svelano molto dopo
la pubertà, in quanto intervengono modificazioni peggiorative dello stile di vita:
sono pertanto essenziali la prevenzione
in età pediatrica e l’educazione sanitaria, che se ben condotta in giovane età
sarà foriera di benessere futuro, ma è
anche difficile da attuarsi data la delicatezza degli organismi in crescita. Questo
argomento è affrontato da Riva e De
Carlis della Scuola di Giovannini, che si
è interessata in modo approfondito a
questo problema anche producendo le
Linee Guida della SINUPE, ufficialmente accettate dagli esperti italiani di lipidologia. Argomento di intense ricerche
nel settore dell’aterosclerosi è lo stress
ossidativo, cui vanno incontro durante il
processo di invecchiamento, ma anche
in presenza di malattie croniche o infiammatorie o degenerative, le proteine
dell’organismo. Tra queste le apoproteine e le LDL sono tra i principali protagonisti: in Stress ossidativo e antiossidanti naturali è affrontato questo tema,
come in Alimentazione e geni viene discusso quanto è scientificamente noto
di tale rapporto. Come si vedrà più
avanti, i trial con antiossidanti naturali
hanno dato risultati confusi e contra-
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A. Notarbartolo
stanti, mentre delle buone regole alimentari, magistralmente proposte da
Lanzola, hanno sempre dato risultati eccellenti. Questo perché nell’olio d’oliva,
nel pesce, nei latticini freschi non fermentati, nelle verdure e nei vegetali, e
persino nel vino e nel tè, sono presenti
delle sostanze antiossidanti che spiegano i risultati ottenuti con gli interventi
dietetici, che, lo ricordiamo, devono
precedere e sempre accompagnare i
trattamenti farmacologici. Un esempio
tipico è il Lyon Diet-Heart Study, condotto in Francia su circa 400 pazienti
con storia personale di malattia coronarica randomizzati a una dieta “mediterranea” tipica e completa rispetto a un’alimentazione “prudente” in cui erano soltanto ridotti i grassi saturi animali. Nella
dieta “mediterranea” i soggetti erano incoraggiati a mangiare pane, vegetali,
pesce e solo carni bianche tipo pollo e
tacchino, frutta; a sostituire burro e creme con olio d’oliva o margarina vegetale
da semi di ravizzone, e a bere piccole
quantità di vino: dopo 27 mesi lo studio
fu interrotto perché non era etico continuare in quanto 16 soggetti ebbero una
recidiva infartuale contro 3 soltanto del
gruppo “mediterraneo”, e la mortalità
generale si ridusse anch’essa significativamente. Questo anche se le modificazioni ottenute nei valori di lipidi, pres-
sione arteriosa e abitudine al fumo, fossero simili nel gruppo con dieta mediterranea rispetto a quello che seguiva una
dieta precedente. È evidente che non è
la riduzione delle LDL ad essere efficace in questo studio, ma la protezione
antiossidante degli alimenti contenuti
nella dieta dei paesi del Sud Europa: a
un’analisi multivariata dei singoli elementi correlati ai benefici ottenuti nel
trial, si vide dopo 4 anni che la riduzione
dei grassi saturi era benefica, ma gli
elementi particolarmente importanti risultarono un acido monoinsaturo, l’acido oleico, e l’acido alfalinolenico, che è
un acido grasso omega-3, simile a
quello contenuto nei pesci ma di origine
vegetale: entrambi hanno uno spiccato
effetto antiossidante.
In conclusione, molto si è fatto in
questi 50 anni di studi e ricerche; ma i
risultati ottenuti sono niente di fronte alla
mole di lavoro che attende in questo
settore i ricercatori; siamo fiduciosi che
se lavoreremo con umiltà, senza pregiudizi ma con tanta passione, miglioreremo la qualità della vita dei nostri pazienti.
Speriamo che questo volume della
collana Items pubblicata dall’Istituto Danone contribuisca un poco a raggiungere questo scopo.
Alberto Notarbartolo
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Introduzione
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1225/01 capitolo 1
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l’
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approccio clinico, preventivo
e terapeutico al paziente
con patologie metaboliche
aterogene
C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi
Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
– l’associazione deve essere forte, indipendente, graduale e continua, e l’incidenza della malattia deve aumentare con l’aumento del livello dei fattori
di rischio;
– devono esistere meccanismi mediante i quali il fattore di rischio contribuisce alla patogenesi della malattia;
– l’intervento mirato alla riduzione del
fattore di rischio in uno studio clinico
controllato dovrebbe generalmente ridurre l’incidenza della malattia in questione.
L’ipertensione arteriosa, le dislipidemie, il diabete, il fumo di sigaretta,
l’obesità e l’inattività fisica sono fattori di
rischio cardiovascolare modificabili; al
contrario l’età, il sesso maschile e la
predisposizione genetica, comprendente
anche la familiarità positiva per cardiopatia ischemica (CHD) in età precoce,
sono fattori di rischio cardiovascolare
immodificabili. È oramai noto che i fattori di rischio hanno un’azione moltiplicativa, ed è quindi importante che il medico
Fattori di rischio
classici e cenni
di terapia
La malattia aterosclerotica è una
malattia a genesi multifattoriale, in
quanto non è dimostrabile un singolo
elemento causale, ma esistono piuttosto una serie di condizioni che, sulla base dei dati forniti dai maggiori studi epidemiologici, si sono trovati associati più
o meno strettamente alla malattia, e
che assumono quindi un determinato
valore predittivo, consentendo di selezionare i soggetti che presentano una
maggiore probabilità di sviluppare la
malattia stessa. Tali condizioni prendono il nome di “fattori di rischio”.
Per valutare se un’associazione
statistico-epidemiologica sia realmente
causa di malattia, è necessario che
vengano rispettati i seguenti criteri:
– deve essere stabilita una sequenza
temporale e causale tra fattori di rischio e malattia;
23
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
Tabella 1
• Età
I fattori di rischio
classici.
• Sesso
• Ipertensione arteriosa
• Ipercolesterolemia
• HDL-colesterolo
• Diabete
• Fumo di sigaretta
• Trigliceridemia
• Obesità
• Inattività fisica
• Storia familiare di CHD prematura e geni di suscettibilità
• Fattori psicosociali e comportamentali
• Caratteristiche etniche
li tenga in considerazione costantemente nel loro insieme. Non ci si deve allora
limitare alla valutazione singola di ognuno di essi, ma anche delle loro interazioni, calcolando il cosiddetto “rischio cardiovascolare globale” e soggettivizzando
i parametri di riferimento lipidici, glicemici, ponderali e pressori in relazione ai diversi livelli di rischio cardiovascolare. Di
seguito analizzeremo le principali informazioni sui fattori di rischio classici per
la cardiopatia ischemica.
uomini; nelle donne un comportamento
similare si ha invece dopo i 50 anni di
età, epoca in cui mediamente viene meno, con la menopausa, la caratteristica
protezione ormonale del sesso femminile. In base alle stime del Framingham
Heart Study, l’incidenza media a dieci
anni di CHD, <1% nelle donne di 3034 anni di età, arriva a circa il 24% negli
uomini di 70-74 anni. Si stima che oltre
3,6 milioni di pazienti anziani siano affetti da CHD e oltre il 60% dei pazienti ricoverati per infarto miocardio negli USA
abbia un’età >65 anni; in queste stime
si deve comunque considerare che l’incidenza di molti fattori di rischio, come
l’ipertensione, l’iperlipidemia e il diabete,
aumenta con l’età. Le lesioni aterosclerotiche delle arterie coronariche posso-
Età
È noto che, con l’aumentare dell’età, si ha un incremento progressivo
del rischio di cardiopatia ischemica negli
24
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C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi
no comunque avere inizio molto precoce, addirittura fin dai primi anni di vita,
ma la loro evoluzione, rottura o fissurazione è accelerata in presenza di altri
fattori di rischio. L’ipercolesterolemia di
tipo genetico richiede una diagnosi precoce, perché in questi casi episodi di
cardiopatia ischemica possono manifestarsi anche prima dei 40 anni.
iperlipidemia genetica, mentre dopo la
menopausa il rischio diventa sovrapponibile con gli uomini. In ogni caso, gli
studi di prevenzione primaria e secondaria condotti finora hanno spesso discriminato le donne, e ciò ha comportato che al momento disponiamo di un
numero di informazioni in campo epidemiologico di gran lunga superiori nei
maschi rispetto alle femmine. Un aspetto interessante è comunque il fatto che
la riduzione dei fattori di rischio e le strategie di popolazione in prevenzione primaria messe in atto negli ultimi vent’anni negli USA, hanno prodotto minori effetti nelle donne rispetto ai soggetti di
sesso maschile. Questo sembrerebbe
essere collegato all’abitudine al fumo di
sigaretta che nelle donne non si è ridotta nella stessa misura degli uomini, e
che quindi rimane un importante fattore
di rischio per CHD nel sesso femminile.
Sesso
In termini assoluti la mortalità cardiovascolare è superiore nelle donne, e
ciò sembra essere dovuto a un’aspettativa di vita maggiore nel sesso femminile rispetto a quello maschile. Nelle donne la CHD si manifesta con un ritardo di
circa 10 anni rispetto agli uomini, risultando sempre comunque associata agli
stessi fattori di rischio cardiovascolare
(ipertensione, ipercolesterolemia, fumo
di sigaretta, diabete mellito ecc.); ciascuno di questi, infatti, sembra aumentare il rischio di sviluppare la CHD in
egual misura nelle donne e negli uomini, con la sola eccezione del diabete,
che comporta un rischio cardiovascolare lievemente maggiore nelle donne rispetto agli uomini. La CHD è comunque rara nelle donne in premenopausa
in assenza di diabete mellito o di grave
Ipertensione arteriosa
La stretta correlazione esistente fra
ipertensione arteriosa ed eventi cardiovascolari è nota da tempo, ma solo negli ultimi decenni la ricerca scientifica è
stata in grado di connotare il percorso
patologico che porta l’elevata pressione
arteriosa a determinare gravi danni della
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
funzionalità cardiaca fino allo scompenso. Nelle società industrializzate si assiste a un progressivo incremento della
pressione arteriosa con l’avanzare dell’età. Questa tendenza è associata a un
aumento soprattutto della pressione sistolica, che cresce fino all’ottava decade di vita, mentre la pressione diastolica
tende a rimanere costante o a decrescere dopo la quinta o sesta decade
come effetto dell’irrigidimento delle arterie, con conseguente incremento della pressione differenziale; infatti sempre
maggiori evidenze attribuiscono a questo valore un ruolo di fattore predittivo
indipendente di malattia coronaria e insufficienza cardiaca congestizia.
Gli elevati livelli cronici di pressione
arteriosa producono un importante danno d’organo attraverso due meccanismi
principali:
a) il danno endoteliale con amplificazione di eventuali processi aterosclerotici;
b) il danno d’organo che può essere determinato dalle alterazioni emodinamiche associate agli elevati valori di
pressione arteriosa e in particolare al
progressivo aumento della resistenza
all’eiezione del sangue dal cuore.
A livello cardiaco il danno più imponente è dato dal sovraccarico emodinamico imposto al ventricolo sinistro dall’incremento delle resistenze periferiche:
ciò comporta come risposta adattativa
una serie di modificazioni strutturali e
funzionali, che conducono in ultima analisi a ipertrofia ventricolare sinistra (IVS)
e a compromissione della funzione diastolica e sistolica ventricolare, favorendo
la progressiva evoluzione verso lo scompenso cardiaco. L’IVS predispone inoltre alla comparsa di importanti manifestazioni cliniche, come l’ischemia miocardica e le aritmie ventricolari, eventi
collegati sia al maggiore consumo di ossigeno da parte del muscolo cardiaco
ipertrofico, sia alla relativa inadeguatezza del microcircolo coronario rispetto alla crescita della massa ventricolare.
I grandi studi epidemiologici degli ultimi tre decenni hanno mostrato in modo
inequivocabile che il rischio cardiovascolare cresce progressivamente con l’aumentare della pressione arteriosa, individuando nell’ipertensione uno tra i principali fattori di rischio cardiovascolare.
Gran parte delle evidenze deriva da
due fonti principali:
– studi prospettici osservazionali sull’incidenza di ictus e coronaropatia;
– studi randomizzati sulla terapia antipertensiva.
I primi forniscono i dati da cui può
essere valutato l’effetto di prolungate
differenze di riduzioni pressorie, mentre i
secondi forniscono dati sugli effetti di ri-
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C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi
duzioni a breve termine della pressione
arteriosa. Tra gli studi unifattoriali di intervento ricordiamo lo studio Hypertension, Detection and Follow up Program,
che comprendeva circa 10.940 individui
appartenenti a 14 comunità degli Stati
Uniti scelti fra 159.000 volontari. I risultati principali ottenuti durante il follow-up
di 5 anni sono stati una riduzione del
17% della mortalità totale nel gruppo
sottoposto a trattamento ipotensivo attivo (beta bloccanti, diuretici, calcio antagonisti e ACE-inibitori) verso placebo,
che arrivava a raggiungere il 20% nel
gruppo con una pressione diastolica di
90-104 mmHg. Alcuni tra i più importanti studi prospettici sono stati valutati
in un lavoro di meta-analisi che ha preso
in considerazione 9 studi osservazionali
e circa 420.000 soggetti di 25 anni o
più, studiati per un periodo di 6-25 anni,
Tabella 2
Caratteristiche della
popolazione esaminata
in nove studi prospettici
osservazionali
sull’incidenza
di coronaropatia.
senza diabete o evento cardiovascolare
prima dell’esame dell’arruolamento.
Negli studi analizzati, effettuati in
maggioranza su popolazione maschile
(Tab. 2), la pressione all’arruolamento
veniva rilevata nel corso di un’unica visita con una sola lettura oppure con la
media di due misurazioni utilizzando uno
sfigmomanometro a mercurio. I partecipanti di ciascuno studio sono stati divisi
in 5 gruppi in relazione ai valori della
pressione diastolica (<80, 80-90, 9099, 100-109, >109 mmHg) e il rischio
di cardiopatia è stato calcolato per
ognuna delle categorie rispetto al rischio
globale dell’intera popolazione esaminata. Combinando tutti gli studi, sono
stati calcolati mediante regressione logistica corretta in base a studio e sesso, i
rischi relativi di ciascuna categoria. I risultati a 4 anni del Framingham Heart
STUDIO
Soggetti
MRFIT screenes
350.977
Maschi (%)
Età
100
35-57
Chicago Heart Ass
22.777
52
35-64
Whitehall
16.372
100
40-64
Puerto Rico
8.158
100
45-64
Honolulu
7.317
100
45-68
LRC prevalence
4.674
65
25-84
Framingham
4.641
44
40-69
Western Eletric
2.025
100
40-59
People’s Gas
1.402
100
40-59
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
Study sono stati utilizzati come guida dei
livelli pressori sistolici e diastolici, in
quanto i livelli pressori e medi per ognuna delle categorie non potevano essere
calcolati direttamente, dato che le misurazioni pressorie effettuate durante il follow-up non erano riportate per tutte le
popolazioni in esame. In questo studio
l’incidenza a 30 anni di angina pectoris,
infarto miocardio e morte improvvisa nel
loro complesso è risultata del 20,2%
nei maschi e del 10,1% nelle femmine
tra i soggetti normotesi, del 39% nei
maschi e del 18,2% nelle femmine tra i
pazienti ipertesi lievi (pressione arteriosa
sistolica e diastolica rispettivamente
<140/159 e <90/94 mmHg), del
46,6% nei maschi e del 23,1% nelle
femmine tra gli ipertesi più severi (pressione arteriosa >160/95 mmHg). Una
relazione continua e diretta tra pressione
arteriosa ed eventi coronarici è stata riscontrata anche nell’ambito del MRFIT.
In particolare tra i 5540 maschi raccolti
Tabella 3
Studi di intervento
con farmaci ipotensivi.
STUDIO
con anamnesi positiva per IMA, è stata
osservata una relazione tra pressione
diastolica e morte coronarica. Ulteriori
studi, infine, che si differenziano dai
precedenti elencati solo per il numero di
soggetti coinvolti, per il numero degli
anni di follow-up e perché più recenti
(Tab. 3), hanno continuato a dimostrare
che il rischio cardiovascolare aumenta
all’aumentare dei livelli pressori senza
soluzione di continuità e senza che sia
possibile individuare un valore soglia, sia
per la sistolica che per la diastolica, soprattutto per l’importante e individuale
interazione con gli altri fattori di rischio
cardiovascolare.
Ipercolesterolemia
Un gran numero di studi ha documentato in modo inequivocabile la correlazione esistente fra livelli sierici di colesterolo totale e di colesterolo LDL
N. pazienti
Farmaco
SHEP
4.736
Clortalidone
STOP-Hyperten
1.672
Atenololo + idroclorotiazide
ABCD
HOT
950
18.790
HOPE
Nisoldipina/enalapril
Ca-antagonisti + diuretici, ACE, β-bloccanti
ACE
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con la malattia coronarica. Sebbene i
fattori di rischio che influenzano la cardiopatia ischemica siano numerosi, il
ruolo eziologico principale del colesterolo è attualmente ben definito. Tali evidenze che si sono manifestate nell’arco
degli anni sono sia epidemiologiche che
non epidemiologiche (Tab. 4).
Vi sono evidenze storiche della progressione della cardiopatia ischemica
nella nostra società quando ci si sottopone a una dieta ricca di grassi. Le popolazioni che hanno subito periodi di restrizione di grassi nella dieta e calo ponderale presentano meno aterosclerosi e
cardiopatia ischemica durante e dopo il
periodo di restrizione, come si è potuto
provare nell’Europa centrale durante la
seconda guerra mondiale. Ma tornando
ai nostri giorni, sono numerosi i risultati
di altri importanti studi angiografici e clinici che hanno dimostrato come il decorso clinico e la progressione della
cardiopatia ischemica su base aterosclerotica in soggetti a maggiore rischio
cardiovascolare, possono essere ridotti
grazie a interventi terapeutici con farmaci ipolipemizzanti (statine ma anche
fibrati), che agiscono riducendo i livelli di
colesterolo totale e colesterolo-LDL e
aumentando i livelli di colesterolo-HDL.
L’ipercolesterolemia va considerata
l’elemento centrale nell’ambito del rischio cardiovascolare. L’aterosclerosi,
infatti, è un processo insidioso, che inizia con la comparsa di strie lipidiche e
con la successiva progressione alle
placche fibrose, possibili sedi e cause
di stenosi vascolari o rottura e fissurazione delle stesse. È una malattia croni-
Tabella 4
Evidenze del ruolo del
colesterolo nei confronti
della cardiopatia
ischemica.
Evidenze epidemiologiche
• Incremento della colesterolemia e del rischio di coronaropatia
in differenti paesi del mondo
• Correlazione tra malattia coronaria e dislipidemie fra gli individui
di una popolazione
• Riduzione della malattia coronaria associata alla riduzione dei livelli di colesterolo
Evidenze non epidemiologiche
• Dati sperimentali su animali ipercolesterolemici
• Presenza di LDL ossidate nella placca aterosclerotica
• Disfunzione endoteliale relazionata a livelli di colesterolo
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
ca di tipo degenerativo infiammatorio,
provocata da una risposta dell’intima
delle arterie elastiche e muscolari di
grosso e medio calibro a un insulto arrecato. Il meccanismo iniziale del processo sembrerebbe essere una modificazione delle LDL che si verifica per
processi ossidativi, con conseguente alterazione della loro struttura, che permette loro di esercitare attrazione chemiotattica nei confronti dei monociti circolanti. Ne consegue una risposta infiammatoria nella quale i macrofagi attivati costituiscono infatti l’elemento cellulare tipico della maggior parte delle lesioni aterosclerotiche, trasformandosi
rapidamente in cellule schiumose (foam
cells). Le foam cell andranno poi incontro a processi necrotici con rilascio
del loro contenuto negli spazi sotto-intimali, contribuendo alla formazione della
stria lipidica. Il rilascio di numerose citochine e fattori di crescita potenzia la risposta infiammatoria indotta dalle LDL
modificate e richiama neutrofili e altri
macrofagi nel sito d’insulto. È l’inizio del
processo aterosclerotico, un processo
sempre uniformemente distribuito ma
che colpisce solo alcune aree “critiche”.
L’esame biochimico delle placche rileva
due componenti principali:
– componente proteica,
– componente lipidica.
Da quanto esposto risulta evidente
l’instabilità della placca ed è deduttivo
che proprio da questo dinamico processo istologico derivi la grande variabilità
clinica dei quadri clinici attribuibili ai processi aterosclerotici, in quanto non tutte
le placche esprimono lo stesso potenziale stenotico o trombotico e quindi
non tutte sono ugualmente responsabili
di quadri clinici.
Semplificando molto diremmo che:
a) a una placca stabile corrisponde
il quadro clinico dell’angina stabile;
b) a una placca instabile, cioè maggiormente predisposta a rotture e fissurazioni, quindi al rilascio di trombi, corrispondono l’angina instabile e l’infarto
acuto del miocardio.
Dal punto di vista epidemiologico
l’interesse dei ricercatori sui livelli sierici
di colesterolo totale, prima, e di LDLcolesterolo, risale a svariati decenni addietro, e nel corso degli anni si è dimostrata inequivocabilmente la presenza di
una correlazione fra i valori sierici di tali
parametri e il rischio di coronaropatia.
Nel Multiple Risk Factor Intervention
Trial (MRFIT), un campione di 360.000
uomini fra 35 e 57 anni è stato sottoposto a valutazione dell’assetto lipidico e
seguito per 12 anni, mostrando un’importante correlazione fra livelli sierici di
colesterolo e mortalità per coronaropa-
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tia. La stessa correlazione è stata riscontrata anche per popolazioni differenti, sebbene con curve non sovrapponibili, nel Seven Countries Study, un
importante studio che ha monitorato
per ben 25 anni popolazioni provenienti
da 7 aree geografiche diverse, mostrando una correlazione positiva tra
mortalità coronarica e consumo di grassi saturi (entrambi fattori direttamente
correlati alla colesterolemia). Nel Whitehall Study sono stati studiati 19.000
maschi deceduti per CAD, stratificati in
fasce d’età di ampiezza pari a 5 anni,
ed è stato calcolato il rischio relativo
sulla base dell’incremento del colesterolo totale e sulla base della durata dell’ipercolesterolemia. Questo studio ha
mostrato importanti risultati sull’efficacia predittiva dei livelli sierici di colesterolo totale in relazione all’età. L’evidenza tra ipercolesterolemia e malattia aterosclerotica è stata ancora supportata,
oltre che da studi di epidemiologia osservazionale, anche da studi clinici d’intervento effettuati in pazienti in prevenzione primaria e prevenzione secondaria. Fra gli studi in prevenzione primaria
senza intervento farmacologico ricordiamo lo studio di OSLO, dove sono stati
selezionati 1232 uomini fumatori tra 40
e 49 anni con colesterolo totale fra 290
e 379 mg/dl: in questo studio l’inter-
vento dietetico ha abbassato la media
della colesterolemia da 315 a 280
mg/dl, mentre, in associazione alla riduzione del fumo, è stata riscontrata una
riduzione del 45% dell’incidenza di infarti mortali e non mortali rispetto ai controlli in 5 anni. In prevenzione primaria
con intervento farmacologico con statine
lo studio di riferimento è il WOSCOPS,
in cui 6595 pazienti di età tra 45 e 64
anni e con colesterolo medio di 272
mg/dl, sono stati trattati con pravastatina da 40 mg o placebo per un periodo
di 5 anni. La statina ha ridotto colesterolemia di circa il 20%, e parallelamente si osservava una riduzione del rischio
relativo di eventi coronarici maggiori del
31%. Molto importante è infine segnalare alcuni degli studi in prevenzione secondaria, come l’ormai storico 4S (Scandinavian Survival Simvastatin Study),
che ha valutato 4444 soggetti di età fra
35 e 70 anni, con angina pectoris o pregresso infarto del miocardio e con livelli
di colesterolo fra 212 e 309 mg/dl,
trattati con simvastatina da 20 o 40 mg
o placebo per un periodo medio di 5,4
anni. In questo studio la mortalità totale
e coronaria si è ridotta rispettivamente
del 30 e del 42% nei soggetti trattati
con la statina in aggiunta alla terapia
cardiologia convenzionale. Infine nello
studio CARE (Cholesterol And Recur-
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
Tabella 5
STUDIO
Principali studi di
prevenzione primaria
e secondaria della CHD
mediante terapia
ipolipemizzante
con statine.
Pazienti
Farmaco
Mortalità
CHD
IMA*
WOSCOPS
6.595
PRAVA
-22%
-28%
-31%
AFCAPS/Tex CAPS
6.605
LOVA
-
-40%
-37%
4S
4.444
SIMVA
-30%
-42%
-34%
CARE
4.159
PRAVA
-
-20%
-24%
LIPIDS
9.014
PRAVA
-22%
-24%
-29%
* Non fatale.
rents Events) in 4159 pazienti con pregresso infarto del miocardio e trattati
con Pravastatina da 40 mg o placebo,
ma aventi come criterio di inclusione un
colesterolo totale inferiore a 240 mg/dl,
si è evidenziata una riduzione del 24%
degli eventi clinici coronarici. Questi e
altri importanti studi sintetizzati nella
Tabella 5 lasciano pochi dubbi sulla
possibilità di prevenire gli eventi cardiovascolari con un trattamento efficace
dei livelli di colesterolo plasmatici.
fegato, per essere quindi metabolizzato
ed eliminato. Nonostante i bassi livelli di
HDL-C sembrino aumentare lo stesso
rischio per CHD in modo simile a elevati valori di colesterolo totale, le cause
dell’ipoalfalipoproteinemia (sinonimo di
bassi livelli di HDL-C) non sono oggi
del tutto note. È comunque sicuro che,
oltre a rilevanti influenze genetiche, siano coinvolti anche fattori esterni, e che
correlazioni certe esistono tra bassi valori di HDL-C e obesità, ipertrigliceridemia, diabete mellito, sedentarietà e fumo di sigaretta.
Oggi sono menzionabili numerosi
studi epidemiologici sulla relazione tra i
livelli di HDL-C e l’incidenza di CHD. In
molti di questi, tale relazione inversamente proporzionale era significativa e
testimoniava l’indipendenza della correlazione dei livelli di HDL-C con altri fattori di rischio coronarici. In alcuni altri vi
era la tendenza verso un’incidenza più
alta di CHD a valori più bassi di HDL-C,
HDL colesterolo
Da molto tempo è stato già osservato che elevate concentrazioni di
HDL-colesterolo (HDL-C) sembravano
conferire agli individui una certa protezione sugli eventi cardiovascolari. Il principale effetto protettivo dello HDL-C
sarebbe correlato al trasporto inverso
del colesterolo, dal circolo sistemico al
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che mancava di poco la significatività
statistica per errori probabilmente di tipo metodologico.
Infine ricordiamo che bassi valori di
HDL-C sono alla base di alterati ed elevati rapporti tra colesterolo totale o
LDL-colesterolo (LDL-C) e HDL-C,
che costituisce una delle più frequenti
anomalie lipidiche presenti nella popolazione europea. Nello Studio PROCAM,
durante lo screening venne riscontrato
nel gruppo di soggetti asintomatici che
presentavano un’anomalia lipidica complessa, e cioè caratterizzata da un rapporto LDL-C/HDL-C>5 e da livelli di
Tabella 6
Studi epidemiologici
sulla relazione inversa
tra HDL-C e incidenza
di cardiopatia ischemica.
trigliceridemia >200 mg/dl (la cosiddetta “triade lipidica”), la maggiore incidenza di malattie cardiovascolari durante il
follow-up.
Diabete
Il diabete mellito rappresenta attualmente una delle principali cause di morte negli USA, e l’elevata mortalità associata al diabete deriva in gran parte dall’aumentato rischio cardiovascolare, da
2 a 4 volte superiore rispetto a quello
della popolazione normale. Le patologie
Studio
Paese
Autore
Tromso Heart Study
Norvegia
Miller 1997
USA
Gordon 1977
Norvegia
Enger 1979
Framingham Heart Study
Oslo Study
Israeli Ischaemic Heart Disease
Israele
Golburt 1985
Donolo Tel Aviv
USA
Brunner1987
MRFIT
USA
Watkins 1986
LRC-CPPT
USA
Jacobs 1990
Procam
Germania
Assman 1989
LRC-F
USA
Jacobs 1990
Helsinki Heart Study
Finlandia
Manninem 1986
Trinidad
Trinidad Tobago
Miller 1989
Caerphilly-Speedwell
Gran Bretagna
Swetna 1989
British Regional Heart
Gran Bretagna
Pocock 1989
Finlandia
Salonen 1991
USA
Stampfe 1991
Kuopio
Physician’s Health Study
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
cardiovascolari sono responsabili del
60% dei decessi dei pazienti diabetici; il
41% di questi è dovuto a CHD. L’aumentata mortalità cardiovascolare rilevata nei pazienti diabetici deriva in gran
parte dalla frequente associazione del
diabete con altri fattori di rischio cardiovascolare, tra cui ipertensione, ipertrigliceridemia, ipercolesterolemia, obesità,
aumentati livelli di fibrinogeno e ipertrofia ventricolare sinistra. Tuttavia, come
ben evidenziato dal MRFIT, anche dopo
correzione per ciascuno di questi fattori
di rischio, i pazienti diabetici conservano
una mortalità per cause cardiovascolari
più elevata rispetto ai soggetti non diabetici. È stato quindi ipotizzato che l’aumentata incidenza di complicazioni macrovascolari nei pazienti diabetici dipenda direttamente dall’iperglicemia. Addirittura recentemente si è affermato che i
soggetti con diabete di tipo II avrebbero
un rischio di infarto del miocardio uguale
a coloro che non sono diabetici, ma che
hanno già avuto un precedente infarto
del miocardio. In particolare poi viene
cancellata nelle donne la protezione caratteristicamente legata al sesso. La riduzione dell’aspettativa di vita aumenta
con la precocità di insorgenza del diabete e l’eccesso di mortalità nel diabete rispetto alla popolazione generale è dovuto alla macroangiopatia. I meccanismi
patogenetici che possono spiegare l’eccesso di patologia cardiovascolare nel
paziente diabetico sono tuttora in fase di
studio e soltanto il diabete non è sufficiente a spiegare lo sviluppo e la progressione della patologia cardiovascolare. Il quesito che per molti anni ha interessato i clinici e gli epidemiologi, è infatti stabilire se l’eccesso di patologia
cardiovascolare osservato nei diabetici
possa essere spiegato da una più alta
prevalenza dei maggiori fattori di rischio
frequentemente presenti in questi pazienti, quali ipertensione arteriosa, dislipidemia, fumo. Svariati dati confermano
che la mortalità cardiovascolare aumenta progressivamente con l’aumentare
dei livelli di colesterolo, pressione arteriosa e fumo di sigaretta nei soggetti
diabetici; tuttavia la mortalità è significativamente sempre più alta nei diabetici
rispetto ai non diabetici; quando le variabili vengono esaminate in combinazione, si vede chiaramente che anche nei
diabetici normolipidemici, normotesi e
non fumatori, la mortalità cardiovascolare rimane sostanzialmente più alta rispetto ai soggetti non diabetici con le
stesse caratteristiche. Ne deriva che
l’ipercolesterolemia, l’ipertensione arteriosa e il fumo di sigaretta agiscono sia
nei diabetici sia nei non diabetici, ma
con un impatto significativamente mag-
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giore sui primi. L’aterosclerosi del diabetico non si differenzia di molto da quella
che si manifesta nella popolazione generale, se non per il fatto di manifestarsi
molto più precocemente e con maggiore frequenza. Nel diabete mellito è però
importante distinguere tra le noxae patogene in grado di causare un danno
endoteliale, tra quelle legate “specificamente” all’alterato metabolismo dei carboidrati, da quelle legate ad altri fattori
di rischio. Tra le noxae specifiche devono essere segnalati gli elevati livelli glicemici e alcune anomalie secondarie tipiche dei diabetici, quali le alterazioni ormonali, le modificazioni ematologiche,
emoreologiche e infine la microangiopatia dei vasa vasorum. Tutti fattori che
possono migliorare in seguito all’instaurazione di un equilibrio metabolico ottimale. Sono così numerose le vie fisiopatologiche attraverso le quali l’iperglicemia è in grado di accelerare la formazione della placca, e a queste si aggiunge la glicazione delle proteine strutturali
della parete vasale, con formazione di
composti finali di glicazione avanzata
(AGE). La formazione di AGE comporta
un aumentato richiamo di piastrine plasmatiche nella sede della lesione endoteliale e una maggiore degradazione e
liberazione di prodotti di crescita da parte dei macrofagi, con conseguente ac-
cumulo di tale materiale a livello della
parete vasale. Purtuttavia, nel recente
studio anglosassone UKPDS, che ha
seguito per un lungo periodo di tempo
un largo numero di soggetti diabetici
trattati con terapia intensiva o convenzionale, si è visto che un ottimale compenso glico-metabolico è in grado di ridurre significativamente le complicanze
microvascolari, mentre ha un limitato effetto sugli eventi macrovascolari, per
prevenire i quali è necessario trattare i
fattori di rischio presenti, ipertensione e
ipercolesterolemia in testa.
Il trattamento insulinico riduce l’incidenza e la progressione delle complicanze macroangiopatiche (retinopatia, nefropatia, neuropatia), come dimostrato
anche dallo studio prospettico DIGAMI.
Resta però ancora poco conosciuto
l’effetto a lungo termine sulla CHD della terapia insulinica, in quanto gli effetti
benefici potrebbero infatti attenuarsi nel
tempo o viceversa rilevarsi ancora più
nettamente positivi, in quanto i pazienti
passano inesorabilmente a fasce di rischio maggiore.
Discorso diverso vale per il diabete
di tipo II, dove la CHD diventa la causa
principale di morte indipendente dalla
durata del diabete, e ciò anche per la
contemporanea comparsa di altri fattori
di rischio, come l’ipertensione e la disli-
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
pidemia. Gli studi che sono considerati
pietre miliari di tali evidenze sono il Framingham Heart Study, dove le persone
diabetiche di tipo II avevano un rischio
relativo (diabetici vs non diabetici) di
morte per malattia cardiovascolare di
2,1 per gli uomini e di 4,9 per le donne,
e l’incidenza in 20 anni nei diabetici di
nuovi eventi di cardiopatia coronaria era
1,7 volte maggiore nelle donne rispetto
ai soggetti non diabetici. Nel MRFIT, i
risultati a 12 anni dimostrano che la
mortalità cardiovascolare in 5163 diabetici su circa 350.000 non diabetici (di
età fra 35 e 70 anni) è di 4 volte più
elevata fra i diabetici. Infine è sicuramente il caso di elencare alcuni casi di
intervento su popolazioni di dislipidemici, che hanno preso anche in considerazione dei sottogruppi di diabetici, valutando anche gli effetti benefici di alcuni farmaci ipolipemizzanti (statine e fibrati) sul rischio cardiovascolare. Nell’Helsinki Heart Study, uno studio di
prevenzione primaria condotto con un
fibrato (gemfibrozil) in confronto con
placebo, si è avuta una scarsa significatività statistica nella differenza della
riduzione dell’incidenza di eventi cardiovascolari tra il gruppo diabetici e non.
Nel sottogruppo del 4S condotto con
Simvastatina nei 202 arruolati diabetici,
si sono avuti dati di riduzione del rischio
di eventi cardiovascolari maggiori pari al
55%. Nel CARE, i 586 diabetici hanno
mostrato una riduzione del rischio del
25%. Nel VA-HIT, uno studio di prevenzione secondaria in soggetti ipoalfalipoproteinemici trattati con gemfibrozil,
si è visto che il beneficio maggiore era
limitato ai soggetti diabetici, con intolleranza glucidica e/o iperinsulinemia. Rimane da stabilire se l’aumentata prevalenza di diabete di tipo II registrata in
tutto il mondo occidentale dipenda da
un aumento dell’incidenza della malattia
o dalla diminuzione della mortalità ad
essa associata. Lo studio S. Antonio
Heart Study, che valutava l’incidenza di
diabete in soggetti adulti non diabetici
al momento del reclutamento, ha evidenziato un’incidenza a 8 anni triplicata
in diversi gruppi etnici valutati. A differenza di altri fattori di rischio, come
ipertensione e dislipidemia precedentemente descritti, la cui prevalenza va
progressivamente riducendosi, il diabete sembra destinato a interessare un
numero sempre maggiore di persone.
Fumo di sigaretta
Il fumo di sigaretta è un altro importante fattore di rischio cardiovascolare.
Numerosi studi prospettici hanno evi-
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denziato un’aumentata incidenza di patologie cardiovascolari e di morte cardiaca improvvisa nei fumatori. In aggiunta, solo per cancro al polmone si
calcolano circa 500.000 decessi ogni
anno nei paesi della Comunità Europea,
il 90% dei quali dovuti al fumo. Dopo
anni di campagne contro il fumo, ad
oggi in Europa il 25% della popolazione
adulta risulta essere stabilmente fumatore, un valore preoccupante perché
prelude al mantenimento di elevate percentuali di patologie correlate sia nel
breve che nel lungo periodo. Da molti
decenni le patologie correlate al fumo
sono state identificate. Il fumo è considerato uno dei più potenti cancerogeni
al mondo per l’uomo: oltre al tumore
polmonare, che nel fumatore rappresenta un rischio 30 volte superiore rispetto al non fumatore, numerose altre
patologie neoplastiche sono significativamente associate al fumo, quali tumori
delle vie aeree superiori, dell’esofago,
dello stomaco, del pancreas, della vescica, del rene e della cervice uterina.
Nell’ambito delle malattie cardiovascolari, negli USA, sono stimate in 100.000
ogni anno le morti per infarto dovute al
fumo e 23.000 quelle per accidenti
ischemici cerebrovascolari. Purtuttavia,
nonostante la chiara e ferma relazione
esistente tra fumo e malattie cardiova-
scolari, rimane ancora non perfettamente chiaro il meccanismo che è alla
base di questo rischio. Si ipotizza che la
nicotina e il monossido di carbonio determinino, per attivazione adrenergica,
una vasocostrizione cutanea e l’aumento della frequenza cardiaca, oltre che
iperaggregabilità piastrinica, aumento
della pressione arteriosa, della contrattilità miocardica e della gittata cardiaca e
quindi del consumo di ossigeno da parte delle fibrocellule miocardiche; possono ancora provocare spasmi coronarici
e aumento della concentrazione plasmatica del cortisolo, del fibrinogeno e
dell’insulina. Gli effetti sull’apparato
cardiocircolatorio della nicotina sono in
gran parte dovuti all’aumento delle catecolamine e degli acidi grassi e alla diminuzione della produzione della prostaglandina PGI2, che ha azione vasodilatatrice, da parte dell’endotelio vascolare. Il monossido di carbonio inoltre,
avendo un’elevata affinità per l’emoglobina, determina, anche se presente in
piccole dosi, la presenza di carbossiemoglobina, per cui riduce la quantità di
ossigeno a disposizione dei tessuti e in
particolare del miocardio, provocando
alterazioni endoteliali ipossiche che
hanno una grande importanza nella cascata di eventi che sono alla base dell’aterogenesi coronarica.
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
Tabella 7
Riduzione del rischio
di eventi cardiovascolari
in soggetti ipertesi dopo
sospensione del fumo
per almeno due anni.
Sigarette/giorno
Rischio uomo
Rischio donna
10
-14%
-24%
20
-34%
-40%
40
-57%
-54%
Uno dei primi studi che ha permesso di rilevare come il fumo di sigaretta
possa essere un fattore di rischio per
accidenti cardiovascolari è stato il Lipid
Research Clinics, che ha anche dimostrato come il gruppo fumatori presentava valori di colesterolo totale ed LDL
più alti e più bassi valori di HDL-C rispetto ai non fumatori. Il Pooling Project, sintetizzando i dati di 54 studi pubblicati, ha confermato come il consumo
di tabacco sia un fattore di rischio indipendente, come l’ipertensione arteriosa
e l’ipercolesterolemia totale. Riguardo
gli effetti del fumo sulla mortalità cardiovascolare, si è visto ancora che 10
sigarette al giorno aumentano il rischio
di morte cardiovascolare del 18% negli
uomini e del 31% nelle donne. L’incidenza di morte improvvisa è particolarmente elevata nei fumatori e aumenta
all’aumentare del numero di sigarette.
Nei soggetti che smettono di fumare il
rischio di CHD si riduce rapidamente
per ritornare simile a quello dei non fumatori (Tab. 7). Questo aspetto è stato
valutato anche nel Framingham Heart
Study, dove il rischio di morti per cause
vascolari negli ex fumatori (20 sigarette/die per 30 anni) si è ridotto nel giro
di un anno a livello dei soggetti che non
avevano mai fumato. In questo senso la
presenza di più fattori di rischio concomitanti amplifica il risultato se solo si
considera che dallo studio di Framingham è risultato che la sospensione del
fumo in un maschio iperteso e fumatore
può ridurre il rischio di CHD del 40%,
mentre l’effetto è minore (15%) quando un soggetto con le stesse caratteristiche è normoteso.
Attualmente in molti paesi sviluppati
sono in vigore leggi che limitano la pubblicità ai prodotti del tabacco e molti
stati sono impegnati in campagne di
prevenzione ed educazione sanitaria. La
semplice abolizione dell’abitudine al fumo potrebbe produrre risultati in termini
di prevenzione primaria e secondaria
sovrapponibili o anche migliori rispetto a
quelli ottenibili con terapie farmacologiche ed è per questo motivo che l’aboli-
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C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi
zione del fumo rappresenta uno dei cardioni di tutte le strategie di intervento
su popolazioni.
sappiamo inoltre che spesso l’obesità e
l’iperinsulinemia, come anche il diabete
mellito, si associano a elevati livelli di trigliceridemia. Tali disturbi metabolici sono già presenti quando c’è un aumento
modesto dei valori di trigliceridemia e
possono sicuramente contribuire a rendere più complessi i rapporti con la cardiopatia ischemica. L’ipertrigliceridemia
severa (>1000 mg/dl) con chilomicronemia (particelle di grandi dimensioni
che comportano grandi problematiche
anche di tipo emoreologico, in particola
re a livello di alcuni tessuti come il pancreas) si associa invece prevalentemente alla pancreatite acuta (evenienza anzi
praticamente ineluttabile nei casi di
iperchilomicronemia), ma molto meno
all’aterosclerosi coronarica. Ne risulta
quasi un paradosso clinico: mano a
mano che si abbassa la trigliceridemia,
aumenta il rischio cardiovascolare, che
è di gran lunga superiore nei soggetti
con forme modeste, in cui maggiormente incidono le condizioni aterogene
associate che abbiamo elencato precedentemente. Questo può rappresentare
un’altra motivazione del fallimento di alcuni studi epidemiologici. Purtuttavia
molti trial clinici hanno dimostrato che
farmaci in grado di ridurre principalmente la trigliceridemia (fibrati) sono in grado di modificare il rischio cardiovascola-
Trigliceridemia
Il ruolo della trigliceridemia come
fattore di rischio cardiovascolare rappresenta un rilevante problema clinico
ed epidemiologico. In particolare, il quesito principale è se l’ipertrigliceridemia
debba essere o meno considerata un
predittore indipendente di rischio cardiovascolare, e questo perché elevati
valori di trigliceridi plasmatici generalmente si associano a tutta una serie di
alterazioni metaboliche di per sé aterogene. Tra questi, un ruolo di primo piano hanno sicuramente i bassi livelli di
HDL-colesterolo: esistono comunque
dati più o meno recenti che sembrerebbero confermare un ruolo della trigliceridemia sugli eventi cardiovascolari,
scisso da quello delle HDL. Come detto
precedentemente, l’incremento dei trigliceridi plasmatici è associato costantemente a una serie di alterazioni metaboliche potenzialmente pericolose, quali
alterazioni della fase postprandiale e accumulo di particelle remnant, anormalità
di composizione delle LDL, alterazioni
della fibrinolisi e della coagulazione;
39
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
re quando utilizzati in pazienti con ipertrigliceridemia. Conseguentemente gli
elevati livelli di trigliceridi possono quindi
diventare un obiettivo del trattamento
indipendentemente dall’abbassamento
dei valori di LDL. La riduzione dei livelli
di trigliceridemia, inoltre, modifica positivamente una serie di altre anomalie lipoproteiche in grado di alterare il rischio
cardiovascolare, tra cui i bassi livelli di
HDL, la presenza di LDL piccole e
dense o le anomalie della fase postprandiale. Naturalmente, la riduzione
del peso corporeo in pazienti in sovrappeso, come anche l’adozione di adatti
programmi di esercizio fisico, sono in
grado di ridurre i livelli di trigliceridemia,
che rappresenta tra l’altro una delle
modalità attraverso cui queste variazioni
dello stile di vita sono in grado di modificare il rischio cardiovascolare.
che complesse e non disponibili immediatamente. Il parametro che negli ultimi anni ha avuto la migliore applicabilità
clinica è stato però il rapporto vita/fianchi, che rappresenta una semplice misurazione, facilmente praticabile in
qualsiasi ambulatorio medico, altamente
associata con altri fattori di rischio e
predittiva di eventi clinici cardiovascolari. Recentemente sono emerse ulteriori
informazioni che mostrano come la
semplice misurazione della circonferenza addominale possa avere un potere
clinico e predittivo sovrapponibile al rapporto vita/fianchi. L’obesità centrale tipicamente incrementa i livelli plasmatici
di colesterolemia e la pressione arteriosa e abbassa i livelli di HDL-colesterolo. Predispone inoltre al diabete mellito
di tipo II. Condiziona poi negativamente
altri fattori di rischio: trigliceridemia,
qualità delle LDL, resistenza insulinica
e fattori protrombotici. Per tale motivo
la valutazione dell’obesità come fattore
di rischio indipendente è molto complessa, e spesso gli studi epidemiologici
hanno dimostrato una riduzione del rischio relativo dopo aggiustamento per i
fattori associati. Esistono comunque
dati longitudinali che hanno dimostrato
che l’obesità, e come detto principalmente quella centrale, predispone in
maniera indipendente dagli altri fattori di
Obesità
Gli americani definiscono l’obesità
un fattore di rischio cardiovascolare
maggiore. Il rischio è notevolmente
maggiore quando l’obesità ha una predominante componente addominale.
Esistono diversi modi per valutare il tipo
di obesità: molti di questi presuppongono l’impiego di attrezzature diagnosti-
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C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi
rischio noti alla CHD. Tale associazione
sembra essere maggiore nei maschi
bianchi. In uno studio prospettico, gli
uomini fra 40 e 65 anni con indice di
massa corporea (BMI) tra 25 e 29
kg/m2, avevano il 72% in più delle probabilità di sviluppare una CHD fatale o
non fatale dei soggetti che non erano in
sovrappeso. In un altro studio, le donne
con BMI fra 23 e 25 kg/m2, avevano il
50% in più di rischio di CHD di quelle
con un BMI più basso. In una popolazione dell’Italia meridionale, Ventimiglia
di Sicilia, è stato documentato che il
sovrappeso e la distribuzione “centrale”
del grasso si associavano in maniera indipendente alla mortalità totale e a
quella cardiovascolare. Tale informazione risulta maggiormente inquietante se
si considera che il sovrappeso e l’obesità stanno diventando un problema sociale in Italia, e questo soprattutto nelle
fasce di età più giovani e nelle donne.
Le relazioni assolute tra peso corporeo
e morbosità e mortalità per CHD sono
meno definite negli ispanici, indiani
Pima e negri americani; in ogni caso
l’obesità è un potente fattore di rischio
per il diabete di tipo II, che è di per sé
un fattore di rischio cardiovascolare
maggiore. La riduzione del peso corporeo si associa a una modificazione del
rischio cardiovascolare: purtuttavia
comporta nello stesso tempo anche un
miglioramento di tutte le condizioni associate al sovrappeso. In definitiva, anche se rimane molto da capire circa i
meccanismi biologici che stanno alla
base dell’associazione tra obesità e
CHD, rimane fuor di dubbio che una
forte relazione esiste. Per tale motivo,
l’obesità va considerata un fattore di rischio per CHD e necessita di un trattamento diretto, mirato alla prevenzione e
alla riduzione di peso delle persone in
sovrappeso. Questo dev’essere una
parte integrante di tutte le strategie di
prevenzione a breve e a lungo termine.
Inattività fisica
Numerosi studi, incluso il Framingham Heart Study, hanno dimostrato
che l’inattività fisica aumenta il rischio
per la CHD. Il grado di inattività fisica
che aumenta il rischio coronario indipendentemente dagli altri fattori di rischio maggiori non è noto. Di sicuro,
l’inattività fisica ha effetti negativi su
molti dei fattori di rischio noti e in particolare sul profilo lipidico (riduzione dei
livelli di HDL-colesterolo). Anche se poi
andasse considerata un fattore di rischio indipendente, al momento è
estremamente difficile misurare in ma-
41
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
niera affidabile nei singoli individui i livelli di attività fisica. È questo uno dei
motivi per i quali l’attività fisica non può
essere oggi inclusa nella valutazione del
rischio cardiovascolare globale. Nonostante questi limiti di valutazione, diversi
studi hanno dimostrato che un’attività
fisica regolare riduce il rischio per CHD.
La rimozione dell’inattività fisica rappresenta quindi un obiettivo di trattamento
specifico e indipendente. I medici dovrebbero sempre incoraggiare i loro pazienti a incrementare i propri livelli di
esercizio fisico, anche se i pazienti ad
alto rischio dovrebbero avere dei programmi guidati specifici.
lipidemizzante. Infatti, a prescindere dal
fatto che sia o meno utilizzata per modificare il trattamento nei singoli pazienti,
l’anamnesi familiare è comunque imprescindibile nella clinica dei soggetti a rischio cardiovascolare. Un gentilizio positivo per CHD premature impone al medico almeno un richiamo al paziente per
una completa valutazione dei familiari,
sia per un’eventuale aterosclerosi subclinica sia per la presenza di fattori di rischio. Un problema strettamente connesso e che nel futuro avrà sempre
maggiore rilevanza, riguarda la diagnosi
genetica. Noi oggi abbiamo coscienza
del fatto che esiste tutta una serie di
geni che possono rappresentare elementi causali, oppure in grado di aumentare la suscettibilità all’aterosclerosi
come conseguenza di interazione tra
fattori genetici e ambientali. Tali fattori
genetici sono costituiti da mutazioni e da
semplici polimorfismi, cioè alterazioni
che generano singole anomalie della sequenza del DNA senza modificazioni del
gene, di cui però possono o meno alterare la funzione. Tali fattori sono stati
solo parzialmente identificati. Tra i geni
candidati ad avere un ruolo attivo
nell’aumentare il rischio cardiovascolare,
annoveriamo alcuni geni implicati nel
metabolismo lipoproteico, nel sistema fibrinolitico e coagulativo, nel sistema re-
Storia familiare
di CHD prematura
e geni di suscettibilità
Ci sono pochi dubbi sul fatto che
una storia familiare positiva per CHD
premature conferisca un maggior rischio
a qualsiasi livello degli altri fattori di rischio noti. In ogni caso, il grado di indipendenza dagli altri fattori e la potenza
assoluta nell’incrementare il rischio non
sono definiti. Le Linee Guida internazionali includono sempre la storia familiare
per CHD prematura fra le situazioni che
modificano l’intensità di una terapia ipo-
42
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C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi
nina-angiotensina e anche nella funzione endoteliale e nel metabolismo della
parete vascolare. Al contrario delle rare
forme monogeniche con segni e sintomi
clinici severi (come nel caso dell’ipercolesterolemia familiare), i polimorfismi genetici sono relativamente frequenti. Ciò
implica che spesso un individuo porta
più marker che predispongono al rischio
cardiovascolare. Sono poi le caratteristiche di vita e comportamentali e/o fattori
endogeni che sono in grado di modulare
il rischio. In ogni caso, eccetto per alcuni geni specifici che hanno un effetto
documentato su determinate situazioni
intermedie (esempio polimorfismi
dell’apoE e livelli di LDL-colesterolo) o
cliniche (IMA), il ruolo di gran parte dei
geni è controverso e non definito.
Nonostante il grande progresso nel
mappaggio del menoma umano degli ultimi anni, l’identificazione dei geni responsabili delle malattie cardiovascolari
è ancora, quindi, in una fase precoce, e
rappresenta una scommessa della ricerca medica del prossimo futuro.
to della personalità e di elementi socioeconomici al rischio per CHD, e fattori
specifici come l’ostilità, la depressione,
l’isolamento sociale sono stati dimostra
ti avere un ruolo predittivo. L’influenza
del tipo di personalità è stata presa in
considerazione da diversi studi epidemiologici, ed si è dimostrato che i soggetti caratterizzati da particolare aggressività, ambizione, ostilità, competitività e ansietà (personalità di tipo A)
avevano un rischio raddoppiato di sviluppare eventi cardiovascolari. Tale associazione è stata spesso confermata,
anche se tale tipo di personalità è di sovente associata ad altri fattori di rischio,
come il fumo di sigaretta o l’ipertensione. I fattori comportamentali non sono
inclusi nei vari algoritmi di valutazione
del rischio cardiovascolare globale. Nonostante ciò, il medico deve prendere in
considerazione tali condizioni nel singolo paziente quando una strategia di riduzione complessiva del rischio viene
intrapresa.
Caratteristiche etniche
Fattori psicosociali
e comportamentali
La popolazione di Framingham rappresenta la popolazione mondiale più intensivamente studiata per la valutazione
dei fattori di rischio cardiovascolari. Que-
Esiste da molto tempo un grande
interesse nella valutazione del contribu-
43
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
sto studio è di grande valore nel dimostrare come si sviluppa il rischio in questa popolazione. Poiché la popolazione
di Framingham è largamente costituita
da bianchi di origine europea, non è
chiaro se il rischio assoluto attribuibile a
questa popolazione è estendibile ad altre
realtà. Evidenze disponibili suggeriscono
che il rischio assoluto vari tra le differenti
popolazioni indipendentemente dai fattori di rischio maggiori. Per esempio, il rischio assoluto tra i soggetti asiatici (indiani e pakistani) che vivono nelle società occidentali, appare essere due volte più elevato dei bianchi, anche a parità
di fattori di rischio. Questo rischio differente deve essere tenuto in considerazione anche nella nostra società, che si
avvia a diventare multietnica. Altre situazioni possono avere un rischio basale inferiore a quello di Framingham. È il caso
degli hawaiani studiati nell’Honolulu
Heart Study, che hanno solo 2/3 del rischio dei soggetti di Framingham. Nel
Seven Countries Study, la popolazione
giapponese aveva un rischio di CHD
molto più basso delle altre popolazioni,
ma come è noto anche l’area mediterranea, con alcune differenze, sembra essere una zona privilegiata in termini di rischio coronario, e questo sia per ragioni
ambientali (per esempio l’alimentazione)
che per motivazioni di tipo genetico (ad
esempio una differente distribuzione dei
polimorfismi dell’apoE).
Il concetto di rischio
cardiovascolare
globale, le carte
del rischio coronario
I grandi trial di prevenzione primaria
e secondaria hanno documentato in
maniera inequivocabile che la riduzione
dei livelli di colesterolo plasmatici è in
grado di ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari. Cionondimeno la nuova visione della pratica medica, in relazione
anche a necessità di tipo economico, fa
emergere aspetti meno considerati in
passato. Analizzando il rapporto costo/beneficio della terapia ipolipidemizzante con statine, la prevenzione primaria, al contrario della prevenzione secondaria, per essere efficace dovrebbe
essere limitata ai soggetti nelle classi
elevate di rischio, rendendo quindi necessario un approccio integrato al problema del rischio cardiovascolare da valutare in maniera globale. In tal senso è
necessario affrontare il problema attraverso un approccio multiplo: da un lato
strategie più generali di “popolazione”, e
dall’altro programmi individuali indirizzati
ai soggetti ad alto rischio.
44
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C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi
La strategia di popolazione (rivolta
cioè a tutti gli individui, sani, malati e
predisposti) mira a ottenere una riduzione complessiva dei fattori di rischio attraverso semplici misure generali di ordine dietetico-ambientale e sanitario
estendibili alla maggioranza dei soggetti. Queste comprendono innanzitutto
l’adozione di iniziative concrete per
l’identificazione di tutti i fattori di rischio
coronarico, attraverso accurati programmi di screening facilmente praticabili in
ciascun ambulatorio medico; quindi la
consuetudine a fornire a tutti i pazienti
consigli alimentari corretti, con una dieta a basso contenuto di grassi saturi e
colesterolo. Tali obiettivi nutrizionali sono
facilmente raggiungibili aumentando il
consumo di alcuni alimenti molto diffusi
nella nostra dieta (pasta, pane, verdure,
legumi, frutta fresca, pesce, olio d’oliva
ecc.) e riducendo quello di altri (carni
rosse, uova, insaccati ecc.). Sono ancora di rilevante importanza l’eliminazione del fumo di sigaretta, l’ottenimento
di un peso corporeo ideale ed eventualmente l’incremento dell’attività fisica.
La strategia individuale va orientata
invece a tutti i soggetti ad alto rischio, e
cioè con una malattia cardiovascolare
preesistente, con un’iperlipidemia genetica o che siano portatori di un elevato rischio cardiovascolare su base mul-
tifattoriale. È probabilmente superfluo
ricordare che se esistono alcuni dei fattori causali maggiori che abbiamo precedentemente descritto, si deve considerare che altre condizioni – ambientali,
biochimiche, patologiche o perfino anamnestiche a tutti note – sono in grado
di modificare il rischio cardiovascolare.
Peraltro la coesistenza di differenti fattori di rischio in uno stesso soggetto
amplifica il rischio stesso, poiché essi
interagiscono tra di loro con un effetto
non additivo ma moltiplicativo.
Emerge quindi prepotentemente la
necessità di una valutazione integrata,
globale, del rischio individuale. Sono oggi disponibili numerosi strumenti, cartacei o informatizzati, in grado di analizzare
il rischio cardiovascolare. Purtuttavia
nessuno di essi è definitivo e in grado
di incorporare tutti i fattori di rischio noti. Un esempio su tutti è la costante assenza della familiarità per cardiopatia
ischemica, che rappresenta un’indicazione clinica di grandissima importanza,
ma difficilmente riducibile a un parametro analizzabile dalle varie metodiche. In
ogni caso il risultato finale è quello di
spostare l’attenzione da un singolo fattore al rischio globale dell’individuo. La
scelta di uno strumento rispetto a un altro non è semplice, ed esistono vari
studi comparativi a proposito. La mag-
45
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
Figura 1
Carta del Rischio Coronarico in pazienti a rischio elevato di un primo evento cardiovascolare maggiore.
DONNE
UOMINI
4
5
250
6
Fumatori
300
mg/dl
150
8
mmol/l
4
7
200
5
250
6
Non-fumatrici
300
mg/dl
150
8
mmol/l
4
7
180
età
160
70
140
120
180
età
160
60
140
Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg)
120
180
160
160
140
140
120
120
180
180
160
160
140
140
120
120
160
50
140
140
120
120
180
180
età
160
40
140
120
180
età
160
30
140
120
mg/dl
180
180
età
160
mmol/l
180
4
5
150
6
200
7
250
8
mmol/l
300
mg/dl
4
150
Colesterolo
6
200
7
250
Oltre il 40%
da 20% a 40%
da 10% a 20%
da 5% a 10%
sotto il 5%
5
250
6
Fumatrici
300
mg/dl
150
8
mmol/l
4
7
200
5
250
6
300
7
8
180
età
160
70
140
120
180
età
160
60
140
120
180
180
età
160
160
50
140
140
120
120
180
180
160
160
140
140
120
120
180
180
160
160
140
140
120
120
8
mmol/l
300
mg/dl
Colesterolo
Livello del Rischio
Molto alto
Alto
Moderato
Lieve
Basso
5
200
età
160
40
140
120
180
età
160
30
140
120
4
5
150
6
200
7
250
Colesterolo
Come usare la Carta del Rischio
Coronarico
Tale carta permette di stimare il rischio di malattia
coronarica nei soggetti che non hanno sviluppato
una coronaropatia sintomatica o altre patologie
aterosclerotiche. I pazienti con malattia coronarica
sono già ad alto rischio e richiedono un intervento
intensivo sullo stile di vita e, se necessario, una
terapia farmacologica per ridurre i fattori di rischio.
• Per stimare il rischio assoluto
di un soggetto di sviluppare un evento
coronarico in 10 anni, identificare la tabella
corrispondente al sesso, alla condizione rispetto
46
Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg)
mmol/l
200
Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg)
150
Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg)
Non-fumatori
mg/dl
8
mmol/l
300
mg/dl
4
5
150
6
200
7
250
8
300
Colesterolo
al fumo e all’età. All’interno della tabella,
identificare i quadrati indicanti i valori della
pressione arteriosa sistolica (mmHg)
di interesse e i valori di colesterolo
(mmol/l o mg/dl).
• L’effetto dell’età sui fattori di rischio può
essere valutato all’interno della tabella.
• I soggetti ad alto rischio sono coloro il cui
rischio di sviluppare un evento coronarico
in 10 anni supera il 20% oppure supererà
il 20% se proiettati all’età di 60 anni.
• Il rischio di malattia coronarica è più alto di
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C.M. Barbagallo, A. Notarbartolo, F. Polizzi, G. Scalisi
DONNE CON DIABETE
UOMINI CON DIABETE
4
5
250
6
Fumatori
300
mg/dl
150
8
mmol/l
4
7
200
5
250
6
Non-fumatrici
300
mg/dl
150
8
mmol/l
4
7
180
età
160
70
140
120
180
età
160
60
140
Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg)
120
180
160
160
140
140
120
120
180
180
160
160
140
140
120
120
160
50
140
140
120
120
180
180
età
160
40
140
120
180
età
160
30
140
120
mg/dl
180
180
età
160
mmol/l
180
4
5
150
6
200
7
250
8
mmol/l
300
mg/dl
4
5
150
Colesterolo
quello indicato nelle carte nel caso di soggetti con:
• Ipercolesterolemia familiare
• Storia familiare di malattia cardiovascolare
• Bassi livelli di colesterolo HDL. In queste tabelle
viene considerato un C-HDL di almeno 39
mg/dl (1,0 mmol/l) negli uomini e di 43 mg/dl
(1,1 mmol/l) nelle donne.
• Livelli di trigliceridi >180 mg/dl (2,0 mmol/l)
• Età
• Per individuare il rischio relativo di un
individuo confrontare il rischio con quello di altri
individui della stessa età. Il rischio assoluto qui
6
200
7
250
200
5
250
6
Fumatrici
300
mg/dl
150
8
mmol/l
4
7
200
5
250
6
300
7
8
180
età
160
70
140
120
180
età
160
60
140
120
180
180
età
160
160
50
140
140
120
120
180
180
160
160
140
140
120
120
180
180
160
160
140
140
120
120
8
mmol/l
300
mg/dl
Colesterolo
età
140
120
180
età
160
30
140
120
4
5
150
6
200
7
250
Colesterolo
indicato può non essere applicabile a tutta la
popolazione, specialmente in presenza di una
bassa incidenza di malattia coronarica. Il rischio
relativo è verosimilmente applicabile nella gran
parte della popolazione.
• L’effetto delle variazioni di colesterolo, fumo
e pressione arteriosa possono essere valutate
con l’utilizzo delle carte.
Prevention of coronary heart disease in clinical
practice Reccommendation of the Second Joint
Task Force of European and other Societes on
Coronary Prevention, European Heart Journal,
19: 1434-1503, 1998
47
160
40
8
mmol/l
300
mg/dl
4
5
150
6
200
7
250
Colesterolo
8
300
Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg)
mmol/l
200
Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg)
150
Pressione Arteriosa Sistolica (mmHg)
Non-fumatori
mg/dl
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
gior parte di essi si basa sui dati epidemiologici di Framingham o del Prospective Cardiovascular Munster Study
(PROCAM). La Società Europea dell’Aterosclerosi (EAS) ha varato delle
semplici Carte del Rischio basate sui
dati epidemiologici del Framingham
Study che tengono in considerazione
sei fattori di rischio (età, sesso, colesterolemia, pressione arteriosa, fumo di sigaretta, diabete), e sono state quindi
adottate per diffondere le proprie Linee
Guida ai medici pratici. Tali Carte rappresentano un modello semplice, abbastanza affidabile, alla portata di tutti, in
grado di valutare il rischio di avere un
evento cardiovascolare importante (infarto del miocardio fatale o non fatale o
morte coronarica) nei successivi 10 anni. Sono costituite da tabelle formate da
quadrati colorati che corrispondono a
uno specifico livello di rischio, e dal
semplice incrocio dei fattori di rischio
presenti è possibile ottenere la situazione del soggetto in esame (vedi Fig. 1).
Sono diversificate, inoltre, in base al
sesso, alla presenza del fumo di sigaretta e del diabete mellito. Purtuttavia le
carte emanate dall’EAS, anche se senza dubbio valide, comportano dei problemi che è necessario conoscere per poterle utilizzare al meglio. Come di un farmaco il clinico deve infatti conoscere
pregi (indicazioni ed efficacia terapeutica) e difetti (eventi avversi), anche di un
tale strumento deve a maggior ragione
essere a conoscenza dei vantaggi che
possono comportate dal suo utilizzo ma
anche degli eventuali problemi. Innanzitutto le Carte del Rischio sono state inserite dal legislatore nella Nota 13 che
regola le norme di rimborsabilità dei farmaci ipocolesterolemizzanti. Iniziativa lodevole, che introduce a tutti gli effetti,
nella nostra pratica clinica (per la prima
volta), il concetto della prevenzione primaria (per coloro che hanno un rischio
≥20% di un evento nei successivi 10
anni). Tali indicazioni non vanno scambiate però con una Linea Guida di Trattamento emanata dal Ministero, ma come una pura e semplice regola per individuare i pazienti che hanno diritto all’esenzione della partecipazione alla
spesa farmaceutica. Le Carte del Rischio, basate su una popolazione americana, senza dubbio sovrastimano il rischio rispetto alla nostra, che ha alimentazione e stile di vita, per buona parte
del territorio, di tipo mediterraneo. Sono
state prodotte recentemente delle Carte
del Rischio Italiane, calcolate in base ai
dati di tre studi epidemiologici, lo studio
ECCIS, lo studio IRA-SCS (Aree Rurali
Italiane del Seven Countries Study) e lo
studio di Gubbio, compiuti in soggetti
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italiani di ambo i sessi tra i 35 e 74 anni,
inizialmente esenti da malattie cardiovascolari, con un follow-up complessivo di
oltre 55.000 anni/persona. Anche queste Carte non sono esenti da critiche.
Sono innanzitutto basate su dati non
molto aggiornati, ed è noto che in Italia
l’incidenza delle malattie cardiovascolari
è in continuo aumento: in tal modo sottostimano il rischio attuale nella nostra
popolazione; inoltre mettono insieme il
rischio di malattia cardiovascolare con gli
accidenti cerebrovascolari, e sono quindi
poco comparabili con le Carte dell’EAS.
L’aggiornamento e la capillare diffusione
di queste carte potrà fornire al medico
un ulteriore strumento per il calcolo del
rischio nella popolazione italiana. Le carte attuali, poi, non tengono in considerazione alcuni fattori di rischio (HDL-colesterolo in prima istanza), sottostimano
altri importanti fattori di rischio, come ad
esempio il diabete, e, almeno per quanto riguarda la nostra popolazione, ne sovrastimano altri ancora, in particolare
l’età. Questo perché tengono in considerazione in particolare il rischio assoluto, che è chiaramente incrementato con
l’aumentare degli anni, e non il rischio
relativo, che rappresenterebbe un parametro più affidabile nella valutazione del
peso dei differenti fattori di rischio. La
pressione arteriosa, inoltre, va conside-
rata come valore “misurato” a prescindere da qualunque tipo di terapia farmacologia, e non come presenza o assenza di ipertensione: il soggetto iperteso
ben trattato va quindi considerato alla
stregua di un normoteso, anche in presenza di un danno d’organo. Un problema particolare esiste per l’approccio al
paziente diabetico. Il diabete è stato infatti considerato un semplice fattore di
rischio e non è stato estrapolato dal calcolo. Oggi però è universalmente riconosciuto che il diabetico andrebbe considerato alla stregua di un infartuato, per
quanto riguarda il rischio cardiovascolare, e che per ridurre gli eventi cardiovascolari in questi soggetti la priorità va
data al trattamento dell’LDL-colesterolo
con obiettivi estremamente ambiziosi da
raggiungere (LDL-colesterolo <100
mg/dl). Con la rigorosa applicazione
delle Carte del Rischio, così, una donna
diabetica di 60 anni, non fumatrice,
ipertesa (PAS 180 mmHg), con una colesterolemia di 270 mg/dl, avrà un rischio moderato (10-20%), mentre un
uomo di 70 anni, normoteso (PAS 110
mm/Hg), non fumatore, non diabetico,
con una colesterolemia di 200 mg/dl,
avrà un rischio elevato (20-40%). Una
conseguenza è che tutti gli anziani, che
hanno un rischio assoluto più elevato
basato solo sull’età, avranno la possibi-
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
lità di essere trattati anche se con una
scarsità di fattori di rischio, mentre i giovani con svariati fattori di rischio non
sempre rientreranno nei criteri di esenzione. In questo caso, i vantaggi in termini di farmacoeconomia, cui primariamente si ispirano queste modifiche delle
note, sono assolutamente da dimostrare, e ci riferiamo tra l’altro a una grossa
percentuale di pazienti che il medico di
medicina generale e il cardiologo visitano giornalmente.
Che la valutazione globale del rischio
cardiovascolare sia la modalità del futuro
attraverso cui attuare la prevenzione cardiovascolare, è testimoniato anche dalla
recente nuova edizione delle Linee
Guida Americane (ATP III), che ha incluTabella 8
Linee Guida della
National Cholesterol
Education Program
(NCEP) Export Panel sul
Trattamento dei livelli
elevati di colesterolo
nell’adulto (ATP III).
so la valutazione del rischio cardiovascolare globale nei criteri di valutazione degli
obiettivi terapeutici. Rispetto alle Linee
Guida Europee ci sono però delle differenze sostanziali, che vale la pena sottolineare. Il rischio cardiovascolare viene
valutato attraverso un algoritmo, derivato
sempre dal database di Framingham,
che ha il vantaggio, per esempio, di valutare in maniera differente la pressione
arteriosa “non trattata” da quella ottenuta sotto terapia farmacologia. Come mostrato nella Tabella 8, le nuove Linee
Guida Americane, destinate ad essere
come nel passato una traccia per il
comportamento terapeutico del resto del
mondo, considerano separatamente i
diabetici e i soggetti con aterosclerosi
Categoria
di rischio
Obiettivo
terapeutico
Modificazioni
dello stile di vita
Terapia
farmacologica
CHD
o equivalenti
di CHD*
LDL-C<100 mg/dl
LDL-C≥100 mg/dl
LDL-C≥130 mg/dl
(100-129
farmaci opzionali)
2 o più fattori
di rischio**
LDL-C<130 mg/dl
LDL-C≥130 mg/dl
LDL-C≥130 mg/dl
(Rischio 10-20%)
LDL-C≥160 mg/dl
(Rischio <10%)
0o1
fattori
di rischio**
LDL-C<160 mg/dl
LDL-C≥160 mg/dl
LDL-C≥190 mg/dl
(160-189
farmaci opzionali)
* Diabete mellito, malattia aterosclerotica (arteriopatia periferica, aneurisma aorta addominale,
arteriopatia carotidea sintomatica) o un rischio a 10 anni >20%.
** Età (≥45 anni negli uomini, ≥55 anni nelle donne), fumo di sigaretta, pressione arteriosa
≥140/90 mmHg o terapia farmacologia antipertensiva, HDL-C<40 mg/dl, storia familiare
di CHD precoce (<55 anni nei parenti di primo grado maschi, <65 anni nei parenti di primo
grado femmine).
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Tabella 9
Classificazione
dei livelli lipidici
e della sindrome
polimetabolica
nell’ATP III.
LDL-colesterolo
• Ottimale
<100 mg/dl
• Vicino all’ottimale
100-129 mg/dl
• Borderline alto
130-159 mg/dl
• Alto
160-189 mg/dl
• Molto alto
≥190 mg/dl
Colesterolo Totale
• Desiderabile
<200 mg/dl
• Borderline alto
200-239 mg/dl
• Alto
≥240 mg/dl
HDL-colesterolo
• Basso
<40 mg/dl
• Alto
≥60 mg/dl
Trigliceridemia
• Normale
<150 mg/dl
• Borderline alto
150-199 mg/dl
• Alto
200-499 mg/dl
• Molto alto
≥500 mg/dl
Sindrome polimetabolica
• Obesità addominale
Circonferenza vita
>102 (maschi)/88 (femmine) cm
• Trigliceridemia
≥150 mg/dl
• HDL-colesterolemia
<40 (maschi)/50 (femmine) mg/dl
• Pressione arteriosa
≥130/85 mmHg
• Glicemia
≥110 mg/dl
polidistrettuale (considerati equivalenti di
cardiopatia ischemica), e prendono anche in considerazione, finalmente, l’assetto lipidico in maniera globale, trac-
ciando anche dei limiti innovativi rispetto
al passato (ad esempio vengono considerate le basse concentrazioni di HDLC<40 mg/dl) e il problema, spinoso,
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
della sindrome polimetabolica (Tab. 9).
Rappresentano quindi un reale passo avanti nella prevenzione cardiovascolare e, come già successo in passato, rappresenteranno sicuramente un
modello cui ispirarsi.
Nella valutazione del rischio globale
bisogna tenere anche presente alcuni
aspetti collegati. Innanzitutto il fatto che
il rischio assoluto di una determinata
categoria di soggetti, collegato strettamente con il rischio globale, ha grandi
implicazioni pratiche, perché permette
tra l’altro di calcolare il numero di soggetti da trattare per prevenire un evento
(Number Needed to Treat, NNT), un
parametro epidemiologico estremamente importante perché consente di trasferire in maniera abbastanza rapida i
risultati dei trial clinici alla pratica clinica.
L’analisi dei grandi studi epidemiologici
in campo di prevenzione cardiovascolare con i farmaci ipocolesterolemizzanti
ha mostrato che esisteva una grande
differenza di rischio assoluto “basale”
tra i diversi trial e che questo, ovviamente, si associava a una reale differenza in termini di NNT. Si va così da
un rischio di eventi cardiovascolari del
3% annuo (30% in 10 anni) del 4S
(NNT 12), la cui coorte era costituita
da soggetti infartuati e ipercolesterolemici, fino a un rischio di 0,7% (NNT
86) del AFCAPS/Tex CAPS, in cui la
coorte non aveva sofferto precedentemente di un infarto del miocardio, aveva
livelli di colesterolemia normali e bassi
livelli di HDL-colesterolo (≤40 mg/dl).
Tale grande differenza è naturalmente
dovuta anche e soprattutto al fatto che
nel primo caso si tratta di soggetti che
hanno già sofferto di un precedente
evento cardiovascolare (infarto del miocardio), nel secondo di individui che ne
erano esenti. Gli altri studi hanno individuato fra il 2 e il 2,3% il rischio assoluto
del CARE e del LIPID (NNT rispettivamente 23 e 28; soggetti infartuati con
diversi livelli di colesterolemia) e dell’1%
il rischio assoluto del WOSCOPS (nessun infarto, ma presenza di ipercolesterolemia e spesso altri fattori di rischio).
Rimane poi la questione del livello di rischio da considerare come limite per un
trattamento farmacologico. Anche questo è un aspetto che abbraccia argomenti di tipo finanziario e socioeconomico più che medico in senso stretto,
ma che va tenuto presente nella pratica
clinica dei nostri giorni. Abbassare il livello di rischio per una terapia, significa
aumentare in maniera forse indiscriminata il numero di pazienti eleggibili per
quel dato trattamento e conseguentemente i costi, e viceversa aumentarlo si
traduce in una riduzione dei soggetti da
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trattare ma anche in un possibile incremento dei costi “indiretti” legati a patologie causate dal mancato trattamento,
come ad esempio ricoveri per cardiopatia ischemica, infarto del miocardio e interventi di rivascolarizzazione. È naturale
che il livello di rischio scelto deve come
minimo essere pari a quello dei soggetti
che abbiano già avuto un evento. I dati
del WOSCOPS in termini di NNT avevano dimostrato che tra i soggetti che
presentavano un’ipercolesterolemia iso-
lata, il numero di individui da trattare
per prevenire un evento era di circa 56,
mentre se all’ipercolesterolemia si associavano l’ipertensione, la familiarità
cardiovascolare o il fumo, questo numero scendeva rispettivamente a 24,
23 e 21; in presenza di malattia vascolare preesistente o di alterazioni minori
dell’ECG si arrivava a 16 e 14 (Fig. 2).
Esaminando insieme i vari trial per
sottogruppi, risulta evidente che alcune
fasce di individui in prevenzione primaria
Figura 2
Numero di soggetti di età tra 45 e 64 anni da trattare per prevenire un evento
cardiovascolare maggiore nello studio WOSCOPS.
L’intera coorte WOSCOPS
Ipertensione
Storia familiare di CHD
Fumo o HDL-C<42 mg/ml
Malattia vascolare preesistente
Anomalie minori all’ECG
..........................................
Ipercolesterolemia isolata
0
56
40
24
23
21
16
14
20
40
60
80
Soggetti da trattare per prevenire un evento
53
100
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
Figura 3
M/F, lHDL, CT=(AFCAPS)
M, ↑LDL, <55 aa.
(WOSCOPS)
M, ↑LDL, >55 aa.
(WOSCOPS)
WOSCOPS, tutti
M, ECG alt., <55 aa.
(WOSCOPS)
M, ↑LDL, + F.R.
(WOSCOPS)
M, ECG alt., >55 aa.
(WOSCOPS)
F, LDL=, IMA (CARE)
CARE, Tutti
F, ↑CT, IMA Angina
4S, Tutti
M/F = maschi/femmine
↓ HDL = bassi livelli di HDL
CT = livelli di colesterolemia
nella media
↑LDL = LDL-colesterolo elevato
ECG alt. = presenza di alterazioni
elettrocardiografiche
+FR = presenza di fattori
di rischio multipli
IMA: presenza di infarto
del miocardio
M/F, >65 aa. (4S)
Diabetici (4S)
...............................................................................................
Rischio assoluto di
infarto fatale e non fatale
nei diversi studi di
prevenzione primaria
e secondaria divisi
per sottogruppi.
0
Prevenzione primaria
Prevenzione secondaria
1
2
3
4
5
6
7
Rischio assoluto per anno di IMA fatale e non fatale (%)
54
8
9
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(Fig. 3, parte superiore), possono avere
un rischio addirittura superiore a pazienti in prevenzione secondaria.
Lo spettro di rischio non è quindi in
grado di fare una netta discriminazione
tra prevenzione primaria e secondaria,
ed esiste una certa fascia di soggetti
che non hanno avuto un episodio coronario clinicamente manifesto, ma che
superano il limite del 2% annuo (20% in
10 anni). Un altro parametro importante
nella valutazione dei costi sociali è anche il livello di rischio generale di una
data popolazione. Dati anglosassoni dimostrano che circa l’11% della popolazione adulta residente nel Regno Unito
ha un rischio uguale o superiore al 2%
annuo, percentuale che scende al 3,4%
nel caso di soggetti con rischio del 3%
e allo 0,3% quando il rischio diventa del
4,5% annuo. Tutto ciò quindi dimostra
che porre il cut-off di rischio per iniziare
una terapia farmacologia al 2% annuo
rappresenta un limite ragionevole, almeno in quella popolazione, ed è ciò che
consigliano oggi le Linee Guida Europee
e Americane, anche se dati più recenti
suggerirebbero un vantaggio anche su
livelli di rischio lievemente inferiori.
Nel campo della prevenzione primaria è quindi fondamentale riuscire a discriminare nell’ambito dei soggetti “sani”
quella fascia di persone che, avendo un
rischio elevato, devono essere trattate in
modo più aggressivo. Tale approccio terapeutico trova un razionale anche in altri campi, oltre a quello della terapia ipocolesterolemizzante, come dimostrato
per esempio nel caso delle terapie antipertensive, dove la prescrizione di un
farmaco sulla base di una valutazione
del rischio globale ha delle implicazioni
cliniche ed economiche migliori rispetto
alla prescrizione basata sulla semplice
misurazione della pressione.
Possiamo concludere che un approccio globale ai fattori di rischio coronarico è quindi in grado di fornire al medico gli strumenti necessari per intervenire efficacemente nella prevenzione
cardiovascolare, con grande beneficio
nei confronti dei pazienti e riuscendo a
rendere anche un contributo in termini
di contenimento di spesa sanitaria, attraverso un’accurata selezione dei pazienti eventualmente candidati al trattamento farmacologico.
Nuovi fattori di rischio
e possibilità
di trattamento
In aggiunta ai maggiori fattori di rischio, una serie di altre condizioni o parametri sono stati identificati associarsi
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
Tabella 10
Nuovi fattori di rischio.
• Insulinemia
• LDL piccole e dense
• Lipoproteina(a)
• Remnant e Lipoproteine a Densità Intermedia (IDL)
• LDL ossidate
• Fattori protrombotici e coagulativi
• Fattori infiammatori
• Fattori infettivi
• Alcol
• Disfunzione endoteliale
• Fattori cardiaci
• Omocisteina
• Microalbuminuria
in vario modo al rischio cardiovascolare
(Tab. 10).
Anche se il loro contributo relativo
ed eventualmente indipendente non è
completamente documentato, e per
questo non sono in nessun caso inclusi
nella valutazione globale del rischio, la
loro presenza può però incrementare
notevolmente il rischio dovuto alla presenza degli altri fattori cosiddetti “maggiori”. Ciò non significa che essi non
siano correlabili singolarmente al rischio
cardiovascolare: tuttavia, spesso le relazioni con la cardiopatia ischemica
(CHD) sono più complesse di quelle dei
fattori di rischio “maggiori”. In alcuni casi, poi, esistono correlazioni statistiche
significative con i fattori di rischio maggiori, che oscurano il loro potere predit-
tivo indipendente. In altri casi, infine, la
frequenza nella popolazione può non
essere tale da riuscire a conferire un
potere statistico rilevante; nonostante
tutto, essi possono spesso essere importanti cause di CHD in determinati
pazienti. Molte di queste condizioni rappresentano obiettivi diretti di interventi
terapeutici, sia perché possibile causa
di altri fattori di rischio maggiori, sia
perché le evidenze di un loro ruolo nell’aterogenesi sono sufficientemente forti. Per tale motivo, la loro esclusione dal
calcolo del rischio assoluto non implica
necessariamente che tali fattori non
siano clinicamente importanti, e il loro
ruolo nella valutazione e nel trattamento
dei pazienti a rischio cardiovascolare
merita alcune specifiche valutazioni.
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questo, l’iperinsulinemia, e con essa
l’insulino-resistenza, è accompagnata
da una moltitudine di fattori di rischio
cardiovascolari che includono la presenza di un fenotipo lipoproteico aterogeno
(elevati trigliceridi, LDL piccole e dense
e bassi livelli di HDL-colesterolo), ipertensione arteriosa, uno stato protrombotico e, spesso, un’intolleranza glucidica. Tutto ciò è alla base della cosiddetta sindrome polimetabolica, una
condizione altamente aterogena trattata
in un’altra sezione di questo volume.
L’iperinsulinemia viene inoltre acquisita
nelle condizioni di sovrappeso, iperalimentazione e inattività fisica, anche se
una componente genetica indubbiamente esiste. Le uniche possibilità terapeutiche disponibili nei pazienti non
diabetici sono rivolte appunto alla rimozione di queste condizioni, e quindi riduzione del peso corporeo e aumento
dell’esercizio fisico.
Insulinemia
Elevati livelli di insulinemia, e con
essa l’inulino-resistenza che rappresenta un epifenomeno spesso associato
all’iperinsulinemia, può promuovere lo
sviluppo di lesioni ateromatose, e rappresenta quindi un altro potenziale fattore di rischio correlato con la CHD.
Purtroppo non esistono dati su popolazioni non diabetiche a supporto di tale
associazione. L’iperinsulinemia è infatti
in genere presente sia nei diabetici
non-insulino dipendenti (secondaria alla
resistenza periferica all’ormone), che
nei diabetici insulino-dipendenti (iatrogena). Gli studi disponibili che hanno
correlato il rischio di cardiopatia ischemica con l’insulinemia, trovando una
positiva associazione, non erano corretti
per gli altri fattori di rischio, e così non è
possibile fare valutazioni conclusive in
mancanza di sicure informazioni epidemiologiche. I meccanismi di associazione tra la resistenza insulinica e l’aterogenesi sono complessi e probabilmente
multifattoriali. Gli studi sperimentali
hanno però documentato come l’insulina possa avere un’azione mitogena sulle cellule muscolari lisce della parete
vasale, e che può incrementare la loro
migrazione dalla media all’intima stimolata da altre sostanze. A prescindere da
Lipoproteina(a)
La lipoproteina(a) [Lp(a)] è una
grossa lipoproteina basica, costituita da
una LDL nativa la cui apoB100 è legata in modo covalente con l’apoproteina(a), una glicoproteina che è il marker
specifico della Lp(a), attraverso un pon-
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
te disolfurico. È composta da una molecola di apoB di circa 500 kDa e una
di apo(a) con massa variabile fra 300 e
800 kDa. A causa di questa variabilità
di peso molecolare la Lp(a) assume un
notevole polimorfismo strutturale con
densità variabile. L’apo(a) è costituita
da una serie di anelli di sequele aminoacidiche, variabili in numero da 13 a
40, denominati kringle, analoghi agli
anelli numero 4 e 5 del plasminogeno.
La concentrazione plasmatica di Lp(a)
varia da 0,1 a 300 mg/dl e la distribuzione dei valori nella razza europea e nei
bianchi e neri americani non è di tipo
gaussiano, ma asimmetrica, con una
lunga coda verso i valori più alti. Le
concentrazioni plasmatiche di questa lipoproteina sono pressoché esclusivamente ereditabili, determinate in maniera predominate (>90%) dal gene dell’apo(a), e sono regolate da differenze
nella sintesi epatica piuttosto che da un
aumentato o ridotto catabolismo della
lipoproteina.
Per la sua analogia strutturale con
il plasminogeno, è tuttora dubbio se la
Lp(a) abbia un effetto protrombotico o
proaterogeno. In ogni caso, numerosi
studi sia caso-controllo che prospettici,
hanno in genere documentato un ruolo
predittivo, spesso indipendente, della
Lp(a) nei confronti delle malattie car-
diovascolari. Gli interventi dietetici e la
maggior parte dei farmaci utilizzati nella
terapia delle iperlipidemie, non sono risultati particolarmente efficaci nel ridurre i livelli plasmatici di questa lipoproteina. Farmaci ad azione puramente ipocolesterolemizzante, quali le resine a
scambio ionico, il probucol o gli inibitori
della sintesi di colesterolo (inibitori
dell’HMG-CoA reduttasi), non inducono importanti modificazioni dei livelli
plasmatici di Lp(a). Tra i fibrati, il gemfibrozil sembra non esercitare alcun effetto, mentre il bezafibrato risulta efficace nell’indurne un continuo e graduale calo. L’acido nicotinico e la neomicina sono i farmaci più efficaci nel ridurre le concentrazioni plasmatiche di
Lp(a), pur non portando a una completa normalizzazione: purtroppo sono farmaci di scarso impiego clinico, a causa
dei ben noti effetti collaterali. Di particolare efficacia risulta anche il trattamento con ormoni steroidei, utilizzati
nella sindrome da postmenopausa, come anche l’uso di alcuni omoni androgeni (stazololo e danazolo). Considerando la scarsa efficacia dei trattamenti
farmacologici fino ad oggi utilizzati,
sembra quindi prematuro adottare delle
Linee Guida per individuare soggetti
con alti valori di Lp(a) allo scopo di prevenire la CHD. Dobbiamo attendere
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nuove evidenze da trial clinici che la riduzione dei tassi circolanti di Lp(a) in
soggetti ad alto rischio si associa a una
ridotta probabilità di sviluppare eventi
cardiovascolari (incluso stroke e arteriopatia periferica). Nel frattempo, l’unica cosa sicuramente utile nei soggetti
con elevati livelli di Lp(a) è identificare
e controllare eventuali fattori di rischio
concomitanti.
tern delle LDL sembrerebbe inoltre essere molto forte: il pattern B sarebbe
influenzato da un’allele con una frequenza di 0,25-0,30 nella popolazione,
ereditarietà autosomica dominante e
una ridotta penetranza negli uomini prima dei 20 anni e nelle donne in età
premenopausale. Fra i soggetti con livelli normali o modestamente aumentati
di colesterolo totale, il rischio cardiovascolare è stato visto essere più elevato
nei soggetti che presentano livelli più
elevati di apoproteina B nelle LDL, e
con una maggiore quantità di particelle
di LDL circolanti con un basso rapporto
colesterolo/apoB. Poiché man mano
che si riducono le dimensioni delle lipoproteine, e quindi aumenta la densità
delle stesse particelle, si osserva una riduzione del contenuto percentuale lipidico e un aumento delle proteine, ne
deriva che la distribuzione delle LDL nei
soggetti affetti da CHD è spostata verso le particelle più piccole e dense. Effettivamente l’incidenza di CHD, anche
in soggetti normolipidemici, è significativamente aumentata nei soggetti che
presentano il pattern B delle LDL rispetto ai soggetti con pattern A: è stato
dimostrato che il pattern B si trova in almeno il 50% dei soggetti sopravvissuti
a infarto del miocardio, con un incremento del rischio relativo di almeno tre
LDL piccole e dense
Le lipoproteine a bassa densità
(LDL) non rappresentano una classe lipoproteica omogenea. Utilizzando particolari tecniche di laboratorio è infatti
possibile evidenziare almeno quattro
maggiori sottoclassi, diverse per densità, dimensioni e composizione, con
una grande variabilità individuale. Tali
sottofrazioni delle LDL avrebbero anche
differenti funzioni metaboliche. Nella
popolazione generale la distribuzione
delle sottofrazioni delle LDL sembrerebbe avere un andamento bimodale: circa
il 75% dei soggetti presenta una preponderanza di particelle più larghe,
LDL-I o LDL-II, (pattern A), mentre il
resto una predominanza di particelle più
piccole e dense, LDL-III o LDL-IV (pattern B). L’influenza genetica su tali pat-
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
volte rispetto al pattern A. I differenti
pattern delle LDL si associano anche
ad altre alterazioni lipoproteiche: i soggetti che presentano il pattern B hanno
livelli di trigliceridi, e apoB più elevati rispetto ai soggetti con pattern A, e livelli
di HDL e apoA-I più bassi. Questo porterebbe a ipotizzare che il gene responsabile del pattern B avrebbe un ruolo
anche in queste modifiche metaboliche
correlate. Le multiple modificazioni lipoproteiche associate a questo pattern
delle LDL, geneticamente determinato,
hanno portato a definirlo come il “fenotipo lipoproteico aterogeno”. L’associazione del pattern B con altre alterazioni
lipoproteiche e la frequente preponderanza di LDL piccole e dense in soggetti con iperlipidemia familiare combinata,
una manifestazione patologica estremamente comune che si associa a una
prematura CHD, aumentano anche la
possibilità che lo stesso allele che predispone a questo profilo delle LDL possa
contribuire allo sviluppo della stessa patologia. Dal punto di vista terapeutico
non sono molti gli strumenti efficaci nella modificazione delle dimensioni delle
LDL. La correzione di un’eventuale
ipertrigliceridemia, che come detto si
associa spesso al pattern B, comporta
di frequente anche un cambiamento di
pattern, mentre l’effetto diretto dei far-
maci è stato dimostrato soltanto per
l’acido nicotinico. Per altri farmaci, come le statine, l’azione in questo senso è
stata soltanto ipotizzata, ma ancora non
documentata. Quindi, oltre ai livelli di
LDL-colesterolo, anche la “qualità” delle
LDL circolanti sembrerebbe emergere
come un nuovo importante fattore associato alla cardiopatia ischemica, sia per
le potenzialità aterogene delle particelle
più piccole e dense, sia per le alterazioni metaboliche associate. Questo
aspetto del metabolismo lipoproteico va
tenuto particolarmente in considerazione perché, ad esempio, potrebbe fornire la chiave di lettura di molti casi di
precoce aterosclerosi in soggetti privi di
fattori di rischio.
Remnant e lipoproteine
a densità intermedia (IDL)
Queste lipoproteine sono rappresentate da quelle particelle che scaturiscono dalla parziale catabolizzazione, da
parte degli enzimi lipolitici, delle lipoproteine ricche in trigliceridi (VLDL e chilomicroni). Durante la lipolisi si verifica
una brusca deplezione dei trigliceridi di
queste lipoproteine, con un accumulo
relativo di colesterolo. Le particelle così
prodotte sono particolarmente labili e
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hanno una breve emivita plasmatica, in
quanto vengono rapidamente eliminate
dal fegato o ulteriormente catabolizzate
a formare le LDL. Hanno però delle
potenzialità aterogene elevate e la loro
breve presenza in circolo rappresenta il
maggiore ostacolo per produrre effetti
negativi. Esiste una specifica patologia
(iperlipoproteinemia di tipo III o malattia
da remnant) caratterizzata dall’accumulo di tali lipoproteine, che ha un’elevata
incidenza di malattie cardiovascolari.
Anche in pazienti con malattia cardiovascolare è stato trovato un accumulo di
remnant, e siccome la maggiore produzione di queste particelle è nelle fasi
che seguono l’introduzione di cibo, esistono alcune teorie che individuano
l’aterogenesi come un fenomeno postprandiale. La diffusione clinica di queste conoscenze presenta però degli
ostacoli. I remnant presentano delle difficoltà di dosaggio, oggi in parte superate dall’introduzione di specifici test,
che però risultano essere ancora complessi e costosi. Solo con tali test è
stato recentemente possibile associare
nella popolazione di Framingham l’incidenza di malattie cardiovascolari con la
presenza in circolo di remnant. Per
quanto riguarda il trattamento di tali
anomalie, è da tempo noto che la terapia farmacologia con fibrati ha un be-
nefico effetto, mentre meno dati sono
disponibili per le statine. In relazione alla concomitante presenza di altre anomalie lipoproteiche o meno (ipertrigliceridemia, bassi livelli di HDL-colesterolo,
ma anche sesso, iperinsulinemia e obesità), sono necessari ulteriori studi prospettici per chiarire il ruolo indipendente
dei remnant nei confronti delle malattie
cardiovascolari, ma soprattutto sarà necessario attendere test di misurazione
più semplici e meno costosi per avere
una routinaria misurazione di questo
parametro.
LDL ossidate
Le LDL ossidate si pensa siano la
forma aterogena delle LDL. Un’altra
sezione di questo libro è dedicata a una
più ampia trattazione di questo argomento. Comunque, anche se numerosi
studi sembrano confermare questo
aspetto, il ruolo protettivo degli antiossidanti nel prevenire l’ossidazione delle
LDL è solo parzialmente confermato
nell’uomo. Studi osservazionali ed epidemiologici, come anche trial randomizzati, non hanno fornito chiare indicazioni
su questo aspetto. Comunque, nonostante la mancanza di un consenso generale, esistono dati che sembrerebbe-
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ro rafforzare il concetto che un regolare
apporto di antiossidanti nel cibo possa
ritardare la progressione dell’aterosclerosi e che la ridotta suscettibilità all’ossidazione delle LDL possa rappresentare un ottimo marker di azione degli antiossidanti. Quando sarà possibile monitorare l’efficacia di una terapia antiossidante con marker di ossidazione validati, probabilmente avremo maggiori indicazioni sul ruolo potenziale delle vitamine e degli antiossidanti nei confronti
delle malattie cardiovascolari.
tori di rischio (come il fumo e l’età),
esiste una serie di vie fisiopatologiche,
acute o croniche, che possono giustificare questa stretta relazione e che
comprendono la capacità di infiltrare la
parete arteriosa, effetti emoreologici
dovuti all’aumentata viscosità ematica,
l’incrementata aggregabilità piastrinica
e la formazione di trombi, e l’aumentata formazione di fibrina. Anche il ruolo
delle piastrine nei confronti delle malattie cardiovascolari è stato valutato in
maniera estesa. Le manifestazioni cliniche della CHD sono per lo più generate da una trombosi che si verifica su
placche complicate, anche se non stenosanti, e in tal senso il ruolo delle piastrine è evidente. Del resto, numerosi
studi effettuati con antiaggreganti piastrinici hanno fornito dati brillanti in relazione al rischio di eventi cardiovascolari; l’aspirina risulta essere il farmaco
più studiato e va come tale considerato
il trattamento standard, anche se dati
positivi cominciano a emergere con i
nuovi farmaci che agiscono a livelli differenti. Il sistema fibrinolitico agisce invece sul versante della risoluzione del
trombo. Anche i fattori fibrinolitici possono essere importanti predittori di
eventi aterotrombotici. Molti studi epidemiologici hanno riportato una positiva
associazione tra alcuni marker di fibri-
Fattori protrombotici
e coagulativi
Forti evidenze hanno correlato il rischio cardiovascolare con variabili
emostatiche e coagulative. Una serie di
marker sono stati in tal modo studiati
(fibrinogenemia, fattore VII, VIII e di
von Willebrand, aggregazione piastrinica, livelli plasmatici di D-dimero, attività
fibrinolitica) con risultati generalmente
positivi. Tra i parametri che presentano
il maggior numero di informazioni c’è la
fibrinogenemia, che oggi viene considerata universalmente un fattore indipendentemente associato al rischio
cardiovascolare. Nonostante il fibrinogeno sia spesso correlato con altri fat-
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nolisi (ad esempio t-PA o PAI-1) e il rischio cardiovascolare. Tali associazioni
spesso però diventano non statisticamente rilevanti dopo l’aggiustamento
con altre condizioni, come l’obesità o
l’ipertrigliceridemia. Anche l’epidemiologia genetica ha dimostrato, tra l’altro,
che polimorfismi di alcuni geni implicati
nella fibrinolisi possono avere un ruolo
importante nelle malattie cardiovascolari, ma l’impatto relativo sugli eventi
clinici sembra essere modesto. Tali dati
non sono pertanto conclusivi e lasciano
aperta la questione se l’alterazione fibrinolitica sia una “causa” o eventualmente una “conseguenza” degli eventi
clinici aterotrombotici. In ogni caso la
misurazione dei parametri fibrinolitici
per identificare i pazienti a rischio cardiovascolare è oggi assolutamente prematura.
su dati sperimentali e clinici che suggeriscono un’influenza potenziale di determinati parametri sia plasmatici che tissutali sullo sviluppo della malattia coronaria, come anche nel predire eventi
clinici in pazienti con una malattia aterosclerotica conosciuta. Numerosi marker
sono stati studiati e la loro interdipendenza rimane comunque oscura. L’infiammazione è infatti uno dei fattori che
maggiormente contribuiscono alla gran
parte degli eventi, quali la rottura della
placca e le alterazioni di ischemia/riperfusione. Elevate concentrazioni di proteine di fase acuta, come la proteina Creattiva, sono state trovate in pazienti
con sindromi coronariche acute, e questo parametro è stato spesso associato
con un’aumentata incidenza di eventi
clinici cardiovascolari, mentre sembra
anche predire il rischio in soggetti apparentemente sani. La fase acuta si associa con elevati livelli di fibrinogeno,
notoriamente un importante fattore di
rischio per CHD, aumentata viscosità
ematica e attivazione piastrinica. La risposta immune è mediata dai leucociti
circolanti e tissutali, in grado di interagire con le cellule (endotelio e cellule muscolari lisce). In questo processo si verifica anche la sintesi e la produzione di
mediatori che comprendono molecole di
adesione, citochine, metalloproteinasi e
Fattori infiammatori
Negli ultimi anni si sono accumulati
molti dati che dimostrano un ruolo di
determinati marker infiammatori locali e
generali nei confronti della malattia aterosclerotica; tutto ciò in maniera indipendente e spesso complementare rispetto ai tradizionali fattori di rischio. Le
informazioni che abbiamo sono basate
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radicali liberi di ossigeno. Un ruolo chiave sembrerebbe avere l’interleuchina-6
(IL-6), un potente induttore della risposta di fase acuta. Nelle placche, i macrofagi e le cellule muscolari lisce esprimono l’IL-6, suggerendo un ruolo per
questa citochina, insieme con l’IL-1 e il
TNF-alfa, nella progressione dell’aterosclerosi. I livelli circolanti di IL-6 stimolano inoltre l’asse ipotalamo-ipofisi-surreni, e questo si associa a obesità centrale, ipertensione e insulino-resistenza.
Anche l’associazione con molecole di
adesione è stata studiata. In particolare,
il sVCAM-1 sembra essere il parametro
più specifico rispetto ad altri, in quanto i
livelli sierici si correlano strettamente
con l’estensione dell’aterosclerosi, e
quindi potrebbe essere un marker precoce di malattia. È comunque importante sottolineare che al di là dei presupposti fisiopatologici, pochi dati epidemiologici sono disponibili. Recentemente, in uno studio epidemiologico prospettico effettuato in una popolazione
siciliana, la semplice conta leucocitaria
era predittiva di stroke nel follow-up, e
dati sovrapponibili sono stati ottenuti in
altre situazioni. Purtuttavia, servono ulteriori studi appositamente disegnati per
capire meglio il ruolo dei marker infiammatori come predittori di malattie cardiovascolari.
Fattori infettivi
Esistono diverse evidenze che fattori infettivi possano essere implicati nei
processi aterogeni. Le malattie cardiovascolari sono state associate da tempo a infezioni croniche mediate l’attivazione dei sistemi infiammatori. I dati disponibili riguardano principalmente la
Clamidia pneumoniae, ma sia l’Helicobacter pylori che il cytomegalovirus sono stati ampiamente studiati. La
Clamidia pneumoniae è stata ritrovata
nelle placche aterosclerotiche, i livelli
anticorpali si correlano con l’incidenza e
la severità della malattia aterosclerotica
e sono stati documentati linfociti T responsivi al batterio in pazienti con cardiopatia ischemica. Anche linfociti T
derivanti da placche aterosclerotiche rispondono alla Clamidia. Studi epidemiologici hanno dimostrato l’associazione tra la Clamidia e i classici fattori di
rischio cardiovascolari: ad esempio le
infezioni da Clamidia sono più frequenti nei fumatori rispetto ai non fumatori,
suggerendo che il fumo predispone
all’infezione. Comunque, nonostante un
parziale successo preliminare di alcuni
trial con macrolidi, l’esatto meccanismo
con il quale la Clamidia possa entrare
nella parete endoteliale rimane ignoto.
Il legame tra l’Helicobacter pylori e la
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CHD, descritto da Mendall et al già dal
1994, è stato oggetto di molti studi
epidemiologici e clinici; comunque,
questi sono stati talmente eterogenei
che risulta difficile fare una selezione di
pazienti comparabile e indirizzarla sugli
stessi end-point, ad esempio angina
stabile o infarto acuto del miocardio. Le
evidenze da studi su animali supportano l’ipotesi che l’Helicobacter pylori
possa avere un ruolo importante nella
fase acuta dell’infarto: il batterio causa
aggregazione piastrinica e ha un’azione
pro-coagulante nei topi da esperimento. Contribuisce anche all’aterosclerosi
attraverso un meccanismo di autoimmunità contro le cellule endoteliali e
aumentando le concentrazioni di omocisteina per una riduzione dei livelli di
acido folico e cobalamina. L’esatto ruolo che però gioca non è del tutto definito: c’è chiaramente bisogno di nuovi
studi epidemiologici e clinici che possano investigare con metodi appropriati e
attraverso disegni prospettici e di intervento le possibili relazioni tra l’Helicobacter pylori e la CHD. Molto studiate
sono state anche le interazioni tra il
cytomegalovirus e la parete endoteliale, e anche sull’herpes simplex virus
di tipo 1 esistono dati interessanti. Le
infezioni con il cytomegalovirus sembrano essere maggiormente associate
con il rischio di restenosi dopo angioplastica che con quello di un’aterosclerosi primitiva. Studi prospettici su
larga scala sono necessari anche in
questo caso per correlare l’infezione
con il rischio futuro di malattie cardiovascolari. In tutte le associazioni tra
fattori infettivi e malattia cardiovascolare, per rafforzare l’associazione dovrebbero comunque essere controllate
le variabili confondenti, come altri fattori di rischio o anche lo status socioeconomico. Gli studi clinici con antibiotici per prevenire gli eventi clinici
cardiovascolari sono in corso. Fino a
quando i risultati non saranno disponibili, comunque, non è consigliabile
prescrivere antibiotici a tale scopo. In
ogni caso, molti dati saranno necessari
per raggiungerlo, e soprattutto altri
studi dovranno essere disegnati per
definire il farmaco migliore e la dose
ideale per ottenere la massima efficacia con il minor numero di effetti indesiderati.
Alcol
Studi osservazionali hanno attribuito un ruolo protettivo al consumo di alcol sullo sviluppo dell’aterosclerosi e
della mortalità e morbilità cardiovasco-
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lare. Una modesta assunzione di alcol
ridurrebbe del 20-40% l’incidenza di
eventi cardiovascolari. Un effetto protettivo addizionale è stato inoltre attribuito dai maggiori studi osservazionali
al vino, in considerazione degli effetti
antiossidanti e sull’aggregazione piastrinica.
Gli effetti dell’alcol sono però estremamente complessi. La protezione
può essere fornita dalla modulazione di
altri fattori di rischio poiché l’alcol, in
quantità limitate, aumenta le concentrazioni plasmatiche di HDL-colesterolo, ha effetti positivi sulla pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la contrattilità miocardica e sulla funzione endoteliale, mentre non interferisce con il
peso corporeo e l’omeostasi glucidica.
Esistono anche dati su un’azione diretta sull’aterogenesi. Le stesse quantità
di alcol in presenza di una malattia cardiovascolare possono però avere un
transitorio effetto emodinamico sfavorevole. L’abuso di alcol poi predispone
a pericolose aritmie cardiache, all’ipertensione, a cardiomiopatie, allo stroke
e alla morte improvvisa. Per tali motivi,
nonostante i documentati effetti favorevoli, non esistono sufficienti evidenze
da giustificare un’eventuale somministrazione di alcol nella prevenzione cardiovascolare.
Disfunzione endoteliale
Il ruolo attivo dell’endotelio vascolare è stato rivalutato negli ultimi anni in
tutta una serie di situazioni. Il concetto
passivo di parete come semplice contenitore è stato da tempo abbandonato e
molte delle funzioni delle cellule endoteliali hanno una parte attiva nelle malattie
cardiovascolari. In condizioni normali,
l’endotelio vascolare ha un’azione di
controllo sul tono vascolare, l’adesione
piastrinica e leucocitaria, la formazione
di trombi, la crescita cellulare, la formazione di matrice. Tali effetti sono generati attraverso un corretto bilanciamento
della sintesi di differenti mediatori (ad
esempio TNF-alfa, metalloproteinasi,
prostaciclina, peptidi vasoattivi) in grado
di modulare le differenti azioni. In condizioni di danno vascolare molte di queste
conseguenze sono abolite o talora sovvertite. Se ciò rappresenta la causa o
l’effetto della malattia aterosclerotica
non è ad oggi noto, ma sicuramente tali
alterazioni hanno un certo ruolo nell’evoluzione degli eventi clinici dal semplice danno anatomo-patologico. Uno
dei meccanismi maggiormente studiati
riguarda la modulazione del tono vascolare attraverso il sistema dell’ossido-nitrico (EDRF). Molte situazioni interferiscono notoriamente su tale sistema, in
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particolare l’ipercolesterolemia, il diabete, l’età o il fumo di sigaretta, e per tale
motivo è stato chiamato in causa nell’insorgenza delle manifestazioni cliniche acute della malattia aterosclerotica.
È ancora prematuro considerare la disfunzione endoteliale come un fattore di
rischio cardiovascolare indipendente,
purtuttavia, oltre alla rimozione dei fattori interferenti, numerosi farmaci (e
principalmente le statine) hanno un effetto positivo dimostrato sulla funzione
endoteliale, e sul tono vascolare in particolare, in grado di giustificare la riduzione precoce di eventi clinici nei trial
controllati. L’endotelio rappresenta
quindi, in prospettiva, un nuovo target
terapeutico nella prevenzione delle malattie cardiovascolari.
hanno a tale scopo documentato, in diverse categorie di soggetti (popolazione
generale, anziani, ipertesi, infartuati o
pazienti con scompenso cardiaco),
un’associazione tra frequenza cardiaca
e sviluppo di aterosclerosi ed eventi
cardiovascolari. L’aggregazione di fattori
di rischio in pazienti tachicardici può
spiegare questa associazione, ma un
ruolo ha anche l’iperattività simpatica,
alla base della tachicardia, dell’ipertensione e di anormalità metaboliche. La
riduzione farmacologia della frequenza
cardiaca deve quindi rappresentare un
obiettivo terapeutico aggiuntivo nell’ambito della prevenzione cardiovascolare.
Omocisteina
L’omocisteina è un aminoacido che
non entra nella composizione delle proteine: esso rappresenta un composto
cruciale nel metabolismo degli aminoacidi solforati. Un accumulo di omocisteina nel sangue può essere dovuto a difetti congeniti del metabolismo della
metionina, e in particolare in alterazioni
del gene della metiletilenetetraidrofolato
redattasi, a carenze vitaminiche (vitamina B6 e B12) e a una serie di altre condizioni associate, tra cui età, fumo, farmaci, abuso di caffè e alcune patologie
Fattori cardiaci
Ipertrofia ventricolare sinistra, blocchi di branca, alterazioni aspecifiche del
tratto ST e dell’onda T, rappresentano
importanti predittori di rischio cardiovascolare, soprattutto per quanto riguarda
la morte improvvisa. Anche la fibrillazione atriale ha un ruolo di primo piano,
mentre sempre maggiori informazioni
sono disponibili riguardo la frequenza
cardiaca. Numerosi studi prospettici
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(insufficienza renale, diabete). È presente nel 20-30% dei pazienti con arteriosclerosi prematura dei distretti vascolari coronarico, carotideo e periferico. Tale associazione è stata anche dimostrata in alcuni studi epidemiologici,
tra cui il Framingham Heart Study, il
Trombo Study, l’ARIC Study e anche il
British Regional Heart Study. L’aumento del rischio conferito dall’omocisteina
è graduale e indipendente da quelli di
altri fattori. Le reali cause che possano
spiegare perché l’omocisteina elevata
predisponga alle malattie cardiovascolari non sono del tutto note. Alcuni meccanismi patogenetici sono stati però
proposti. L’omocisteina è in grado di
danneggiare le cellule endoteliali, permettendo la formazione della placca.
Simultaneamente interferisce con la vasodilatazione mediata dall’ossido nitrico.
L’omocisteina induce inoltre la proliferazione delle cellule muscolari lisce, inibisce la crescita endoteliale e stimola la
sintesi epatica di apoB-100 e quindi di
colesterolo. Un effetto importante potrebbe essere anche mediato dall’azione negativa dell’omocisteina sui sistemi
ossidativi in vivo, che può portare al
danno e alla disfunzione endoteliale. Livelli elevati di omocisteina promuovono
inoltre la trombosi attraverso un’aumentata produzione di trombina. Ulteriori
possibili meccanismi implicati nell’aterogenesi mediata dall’omocisteina includono: alterazione della regolazione di
proteine associate con le membrane
cellulari, ridotta biodisponibilità di ossido
nitrico, accumulo di collagene e aumentata adesione di monociti e neutrofili
all’endotelio. Elevati livelli di omocisteina possono essere abbassati attraverso
l’assunzione, con il cibo o farmacologica, di acido folico. I pazienti possono
quindi essere incoraggiati a consumare
attraverso gli alimenti i livelli raccomandati giornalieri di acido folico, così come
quelli delle vitamine B6 e B12; esistono
anche dei preparati in grado di fornire
farmacologicamente tali sostanze. Il
mantenimento di normali valori di omocisteina nella prevenzione cardiovascolare appare estremamente promettente,
soprattutto perché potrebbe rappresentare la modalità più economica di riduzione dell’incidenza di malattie coronariche. Comunque, benché le evidenze
suggeriscano un ruolo indipendente
dell’omocisteina nei confronti del rischio
cardiovascolare, nessuno studio prospettico disegnato con l’obiettivo di dimostrare la riduzione delle malattie cardiovascolari attraverso la sommistrazione di folati e vitamina B6 è stato ancora
completato, per cui rimane da provare
in studi controllati che tale effetto sia
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realmente ottenibile. Allo stato attuale,
quindi, la misurazione dei livelli di omocisteina non è raccomandata per una
valutazione del rischio globale, ma il suo
dosaggio può essere utile in pazienti ad
alto rischio.
La Sindrome metabolica
Con il termine di “Sindrome Metabolica” (Tab. 11) si identifica una forma
morbosa caratterizzata dall’associazione
di: diabete mellito tipo 2 o ridotta tolleranza glucidica (IGT, Impaired Glucose
Tolerance), alterazioni lipidiche (caratterizzate generalmente da ipertrigliceridemia con riduzione dei valori di HDL-colesterolo e alterazioni qualitative delle
LDL), sovrappeso o obesità (con aumento del tessuto adiposo centrale o
intra-addominale), ipertensione arteriosa e iperuricemia. A questi fattori si aggiungono in molti casi altre condizioni
concomitanti, quali l’aumento del fibrogeno, alterazioni fibrinolitiche, poliglobulia. È una patologia conosciuta da molto
tempo e nel corso degli anni è stata differentemente definita da autori italiani e
anglosassoni. Sinonimi sono “Sindrome
X metabolica”, “Sindrome da insulinoresistenza”, “Sindrome polimetabolica”.
L’insieme di queste alterazioni rappresenta un importante fattore di rischio
cardiovascolare che promuove la rapida
Microalbuminuria
La microalbuminuria è una condizione in cui si ha un’incrementata escrezione urinaria di albumina, entro il range
normale di escrezione proteica totale.
Molti dati suggeriscono che è un marker
di danno vascolare, specie nel diabete
e nell’ipertensione, e ci sono dati anche
sulla sua associazione con i tradizionali
fattori di rischio e sul suo potere predittivo riguardo alle malattie cardiovascolari, limitato però ai pazienti diabetici. Il
suo ruolo e la sua importanza nei pazienti non diabetici sono ancora controverse, per cui lo screening routinario
non è allo stato attuale raccomandato
nei soggetti non diabetici, anche se
ipertesi.
Tabella 11
Componenti della
Sindrome metabolica.
Insulino-resistenza
↑ Trigliceridi (VLDL)
Iperinsulinemia
↓ Colesterolo HDL
Intolleranza glucidica
Ipertensione
Obesità
↑ Uricemia
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
progressione del processo aterosclerotico. Numerosi studi hanno mostrato
come ogni singola alterazione determinante la Sindrome metabolica giochi un
ruolo decisivo nel suscitare il processo
aterosclerotico, rappresentando di per
sé un importante fattore di rischio cardiovascolare. Per tale motivo sono stati
in larga misura già analizzati nelle sezioni precedenti di questo capitolo.
Countries Study, MRFIT Study e altri
ancora) hanno mostrato chiaramente
una correlazione diretta fra tale tipo di
alterazione e il rischio coronarico. Nella
Sindrome metabolica la dislipidemia più
frequentemente presente è la cosiddetta “triade lipidica”, caratterizzata dalla simultanea presenza di elevata colesterolemia totale, alti livelli di LDL-colesterolo e trigliceridemia, bassi livelli di HDLcolesterolo. Sono spesso presenti anche alterazioni qualitative delle LDL,
con una predominanza di LDL piccole e
dense, e anche un accumulo di particelle remnant.
Diabete mellito
Donne affette da diabete mellito,
indipendentemente dalla sua associazione con la dislipidemia, l’ipertensione
arteriosa e l’obesità, sviluppano un’aterosclerosi paragonabile a quella di un
maschio non diabetico, perdendo la relativa immunità all’aterosclerosi propria
del periodo fertile; è importante, inoltre,
ricordare come la genesi della micro e
macroangiopatia diabetica sia composita, in quanto ad essa concorrono alterazioni della parete arteriosa, del sistema coagulativo e del sistema lipidico.
Obesità e sovrappeso
L’obesità non è stata, per lungo
tempo, considerata come fattore di rischio aterogenico indipendente, perché
i primi studi prospettici ritenevano che si
correlasse con un aumentato rischio
cardiovascolare in quanto associata a
dislipidemia, ipertensione, iperglicemia,
iperuricemia e inattività fisica. Tuttavia,
dopo il follow-up della coorte di Framingham, è stato dimostrato che l’obesità fornisce, specie per i soggetti più
giovani, un contributo indipendente all’aterogenesi. Inoltre, particolare attenzione è stata posta negli ultimi anni al
Dislipidemia
Nel caso della dislipidemia, numerosi
studi (Framingham Heart Study, Seven
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fenomeno delle continue oscillazioni del
peso corporeo ( weight cycling ), in
quanto alcuni dati epidemiologici deporrebbero per un maggiore rischio coronarico in questi soggetti.
so associati a ipertensione, dislipidemia
e obesità; tutto questo potrebbe costituire il riflesso della presenza di processi
metabolici correlati tra loro. È stato inoltre dimostrato che l’iperuricemia provoca un incremento sia della produzione
di radicali liberi che dell’ossidazione delle purine; tali alterazioni metaboliche
sembrano indurre un indebolimento dei
sistemi ossidativi cellulari e, di conseguenza, un aumento del rischio di danno ossidativo dell’endotelio vascolare.
Ipertensione Arteriosa
Anche l’ipertensione arteriosa rappresenta un importante fattore di rischio
aterogeno; infatti, come ribadito nelle
Linee Guida OMS-ISH del 1999, i livelli
di pressione arteriosa sono correlati al
rischio di patologia cardiovascolare in
modo continuo, e ogni linea di demarcazione tra “normotensione” e “ipertensione” è pertanto arbitraria. Infatti, anche all’interno dei valori considerati come “normali”, i soggetti con pressione
arteriosa più bassa hanno un rischio minore di patologia cardiovascolare.
Da quanto esposto appare chiaro
come tale sindrome consista in un insieme di disordini metabolici che spesso coesistono tra loro. Il legame fisiopatologico comune alle varie forme sembra essere l’insulino-resistenza e l’iperinsulinismo da essa derivante; essi
sembrano rappresentare un fattore
chiave nell’eziologia della Sindrome metabolica (Fig. 4).
L’insulino-resistenza consiste nell’incapacità dell’insulina di esplicare le sue
normali funzioni metaboliche a concentrazioni fisiologiche. Alcune indagini hanno dimostrato che l’azione dell’insulina è
ridotta di circa il 40% nel diabete mellito
non insulino-dipendente. Il fegato, il muscolo scheletrico e il tessuto adiposo
sono tutti insensibili, cosicché l’aumentato rilascio di glucosio epatico e il ridot-
Iperuricemia
L’artrite gottosa è stata associata
con un rischio aterogeno raddoppiato. È
stata, inoltre, individuata una moderata
correlazione tra uricemia e malattia coronarica, anche in assenza di gotta clinicamente manifesta. È da ricordare
che elevati valori di uricemia sono spes-
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
Figura 4
Combinazione di tre distinti domain fisiopatologici a costituire la sindrome da insulino-resistenza:
la Sindrome metabolica centrale (definita dall’associazione delle variabili raggruppate sotto
il “fattore 1”), la ridotta tolleranza ai carboidrati (fattore 2) e l’ipertensione (fattore 3). I tre domain
sono legati da mutue associazioni con l’iperinsulinemia (che riflette l’insulino-resistenza) e l’obesità.
Sindrome dell’insulino-resistenza
Sindrome metabolica centrale
Ipertensione
Ridotta tolleranza glucidica
Fattore 2
Fattore 1
Fattore 3
Glicemia
digiuno
Insulina
digiuno
TG
PAS
BMI
Glicemia
2 ore
Insulina
2 ore
Rapp.
Vita/
fianchi
HDL
Colest.
to assorbimento periferico contribuiscono entrambi all’iperglicemia (Fig. 5).
I difetti che causano l’insensibilità
all’insulina sono sconosciuti e apparentemente sono post-recettoriali. Possibili
fattori contribuenti includono l’obesità,
una predisposizione ereditaria e l’aumentato livello di glucagone; la stessa
iperglicemia riduce anche la sensibilità
dell’insulina (“tossicità del glucosio”).
L’iperinsulinismo è dovuto a un’aumen-
PAD
tata resistenza periferica all’azione dell’ormone. Tale resistenza, tuttavia, non è
presente in tutti i distretti: nel fegato, infatti, l’insulina esplica la propria normale
azione e promuove un incremento della
sintesi delle VLDL; in periferia, invece,
la resistenza all’azione antilipolitica
dell’ormone (data da una down regulation dei recettori insulinici) comporta
la mobilizzazione dal tessuto adiposo degli acidi grassi liberi, il cui turn-over ri-
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➞➞
L’insulino-resistenza
è associata al NIDDM,
all’obesità e alla
secrezione di insulina
difettiva. Vari fattori
genetici e ambientali
potrebbero essere
implicati.
➞
Figura 5
Cibo assunto
Esercizio fisico
Termogenesi?
Ambiente
intrauterino?
Amilina?
Geni diabetogeni
Obesità
Insulino-resistenza
Ridotta
funzionalità delle
cellule α
Tossicità
del glucosio
NIDDM
IGT
sulta, pertanto, aumentato. L’iperafflusso al fegato degli acidi grassi liberi incrementa ulteriormente la sintesi di
VLDL. Il meccanismo della down regulation recettoriale periferica spiega anche l’insulino-resistenza e la conseguente ridotta tolleranza glucidica, frequentemente presenti nei soggetti obesi.
Numerosi studi hanno portato evidenze a favore di un ruolo dell’insulinoresistenza come meccanismo metabolico alla base dell’associazione tra obesità, diabete mellito e ipertensione arteriosa, e di conseguenza dell’aumento di
rischio cardiovascolare ad essa correlato. Tra i meccanismi attraverso i quali
l’insulino-resistenza può portare allo svi-
Glucosio
luppo dell’ipertensione, un ruolo importate sembra essere svolto da un aumento del riassorbimento del sodio da parte
del tubulo renale, e da un aumento
dell’attività simpatica efferente (Fig. 6)
Benché sia stato proposto che
l’iperinsulinemia e l’insulino-resistenza
rappresentino il fattore eziologico centrale nel determinismo della Sindrome
metabolica, dati epidemiologici non
supporterebbero tale ipotesi, dato che
non spiegherebbe tutte le anormalità
per tutti i gruppi; infatti, esistono dati,
sia animali che umani, che suggeriscono come l’iperleptinemia piuttosto che,
o sinergicamente con, l’iperinsulinemia,
possa giocare un ruolo centrale nella
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L’approccio clinico, preventivo e terapeutico
Figura 6
Possibili meccanismi
attraverso i quali una
insulino-resistenza può
indurre ipertensione
arteriosa.
Obesità
Insulino-resistenza
Iperinsulinemia
Aumento attività SNS
Variazioni reattività muscolare
Variazioni trasporto cationico
Aumento attività SNS
Ipertensione
arteriosa
genesi del gruppo dei fattori di rischio
che costituiscono la sindrome.
Più recentemente sono stati identificati e proposti altri potenziali fattori
eziologici della Sindrome metabolica,
che comprendono la disfunzione endoteliale e la proteina stimolante l’acetilazione (Acetylation-Stimulating Protein,
ASP). L’ASP rappresenta un serio nuovo candidato per un importante ruolo
nell’insulino-resistenza; la via dell’ASP
gioca un ruolo critico nel metabolismo e
immagazzinamento degli acidi grassi;
recenti studi hanno suggerito come
l’inefficace immagazzinamento degli
acidi grassi da parte degli adipociti sia
dovuto a un difetto nella via dell’ASP,
indotto dall’insulino-resistenza e dal diabete mellito tipo II.
Inoltre, una maggiore predisposizione genetica alla Sindrome metabolica
sembra essere determinata dal tipico
stile di vita condotto nei paesi industrializzati, caratterizzato da diete a elevato
contenuto calorico e di grassi, inattività
fisica, consumo di alcol, fumo e stress;
quindi appare evidente come la prevenzione e la terapia di questa sindrome
implichino la rimozione di tali fattori.
In conclusione, un corretto approccio terapeutico nei confronti di questa
sindrome deve essere multidisciplinare,
ovvero deve prendere in considerazione
il controllo di ogni singolo fattore implicato nel determinismo della stessa. Il
trattamento di tale sindrome è principalmente basato sulla riduzione del peso
corporeo: ciò è possibile semplicemen-
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Riferimenti bibliografici
te attuando una sostanziale modifica
dello stile di vita (diete ipocaloriche-ipoglucidiche e ipolipidiche, incremento
dell’attività fisica ecc.), che da sola è
spesso in grado di determinare un notevole miglioramento e una completa
correzione di tutte le anomalie metaboliche. Se questo non dovesse essere
sufficiente, allora è opportuno prendere
in considerazione una terapia multifarmacologica (ipoglicemizzante, ipolipidica, antipertensiva ecc.) che permetta
un ottimale compenso delle alterazioni
metaboliche.
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nterventi alimentari per il
controllo dei lipidi ematici
E. Lanzola
Già Direttore del Centro Ricerche sulla Nutrizione Umana e la Dietetica
Università degli Studi di Pavia
Premessa
I lipidi sono costituenti fondamentali
del nostro organismo, sia per quanto riguarda i depositi (la fornitura di energia)
sia per la formazione delle membrane
cellulari. I lipidi non visibili (detti anche
“non apparenti”) contenuti negli alimenti
(carni, prodotti lattiero-caseari) e i lipidi
visibili (o “apparenti”), quali burro, margarina, oli di oliva e di semi, entrano
globalmente per circa 75-100 g nella
nostra alimentazione quotidiana, cioè a
dire costituiscono dal 30 al 35% dell’apporto energetico totale.
In effetti la dieta deve apportare una
quantità adeguata di lipidi, e tutti gli
esperti concordano nel ritenere che il livello compatibile con la buona salute non
dovrebbe superare il 30% delle calorie
totali di un regime alimentare corretto.
È un dato di fatto, tuttavia, che
molti soggetti eccedono nel consumo di
grassi, e spesso senza che siano rispettate le proporzioni tra i vari tipi di
grasso, come si dirà più oltre.
Il motivo di questo aumentato consu-
mo di grassi è complesso: accrescimento
della disponibilità di sostanze grasse economicamente convenienti, facilità di impiego, applicazioni gastronomiche. Per combattere questa tendenza, nelle ultime decadi sono state promosse in tutti i paesi affluenti varie campagne tese alla riduzione
del consumo di grassi che, tra l’altro, ha
portato varie industrie alimentari a produrre
e immettere al consumo prodotti contrassegnati da diciture quali “a basso tenore di
grassi” o “privi di grassi”. Paradossalmente,
in molti casi, se è vero che il consumo di
grassi ha subito una riduzione, non è diminuito nel complesso l’ammontare dell’apporto energetico, come risulta confermato
dai dati relativi alla prevalenza del sovrappeso e dell’obesità nella popolazione.
Inoltre, vari autori riconoscono che
la campagna per la riduzione ad ogni
costo dell’apporto di grassi può comportare involontariamente anche spiacevoli conseguenze per la salute, perché gli effetti sono differenti a seconda
dei vari tipi di grasso interessati.
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
Natura e ruolo
degli acidi grassi
assorbiti
I grassi presenti nell’organismo
hanno una duplice origine, in quanto
sono per una parte apportati dagli alimenti e per un’altra parte sintetizzati nel
fegato o nel tessuto adiposo. Più del
95% dei lipidi alimentari è rappresentato da trigliceridi (che costituiscono la
massa del tessuto adiposo); il restante
5% è dato dal colesterolo e dai fosfolipidi, essenziali per la formazione delle
membrane.
Gli acidi grassi costitutivi dei lipidi
sono classificati in funzione della lunghezza della catena carboniosa e del
numero dei doppi legami; sono definiti
“saturi” gli acidi grassi senza doppi legami, monoinsaturi e polinsaturi se possiedono rispettivamente uno o più doppi
legami.
Gli acidi grassi polinsaturi, oltre ad
essere più instabili alla cottura, sono
anche molto più reattivi a livello metabolico rispetto agli acidi grassi saturi o
monoinsaturi.
Nell’organismo la composizione dei
trigliceridi del tessuto adiposo e delle
membrane richiede un rapporto equilibrato tra le diverse classi di acidi grassi.
Il tessuto adiposo, infatti, è relativamente ricco di acidi grassi saturi e di acido
oleico, mentre i lipidi di membrana contengono una proporzione più elevata
(circa il 50%) di acidi grassi polinsaturi.
Il colesterolo accompagna i lipidi durante il loro percorso, in particolare fino alle
membrane cellulari, con conseguenze
importanti sotto il profilo sia fisiologico
che patologico.
Per soddisfare il proprio bisogno di
sostanze grasse l’uomo dispone di una
grande varietà di fonti lipidiche.
Teoricamente, in mancanza di apporto lipidico l’organismo è in grado di
sintetizzare la maggior parte degli acidi
grassi, ad eccezione di due acidi grassi
insaturi: uno appartenente alla famiglia
dell’acido linoleico, l’altro a quella dell’acido alfa-linolenico. È importante ricordare che questi due acidi grassi essenziali non possono essere sostituiti
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E. Lanzola
l’uno con l’altro. I grassi animali sono
molto ricchi di acidi grassi saturi, che
però non hanno tutti le stesse caratteristiche. I grassi dei pesci forniscono, tra
gli altri, due acidi grassi a lunga catena,
polinsaturi, caratterizzati da proprietà
biologiche interessanti: l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA). La carne dei pesci
non è in genere ricca di grasso, tuttavia, alcuni pesci contengono notevoli
quantità di EPA (sgombro, tonno, salmone).
Anche i grassi vegetali per la maggior parte contengono grassi polinsaturi:
fanno eccezione gli oli di cocco e di palma. Alcuni oli (oliva, arachide) possiedono notevoli quantità di acido oleico (monoinsaturo), altri, grandi quantità di acido linoleico (girasole, mais, vinacciolo).
L’acido alfa-linolenico è contenuto in
quantità apprezzabili (8-10%) in alcuni
oli quali olio di soja, canola, olio di noce.
La nozione che i lipidi svolgono ruoli
diversi in funzione della lunghezza della
catena carboniosa, del numero dei doppi legami, della configurazione spaziale,
ha portato a riconoscere la necessità
che l’apporto alimentare venga ad essere equilibrato tra i vari tipi di grasso.
In quest’ottica si è giunti al suggerimento – ampiamente diffuso – di ridurre il consumo di acidi grassi saturi a
vantaggio dei polinsaturi, tenendo tuttavia presente che anche l’introduzione
eccessiva di questi ultimi può rivelarsi
controproducente.
Il rapporto tra consumo di grassi e
patologie correlate, con particolare riguardo alle coronaropatie ischemiche,
non è però molto semplice, perché vi
interferiscono altri fattori, quali attività
fisica, abitudine al fumo di sigaretta,
obesità, condizioni economico-sociali.
Acidi grassi saturi
Da tempo, ormai, si ritiene che un
consumo elevato di grassi, e in particolare di grassi saturi, contribuisca pesantemente all’insorgenza di coronaropatie
ischemiche. Tale assunto deriva in gran
parte dagli studi epidemiologici, che
hanno messo in correlazione il consumo
di grassi saturi con la frequenza delle
coronaropatie ischemiche.
Nel cosiddetto Seven Countries
Study (Keys 1995), l’introduzione di
grassi saturi, espressa come percentuale delle kilocalorie totali introdotte, si
dimostrò correlata con il tasso di mortalità per coronaropatie ischemiche nelle
16 popolazioni partecipanti allo studio,
molto più dell’energia complessiva apportata dai grassi della dieta. In effetti
87
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
la popolazione della Finlandia, che presentava il tasso più elevato di mortalità
per coronaropatie ischemiche, era caratterizzata dallo stesso consumo di
grassi (40% dell’apporto energetico
quotidiano) degli abitanti della regione
(Creta) con il tasso minore.
Un’analisi recente del Seven Countries Study ha evidenziato un’elevata
correlazione positiva della mortalità per
coronaropatie ischemiche con il consumo di quattro acidi grassi saturi a lunga
catena e di acidi grassi trans (Kromhout
et al 1995).
Più recentemente, a proposito di
questi ultimi, uno studio condotto per
14 anni su 80.082 donne di età compresa fra 34 e 59 anni (The Nurses’
Health Study), ha mostrato una correlazione positiva fra coronaropatie ischemiche e assunzione di acidi grassi
trans, più consistente rispetto a quella
per assunzione di acidi grassi saturi
(Fig. 1; Hu et al 1997).
Figura 1
88
Unsat ( 2% Energia)
Trans
Poly (2% Energia)
Mono (2% Energia)
Trans
Trans
Unsat (5% Energia)
Sat
Poly (5% Energia)
Sat = grassi saturi
Carbo = carboidrati
Mono = grassi monoinsaturi
Poly = grassi polinsaturi
= sostituzione
Sat
-80
Mono (5% Energia)
-60
Sat
-40
Carbo (5% Energia)
-20
Poly
0
Carbo (5% Energia)
20
Mono
40
Carbo (5% Energia)
60
Sat
Variazioni del rischio di patologia coronarica (%)
80
........................................
Variazioni stimate
(in percentuale al 95%
dei limiti fiduciari) del
rischio di coronaropatie
ischemiche in
conseguenza di
sostituzioni dietetiche
isocaloriche. Aggiustate
per i fattori di rischio
coronarico e l’apporto
totale di energia.
Da Hu et al 2001.
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E. Lanzola
Figura 2
Effetti degli acidi laurico (12:0), miristico (14:0), palmitico (16:0), elaidico (trans-18:1), stearico (18:0),
oleico (cis-18:1) e linoleico (18:2 n-6) sul colesterolo totale (TC), sul colesterolo LDL (LDL-C) e HDL
(HDL-C).
Da Frank et al, J Am Coll Nutrition 20, 1, 2001.
mg/dl
Variazioni della colesterolemia
1,6
1,2
0,8
0,4
0,0
-0,4
-0,8
-1,2
-1,6
TC
LDL-C
...................................................
2,0
mmol/l
...................................................
2,4
HDL-C
0,062
0,052
0,041
0,031
0,021
0,01
0,00
-0,01
-0,021
-0,031
-0,041
12:0
(n=2)
14:0
(n=3)
16:0
(n=9)
trans 18:1
(n=7)
18:0
(n=5)
cis 18:1
(n=12)
18:2n-6
(n=16)
Singoli acidi grassi (per ogni 1% di aumento energetico)
Questa constatazione trova conferma nelle ricerche sul metabolismo di diversi acidi grassi saturi che manifestano
effetti differenti sui livelli della lipidemia
e delle lipoproteine plasmatiche (KrisEtherton et al 1997).
In particolare gli acidi grassi saturi
con 12-16 atomi di carbonio tendono a
far aumentare i livelli plasmatici del colesterolo totale e di quello LDL, mentre
l’acido stearico (18:0) non presenta –
se confrontato con l’acido oleico (18:1)
– nessun effetto sull’aumento della colesterolemia.
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
Gli effetti di questi acidi grassi sono
illustrati nella Figura 2.
Fra gli acidi grassi saturi che hanno
la capacità di aumentare la colesterolemia, l’acido miristico (14:0) sembra essere più efficace dell’acido laurico (12:0)
e dell’acido palmitico (16:0) (Temme et
al 1996). Sebbene l’acido stearico abbia
dimostrato – come già accennato – uno
scarso effetto sui livelli di colesterolo totale e LDL, tuttavia esso può abbassare
i livelli di HDL più di quanto facciano gli
acidi grassi monoinsaturi e polinsaturi, e
tale effetto è stato riscontrato in modo
particolare nelle donne (Yu et al).
Ricerche di Aro et al hanno evidenziato
che l’acido stearico – confrontato con gli
acidi miristico e palmitico – abbassa i livelli sia di LDL che di HDL, cosicché i
rapporti tra LDL e HDL e quelli tra apoB
e apoAI restano in pratica invariati. L’acido stearico, inoltre, favorisce un aumento della Lp(a) e può attivare il fattore VII
(Mitropoulos et al 1994) e compromettere la fibrinolisi (Furguson et al 1970).
Queste osservazioni, unitamente a
quanto è emerso dal Nurses’ Health
Study, sopra ricordato, portano a ritenere non del tutto giustificata la distinzione
tra acido stearico e gli altri acidi grassi
saturi per quanto riguarda i consigli dietetici diretti a ridurre il rischio delle coronaropatie ischemiche (Hu et al 2001).
Acidi grassi polinsaturi
n-6 e n-3
Come è noto, numerosi studi hanno
evidenziato un notevole effetto sulla riduzione della colesterolemia da parte
degli oli vegetali, ricchi di acido linoleico
(Grundy et al 1982). C’è da aggiungere
che, a seguito di trial clinico-dietetici, si
è potuto osservare come diete ricche di
acidi grassi polinsaturi n-6 si siano dimostrate più efficaci nel ridurre i livelli
della colesterolemia, rispetto a diete
isocaloriche a basso tenore di lipidi ed
elevato contenuto di carboidrati (Sacks
1994).
Va segnalato, inoltre, che la correlazione inversa tra acidi grassi polinsaturi n-6 e coronaropatie ischemiche osservata nel corso del Nurses’ Health
Study, è ancora più forte di quanto potesse essere predetto in base alle
equazioni di Keys e di Hegsted ricavate
da studi metabolici.
Questa osservazione porta a ritenere che gli acidi grassi polinsaturi n-6
siano in grado di svolgere sull’apparato
cardiovascolare effetti benefici che vanno oltre il solo miglioramento del profilo
lipidemico. In realtà, ricerche sugli animali hanno evidenziato che un aumento
dell’introduzione dei polinsaturi n-6 migliora la sensibilità all’insulina (Lovejoy
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et al 1992, Lovejoy 1999), e nel Nurses’ Health Study l’assunzione elevata di
grassi polinsaturi n-6 ha portato a un
abbassamento significativo dell’incidenza di diabete mellito (Hu et al 1999).
Pertanto, sia le indagini di laboratorio che gli studi epidemiologici indicano
che la sostituzione di grassi saturi a lunga catena con grassi polinsaturi riduce
sostanzialmente il rischio di manifestazioni coronaropatiche.
L’importanza degli acidi grassi polinsaturi n-3, eicosapentaenoico (EPA) e
docosaesaenoico (DHA), è nata dall’osservazione della bassa frequenza di
coronaropatie negli eschimesi, a dispetto del loro consumo elevato di grassi e
di cibi ricchi di colesterolo. Ciò che
sembrava un paradosso venne risolto
da due ricercatori danesi, Bang e Dyerberg, i quali, confrontando la bassa
mortalità per coronaropatie degli eschimesi in Groenlandia, con quella elevata
dei danesi residenti in Groenlandia, ma
caratterizzati da abitudini alimentari molto diverse, trovarono la soluzione dell’enigma analizzando la composizione
delle diete tipiche degli eschimesi e dei
danesi. Questi ultimi, infatti, avevano
mantenuto le abitudini della madre patria con un’alimentazione ricca di colesterolo e grassi saturi forniti soprattutto
dalla carne e dai prodotti lattiero-casea-
ri. Gli eschimesi, viceversa, si alimentavano soprattutto con carne di foca, di
balena e di pesci, alimenti ricchi di EPA
e di DHA. Gli eschimesi, inoltre, presentavano nel sangue livelli elevati di
questi acidi grassi n-3 che, catturati
dalle piastrine, le rendevano meno suscettibili alla formazione di trombi (Dyerberg et al 1975, Dyerberg et al 1979).
Recentemente è stata confermata
la validità di queste osservazioni in una
popolazione di circa 9000 persone, gli
Inuiti, distribuita in un vasto territorio a
nord di Quebec, in Canada, che, avendo conservato ancestrali abitudini alimentari, è caratterizzata da una dieta a
base di pesci e di mammiferi marini,
con il risultato che la loro mortalità per
coronaropatie ischemiche è del 50%
inferiore alla media generale degli abitanti della provincia del Quebec (Dewailly et al 2001).
Allo stato attuale, dopo centinaia di
ricerche sperimentali in animali, in colture cellulari e dopo numerosissimi trial,
sia nella popolazione che clinici, appare
bene delineato il razionale per cui gli
acidi grassi n-3 dei pesci e di altri animali marini sono in grado di prevenire le
coronaropatie ischemiche (Commor
1994); una sintesi del loro meccanismo
di azione viene riportata nella Tabella 1.
L’EPA e il DHA contenuti negli oli
91
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
Tabella 1
• Prevenzione delle aritmie cardiache (tachicardia ventricolare e fibrillazione)
Azioni svolte
dagli acidi grassi n-3
nella prevenzione
delle coronaropatie
ischemiche e della
morte improvvisa.
Da Connor, Am J Clin
Nutr, 74, 2001.
• Azione antitrombotica
• Inibizione dell’accrescimento delle placche aterosclerotiche
• Azione antinfiammatoria (inibizione della sintesi di citochine e mitogeni)
• Stimolazione della produzione di ossido di azoto di derivazione endoteliale
• Riduzione dei livelli plasmatici di triacilglicerolo, di colesterolo VLDL e incremento
dei livelli plasmatici di colesterolo HDL
di pesce proteggono quindi dal rischio
di insorgenza dell’arteriosclerosi. Anche
esperienze sui maiali e sulle scimmie
portano a ritenere che la prevenzione
dell’arteriosclerosi possa effettuarsi attraverso meccanismi diversi da quello
della riduzione della colesterolemia (Davis et al 1987).
L’effetto pronunciato dell’olio di pesce sull’iperlipidemia è stato documentato molto bene da ricerche di dietetica
che hanno messo a confronto gli effetti
di diete a elevato contenuto di olio di
salmone, di oli vegetali e di grassi saturi
(Phillpson et al 1985).
L’olio di pesce diminuisce la concentrazione di trigliceridi plasmatici inibendo nel fegato la sintesi degli stessi
e delle VLDL. La produzione di apolipoproteina B viene ridotta maggiormente
dopo il consumo di olio di pesce che di
oli vegetali, quali l’olio di cartamo o
l’olio d’oliva.
Una pronunciata iperlipemia postprandiale si verifica dopo ogni pasto ric-
co di grassi e, come è ormai noto, le lipoproteine postprandiali sono aterogeniche e anche trombogeniche, in quanto provocano un aumento del fattore VII
attivo che agisce da procoagulante.
Il trattamento preliminare con olio di
pesce riduce di molto la lipemia postprandiale e questo effetto, ovviamente,
va riguardato sotto il duplice profilo antiaterogeno e antitrombotico (Harris et
al 1988).
Tuttavia l’azione di prevenzione delle coronaropatie ischemiche da parte
del pesce e dell’olio di pesce non deve
portare a credere che i vegetariani non
abbiano la possibilità di approvvigionarsi
di acidi grassi n-3.
In effetti, precursore di EPA e di
DHA nella sintesi metabolica è l’acido linolenico, contenuto in quantità elevata in
alcuni oli vegetali quali canola, olio di soia,
olio di semi di lino, olio di noce (Tab. 2).
Da uno studio basato sull’assunzione di acido linolenico contenuto in margarina prodotta con canola, è risultato,
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Tabella 2
Contenuto di acido
alfa-linolenico
in vari oli e alimenti.
Da Connor, Am J Clin
Nutr, 69, 1999.
Prodotto
Acido alfa-linolenico (in % sul peso)
Olio di lino
50,8
Olio di soia
7,0
Olio canola
9,3
Olio d’oliva
0,6
Cioccolato
0,1
Olio di mais
1,0
Olio di noce di cocco
Tracce
Olio di cartamo
0,4
Noci tostate
6,8
Nocciole tostate
0,2
Mandorle tostate
0,4
Arachidi tostate
Tracce
Anacardi tostati
0,2
Spinaci
0,12
Cavolini di Bruxelles
0,20
Cavolo
0,13
infatti, un aumento dei livelli ematici di
EPA e contemporaneamente una riduzione del 70% del tasso di mortalità per
coronaropatia ischemica e di morte improvvisa (De Lorgeril et al 1994).
L’acido alfa-linolenico è un acido
grasso n-3 essenziale per l’uomo, ma è
anche particolarmente importante nella
prima infanzia e nei bambini, oltre che
nei pazienti mantenuti in vita con alimentazione artificiale (enterale e parenterale). La sintesi di EPA e di DHA dall’acido alfa-linolenico avviene per tappe
enzimatiche successive di allungamento
e di desaturazione, in analogia con i
composti della serie n-6, come appare
sinteticamente dalla Figura 3.
L’azione della delta-6-desaturasi,
che opera sugli acidi grassi essenziali di
entrambe le serie per la sintesi dei derivati, costituisce un fattore limitante, in
quanto acido linoleico e acido linolenico
entrano in competizione tra loro per la
desaturazione e l’allungamento della
catena.
Ne deriva l’importanza di un equilibrio sostanziale fra questi due acidi
grassi nel regime alimentare. Poiché
l’acido alfa-linolenico e il suo metabolita
EPA riducono la formazione di trombos-
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Figura 3
Sintesi dei derivati a
lunga catena polinsaturi
dagli acidi grassi
essenziali precursori.
Da Agostoni e
Giovannini, Doctor
Pediatria, maggio 2001.
18:2 n-6
acido linoleico (LA)
18:3 n-3
acido α-linolenico (ALA)
desaturarsi ∆6
desaturarsi ∆6
18:3 n-6
acido γ-linolenico (GLA)
18:4 n-3
acido stearidonico
elongasi
20:3 n-6
acido diomogammalinolenico
desaturarsi ∆5
20:5 n-3
acido eicosapentaenoico (EPA)
elongasi (2)
desaturarsi ∆6
20:4 n-6
acido arachidonico (AA)
β-ossidazione
(nel perossisoma)
22:6 n-3
acido docosaesaenoico (DHA)
sano A2 (vasocostrittore e proaggregante), per il loro effetto inibitore sia
sulla conversione da acido linoleico ad
acido arachidonico, sia sull’attività della
ciclossigenasi (Kang, Leaf 1996, Kinsella 1987, Kinsella 1988, Nair et al
1997), un rapporto elevato acido alfalinolenico/acido linoleico dovrebbe portare alla diminuzione del rischio di coronaropatie ischemiche, riducendo la tendenza alla formazione di trombi.
Contrariamente alle attese, i risultati di vari studi epidemiologici hanno
messo in evidenza soltanto una modesta riduzione del rischio di coronaropatie
ischemiche quando il rapporto acido alfalinolenico/acido linoleico è maggiore
di 0,10.
Il motivo più probabile di tale apparente irrazionalità risiede nel fatto che
non è soltanto la produzione di prostanoidi, su cui influiscono i polinsaturi n-3,
a incidere sull’insorgenza della coronaropatia ischemica.
Gli acidi grassi polinsaturi n-6, infatti, abbassano il rischio di coronaropatia attraverso una riduzione del colesterolo LDL e altri effetti benefici, quali il
miglioramento della sensibilità all’insulina (Lovejoy 1999) e l’abbassamento
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della soglia per la fibrillazione ventricolare (Nair et al 1997).
Pertanto, poiché sia gli acidi grassi
della serie n-6 che quelli della serie n-3
riducono il rischio di coronaropatie
ischemiche, sia pure attraverso vie biologiche diverse, si spiega perché il rapporto tra le due serie presenti soltanto
una debole correlazione con tale rischio.
Comunque, mentre si ritiene generalmente che il rapporto tra le serie
n-3/n-6 debba essere alquanto superiore a 0,10, esiste invece qualche controversia su come possa essere incrementato tale rapporto. Alcuni autori
hanno proposto di aumentare l’introduzione di acidi grassi n-3, promuovendo
il consumo sia di pesce che di prodotti
vegetali che li contengono, altri, viceversa, consigliano una riduzione del
consumo di acidi grassi n-6 (Berry
1997). In considerazione del notevole
effetto protettivo dimostrato dagli acidi
grassi polinsaturi n-6 nei riguardi delle
coronaropatie ischemiche, sia a seguito
dei numerosi studi epidemiologici che
dei trial clinici, quest’ultima strategia
non sembra consigliabile.
Al contrario, i dati di cui disponiamo
appoggiano la tesi della sostituzione dei
grassi, sia animali che idrogenati, con
oli vegetali che contengono acidi grassi,
sia monoinsaturi che polinsaturi. Alcuni
di questi oli, quali il canola e l’olio di
soia, come è già stato accennato, contengono quantità non indifferenti di acido alfa-linolenico.
Consigliabile, nello stesso tempo,
un aumento del consumo di pesce fino
ad almeno due volte alla settimana.
Una tale linea di condotta presenta il
vantaggio di incrementare il contenuto
nella dieta di acidi grassi della serie n-3,
senza sacrificare un apporto desiderabile di quelli della serie n-6, migliorando,
nello stesso tempo, il rapporto n-3/n-6
(Krauss et al 2000).
Nella Tabella 3 è riportato uno
schema riassuntivo del ruolo degli acidi
grassi polinsaturi a lunga catena (Agostoni e Giovannini 2001). Come risulta
chiaramente, tali acidi svolgono un ruolo
fondamentale non soltanto nell’età adulta, ma anche nel periodo fetale, neonatale e durante tutto il periodo infantile.
È riconosciuto ormai il possibile
ruolo dell’apporto prenatale di acidi
grassi provenienti dalla madre, e fortemente dipendente dallo stato di nutrizione lipidica di quest’ultima. Pertanto,
non solo l’apporto di acidi grassi polinsaturi durante la gravidanza e l’allattamento, ma anche l’apporto precedente
può avere un ruolo attraverso l’accumulo di tali grassi nei depositi tissutali materni, il successivo passaggio al pool
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
Tabella 3
Schema riassuntivo
del ruolo degli acidi
grassi polinsaturi
a lunga catena.
Da Agostoni
e Giovannini, Doctor
Pediatria, maggio 2001.
Acido
arachidonico
(AA)
Acido
Acido
eicosapentaenoico docosaesaenoico
(EPA)
(DHA)
Prevenzione
NO, un eccesso
del rischio
risulta associato
cardiovascolare a patologie di
natura trombotica
e cardiovascolare
SÌ, produzione di fattori
a debole attività
pro-aggregante,
diminuzione di TG
circolanti
SÌ, diminuisce
i trigliceridi circolanti,
previene la formazione
della placca
aterosclerotica
Prevenzione
del diabete
SÌ, aumenta il grado
di insaturazione
delle membrane
SÌ, modifica
la sensibilità
all’insulina delle
membrane cellulari
NO, incremento
del rischio
cardiovascolare
Crescita fetale SÌ, è correlato
NO, è sconsigliato
e neonatale
positivamente
l’eccesso
agli indici di
crescita corporea
neonatale
SÌ, i livelli nel funicolo
ombelicale sono
correlati al peso
alla nascita
nei pretermine
Sviluppo
della retina
e del sistema
nervoso
centrale
SÌ, modula le attività
di membrana
rendendole più fluide,
facilita il ricambio
di rodopsina nei
bastoncelli, si
concentra nelle
aree di connessione
e organizzative
della memoria nella
corteccia prefrontale
FORSE,
ruolo neuro
trasmettitoriale?
veicolante e, attraverso il funicolo, al feto, soprattutto durante il terzo trimestre.
Il lattante trova poi la sua fonte di acidi
grassi polinsaturi nel latte materno,
mentre per il bambino più grande le
fonti sono le stesse del soggetto adulto.
Oggi risulta bene accertata la funzione degli acidi grassi polinsaturi della
serie n-3, e in particolare dell’acido docosaesaenoico, nelle prime fasi della vita, compresa quella intrauterina. La ba-
NO, in pratica
assente nei lipidi
delle cellule nervose
se fisiologica degli effetti positivi del
DHA starebbe nella modulazione delle
attività di membrana che vengono rese
più fluide.
Il DHA faciliterebbe tra l’altro il ricambio della rodopsina, e quindi un miglioramento della performance visiva, e
contribuirebbe sostanzialmente a un
potenziamento della memoria e dell’apprendimento (Agostoni et al 2000,
Agostoni et al 1997).
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vegetali contengono in genere quantità
abbastanza elevate di vitamina E, al
contrario dei grassi animali.
Acidi grassi
monoinsaturi
Numerose indagini epidemiologiche
hanno ormai ampiamente confermato la
correlazione inversa esistente fra l’introduzione di acidi grassi monoinsaturi e il
tasso di mortalità generale, e in particolare il tasso di mortalità per coronaropatie ischemiche.
Tale correlazione è specialmente
evidente nei paesi mediterranei, dove le
popolazioni usano l’olio d’oliva (particolarmente ricco di acido oleico) come
principale fonte di grasso alimentare.
Studi metabolici hanno dimostrato
che la sostituzione di carboidrati con
grassi monoinsaturi provoca un aumento delle HDL senza influenzare le LDL
(Mensink e Katan 1992), e nello stesso
tempo può migliorare la tolleranza al
glucosio e la sensibilità all’insulina in
pazienti affetti da diabete mellito (Garg
et al 1992).
Per giunta, i grassi monoinsaturi
sono abbastanza resistenti ai fenomeni
di ossidazione (Parthasarathy et al
1990). Le fonti non animali più importanti di grassi monoinsaturi sono l’olio
d’oliva e l’olio canola, le noci e gli avocadi. Sia l’olio canola che le noci sono
altresì fonti importanti di acidi grassi polinsaturi. Va anche ricordato che gli oli
Acidi grassi “trans”
Negli ultimi dieci anni si è andata
modificando l’opinione riguardante gli
acidi grassi “trans”, considerati fino al
1990 come innocui riguardo a un potenziale rischio per le coronaropatie
ischemiche.
Già nei primi anni novanta, Mensink
e Katan avevano potuto dimostrare che
un modesto aumento della colesterolemia indotta dagli acidi grassi trans era
accompagnata in realtà da un aumento
considerevole del colesterolo LDL e da
una riduzione del colesterolo HDL.
Poco tempo dopo, Willett et al misero in evidenza una correlazione positiva fra introduzione di acidi grassi trans
e frequenza di coronaropatie ischemiche in un vasto campione di donne, e
ipotizzarono che oli vegetali parzialmente idrogenati potessero contribuire all’instaurarsi di tale patologia. Nel 1994
Willett e Ascherio rafforzarono le loro
osservazioni sugli effetti sfavorevoli degli acidi grassi trans, calcolando che
negli Stati Uniti più di 30.000 decessi
all’anno potevano essere attribuiti al
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
consumo di grassi vegetali parzialmente
idrogenati. In effetti, l’associazione fra
bassi livelli di HDL e coronaropatie
ischemiche è molto consistente e significativa, ed è confermata dall’osservazione, fatta attraverso vari trial clinici
random, che i farmaci in grado di far
aumentare il livello delle HDL portano
altresì a una riduzione dell’incidenza di
coronaropatie ischemiche (Rubins et al
1999). Ma vi sono almeno altri tre meccanismi attraverso cui gli acidi grassi
trans possono contribuire all’aumento
delle coronaropatie. In primo luogo,
fanno alzare i livelli di Lp(a) (Nestel et al
1992, Sundram et al 1997), notoriamente associata al rischio di coronaropatie ischemiche (Uterman 1989); in
secondo luogo, provocano anche un incremento dei trigliceridi plasmatici
(Katan et al 1995), essi pure associati
a un aumento del rischio (Hokanson e
Austin 1996, Stampfer et al 1996);
inoltre, gli acidi grassi trans possono influenzare sfavorevolmente il metabolismo degli acidi grassi essenziali nonché
l’equilibrio delle prostaglandine, inibendo l’enzima delta-6-desaturasi, con il risultato finale di promuovere la trombogenesi (Katan et al 1995, Kinsella et al
1981, Jones 1993). Recenti ricerche,
infine, portano a ritenere che elevate
introduzioni di trans possano favorire
nell’uomo la resistenza all’insulina
(Lovejoy 1999).
Negli Stati Uniti, le fonti più importanti di acidi grassi trans sembrano essere la margarina di consistenza molto
solida, le patatine fritte e vari prodotti
da forno. È stato calcolato che una porzione media di patatine fritte contenga
circa 5-6 grammi di acidi grassi trans,
una frittella ne contenga 2 grammi e 25
grammi di cracker ne contengano circa
2 grammi (Katan 2000).
In Europa la situazione sembra essere migliore, perché molto probabilmente i produttori si sono sensibilizzati
presto su questi problemi sanitari, allarmati anche dalle ripercussioni sul mercato che si sarebbero potute avere.
Secondo quanto riportato nei LARN
(1996), l’assunzione di acidi grassi
trans nell’alimentazione italiana è in media di solo 1,3 g/die, contro i 5-10 g rilevati in paesi con consumi elevati di
grassi idrogenati. È comunque opportuno che l’assunzione di tali grassi non
superi i 5 g/die.
Conclusioni
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, ai fini della prevenzione del rischio di cardiopatie ischemiche, più che
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la quantità totale dei grassi ha importanza il tipo di sostanze grasse apportate dalla dieta; esiste ancora, inoltre,
qualche incertezza sui rapporti ottimali
tra i differenti tipi di acidi grassi. D’altra
parte, sebbene si continui a credere
che una dieta ipolipidica comporti una
diminuzione del peso corporeo, in realtà
trial clinici a lungo termine non hanno
fornito prove sufficienti che una riduzione dell’apporto di grassi con la dieta
comporti necessariamente una riduzione del peso (Willett 1998). Al contrario,
vi sono dati che portano a ritenere che
regimi alimentari ricchi di carboidrati
raffinati possano accrescere il senso di
fame e quindi, attraverso un eccesso di
alimentazione, condurre al sovrappeso
e all’obesità (Roberts 2000).
Tabella 4
Livelli di assunzione
raccomandati di acidi
grassi essenziali.
Categoria
Per quanto attiene alla quota lipidica della dieta, da più parti viene ormai riconosciuto che la raccomandazione diffusa di seguire diete a basso
tenore di grassi allo scopo di prevenire
l’arteriosclerosi, e in particolare le coronaropatie ischemiche, è di per sé
troppo semplicistica e non rispondente
con esattezza alle attuali conoscenze
scientifiche. È per questo motivo che
già nell’edizione 1996 dei Livelli di
assunzione raccomandati di energia
e nutrienti per la popolazione italiana (LARN), viene segnalato che l’assunzione lipidica corretta dovrebbe essere caratterizzata da un giusto equilibrio tra le varie serie di acidi grassi
con un buon apporto di 18:2 n-6 e
18:3 n-3 (Tab. 4).
Età
n-6
n-3
(anni)
% energia
g/die
% energia
g/die
Lattanti
0,5-1
4,5
4
0,2-0,5
0,5
Bambini
1-3
4-6
7-10
3
2
2
4
4
4
0,5
0,5
0,5
0,7
1
1
Maschi
11-14
15-17
≥18
2
2
2
5
6
6
0,5
0,5
0,5
1
1,5
1,5
Femmine
11-14
15-17
≥18
2
2
2
4
5
4,5
0,5
0,5
0,5
1
1
1
Gestanti
2
5
0,5
1
Nutrici
2
5,5
0,5
1
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
In particolare viene raccomandato
un livello pari all’1-2% delle calorie totali sotto forma di acido linoleico, e lo
0,2-0,5% come acidi grassi polinsaturi
della serie n-3, con un rapporto, quindi,
tra acido alfa-linolenico e acido linoleico
compreso tra 0,10 e 0,50.
Gli stessi LARN, peraltro, tenendo
conto che un’eccessiva assunzione di
acidi grassi polinsaturi può provocare
danni sia di tipo metabolico che funzionale (formazione di lipoperossidi potenzialmente tossici, aumentata velocità di
sanguinamento, alterazione della funzione immunitaria), prevedono limiti massimi di assunzione abituale di acidi grassi
polinsaturi n-3 (max 5% dell’energia della dieta) e della quantità globale di polinsaturi n-3 e n-6 (max 15% della dieta).
Anche le Linee Guida Americane,
recentemente rivedute, hanno tolto
l’accento dalla quantità di grassi totali,
limitandosi alla raccomandazione che il
pubblico scelga una dieta a basso contenuto di acidi grassi saturi e di colesterolo (Lovejoy 1999; US Department of
Agriculture 2000).
Le più recenti acquisizioni in tema
di lipidi alimentari devono essere tradotte in applicazioni pratiche, e ciò comporta ovviamente un’intensa e accurata
opera di educazione alimentare, da attuare anche in funzione delle abitudini
alimentari e dei fattori di rischio sia degli
individui che delle popolazioni.
Nella prevenzione delle coronaropatie ischemiche, infatti, occorre distinguere due strategie. Una è costituita
dalla prevenzione primaria, rivolta alla
popolazione in generale, che ha lo scopo di facilitare modifiche dello stile di vita, tra cui le abitudini alimentari, così da
ridurre i livelli della colesterolemia e
quindi la prevalenza delle coronaropatie
ischemiche.
L’altra riguarda la prevenzione secondaria ed è rivolta ai pazienti già colpiti da infarto del miocardio o da altre
patologie riconducibili all’arteriosclerosi.
È intuitivo che soprattutto la prevenzione primaria, basata su interventi
alimentari per il controllo dei lipidi ematici, in quanto diretta a larghi strati della
popolazione non può che appoggiarsi a
un’efficiente opera di educazione alimentare, come è già stato accennato.
A questo proposito può essere utile
ricordare che nel 1985, il National Cholesterol Education Program (NCEP) del
National Heart, Lung and Blood Institute (National Institutes of Health) degli
USA, ha dato inizio a un’operazione tesa a ridurre la prevalenza dell’ipercolesterolemia negli Stati Uniti. Da allora
vari rapporti sono stati pubblicati dal
NCEP, il più recente dei quali è il terzo
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E. Lanzola
rapporto su Ricerca, valutazione e
trattamento dei valori elevati di colesterolemia negli adulti , noto come
ATP III. Ciascuno dei rapporti AI, AII e
AIII, concepiti come Linee Guida, ruota
intorno a un argomento fondamentale.
L’ATP I offre una strategia per la prevenzione primaria delle coronaropatie
ischemiche nei soggetti che presentano
livelli elevati di lipoproteine a bassa densità (LDL-colesterolemia ≥160 mg/dl)
ovvero di soggetti con livelli di LDL-colesterolemia borderline, colesterolemia
fra 130 e 159 mg/dl e caratterizzati da
oltre 2 fattori di rischio (Tab. 5).
L’ATP II, oltre a calcare l’accento
sull’importanza del fattore alimentare
come parte fondamentale dello stile di
vita nella prevenzione, suggerisce il raggiungimento di un livello ancora più ridotto della LDL-colesterolemia (≤100
mg/dl) in soggetti con precedenti episodi di infarto del miocardio. L’ATP III,
Tabella 5
Fattori di rischio
per le coronaropatie
ischemiche.
infine, ribadisce – sulla base di studi
ancora più recenti – i concetti già
espressi in ATP I e II, e inoltre focalizza
l’attenzione sulle modalità della prevenzione primaria in persone caratterizzate
da molteplici fattori di rischio. Molti di
questi soggetti possono ottenere notevole beneficio da un trattamento, teso
ad abbassare le LDL, ancora più spinto
di quello raccomandato in ATP II.
In pratica l’ATP III prescrive un approccio multivariato dello stile di vita per
ridurre il rischio di infarto del miocardio.
Questo approccio è definito come “modifiche terapeutiche degli stili di vita”
(TLC: Therapeutic Lifestyle Changes) e
le sue caratteristiche fondamentali consistono in:
– ridotta assunzione di acidi grassi saturi (<7% delle calorie totali) e di colesterolo (<200 mg al giorno) (Tab. 6);
– incremento del consumo di vegetali
apportatori di fitosteroli (2 g/die) e di
Fattori di rischio per le coronaropatie ischemiche
- Età: maschi ≥45 anni
femmine ≥55 anni o menopausa precoce senza terapia estrogena
sostitutiva
- Storia familiare di coronaropatia ischemica prematura
- Abitudine al fumo
- Ipertensione
- Colesterolo HDL <35 mg/dl
- Diabete
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
Tabella 6
Composizione in
nutrienti della dieta TLC.
Nutriente
Assunzione Raccomandata
Grassi saturi*
meno del 7% delle calorie totali
Grassi polinsaturi
fino al 10% delle calorie totali
Grassi monoinsaturi
fino al 20% delle calorie totali
Grassi totali
25-35% delle calorie totali
Carboidrati**
50-60% delle calorie totali
Fibra alimentare
20-30 g/die
Proteine
circa 15% delle calorie totali
Colesterolo
meno di 200 mg/die
Apporto energetico***
bilanciare assunzione e dispendio
energetico per mantenere un
peso corporeo desiderabile.
Controllare che non si verifichi
aumento di peso.
* Gli acidi grassi trans devono essere presenti nella più piccola quantità possibile in quanto
contribuiscono a far aumentare le LDL.
** I carboidrati dovrebbero derivare soprattutto da cibi ricchi in carboidrati complessi includendo
cereali – soprattutto integrali – frutta, verdura.
*** Il dispendio energetico giornaliero dovrebbe includere almeno una modesta attività fisica
(approssimativamente 200 kcal/die).
fibra solubile (10-25 g/die);
– riduzione del peso corporeo.
– incremento dell’attività fisica.
In pratica le modificazioni dietetiche
proposte dal National Cholesterol Education Program si traducono in due tipi
di diete denominate Step I Diet e Step
II Diet. La prima di queste è caratterizzata da un contenuto di grassi inferiore
al 30% delle calorie totali e da un apporto di saturi compreso tra l’8% e il
10% delle calorie; il colesterolo è inferiore a 300 mg/die.
La dieta Step II contiene la stessa
percentuale di grassi, ma quelli saturi
vengono portati al di sotto del 7% delle
calorie totali e il colesterolo è inferiore a
200 mg/die (ATP II - NCEP).
Con la dieta Step I la colesterolemia si abbassa dal 3% fino al 14% e
dovrebbe essere misurata dopo 6 settimane di dieta e quindi dopo 3 mesi.
Se i valori colesterolemici previsti
non vengono raggiunti il paziente deve
passare alla Step II Diet che può ulteriormente ridurre il colesterolo del 3%-7%.
Entrambe le diete prevedono una
varietà di alimenti appartenenti a tutti i
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E. Lanzola
gruppi alimentari e ciò assicura non soltanto la copertura del fabbisogno dei
singoli nutrienti (in particolare vitamine
e minerali) ma anche la compliance dei
soggetti.
È ovvio, tuttavia, che un’applicazione rigorosa della procedura proposta
dal NCEP presuppone che l’elaborazione delle diete – che devono essere personalizzate in funzione dell’età, del sesso, dell’attività lavorativa e fisica dei singoli soggetti e tenere conto, inoltre, nei
limiti del possibile, della preferenza e
abitudini individuali – debbono essere
elaborate da personale competente.
A puro titolo di esempio vengono riportate quattro differenti diete adeguate
a soggetti che necessitino – per il loro
equilibrio energetico – di un apporto di
2.800 kcal/die. Tali diete, elaborate tenendo conto delle comuni abitudini alimentari italiane, variano per il contenuto
di lipidi totali e relative frazioni, nonché
per il contenuto di colesterolo e possono essere considerate, sotto questo
aspetto, un’applicazione mediterranea
delle diete Step I e II (le quattro diete
sono state elaborate dalla dietista Rosella Bazzano dell’Università di Pavia).
Si tratta, come già precisato, soltanto di esempio di diete che sono state elaborate a mero scopo dimostrativo
tenendo presenti, fra l’altro, preferenze
ipotetiche verso cibi e bevande compatibili con le finalità della dieta.
Va precisato, inoltre, che un trattamento dietetico serio ed efficace, come
quello delle diete Step I e Step II, presuppone che i menu dietetici siano almeno sette (uno per ciascun giorno
della settimana) al fine di consentire
un’opportuna rotazione e una varietà di
piatti tale da minimizzare il rischio di
drop out.
In linea generale un buon equilibrio
tra i vari acidi grassi (saturi, monoinsaturi, polinsaturi) può essere raggiunto
impiegando nella preparazione dei pasti
– ogni volta che sia possibile – olio di
oliva o olio di semi a elevato contenuto
di monoinsaturi e polinsaturi e limitando
il numero di piatti ricchi di grassi animali
e di alimenti con elevato tenore di grassi “non visibili”. Tuttavia, soltanto una
buona educazione alimentare può contribuire a evitare due possibili errori,
l’uno opposto all’altro, che, eufemisticamente, potremmo definire come Scilla e Cariddi, cioè a dire che da un lato
la riduzione dei grassi visibili – compresi
gli oli – conduca a un aumento dell’apporto di grassi saturi, e dall’altro che
per ridurre l’apporto di grassi invisibili
vengano eccessivamente penalizzati
prodotti di origine animale, come la carne e i prodotti caseari.
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
Esempio di dieta
Dieta da 2800 Kcal
• proteine 13%
• lipidi 30% di cui 10% saturi, 16% monoinsaturi, 4% polinsaturi
• glucidi 52%, alcol 5%
• colesterolo mg 190
Colazione
- ml 300 di latte parzialmente scremato
- g 50 di biscotti secchi
Pranzo
- g 80 di pane (una ciabattina)
- fusilli al pomodoro preparati con g 120 di pasta, g 200 di pomodoro fresco, g 15 di grana
(un cucchiaio e 1/2), basilico o altre erbe aromatiche a piacere
- g 50 di prosciutto crudo
- g 200 di melone
Spuntino
- una tazza di tè dolcificato con un cucchiaino di zucchero
- 4 biscotti integrali tipo frollini
Cena
- riso e prezzemolo preparato con g 30 di riso, brodo vegetale e prezzemolo q.b., un cucchiaino
di grana
- g 80 di pane (una ciabattina)
- g 100 di pollo allo spiedo
- peperonata preparata con g 200 di peperoni, pomodori maturi, erbe aromatiche a piacere
- g 250 di uva bianca
- un bicchiere e 1/2 di vino rosso
Dopo cena
- una tazza di camomilla dolcificata con 1 cucchiaino di zucchero
Condimenti
È consentito consumare ml 40 di olio d’oliva extravergine nell’arco della giornata (pari a 8 cucchiaini da tè)
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E. Lanzola
Esempio di dieta
Dieta da 2800 Kcal
• proteine 11%
• lipidi 30% di cui 7% saturi, 18% monoinsaturi, 5% polinsaturi
• glucidi 56%, alcol 3%
• colesterolo mg 172
Colazione
- ml 250 di latte parzialmente scremato
- g 30 di muesli senza zucchero
Pranzo
- g 80 di pane (una ciabattina)
- risotto al radicchio preparato con g 80 di riso, radicchio rosso brasato, un cucchiaio di grana
- g 100 di salmone alla piastra
- insalata di soncino con noci (4 o 5)
- g 200 di ananas al naturale
Cena
- g 280 di pizza margherita (tipo pizzeria)
- g 80 di crostata con marmellata
- una coppetta di macedonia di frutta fresca
- una birra chiara media (ml 400)
Condimenti
È consentito consumare ml 30 di olio d’oliva extravergine nell’arco della giornata (pari a 6 cucchiaini
da tè) oltre a quello contenuto nella pizza
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Interventi alimentari per il controllo dei lipidi ematici
Esempio di dieta
Dieta da 2800 Kcal
• proteine 13%
• lipidi 25% di cui 10% saturi, 12% monoinsaturi, 3% polinsaturi
• glucidi 57%, alcol 5%
• colesterolo mg 148
Colazione
- un bicchiere di spremuta d’arance dolcificato con un cucchiaino di zucchero
- g 50 di pane tostato integrale
- una confezione alberghiera di marmellata
Pranzo
- g 80 di pane (una ciabattina)
- gnocchi al pomodoro preparati con g 250 di gnocchi di patate, g 200 di pomodori maturi, un cucchiaio
di grana, basilico o altre erbe aromatiche a piacere
- g 100 di coscia di tacchino al forno
- insalata di indivia belga
- una coppetta di macedonia di frutta fresca con un cucchiaino di zucchero
Spuntino
- un vasetto di yogurt alla frutta
Cena
- pasta e ceci preparata con g 80 di pasta, g 40 di ceci secchi, un cucchiaio di grana
- g 80 di pane (una ciabattina)
- g 100 di ricotta
- g 200 di ratatouille di verdure
- g 200 di frutta fresca di stagione
- un bicchiere e 1/2 di vino rosso
Condimenti
È consentito consumare ml 35 di olio d’oliva extravergine nell’arco della giornata (pari a 7 cucchiaini da tè)
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E. Lanzola
Esempio di dieta
Dieta da 2800 Kcal
• proteine 13%
• lipidi 25% di cui 7% saturi, 13% monoinsaturi, 5% polinsaturi
• glucidi 59%, alcol 3%
• colesterolo mg 166
Colazione
- caffelatte preparato con ml 250 di latte parzialmente scremato, caffè q.b., dolcificato
con un cucchiaino di zucchero
- 6 fette biscottate integrali
Spuntino
- un pacchetto di cracker salati
Pranzo
- g 100 di pane tipo ciabatta
- sogliola alla mugnaia preparata con g 150 di sogliola, farina q.b.
- patate in insalata con prezzemolo preparate con g 300 di patate, prezzemolo q.b.
- g 80 di insalata verde
- g 200 di arance
- un bicchiere di vino bianco o rosso
- caffè dolcificato con g 5 di zucchero
Spuntino
- una tazza di tè dolcificato con un cucchiaino di zucchero
- g 50 di biscotti secchi
Cena
- g 60 di pane (un panino) tipo rosetta
- minestrone di riso preparato con g 30 di riso, g 250 di verdure miste e legumi, 1 cucchiaio di grana
- g 50 di taleggio
- g 200 di zucchine trifolate
- g 200 di mele o altra frutta fresca di stagione
- un bicchiere di vino rosso
Dopo cena
- un bicchiere di succo di frutta
Condimenti
A disposizione nell’arco dell’intera giornata ml 35 di olio d’oliva extravergine (pari a 7 cucchiaini da tè)
da distribuirsi a crudo sulle vivande
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tress ossidativo
e antiossidanti naturali
M. Averna, C.M. Barbagallo, A. Cefalù, D. Noto
Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Biologia del danno
ossidativo
logici, il cui risultato conduce all’ostruzione arteriosa e quindi all’evento clinico. Questa eterogeneità del processo
patologico pone il problema di identificare il primum movens e quindi la
causa iniziale del processo aterosclerotico. Mentre la teoria finora accettata
proponeva la “denudazione” dell’endotelio arterioso come primo evento, più
recenti osservazioni propongono una
disfunzione più che un’alterazione
meccanica endoteliale. La prima alterazione che può essere identificata
anatomopatologicamente, è rappresentata dalla “stria grassa”, la fatty
streak degli autori anglosassoni, rinvenuta come riscontro autoptico casuale
anche in adolescenti. Questa lesione è
una lesione infiammatoria pura, caratterizzata dalla presenza di un numero
elevato di linfociti T e da macrofagimonociti. Una volta che il processo è
attivo, numerosi fattori di rischio contribuiscono al suo mantenimento e accrescimento. La disfunzione endotelia-
Da alcuni anni si accumulano evidenze che dimostrano come l’aterosclerosi debba considerarsi una patologia complessa, che sottende un meccanismo immunopatologico di tipo infiammatorio. È noto che elevati livelli di
colesterolo LDL rappresentano il principale fattore di rischio per la malattia
cardiovascolare, tuttavia, le modifiche
dello stile di vita e l’utilizzo di nuove
strategie farmacologiche hanno consentito soltanto una parziale riduzione
dell’incidenza di tale malattia, che resta
tuttora la principale causa di morte. La
lesione aterosclerotica è localizzata
prevalentemente in corrispondenza
delle arterie elastiche di medio calibro
e delle arterie muscolari. Il crescente
numero dei fattori di rischio identificati
per la malattia cardiovascolare mette in
luce come la lesione aterosclerotica sia
il risultato di diversi momenti fisiopato-
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Stress ossidativo e antiossidanti naturali
le altera le proprietà “anticoagulanti”
della sua superficie, aumenta l’adesività e permeabilità di leucociti e piastrine, promuove la liberazione in situ
di mediatori dell’infiammazione, citochine e fattori di crescita, generando
un aumento dell’attività ossidativa nel
sito di lesione da parte di numerosi
agenti lesivi. Si determina quindi la distruzione progressiva della struttura
della parete arteriosa, con progressiva
creazione di una placca ateromasica.
Negli ultimi anni, un considerevole interesse verso la valutazione dello stato
ossido-riduttivo della placca, o redox
state, ha permesso di chiarire come
molti dei fattori di rischio, sia classici
che di nuova acquisizione, agiscano
sulla placca alterandone lo stato redox,
sia favorendo i processi ossidativi, che
riducendo il potere antiossidante proprio della parete arteriosa. Uno dei
principali fattori di rischio della malattia
cardiovascolare è rappresentato dall’ipercolesterolemia, e numerosi sono
stati gli studi che hanno permesso di
spiegare come il metabolismo lipidico
giochi un ruolo nel mantenimento dello
stato redox della parete arteriosa. È
necessario però comprendere quali
siano i principali sistemi che intervengono nella regolazione dei meccanismi
ossido riduttivi.
Composti reattivi
dell’ossigeno (ROS)
Da quando gli studi hanno posto
l’attenzione sui meccanismi ossido-riduttivi della parete arteriosa, numerosi
composti capaci di influenzare lo stato
redox sono stati identificati. I più importanti sono rappresentati dai “composti
reattivi dell’ossigeno”, detti ROS (reactive oxigen species), da radicali fra i
quali il superossido, il radicale idrossile,
che in parte sono generati da altri ossidanti, quali il perossido di idrogeno e il
perossinitrito. Oltre all’azione ossidante,
questi composti sembrano fungere da
segnali responsabili dell’attivazione di
meccanismi cellulari responsabili di disfunzione endoteliale. Alla luce di queste acquisizioni, il ruolo dell’ipercolesterolemia è stato rivalutato, in base alla
possibilità che i ROS interagiscano con
la maggiore disponibilità di lipidi all’interno della barriera endoteliale, alterandone lo stato redox. Molti punti rimangono
ancora oscuri: infatti, i sistemi principali
che iniziano la catena ossidativa dei lipidi intra-parete non sono ancora stati
identificati. Il principale “bersaglio” ossidativo lipoproteico è rappresentato dagli
acidi grassi insaturi presenti all’interno
della placca sotto forma di esteri di colesterolo, fosfolipidi e nei trigliceridi.
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M. Averna, C.M.Barbagallo, A. Cefalù, D. Noto
Lipossigenasi,
metalloproteasi
LDL ossidate
Secondo le ipotesi più recenti, l’alterazione cui vanno incontro con maggiore frequenza le lipoproteine è l’ossidazione. Le LDL possono essere ossidate da prodotti metabolici di quasi tutti
i sottotipi cellulari presenti nella matrice
della parete arteriosa. In una fase iniziale, una modesta ossidazione risulta nella formazione di “LDL modicamente ossidate” o MM-LDL nello spazio subendoteliale. Le MM-LDL inducono la produzione di fattori chemiotattici monocitari, come la proteina chemiotattica monocitaria 1 (MCP-1), ma anche fattori
di differenziazione, come il fattore di differenziazione macrofagica M-CSF.
Questi eventi conducono alla migrazione dei monociti nello spazio endoteliale
e alla loro differenziazione in macrofagi,
con liberazione di enzimi litici, come le
metalloproteinasi, che determinano
un’ulteriore ossidazione delle MM-LDL,
che divengono francamente ossidate
(ox-LDL). Le ox-LDL non vengono più
riconosciute tramite il recettore naturale, il recettore LDL, ma da una serie di
altri recettori, detti “spazzini”, o scavenger, i quali comportano l’accumulo di
esteri del colesterolo all’interno di cellule macrofagiche, che si trasformano in
cellule schiumose, o foam cells, che
Questi verrebbero trasformati inizialmente in lipoperossidi (L-OOH), forse
dall’azione della 15 lipossigenasi (15
LO). A supporto di questa osservazione,
topi geneticamente modificati che sovraesprimono la 15 LO, presentano una
maggiore presenza di aterosclerosi.
Rimane da chiarire come un’enzima citosolico macrofagico possa interagire
con lipoproteine presenti nella matrice
della placca. Il ruolo della LO sarebbe
quello di “esporre” lipoperossidi sulla superficie lipoproteica per ulteriore ossidazione, che comporta la formazione dei
corrispondenti alcoli (L-OH) da parte di
specifiche perossidasi, non riscontrate
però nella matrice della placca. In via alternativa, dagli L-OH potrebbero essere
generati radicali lipoperossilici (L-OO*)
per intervento del radicale idroperossido
(*OH). È noto che le LDL native, di per
sé inducono il rilascio dell’anione superossido, che conduce alla formazione
del perossinitrito, amplificando così la
catena ossidativa. Recentemente sono
stati identificati alcuni prodotti ossidanti
delle mieloperossidasi, quali acido ipocloroso, residui tirosinici ridotti e la pirossifenilacetaldeide, che potrebbero essere coinvolti nell’ossidazione delle LDL.
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Stress ossidativo e antiossidanti naturali
rappresentano l’elemento lipidico caratteristico della placca lipidica ateromasica. Alcuni di questi recettori sono stati
identificati ed è stato chiarito il meccanismo di attivazione. È stato identificato
recentemente il recettore putativo per le
LDL ossidate o LOX. Grazie a questo
riscontro, la catena di eventi trascrizionali che consegue dall’internalizzazione
delle ox-LDL alla risposta proinfiammatoria, è stata parzialmente chiarita. L’attivazione dei recettori per le LDL ossidate attiva i sistemi del TNF alfa, FAS,
caspasi, protein-kinasi mitogeno attivata/kinasi JUN. Come risultato dell’attivazione di questi segnali, vengono generati diversi fattori di trascrizione redox-sensitivi; activating transcription
factor 2, ets-like element kinase-dependent 1, AMPc response element
binding protein, NFkB, complesso activator protein 1, p53, complesso cMyc/Max, fattore legante elongation
2 factor e il complesso activator protein 2.
Questo meccanismo di attivazione
genica comporta la sintesi di alcuni mediatori dell’infiammazione, come il tumor necrosis factor alfa (TNFa), interleuchina 1beta (IL1b) e l’interferon
gamma (Ig), che si sono dimostrati in
grado di stimolare la sintesi di enzimi
capaci di innescare un ulteriore stress
ossidativo, producendo ROS come la
NADPH ossidasi, che è il principale
produttore di anione superossido nell’endotelio, ma anche xantina ossidasi,
ciclossigenasi, mieloperossidasi e lipossigenasi. L’NADPH ossidasi vascolare
è responsiva a stimoli di parete, quali lo
stress di parete (shear stress), ma anche a stimoli ormonali, fattori di crescita
e citochine. La fonte di NADPH della
placca è considerata la cellula monocito
macrofagica, insieme a cellule della
parte vascolare, cellule muscolari lisce,
endoteliali e fibroblasti. Esperimenti con
topi geneticamente carenti di NADPH
macrofagica non hanno mostrato riduzione dell’estensione della placca indotta sperimentalmente, lasciando supporre un prevalente coinvolgimento di cellule residenti nella parete vascolare.
Prospettive
d’intervento
Un potenziale ruolo protettivo degli
antiossidanti naturali nei confronti della
malattia cardiovascolare (MCV) è oggetto di discussione ormai da quasi
vent’anni. I primi studi degli anni settanta e ottanta sembravano suggerire un
ruolo protettivo della supplementazione
dietetica con antiossidanti naturali, par-
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ticolarmente vitamina E e beta carotene, e diversi studi osservazionali sembrarono correlare l’introito di antiossidanti con la riduzione dell’incidenza di
MCV. Negli anni novanta, diversi trial su
larga scala estesero le osservazioni iniziali e i risultati furono in qualche modo
sorprendenti. Mentre lo studio Linxian
in Cina dimostrò un effetto protettivo
della somministrazione di alfa tocoferolo, beta carotene e selenio fornite a dosi naturali, negli Alfa Tocoferolo, Beta
Carotene Cancer Prevention Study
(ATBC) in Finlandia e Carotene and
Retinol Efficacy Trial (CARET) negli
USA, si è riscontrato che soggetti ad
alto rischio per neoplasie, supplementati con dosi farmacologiche di antiossidanti svilupparono più neoplasie rispetto
ai controlli, ed è stato registrato un incremento della mortalità cardiovascolare dell’11% nell’ATBC e del 26%, ma
non significativo, nel CARET. Infine,
nello studio ATBC si è evidenziata una
maggiore incidenza di stroke emorragici. In contrasto con tali osservazioni lo
studio CHAOS, in pazienti con malattia
coronarica diagnosticata coronarograficamente, la supplementazione di vitamina E a dosi di 400 o 800 IU per 1,5
anni ha dimostrato una riduzione dell’incidenza del reinfarto, ma non una riduzione della mortalità cardiovascolare. A
prima vista i risultati sembrano attribuire
agli antiossidanti le migliori e le peggiori
qualità. Alcune discrepanze possono
essere spiegate dal tipo di selezione
delle casistiche nei vari studi, dai dosaggi utilizzati (dosi nutrizionali vs farmacologiche, il tipo e l’associazione utilizzata). Mentre la somministrazione di
un singolo nutriente ad alte dosi può
non rappresentare un valido presidio,
effetti positivi si dovrebbero attendere
dall’uso di diversi antiossidanti a dosi
nutrizionali, quali quelli contenuti in una
dieta salutare. Il dato essenziale degli
studi di intervento sembra essere che
concentrazioni ottimali di antiossidanti
plasmatici esercitano un effetto positivo, mentre ciò non è vero per la supplementazione ad alte dosi. Infatti, gli effetti negativi riscontrati nei suddetti studi si sono evidenziati nel gruppo di soggetti con concentrazioni di ossidanti più
elevate (rispettivamente 18 e 12 volte i
livelli iniziali nell’ATVB e CARET). La
spiegazione di questo effetto paradosso
delle alte dosi potrebbe essere dato dal
fatto che, sebbene un eccesso di ossidazione possa essere responsabile dell’attivazione di sistemi che conducono
alla formazione di placche instabili, come illustrato in precedenza, tuttavia un
livello basale di produzione di radicali liberi è un processo fondamentale per
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Stress ossidativo e antiossidanti naturali
l’attivazione dei geni antiossidanti nelle
cellule sottoposte a stress ossidativo. I
radicali liberi intervengono anche nel
processo apoptotico che rappresenta
una difesa efficace nei confronti delle
neoplasie e delle disfunzioni immunitarie. Va osservato che alcuni antiossidanti hanno dimostrato effetti pro-ossidativi se somministrati ad alte dosi. Tali
osservazioni possono quindi spiegare
come la somministrazione di alte dosi,
farmacologiche, di antiossidanti, conduca alla fine a effetti negativi sulla patologia cardiovascolare e neoplastica che
non sono evidenti con dosi “nutrizionali”.
denziato attività ipocolesterolemizzante.
L’alfa tocoferolo, un antiossidante capace di intrappolare i radicali perossilici
liberi, è il principale e più potente antiossidante liposolubile presente nel plasma e nelle lipoproteine LDL. È però
vero che sia gli studi animali che i trial
controllati, come detto in precedenza,
hanno mostrato risultati contrastanti.
Riguardo agli studi animali, gli studi con
supplementazione di vitamina E non
hanno mostrato risultati certi, così come
la combinazione di vitamina E e beta
carotene. Recenti studi hanno rilevato
che l’alfa tocoferolo ha azioni antiaterogeniche indipendenti dall’azione antiossidante sulle LDL, quali l’inibizione della
protein-kinasi C e della proliferazione
delle cellule muscolari lisce, e l’inibizione dell’espressione del recettore proinfiammatorio CD36. La reale importanza di queste azioni è comunque ancora oggetto di studio.
Vitamina E
Vitamina E è il nome collettivo di
una serie di molecole che mostrano
l’attività biologica propria dell’alfa tocoferolo. Le forme di vitamina E presenti
in natura sono rappresentate da quattro
tocoferoli e quattro tocotrienoli (alfa,
beta, gamma e delta). I tocotrienoli differiscono dal tocoferolo per la presenza
di una catena laterale insatura e sono
potenti agenti ipocolesterolemizzanti e
antiossidanti. Tuttavia solo l’alfa tocotrienolo ha mostrato attività antiossidante, mentre i tocotrienoli, purificati in un
singolo studio su umani, non hanno evi-
Carotenoidi
I carotenoidi rappresentano una
classe di pigmenti dal giallo al rosso
presenti in ortaggi e frutta. La ricerca
sull’attività antiossidante dei carotenoidi
si è focalizzata sull’azione neutralizzante
mostrata dal beta carotene e dal licope-
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ne sull’ossigeno singoletto. Tuttavia non
ci sono chiare evidenze che l’ossigeno
singoletto, un composto reattivo dell’ossigeno, giochi un ruolo fondamentale sul processo aterogenico, e che la
sua neutralizzazione riduca il rischio cardiovascolare. L’azione antiossidante è
stata anche evidenziata in sistemi in vitro. Paradossalmente, l’addizione di altri
carotenoidi, quali il licopene, negli stessi sistemi, in vitro, ha mostrato un effetto pro-ossidante. Questo denota come non esistano evidenze certe riguardo all’azione dei carotenoidi sulla stabilità delle LDL anche in vitro.
tetroidropterina, una proteina coinvolta
nella sintesi del nitrossido (NO), un potente vasodilatatore, da parte della nitrossido sintetasi (NOS) delle cellule
endoteliali. Inoltre, nei soggetti sottoposti a trapianto cardiaco, la vitamina C
incrementa la risposta ai nitrati e all’acetilcolina. Poiché tali risposte sono
mediate dalla presenza del NO, questa
rappresenterebbe un’evidenza indiretta
della sua maggiore disponibilità indotta
dalla vitamina C.
Flavonoidi
La relazione inversa tra l’assunzione
di alimenti ricchi di flavonoidi, quali vino
rosso, tè, liquirizia, e la riduzione del rischio di malattia cardiovascolare, può
essere legata all’inibizione dell’ossidazione delle LDL, quindi alla riduzione
della formazione delle cellule schiumose
e in ultima analisi all’inibizione del processo aterosclerotico. In studi su animali, tali sostanze hanno dimostrato di
ridurre la progressione dell’aterosclerosi. Tra i differenti tipi di flavonoidi, i flavonoli, flavanoli e isoflavanoidi sono i
più potenti antiossidanti; tuttavia, all’interno delle singole classi esistono composti con diverso potere antiossidante.
Per questo, alcuni alimenti in vitro han-
Vitamina C
La vitamina C, o acido ascorbico, è
un antiossidante idrosolubile che inibisce la perossidazione lipidica, in vitro,
anche in condizioni di stress ossidativo
accentuato. Essa agisce sia trasportando i radicali in fase acquosa, che riconvertendo i radicali alfa tocoperossilici in
alfa tocoferolo. I livelli circolanti vitamina
C sono considerati un marker sensitivo
per lo stress ossidativo, come quello
che si realizza nel fumo di sigaretta o in
corso di angina instabile. La vitamina C
possiede inoltre una serie di funzioni
biologiche, come la stabilizzazione della
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Stress ossidativo e antiossidanti naturali
no mostrato un potere antiossidante
pari all’80-90% (liquirizia, vino rosso,
estratto di ginepro) rispetto a un’inibizione del 70% del limone e della soia.
L’effetto dei flavonoidi è legato al loro
accumulo nelle lipoproteine e nelle cellule della parete arteriosa, come i macrofagi. La loro azione è legata all’inibizione della perossidazione tramite la rimozione delle ROS (reactive oxigen
species) e al potere chelante sui metalli provvisti di potere ossidante. Inoltre,
hanno il potere di attivare sistemi antiossidanti, come la glutatione perossidasi/reduttasi. Alcuni studi hanno mostrato che il potere antiossidante dei flavonoidi è anche legato al risparmio indotto
di altri antiossidanti legati alle LDL. Il
flavonoide glabridina ha mostrato in vitro la capacità di inibire il consumo di
beta carotene e di licopene rispettivamente del 41% e 50% dopo stress ossidativo, ma non di vitamina E. Tuttavia
non sono disponibili studi clinici controllati sugli effetti protettivi dei flavonoidi,
che nei prossimi anni dovranno essere
testati isolatamente e in sinergia con la
somministrazione di altri antiossidanti.
Acido linoleico coniugato
Acido linoleico coniugato (CLA) è la
sigla che indica una mistura di isomeri
geometrici e posizionali dell’acido linoleico. L’interesse nei confronti di questa
sostanza è nato dall’ipotesi che potesse
intervenire nel processo carcinogenetico.
Studi recenti hanno chiarito che gli isomeri c9, t11, t10 e c12 hanno diversi
effetti biologici. L’idea che il CLA potesse proteggere le LDL dall’ossidazione
per una potente azione antiossidante diretta, non si è rivelata valida per l’incapacità di stabilizzare le membrane cellulari
dallo stress ossidativo in vitro. Tuttavia, è
stato ipotizzato che l’auto-ossidazione
del CLA produca acidi grassi furanici,
che sono ritenuti protettivi nei confronti
dalla tossicità ossidativo-mediata.
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limentazione e geni
M. Averna, A. Cefalù, A. Notarbartolo, D. Noto
Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Introduzione
In seguito alla rapida espansione
delle conoscenze sul genoma umano,
la ricerca nel campo nutrizionale sta
concentrando i propri sforzi per cercare
di stabilire gli effetti dei vari nutrienti
sulla regolazione genica, e sta cercando
di mostrare come diversi genotipi possono modificare l’espressione fenotipica in funzione della dieta.
Il principio di base che la dieta e
particolari nutrienti siano in grado di
modificare la trascrizione dei geni è stato riconosciuto fin da quando il concetto
stesso di gene venne proposto. La ricerca nutrizionale moderna ha fatto
proprie le conoscenze di biologia molecolare per identificare geni, enzimi e
proteine strutturali che sono regolate a
livello trascrizionale dalla dieta. I fattori
dietetici esplicano numerosi effetti ple-
iotropici sul metabolismo, e si sta tentando di identificare e integrare gli effetti dei singoli nutrienti in questo quadro complesso. Le tecniche di biologia
molecolare, che permettono di misurare
simultaneamente la risposta di molti geni attivamente trascritti in una qualsiasi
cellula in risposta a diversi stimoli, permettono lo studio delle interazioni nutrienti-geni su larga scala, aumentando
la comprensione dei fenomeni biomolecolari regolati dalla nutrizione. Poiché è
possibile misurare direttamente
l’espressione di molti più geni in un unico esperimento (Tab. 1 e Fig. 1), lo
studio di profili di espressione di più geni diventerà un approccio sistematico.
Da questo punto di vista l’espressione
genica può essere la nuova frontiera
della scienza clinica della nutrizione.
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Alimentazione e geni
Tabella 1
Vantaggi e svantaggi
di alcune tecniche
di biotecnologia per
l’identificazione e lo
studio dell’espressione
genica.
Metodo
Vantaggi
Svantaggi
cDNA arrays
Contemporanea analisi
di molti geni: disponibile
commercialmente, metodo
semiquantitativo, utilizzo
di piccole quantità
di campione (RNA).
Sensitività e specificità
sconosciuta
per evidenziare differenze;
probabilmente
specie-specifico; costoso;
attualmente è disponibile
un sottogruppo di tutti
i geni.
Analisi seriale
dell’espressione
genica
Valutazione di tutti i geni
espressi in un tessuto
e/o cellula; assenza
di specie-specificità; utilizzo
di piccole quantità di campione;
non dipende da database
di geni noti sequenziati e quindi
utilizzabile per l’identificazione
di nuovi geni e/o di geni poco
espressi.
Richiede un laboratorio
con attrezzature costose
e software per analizzare
i risultati.
Proteomics
Misura i prodotti funzionali
dei geni (proteine); assenza di
specie-specificità; non dipende
da database di geni noti
sequenziati.
Sensitività e specificità
sconosciuta per
evidenziare differenze;
richiede un laboratorio
dotato di spettrometro di
massa per identificare geni
non presenti nei database;
costoso; solo le proteine
più abbondanti vengono
evidenziate.
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Nutrizione,
fenotipo
e longevità
Nessun esempio è così paradigmatico quale la potenza della dieta nel modificare lo stato di salute, in associazione all’osservazione degli effetti della
Restrizione Calorica (CR) sulla longevità. Ad oggi, nessun intervento farmacologico, genetico o ambientale si è dimostrato efficace nel prolungare la vita
media negli animali; tuttavia, la semplice restrizione calorica aumenta la vita
media del 30-40% in un certo numero
di organismi, compresi lieviti, Drosophilia, Caenorhabditis elegans, roditori e
scimmie. Nonostante siano stati osservati effetti positivi con la riduzione
calorica nei soggetti anziani, ridotta resistenza insulinica, incremento di sintesi
di glucocorticoidi e aumento di sintesi di
heat-shock protein, il meccanismo attraverso il quale la CR contribuisce a incrementare la vita media rimane sconosciuto. La CR potrebbe interferire con
diversi processi associati all’età, tra i
quali il metabolismo energetico, lo
stress ossidativo e i fenomeni della “Ri-
parazione del DNA”. Uno studio condotto da Lee et al è un esempio pionieristico dell’uso dei DNA arrays per
esplorare gli effetti della CR e l’età, sull’espressione genica nel muscolo scheletrico di topo. Con questo approccio di
laboratorio è stato possibile identificare
alcuni geni coinvolti in un’ampia gamma
di azioni metaboliche, con l’implicazione
immediata che gli effetti dell’invecchiamento e della restrizione calorica sono
ampi e tuttavia correlati. È in corso tutta
una serie di studi al fine di identificare
quei geni che sono alterati nell’invecchiamento e che sono “protetti” dalla
restrizione calorica. D’altra parte, un
problema fondamentale dei paesi industrializzati è l’incremento del tasso di
obesità e di malattie correlate con gli
squilibri metabolici connessi con l’obesità. Data la molteplicità di effetti dell’obesità che sono intimamente legati
alla dieta, è richiesto un approccio globale anziché la ricerca di una singola
causa-effetto.
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Alimentazione e geni
Figura 1
Campione 1
Esempio di
identificazione
di un gene (TEP1) con il
metodo del cDNA arrays.
Campione 2
mRNA
TEP1
cDNA
TEP1
DNA microarray
Nutrizione e
metabolismo
L’obesità può rappresentare un problema familiare, ma l’influenza del genotipo sull’eziologia dell’obesità può essere
attenuato o esacerbato da fattori non
genetici (Fig. 2). Escluse alcune rare
sindromi associate a obesità, le influenze genetiche sembrano operare attraverso geni di suscettibilità. Questi geni aumentano il rischio di sviluppare un determinato fenotipo ma non sono essenziali.
La ricerca di geni legati all’obesità richiede un approccio ampio, che comprende studi di potenziali geni candidati derivanti
da modelli animali, sindromi causanti obesità nell’uomo e ricerche genomiche su larga scala, con l’utilizzo di marcatori genetici.
Con l’utilizzo di nuovi protocolli sperimentali in grado di indurre farmacologicamente differenze fenotipiche, si sta
tentando di comparare profili di espressione di vari geni, al fine di capire le differenze fenotipiche associate alla malattia. Tale tipo di approccio sperimentale ha permesso di identificare simultaneamente il meccanismo di regolazione
per l’assorbimento intestinale degli steroli e la causa di una malattia genetica,
la sitosterolemia. Gli steroli vegetali,
composti molto simili chimicamente al
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Figura 2
Interazioni fra geni
e ambiente.
GENI
Sindromi monogeniche
Geni di suscettibilità
Obesità
Obesità
Capacità metabolica
Cultura
Attività fisica
Alimentazione
FATTORI AMBIENTALI
hanno dimostrato che i prodotti proteici
dei geni, ABCG5 e ABCG8, erano responsabili del trasporto inverso degli
steroli e del colesterolo assorbiti sulla
superficie delle cellule intestinali. Usando database genetici, è stato possibile
identificare un gene omologo nell’uomo, che poteva essere implicato nella
patologia umana. In effetti sono state
identificate diverse mutazioni di questo
gene nei soggetti affetti da sitosterolemia. In sintesi, questi soggetti non riescono a controllare il trasporto selettivo
e controllato del colesterolo, e quindi
aumenta l’assorbimento di vari steroli
(steroli vegetali compresi). Questo stu-
colesterolo, in condizioni di normalità
sono assorbiti in quantità trascurabili,
mentre i pazienti affetti da sitosterolemia assorbono grandi quantità di questi
composti. Berge et al, utilizzando come
animali da esperimento topi trattati con
sostanze in grado di alterare il metabolismo lipidico, hanno studiato con la tecnica dei gene arrays il profilo di
espressione genica in vari tessuti, confrontandolo con quello di topi normali. I
geni differenzialmente espressi vennero
studiati, e questi ricercatori furono in
grado di identificare un nuovo gene appartenete alla famiglia dei geni ATPbindig cassette (ABC). Berge et al
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dio, come del resto altri, ha mostrato la
notevole portata delle ricerche nel campo biomolecolare e genetico con l’identificazione di geni con grande impatto
fenotipico utilizzando tecniche di epressione genica differenziale.
Il valore dell’utilizzo di questo tipo di
studi è stato confermato dalle ricerche
condotte sulla leptina come regolatore
del metabolismo adiposo.
I modelli animali di obesità monogenica sono caratterizzati dalla precoce
comparsa di obesità, iperinsulinemia e
insulino resistenza. L’eziologia genetica
dell’obesità nei topi da laboratorio ob è
ben definita. Il gene ob è posizionato
sul cromosoma 6 e viene espresso
esclusivamente nel tessuto adiposo dei
topi normali. Il prodotto di questo gene,
chiamato leptina (leptos=magro), è non
funzionante nei topi che sono omozigoti
per la mutazione ob.
L’importanza della scoperta della
leptina come regolatore dell’energia
prodotta dall’adipocita è stata stabilita
con la dimostrazione che l’iniezione di
leptina in un topo leptino-carente
( Ob/Ob) portava a una riduzione del
consumo di cibo e una riduzione del peso corporeo. Inoltre, il coinvolgimento
della leptina in numerosi funzioni metaboliche è stata dimostrata da Soukas et
al, che ha condotto una serie di esperi-
menti che hanno controllato tre differenti variabili. Gli esperimenti hanno valutato contemporaneamente tre fattori: a) la
leptina, attraverso manipolazioni geniche
e iniezione diretta; b) la dieta, attraverso
la somministrazione di dieta ipercalorica,
ipocalorica e isocalorica; c) il tempo, attraverso l’analisi di campioni a vari tempi
dopo l’intervento. Attraverso analisi bioinformatiche, è stato possibile dimostrare che un certo numero di geni risponde
alla leptina, e sono stati disegnati con
esattezza i rapporti fra leptina, metabolismo e repressione coordinata di geni
modulati dalla SREBP-1/ADD-1, una
proteina necessaria all’attivazione di geni implicati nel metabolismo del colesterolo e degli acidi grassi.
Variabilità genetica
Gli sforzi per sequenziare il genoma
umano condotti da consorzi pubblici
(National Human Genome Initiative
[NHGI]) e da privati (Celera Corporation) è adesso disponibile per la consultazione. Un gruppo appartenente al
NHGI, Single Nucleotide Polymorphisms Consortium (SNPC), ha iniziato
a individuare siti polimorfici nel genoma
umano, che individuano importanti differenze fenotipiche nella popolazione
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(http://www.ncbi.nlm.nih.gov/SNP/).
Recentemente è stato comunicato che
sono stati identificati circa 1,42 milioni
di SNPs nel genoma umano. È già noto
che vi sono molti polimorfismi che influenzano il rischio per coronaropatia.
Lo studio dei polimorfismi genici (Fig.
3) mette a disposizione un potente
strumento molecolare per studiare il
ruolo della nutrizione sullo stato di salute dell’uomo. L’uso di queste informazioni, da applicare in studi clinici, metabolici ed epidemiologici, possono contribuire enormemente alla definizione di
diete ottimali.
Nel corso degli ultimi dieci anni,
molti studi sono stati condotti al fine di
valutare le interazioni tra geni e dieta. In
questa sede prenderemo in considerazione alcuni geni candidati implicati nel
metabolismo lipoapoproteico (apoE,
apoB, apoCIII e apoA-I).
Apolipoproteina E
L’apolipoproteina E sembra essere
un buon candidato per studi di interazione geni-dieta. Questa apolipoproteina gioca un ruolo importante nel metabolismo lipoproteico. Nell’uomo è un
componenete strutturale dei chilomicro-
Figura 3
Esempio
di identificazione
di un sito polimorfico.
Esone
Esone
Sito di restrizione
polimorfico
Frammento di DNA amplificato
con Reazione Polimerasica a Catena
(PCR)
Digestione con
Endonucleasi di Restrizione
Corsa elettroforetica in gel
di agarosio o acrilamide
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Alimentazione e geni
ni e delle VLDL remnant, e media il riconoscimento del recettore delle LDL.
Inoltre, l’apolipoproteina E è presente
sulle HDL, dove potrebbe intervenire
nei fenomeni di trasporto inverso del
colesterolo. Sono note varianti geniche
dell’apolipoproteina E che esprimono
tre alleli comuni osservabili nella popolazione – E4, E3 e E2 – con frequenze
alleliche nelle popolazioni caucasiche
dello 0,15, 0,77 e 0,08, rispettivamente. Studi di popolazione hanno dimostrato che i livelli di colesterolo totale,
LDL-colesterolo e apoproteina B sono
più elevati nei soggetti portatori dell’isoforma E4, intermedi in quelli con isoforma E3 e più bassi in quelli con isoforma
E2. Queste varianti alleliche sono responsabili di circa il 7% delle variazioni
dei livelli di colesterolo nella popolazione
generale. Le relazioni esistenti fra livelli
di LDL colesterolo e varianti geniche
dell’apolipoproteina E potrebbero essere dovute anche a fattori ambientali e
fattori etnici. L’associazione dell’isoforma E4 dell’apoproteina E con livelli elevati di colesterolo plasmatico è maggiore nelle popolazioni che consumano una
dieta più ricca in grassi saturi rispetto
ad altre popolazioni. Questi dati suggeriscono che i livelli più elevati di LDL
colesterolo osservati in soggetti portatori dell’isoforma E4 si manifestano
principalmente in presenza di una dieta
con caratteristiche aterogene, e che la
risposta ai grassi saturi e al colesterolo
alimentari possa variare tra individui con
diversi fenotipi di apolipoproteina E.
Le interazioni tra dieta e gene dell’apolipoproteina E sono state oggetto
di diversi studi.
Il DELTA Study (Dietary Effects on
Lipoproteins and Thrombogenic Activity) è uno studio multicentrico controllato
che ha esaminato le associazioni fra
genotipi dell’apolipoproteina E e lipidi
plasmatici in seguito alla riduzione di calorie fornite da grassi totali e grassi saturi, in una popolazione etnicamente mista di uomini e donne (n=103). Gli autori di questo studio non trovarono evidenze significative di interazione genedieta per le variabili lipidiche esaminate
(colesterolo totale, LDL-colesterolo,
HDL-colesterolo e trigliceridi), sia analizzando il gruppo nel suo complesso sia
dopo analisi dei sottogruppi (uomini e
donne, neri e bianchi). Quindi, in questo
tipo di popolazione e con questo tipo di
intervento dietetico, il genotipo dell’apolipoproteina E non predice il grado
della risposta lipidica in seguito alla riduzione dei grassi saturi alimentari.
Dall’analisi di altri studi che hanno
esaminato le interazioni fenotipo/genotipo dell’apolipoproteina E in seguito a
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modificazioni dietetiche, si possono evidenziare risultati contrastanti. Un’interazione significativa tra dieta e gene dell’apolipoproteina E è stata riportata in
studi che avevano esaminato coorti di
soli uomini. Negli studi condotti con uomini e donne, gli effetti significativi furono
notati solo tra gli uomini, suggerendo una
sostanziale interazione tra gene e sesso.
Inoltre, bisogna ricordare che nel
DELTA Study era stato modificato solo
l’apporto degli acidi grassi saturi, mentre
nella maggior parte degli altri studi era
stato modificato l’apporto di acidi grassi
saturi e di colesterolo alimentare. Quindi
è possibile che il colesterolo alimentare
possa avere un ruolo importante in questa specifica interazione gene-dieta.
L’esistenza di questi risultati contraddittori sulle relazioni esistenti fra genotipi
dell’apoE e dieta, suggerì ai ricercatori
del Women’s Healthy Lifestyle Project
(WHLP) di valutare se in questa coorte
di donne sane in età premenopausale
(n=448), le variazioni dei livelli di colesterolo totale e LDL-colesterolo in sei
mesi di intervento dietetico a basso tenore di grassi potevano essere correlate
al genotipo dell’apoE. Non furono osservate relazioni significative fra genotipi
dell’apoE e variazioni dei livelli di colesterolo totale e LDL-colesterolo. Questo risultato tende a confermare l’osservazio-
ne che la risposta è legata al sesso.
La malattia aterosclerotica pone le
sue basi precocemente e la prevenzione dietetica della coronaropatia su base
aterosclerotica dovrebbe iniziare durante l’infanzia. Sorprendentemente pochi
studi hanno tentato di valutare le interazioni tra dieta e geni nei bambini. Dixon
et al hanno valutato 125 bambini di età
compresa fra 4 e 10 anni che partecipavano al Children’s Health Project. In
questo studio le concentrazioni di colesterolo totale e LDL colesterolo nei
bambini senza storia familiare per coronaropatia rispondevano di più alla riduzione di colesterolo alimentare rispetto
ai bambini con una forte familiarità per
coronaropatia; il fenotipo dell’apolipoproteina E e la lipoproteina(a) non influenzavano significativamente i livelli di
lipidi plasmatici in relazione alle variazioni dietetiche. Fu inoltre notato che all’inizio dello studio non vi erano differenze di livelli di colesterolo fra i bambini
portatori dell’allele E4 rispetto ai non
portatori, suggerendo che gli effetti dell’apolipoproteina E4 sui livelli di colesterolo non vengono espressi a questa età
nella popolazione studiata.
Molte evidenze sono state raccolte
per dimostrare che la lipemia postprandiale è correlata al rischio cardiovascolare. La risposta postprandiale è eteroge-
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nea, e molti fattori come l’età, l’attività fisica, il peso corporeo, i livelli lipidici a digiuno, la dieta e fattori genetici possono
essere responsabili di questa variabilità. Il
gene dell’apolipoproteina E è stato chiamato in causa come uno dei fattori genetici responsabili di tali effetti. L’isoforma E2 sembra ridurre la clearance dei
remnant per via della minore affinità per
il recettore. Di contro, l’isoforma E4 dovrebbe indurre una clearance più veloce.
Tuttavia, studi che hanno comparato la
risposta postprandiale dei trigliceridi in
soggetti portatori di diversi genotipi
dell’apolipoproteina E, hanno mostrato
risultati contrastanti, specialmente per gli
effetti associati all’allele E4. Wolever et
al ha mostrato che un maggior consumo
di fibre solubili non modifica il metabolismo postprandiale dei grassi nei soggetti
portatori dell’allele E4; tuttavia, le fibre
solubili aumentano l’assorbimento di
grassi nei soggeti con genotipo E3/3,
che potrebbe essere il risultato di un aumento del pool degli acidi biliari e un aumento della formazione di micelle. Sfortunatamente, gli autori non avevano un
numero congruo di soggetti con genotipo E2, e gli effetti di questo allele su
questa manipolazione dietetica rimangono sconosciuti.
Sono stati proposti diversi meccanismi per spiegare queste differenze cor-
relate all’apolipoproteina E in soggetti
sottoposti a terapia dietetica. Alcuni
studi hanno mostrato che l’assorbimento intestinale di colesterolo è correlato
al fenotipo dell’apoE; i soggetti portatori
dell’apoE4 assorbono più colesterolo rispetto ai portatori-non E4. Altri meccanismi, come la diversa distribuzione
dell’apolipoproteina E sulle varie frazioni
lipoproteiche, produzione di LDL ricche
in apolipoproteina B, acidi biliari e sintesi del colesterolo, e clearance postprandiale delle lipoproteine, potrebbero
essere coinvolti.
Apolipoproteina A-I
L’apolipoproteina A-I è la proteina
principale delle HDL e il principale attivatore in vivo dell’enzima lecitincolesterol acil transferasi (LCAT). È
inoltre un componente chiave del trasporto inverso del colesterolo. Il gene
codificante per l’apolipoproteina A-I è
unito in un cluster con i geni dell’apolipoproteina C-III e dell’apolipoproteina
A-IV sul braccio lungo del cromosoma
11. Questa regione contiene molti polimorfismi (RFLPs). Una variante comune, una transizione adenina (A) - guanina (G) (G/A), è stata descritta a 75
paia di basi dal sito di inizio di trascrizio-
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ne del gene dell’apolipoproteina A-I.
Molti studi hanno mostrato che i portatori dell’allele A, che ha una frequenza
dello 0,15-0,20 nelle popolazioni caucasiche, hanno livelli di HDL più elevati
rispetto ai portatori in omozigosi del più
comune allele G. Gli effetti di questa
mutazione studiati su 50 uomini hanno
mostrato che i portatori dell’allele A
presentano incrementi maggiori dei livelli di LDL colesterolo in seguito a una
dieta ricca in grassi, rispetto ai portatori
in omozigosi del comune allele G.
I meccanismi responsabili di questi
effetti non sono noti. Questa mutazione
potrebbe avere un effetto diretto sull’espressione del gene dell’apolipoproteina A-I nel fegato e/o nell’intestino,
come è stato dimostrato in alcuni studi,
o potrebbe rappresentare l’effetto di
una mutazione funzionale non conosciuta in uno dei geni vicini (apolipoproteina C-III e apolipoproteina A-IV).
il legame delle lipoproteine ricche in
apoE con il recettore per le LDL. Studi
recenti hanno dimostrato la presenza di
cinque polimorfismi (C641A, G630A,
delezione di T625, C482T, e T455C)
nella regione del promotore di questo
gene. Queste mutazioni sono in linkage disequilibrium con il sito di restrizione SstI descritto nella regione 3’
non-translata di questo gene. Risultati
preliminari hanno permesso di identificare una sequenza nucleotidica che si
lega all’insulina, localizzata sul promotore di questo gene. Studi in vitro hanno
dimostrato che l’attività di trascrizione
del gene dell’apolipoproteina C-III è ridotta dall’insulina quando il promotore
contiene la sequenza nucleotidica wildtype, ma questo fenomeno non è osservabile nelle sequenze mutate. Il polimorfismo SstI permette la distinzione di
due alleli: S1 e S2. L’allele S2 è stato
associato a elevati livelli plasmatici di
trigliceridi, colesterolo, apolipoproteina
C-III e all’aumento di rischio per coronaropatia. In uno studio condotto con la
somministrazione di una dieta ricca in
acidi grassi monoinsaturi, si poté osservare un significativo incremento dei livelli di colesterolo totale e LDL colesterolo nei soggetti portatori del genotipo
S1/S1; una riduzione significativa di
LDL colesterolo e apoB fu osservata
Apolipoproteina C-III
L’apolipoproteina C-III è un componente dei chilomicroni, VLDL e HDL. È
sintetizzata principalmente nel fegato e
in minor misura nell’intestino. In vitro,
l’apolipoproteina C-III inibisce l’azione
della lipasi lipoproteica e inoltre inibisce
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nei soggetti portatori del genotipo
S1/S2. Quindi, sono state osservate
interazioni significative gene-dieta (livelli
LDL colesterolo, colesterolo totale e
apolipoproteina B) in seguito a una modificazione dietetica. Altri studi sono necessari per valutare le interazioni di
questo polimorfismo con diete ricche in
acidi grassi saturi.
studio ha valutato questa ipotesi e ha
permesso di dimostrare che soggetti
portatori del genotipo X-/X- hanno una
risposta postprandiale alterata rispetto ai
soggetti X+. Queste differenze osservate nel metabolismo delle lipoproteine in
fase postprandiale potrebbero spiegare
l’associazione di questo polimorfismo
con il rischio di cardiopatia ischemica.
Apolipoproteina B
Conclusioni
L’apolipoproteina B è il maggiore
componente proteico delle LDL ed è il
ligando specifico del recettore per le
LDL. Sono stati descritti molti siti polimorfici di questo gene. Il polimorfismo
per XbaI è una mutazione silente che
interessa la terza base del codone 2488
(ACC>ACT) nell’esone 26. Questo polimorfismo è stato associato a una variabilità di livelli lipidici. L’allele X+ (presenza del sito di restrizione XbaI) è stato
associato, in alcuni studi, a livelli più
elevati di colesterolo totale, LDL colesterolo e/o trigliceridi. Paradossalmente, l’allele X- sembra essere più comune in soggetti con coronaropatia rispetto a soggetti di controllo. Questo
suggerisce che altri fattori, come la risposta postprandiale, vanno ricercati
per spiegare questa osservazione. Uno
La “rivoluzione genomica” continua
a costruire nuove basi di conoscenza,
strumenti tecnologici e prospettive
scientifiche nel campo della nutrizione
umana. La ricerca nel campo della nutrizione sarà guidata attraverso le interazioni nutrienti-geni, la delucidazione della regolazione dei meccanismi biochimici e la caratterizzazione della risposta individuale alle manipolazioni dietetiche.
Sono stati studiati molti geni candidati, tra i quali i geni codificanti per le
apolipoproteine in diverse condizioni
sperimentali. Tuttavia, a causa dei risultati contrastanti, altri studi sono necessari per ottenere maggiori informazioni.
Molti studi non erano stati disegnati inizialmente per studiare le interazioni tra
geni e dieta, e le conclusioni erano
quindi derivanti da analisi successive di
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dati ottenuti precedentemente, usando
nuove informazioni provenienti da analisi genetiche condotte a posteriori. Gli
studi futuri devono essere attentamente
disegnati in termini di numerosità del
campione e prendendo in considerazione la frequenza degli alleli da studiare.
Inoltre, non si è a tutt’oggi a conoscenza dei meccanismi responsabili degli effetti già descritti in letteratura. Gli interventi dietetici dovrebbero essere attentamente controllati in termini di colesterolo alimentare, acidi grassi, livelli di
grassi, fibre e altri componenti minori
quali i fitosteroli. È inoltre importante
considerare che alcuni alleli possono
avere una funzione primaria nella fase
postprandiale; di conseguenza si dovrebbero disegnare studi per testare le
interazioni geni-dieta sia a digiuno che
dopo il pasto. Oltre alle interazioni genidieta, si dovrebbero analizzare interazioni gene-gene, anche se il numero elevato di partecipanti richiesto per tali studi e di conseguenza i costi potrebbero
rendere questi studi non conducibili.
Pertanto, si potrebbero selezionare i
partecipanti allo studio in base alle varianti geniche; oppure si potrebbero utilizzare gli studi di coorte nei quali sono
state raccolte informazioni sulla dieta.
L’approccio finale potrebbe condurre il
concetto di interazione gene-dieta oltre
le unità metaboliche nel mondo reale.
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Alimentazione e geni
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L
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a genetica delle iperlipidemie
M. Averna, A. Cefalù, D. Noto
Cattedra di Medicina Interna
Università degli Studi di Palermo
Le ipercolesterolemie familiari
L’ipercolesterolemia familiare (FH) è
una malattia genetica, caratterizzata dal
difetto di un singolo gene, il gene del
recettore LDL (LDL-R). La trasmissione della malattia è di tipo autosomico
codominante. I soggetti che ereditano il
gene malato da uno solo dei genitori e
sono pertanto eterozigoti, presentano livelli di colesterolo plasmatico che sono il
doppio dei livelli normali e tale aumento
è già presente durante il periodo infantile. I soggetti che ereditano due geni
malati, uno da ciascun genitore, e pertanto sono omozigoti, presentano livelli
di colesterolo da 4 a 5 volte la norma.
Negli omozigoti la malattia aterosclerotica si sviluppa precocemente e già in
periodo infantile le arterie coronariche
presentano estese lesioni ateromasiche.
La frequenza della malattia è stimata essere di 1:500 per la forma eterozigote e di 1:1.000.000 per la omozigote. In Italia tali stime prevedono un numero di circa 120.000 eterozigoti e di
circa 60 omozigoti. Nel mondo quindi
sono prevedibili 10 milioni di eterozigoti
e 5000 omozigoti.
Esiste una seconda malattia monogenica responsabile di ipercolesterolemia
a trasmissione familiare, la familial defective apolipoprotein B (FDB). In tale
malattia il difetto è rappresentato dall’impossibilità da parte dell’apoproteina B
– la proteina associata al colesterolo nelle LDL – di legare il recettore per le
LDL. Anche per tale malattia la trasmissione è autosomica codominante e
la frequenza stimata varia da 1:200 a
1:700 a seconda della nazione. Gli eterozigoti per tale forma presentano
un’ipercolesterolemia che può essere
sovrapponibile agli eterozigoti FH, ma
può presentare livelli che ricordano l’ipercolesterolemia comune o poligenica.
Il recettore LDL
Il recettore LDL è una glicoproteina transmembrana di 839 aminoacidi
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La genetica delle iperlipidemie
che riconosce e lega due proteine,
l’apoB-100 e l’apoE; in tal modo esso
è in grado di rimuovere dal plasma le lipoproteine che contengono i suddetti
ligandi: poiché tali lipoproteine trasportano la quasi totalità del colesterolo circolante, è evidente come il recettore
LDL sia uno dei principali regolatori dei
livelli di colesterolo plasmatico nell’uomo. Dal punto di vista della struttura, è
possibile identificare in quella del recettore LDL 5 diverse regioni o domini
(Fig. 1). Sono state identificate 5 classi
di mutazioni che influenzano l’attività
del recettore:
– difetto di sintesi;
– difetto di trasporto;
– difetto di binding;
– difetto di clustering;
– difetto di recicling (Fig. 2).
La clinica delle
ipercolesterolemie
familiari
I soggetti con FH omozigote presentano livelli molto elevati di colesterolo totale, da 600 mg % a 1200 mg
%, con valori medi intorno a 700 mg
%. Tali elevati valori sono presenti dalla
Figura 1
Il recettore delle LDL:
domini funzionali.
Recettore LDL o apoB/E.
DOMINI
GENE
Dominio
di legame
ESONE
2-6
Dominio
omologo al
precursore EGF
ESONE
7-14
1 2 3 4 5 6 7
NH2
A
B
C
Dominio
contenente
catene
zuccherine
ESONE
15
Dominio
transmembrana
ESONE
16 e 17
Dominio
citoplasmatico
ESONE
17 e 18
COOH
CISTEINA
Recettore LDL o apo B/E
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Figura 2
Alterazioni strutturali
e funzionali
del recettore LDL.
Le cellule normali
internalizzano le LDL
attraverso il recettore
per le LDL.
I soggetti FH esprimono
un recettore alterato.
Assenza di legame e
internalizzazione delle
LDL con il recettore.
3
1
2
4
5
Mut Class
1
2
3
4
5
Synthesis
X
Transport
Binding
Clustering
Recycling
X
X
X
X
nascita. Già nell’infanzia compaiono
xantomi cutanei piani o tuberosi, tipici
sono gli xantomi tendinei e la comparsa di arco corneale o gerontoxon. La
precocità di comparsa degli xantomi
correla con la gravità e la durata della
malattia. Le sedi degli xantomi sono il
tendine di Achille e i tendini estensori
delle dita delle mani. A volte sono localizzati a livello del tendine patellare. È
possibile valutare i depositi di colesterolo del tendine di Achille mediante
metodiche radiografiche, ecografiche e
più recentemente mediante RMN.
Sono inoltre frequenti negli omozigoti
gli xantomi piani a livello dei gomiti,
delle ginocchia, dei glutei e delle pieghe interdigitali. L’esame istologico degli xantomi permette di evidenziare cellule cariche di colesterolo disperse tra
le fibre collagene del tendine. Sono
presenti anche xantelasmi che tuttavia
non sono patognomonici, essendo presenti anche in soggetti normolipidemici. È presente un’accelerata aterosclerosi aortica e coronarica; la presenza di
ateromi della radice aortica determina
la precoce comparsa di un soffio sistolico sul focolaio dell’aorta e il rapido e
progressivo coinvolgimento ateroscle-
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rotico dei principali rami coronarici determina la prematura insorgenza di manifestazioni cliniche di cardiopatia
ischemica. La morte improvvisa coronarica o successiva a infarto miocardico esteso nei soggetti non trattati sopravviene entro la terza decade di vita.
La precocità di inizio delle manifestazioni cliniche coronariche e il rischio di
morte prematura correlano con i livelli
di colesterolo plasmatico e questi a loro volta correlano con la gravità del difetto recettoriale. I soggetti recettorenegativi, in cui cioè la mutazione determina l’assenza di espressione del recettore LDL sulla membrana cellulare,
avranno una prognosi più grave dei
soggetti recettore-difettivi, in cui il difetto molecolare consente la presenza
di un ridotto numero di recettori. Da
notare come il sesso femminile non
presenta un’evoluzione clinica più favorevole rispetto al sesso maschile; questo viene spiegato dall’assenza di differenze nei livelli di HDL-colesterolo tra
maschi e femmine omozigoti per FH.
I livelli di colesterolo plasmatico negli FH eterozigoti vanno da 300 mg %
a 550 mg % con una media di 350 mg
%. Negli eterozigoti le stimmate cliniche, xantomi-xantelasmi e arco corneale, sono le stesse ma compaiono
più tardivamente. La presenza di xan-
tomatosi sembra risentire di fattori genetico-razziali, essendo presente nel
75% delle casistiche nordeuropee e
nel 40% delle casistiche italiane. L’aterosclerosi coronarica negli FH eterozigoti non trattati è presente nel 70%
dei soggetti alla quinta decade di vita;
la comparsa di manifestazioni cliniche è
più precoce nei maschi mentre nelle
femmine si sviluppa con circa una decade di ritardo. Rispetto ai soggetti non
FH, gli eterozigoti non trattati manifestano i sintomi di cardiopatia ischemica
circa 20 anni prima.
FH e rischio cardiovascolare
L’elevata prevalenza genetica della
condizione di eterozigosi per FH, circa
120.000 soggetti in Italia, fa di questa
popolazione un gruppo ad altissimo rischio di malattia cardiovascolare. Sono
stati condotti numerosi studi volti a valutare se i fattori di rischio classici –
ipertensione, fumo di sigaretta, diabete, Lp(a), omocisteina, sesso, età, LDL
piccole e dense – possano in qualche
modo influenzare la precocità di comparsa delle manifestazioni cliniche di
cardiopatia ischemica. I risultati non sono ad oggi conclusivi: sembrerebbe
che in una popolazione in cui i livelli di
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colesterolo sono così elevati, il potere
predittivo statistico degli altri fattori di
rischio venga in qualche modo oscurato; i determinanti più importanti sembrano essere i livelli di colesterolo e
quindi lo stato recettoriale e il sesso.
Sul piano clinico si impone la necessità
di identificare al più presto possibile i
soggetti eterozigoti per FH, allo scopo
di instaurare una terapia aggressiva
farmacologica con statine.
FH definita
I livelli di colesterolo devono essere
superiori a 290 mg % negli adulti e a
260 mg % nei giovani di età inferiore a
13 anni; il colesterolo LDL superiore a
190 mg % negli adulti o 155 mg % nei
ragazzi; devono essere inoltre presenti
gli xantomi nel probando o nei parenti di
primo o secondo grado.
FH probabile? Possibile?
Per porre la diagnosi di probabilità, oltre alla presenza dei valori di colesterolo
totale e LDL di cui sopra, deve essere
presente una storia familiare di infarto del
miocardio prima dei 50 anni in almeno un
parente di secondo grado o prima di 60
anni in un parente di primo grado, oppure
ancora di valori di colesterolo totale superiori a 290 mg % in parenti di primo o secondo grado, anche in assenza di xantomi.
La diagnosi di
ipercolesterolemia familiare
La diagnosi di FH viene posta utilizzando criteri clinici (Tab. 1); a seconda della “forza” dei criteri utilizzati si
perviene a una diagnosi di FH probabile
o definita.
Tabella 1
Diagnosi clinica di FH.
FH possibile
• CT>290 mg/dl
FH definita
• CT>290 mg/dl in soggetti adulti
o >260 mg/dl in ragazzi sotto i 16 anni
d’età, o LDL-C>190 mg/dl in soggetti
adulti o >155 mg/dl in bambini, più
xantomi tendinei nel paziente o in
parente di primo o secondo grado
• Storia familiare di infarto del miocardio
prima dei 50 anni in un parente
di secondo grado o prima dei 60 anni
in un parente di primo grado oppure
CT>290 mg/dl in un parente di primo
o secondo grado
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La genetica delle iperlipidemie
no costose e laboriose, hanno una
sensibilità che oscilla dal 66% al 72%.
Questo vuol dire che almeno un terzo
dei probandi iniziali, anche al meglio
delle possibilità di diagnosi molecolare
attuali, potrebbe rimanere non diagnosticato. Questi dati rendono almeno
oggi non proponibili strategie di screening per FH.
D’altra parte, la diagnosi clinica basata sui valori del colesterolo totale e
LDL, assieme alla storia familiare e all’eventuale presenza di xantomi, è sufficiente per la corretta impostazione
della terapia. Va ricordato che la presenza in una famiglia di un bambino
con colesterolo elevato assieme agli altri elementi, rende la diagnosi praticamente certa. In futuro, con la diffusione dei sistemi diagnostici basati sui micro-array, sarà molto semplice eseguire
test con pannelli anche di centinaia di
mutazioni. In Sicilia abbiamo recentemente condotto uno screening su pazienti con diagnosi clinica di FH “probabile”, utilizzando un pannello di 11
mutazioni note più le 2 mutazioni responsabili di FDB. I risultati hanno mostrato come la diagnosi molecolare di
certezza venisse raggiunta solo in circa
il 10% della casistica; questo conferma
quanto siano importanti i criteri clinici
definiti di FH.
La diagnosi genetica
Sono state identificate più di 750
mutazioni del gene del recettore per le
LDL; una lista completa di tali mutazioni si può facilmente trovare al sito
www.ucl.ac.uk/fh. In alcuni paesi quali
il Sud Africa, il Quebec, la Norvegia, la
Danimarca e la Finlandia, poche mutazioni sono responsabili della maggioranza dei casi di FH, mentre in Italia,
così come in Inghilterra, Germania e
Giappone, la situazione è più eterogenea; in Italia, ad esempio, sono state
finora descritte 89 mutazioni, distribuite
tra riarrangiamenti genici maggiori, piccole inserzioni o delezioni e mutazioni
puntiformi. Molte volte la diagnosi di
FH definita è facilmente raggiunta utilizzando i criteri clinici già descritti, altre
volte per insufficienza di dati e per la tipologia stessa della famiglia rimangono
dubbi diagnostici. L’identificazione della
mutazione permette una diagnosi certa; l’eterogeneità mutazionale del nostro paese rende il compito più difficile
dal punto di vista metodologico.
Dall’esperienza dei programmi di
screening per mutazione dei paesi nordeuropei sembrerebbe che partendo
dalla diagnosi clinica di FH le varie
strategie, che prevedono in ogni caso
la sequenza del DNA e che quindi so-
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M. Averna, A. Cefalù, D. Noto
della FH con sensibili variazioni nei
vari paesi. In genere l’ipercolesterolemia è più lieve degli FH (Fig. 3), anche se in taluni casi può essere difficile dai semplici livelli di colesterolo
distinguere gli eterozigoti FH da quelli
FDB. Il trattamento terapeutico è sovrapponibile a quello della FH eterozigote. La malattia del ligando presenta
inoltre delle differenze nella risposta ai
farmaci: sembrerebbe che i pazienti
con FDB rispondano meno alle statine
e in misura maggiore alle resine dei
pazienti con FH classica. Si potrebbe
quindi suggerire l’associazione di resine e statine come terapia elettiva della FDB.
La familial defective
apoB-FDB
La FDB rappresenta il secondo
difetto, relativamente frequente, che
causa una ipercolesterolemia monogenica. La causa risiede in una mutazione puntiforme del gene dell’apoB,
localizzato sul cromosoma 2. La sostituzione aminoacidica che ne deriva distrugge la capacità dell’apoproteina B
di legarsi al recettore LDL; ciò determina in eterozigosi – la grande maggioranza dei pazienti sono eterozigoti
– un aumento dei livelli di colesterolo
LDL di circa 80 mg %. La frequenza
della FDB è sovrapponibile a quella
Figura 3
400
300
200
100
0
...............................
Livelli di LDL-C in
soggetti eterozigoti
per FH e per FDB.
Controlli
Nostri dati
Casistiche della letteratura
141
FDB
FH
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La genetica delle iperlipidemie
L’ipercolesterolemia
familiare recessiva (ARH)
La terapia dietetica
Il primo approccio alla terapia delle
iperlipidemie consiste nella modifica
dei comportamenti alimentari. L’American Heart Association (AHA) suggerisce due step dietetici: nella AHA Step
I Diet l’introito di grassi deve essere
inferiore al 30%, con una quantità di
saturi fra il 7% e il 10%, con i polinsaturi fino al 10% e i monoinsaturi fino al
5%; i carboidrati rappresentano il 55%
o più della dieta e le proteine il 15%
circa. L’introito giornaliero di colesterolo deve essere inferiore a 300 mg %,
e l’introito calorico totale dev’essere
disegnato in modo da raggiungere o
mantenere il peso desiderato. In caso
di insuccesso nel raggiungere gli
obiettivi terapeutici in termini di LDL
colesterolo e di trigliceridi, si passa allo Step II, che riduce ulteriormente
l’introito di grassi saturi a meno del
7% e l’introito di colesterolo a meno di
200 mg %.
Recentemente è stato definito il difetto molecolare della ARH. L’ipercolesterolemia familiare recessiva è stata
descritta per la prima volta molti anni fa
da Fellin et al. La caratteristica di questa
forma è di ricorrere in modo sporadico
nelle famiglie, con una tipica trasmissione recessiva, essendo i genitori del probando normocolesterolemici. Sono state
raccolte alcune famiglie, molte di origine
sarda, alcune turche e americane, ed è
stata effettuata una ricerca sul genoma.
È stato così identificato un gene sul cromosoma 1 che si presenta mutato nei
pazienti affetti. Tale gene codifica per
una proteina che ha il compito di stabilizzare il legame del recettore LDL con
la membrana delle cellule epatiche. In
assenza di tale proteina il fegato non è
in grado di internalizzare le LDL, determinando così l’innalzamento dei valori di
colesterolo plasmatico (Tab. 2)
Tabella 2
Mutazioni responsabili
di ipercolesterolemia
familiare.
• LDL-recettore
- 96 delezioni
- 27 inserzioni
- 649 puntiformi
• FH 1:500 - 1:100.000
• LDL-R adaptor protein (ARH)
- 6 mutazioni
• FH recessiva
• ApoB
- 5 puntiformi
• FDB circa 1:500
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M. Averna, A. Cefalù, D. Noto
classi di farmaci attualmente di scelta
per la FH eterozigote sono le resine e
le statine.
La colestiramina è la resina disponibile in Italia; essa lega nell’intestino gli
acidi biliari e così interrompe il circolo
entero-epatico e aumenta la conversione di colesterolo in acidi biliari. Un effetto metabolico indesiderato è l’incremento dei trigliceridi secondario all’accresciuta sintesi epatica di colesterolo e
di VLDL. La riduzione attesa al dosaggio di 8 g due volte al dì è del 10-20%.
L’indicazione principale è come terapia
di associazione alle statine nei casi in
cui si voglia ottenere un’ulteriore riduzione della colesterolemia, oppure in
monoterapia in tutti quei casi di FH eterozigote in cui non è possibile utilizzare
le statine: bambini in età prepubere;
donne gravide; non responder.
Le statine rappresentano i farmaci di
scelta nel trattamento della FH. Sono
inibitori competitivi dell’enzima rate-limiting della sintesi epatica di colesterolo, la
HMG-CoA reduttasi. Riducono il colesterolo plasmatico, aumentando l’espressione dei recettori di membrana delle
LDL. Oggi sono disponibili sul mercato
italiano quattro statine che si differenziano per efficacia, liposolubilità e modalità
metabolico-cinetiche (Tab. 3).
La riduzione del LDL-colesterolo va-
La terapia
dell’ipercolesterolemia
familiare eterozigote
Le attuali Linee Guida per la prevenzione degli eventi cardiovascolari
danno molta importanza al target terapeutico da raggiungere in termini di valori di LDL-colesterolo. Il goal terapeutico è di <160 mg % di colesterolo LDL
per i soggetti senza altri fattori di rischio, <130 mg % per i soggetti con
almeno due fattori di rischio e <100 mg
% per i soggetti che già hanno manifestazioni cliniche di malattia cardiovascolare. Le Linee Guida inoltre suggeriscono sempre di raggiungere il target terapeutico prima utilizzando strategie basate sulla correzione dell’alimentazione
e delle errate abitudini di vita, e in caso
di fallimento prevedono il ricorso ai farmaci. I pazienti con ipercolesterolemia
familiare in eterozigosi rappresentano
un caso particolare per diverse ragioni:
– i livelli di LDL-colesterolo sono di base molto elevati;
– la correzione alimentare da sola è destinata all’insuccesso;
– il rischio cardiovascolare è intrinsecamente così alto da richiedere una terapia farmacologica aggressiva.
Per tali ragioni la scelta terapeutica
sarà quella di utilizzare i farmaci. Le
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La genetica delle iperlipidemie
ria, a seconda della statina utilizzata, dal
30 al 60%. È possibile quindi scegliere
la statina più idonea al raggiungimento
del goal terapeutico nel singolo paziente.
Le statine inoltre hanno un effetto anche
sui trigliceridi; atorvastatina e simvastatina sono le più efficaci. Il colesterolo
HDL in genere aumenta del 5-6% ma
può arrivare fino a un massimo del 12%.
Vengono eliminate per via epatica e
in parte per via renale; sono quindi controindicate nelle malattie epatiche e nell’insufficienza renale. Le statine sono
ben tollerate e la terapia è gravata da
poco frequenti effetti collaterali. Particolare attenzione va posta sul rischio
delle statine, quando associate a fibrati
e immunosoppressori, di determinare
rabdomiolisi. Questo effetto collaterale
può inoltre presentarsi quando la statina
venga prescritta a pazienti con insufficienza renale.
Tabella 3
Le statine: parametri
farmacocinetici
a confronto.
La terapia della FH omozigote
Tali pazienti rappresentano il gruppo
più consistente di non responder alla
terapia statinica; questo perché l’assenza genetica del recettore LDL fa sì che
non possano rispondere al farmaco con
l’espressione dei recettori di membrana.
D’altra parte i livelli di colesterolo di tali
pazienti sono così elevati che l’uso delle
resine porterebbe a una riduzione della
colesterolemia insufficiente a prevenire
la progressione della malattia aterosclerotica. In tali pazienti l’unico modo per
aumentarne l’aspettativa di vita è la drastica riduzione della colesterolemia. Per
raggiungere tale obiettivo bisogna ricorrere alla rimozione dal circolo delle LDL
mediante terapie aferetiche.
Le metodiche aferetiche oggi in uso
sono selettive: l’immuno-adsorbimento
di LDL, l’assorbimento delle LDL al de-
Parametri
Simvastatina Pravastatina Fluvastatina Atorvastatina
farmacocinetici
Assorbimento (%)
60
34
>90
ND
Biodisponibilità (%)
5
20
30
12
Lipofilia
sì
no
sì
sì
Emivita h
2
1,8
1,2
14
95-98
50
>98
98
sì
no
no
sì
CYP3A4
multipla
CYP2C9
CYP3A4
Protein binding (%)
Metaboliti attivi
Vie di eliminazione
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M. Averna, A. Cefalù, D. Noto
stran-solfato e la precipitazione extracorporea di LDL mediante eparina che
rimuove anche il fibrinogeno. L’efficacia
di riduzione della LDL-colesterolemia ottenibile con tali procedure varia dal 60%
al 75%. Diversi trial controllati hanno dimostrato l’efficacia della LDL-aferesi
nel ridurre gli eventi e nel prolungare la
sopravvivenza negli omozigoti. Quando
inoltre l’efficacia antiaterosclerotica della
LDL-aferesi viene misurata con l’ecografia vascolare, è possibile dimostrare
un effetto di riduzione sull’ispessimento
medio-intimale carotideo.
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La genetica delle iperlipidemie
L’iperlipidemia familiare combinata
FCHL
L’iperlipidemia familiare
combinata (FCHL)
vita. Altra caratteristica è quella della mutevolezza del profilo lipidico individuale e
nel tempo il singolo individuo può sperimentare l’ipercolesterolemia o l’ipertrigliceridemia o ancora entrambi i difetti associati. Le alterazioni principali delle lipoproteine sono rappresentate dalla presenza di LDL particolarmente dense e
con un livello di LDL-apoB>130 mg %.
Alcuni pazienti con FCHL, pur avendo
LDL-colesterolo normale, presentano livelli di apoB-LDL>130 mg %: questo
sottogruppo di pazienti ha portato alla definizione del termine “iperapobetalipoprotenemia”. Sul piano clinico è molto rara la
presenza di xantomi e soltanto il 10-20%
dei bambini presenta l’alterazione del
profilo lipidico. I soggetti FCHL hanno
una storia familiare di cardiopatia ischemica prematura. Il difetto metabolico risiederebbe nel fegato, che produrrebbe
un eccesso di apoB e VLDL: nei soggetti
con meccanismi lipolitici efficienti si svilupperebbe l’ipercolesterolemia con aumento delle LDL, mentre nei soggetti
La FCHL è una dislipidemia complessa la cui causa genetica è ancora
sconosciuta. È stata alternativamente
considerata un disordine monogenico o
poligenico; recentemente il trait FCHL è
stato associato a un locus sul cromosoma 1. Rappresenta la causa più diffusa di
ipercolesterolemia nella popolazione generale, con una frequenza del 3-5/1000.
È presente nel 20% dei soggetti con
manifestazioni cliniche premature di cardiopatia ischemica. È caratterizzata da livelli elevati di LDL colesterolo e trigliceridi
VLDL nell’ambito della stessa famiglia.
La caratteristica peculiare di tale forma è
quella dei cosiddetti fenotipi multipli nella
stessa famiglia: i consanguinei all’interno
di famiglie FCHL presentano l’aumento
isolato del colesterolo LDL, l’aumento
isolato dei trigliceridi VLDL o entrambe le
alterazioni (Fig. 4). La malattia in genere
è espressa nella quarta-quinta decade di
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M. Averna, A. Cefalù, D. Noto
Figura 4
Parte rilevante di una famiglia con iperlipemia familiare combinata.
Gli individui rappresentati da 4 quadrati vuoti sono non affetti. I quadrati pieni rappresentano
(dall’alto a sinistra, in senso orario): TG>90th percentile, HDL-C<10th percentile, LDL-C>90th
percentile e apoB>90th percentile (in basso a sinistra).
Da Aguilar Salinas, Arterioscler Thromb Biol, 17(1) January 1997: 72-82.
1
2
3
4
5
6
7
I
3
4
7
14
15
20
21
22
24
26
II
che hanno un’attività lipoproteinlipasica
funzionalmente ridotta si manifesterebbe
l’ipertrigliceridemia con aumento dei trigliceridi VLDL. La mutevolezza del profilo lipidico dello stesso soggetto può essere
spiegata dalla concomitante influenza di
altri determinati metabolici, quali il diabete, l’obesità, l’ipotiroidismo, l’alcol o gli
estrogeni.
Nel tentativo di comprendere i
meccanismi patofisiologici alla base
della malattia, è stata estensivamente
studiata una delle stimmate più comuni
della FCHL e cioè l’insulino-resistenza.
I soggetti FCHL, anche se magri, presentano un certo grado di insulino-resistenza; inoltre la capacità da parte dell’insulina di sopprimere la lipolisi del
tessuto adiposo, è deficitaria nella
FCHL. Da molti tale difetto viene considerato il trigger per l’iperafflusso di acidi
grassi liberi al fegato che a loro volta
determinerebbero l’incremento della
produzione epatica di apoB e VLDL.
La terapia
dell’iperlipidemia
combinata
La terapia delle forme combinate
presenta alcuni problemi legati essenzialmente alla variabilità del fenotipo clinico nel tempo: anche se il disordine
prevalente è l’aumento del colesterolo
LDL e dei trigliceridi, i pazienti possono
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La genetica delle iperlipidemie
divenire o prevalentemente ipercolesterolemici o prevalentemente ipertrigliceridemici. Della terapia dietetica si è detto
precedentemente. Per quanto riguarda
la scelta del farmaco dipende dal tipo di
alterazione prevalente: le statine per
l’aumento del colesterolo LDL e i fibrati
per quello dei trigliceridi. Le resine non
sono consigliate perché tendono ad aumentare i trigliceridi. L’associazione
consigliata è quella di una resina con i
fibrati, anche se bisogna superare i problemi di compilante da parte del paziente; l’associazione statine e fibrati, anche se razionalmente valida, non è consigliabile per il rischio di rabdomiolisi.
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148
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l
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e ipoalfalipoproteinemie
L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani
Istituto di Gerontologia e Geriatria
Università degli Studi di Milano
contengono prevalentemente colesterolo esterificato (CE). I remnant vengono
rimossi dal circolo tramite i recettori
“remnant” del fegato, che riconoscono
l’apoE. Il CE in essi contenuto viene
trasformato in colesterolo libero (CL) ad
opera di una lipasi acida lisosomiale. Il
pool epatico del colesterolo va incontro
a diversi destini metabolici: viene trasformato in acidi biliari, eliminato come
tale nella bile, incorporato nelle lipoproteine di sintesi epatica (Fig. 1).
Metabolismo
delle lipoproteine
Recenti studi hanno consentito di
chiarire ulteriori aspetti della via esogena ed endogena del metabolismo delle
lipoproteine.
La via esogena
Il colesterolo e gli acidi grassi contenuti nella dieta vengono assorbiti dall’intestino e incorporati nei chilomicroni
che, attraverso il circolo linfatico, entrano in circolo. A livello del microcircolo
del tessuto adiposo e del muscolo,
l’apoC-II, presente nei chilomicroni, attiva la lipasi lipoproteica (LPL), un enzima sessile che idrolizza i trigliceridi. Gli
acidi grassi vengono depositati, sotto
forma di trigliceridi, nell’adipocita, o
vengono ossidati dalla cellula muscolare. Dai chilomicroni residuano particelle
di minori dimensioni, i remnant, che
La via endogena
Le VLDL, o lipoproteine a bassissima densità, vengono sintetizzate dal fegato e contengono l’apoB-100. Il metabolismo delle VLDL è analogo a quello
dei chilomicroni. A seguito dell’attività
della LPL, le VLDL vengono trasformate
in lipoproteine a densità intermedia (IDL).
Le IDL interagiscono con il recettore LDL del fegato. Le IDL danno luogo
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Le ipoalfalipoproteinemie
Figura 1
Aspetti del metabolismo
delle lipoproteine.
CL = colesterolo libero
CE = colesterolo esterificato
HDLn = HDL native
HDLm = HDL mature
ACAT = acyl-coenzyme A:
cholesterol-acyltransferase
SRB1 = scavenger receptor,
class B, type 1
LCAT = lecithin: cholesterolacetyltransferase
CETP = cholesterol ester transfer
protein
LPL = lipoprotein lipase
CERP = cholesterol-efflux
regulatory protein
ABC1 = ATP-binding-cassette,
type 1
VLDL = very low density lipoprotein
IDL = intermediate density lipoprotein
LDL = low density lipoprotein
LDL mod = LDL modificata
Fegato
Tessuti periferici
HDLn
ACAT2
CL
Ac. biliari
CE
CL
LCAT
SRB1
CE
HDLm
Recettori
ACAT1
CL
CE
CERP Recettore
(ABC1)
CETP
Bile
VLDL
LPL
alle LDL, lipoproteine a bassa densità.
L’apoB-100, presente sulle LDL, interagisce con il recettore LDL, espresso
nel fegato e nei tessuti extraepatici, e
ciò porta all’internalizzazione delle lipoproteine. Il colesterolo presente nell’epatocita modula la sintesi endogena
del lipide stesso. La rimozione dal circolo del C-LDL è dovuta per due terzi
al sistema recettoriale e per un terzo a
una via alternativa, dipendente da recettori non saturabili e non modulabili,
posti su cellule prevalentemente di tipo
macrofagico, le scavenger cells. Questa via alternativa si attiva in presenza di
IDL
LPL
LDL
OX
LDL mod
LDL modificate (per acetilazione, ossidazione ecc.). L’accumulo progressivo
di esteri del colesterolo fa assumere alla cellula scavenger un aspetto “schiumoso” (foam cell ); la necrosi cellulare
comporta la liberazione in situ del contenuto lipidico (Fig. 1).
Nel fegato la trasformazione bidirezionale CL-CE è regolata dall’enzima
acyl-coenzyme A: cholesterol-acyltransferase (ACAT 2). Il pool epatico
del colesterolo è rappresentato, oltre
che dal colesterolo di sintesi endogena,
dal colesterolo delle lipoproteine che interagiscono con i recettori per i rem-
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L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani
nant, per le IDL, per le LDL e per le lipoproteine ad alta densità (HDL)
(SRB1 - scavenger receptor, class B,
type 1). Il fegato sintetizza le HDL native (HDLn) che trasportano lipidi polari,
colesterolo libero e fosfolipidi e l’apoA-I.
Le HDLn, che hanno una forma a disco, si trasformano nelle HDL mature
(HDLm) per azione dell’enzima circolante lecithin: cholesterol-acetyltran-
Figura 2
Ruolo della Cholesterol Efflux Regulatory Protein (CERP) e formazione delle HDL mature.
La ATP-Binding Cassette transporter 1 gene (ABC-1) codifica la CERP, che consente l’efflusso
di colesterolo dalla membrana plasmatica a doppio strato delle cellule. Nel liquido extracellulare
l’apoA-I sequestra il colesterolo. Successivamente il colesterolo libero viene esterificato ad opera
della lecithin: cholesterol acetyl-transferase (LCAT) e ciò consente la formazione delle HDL mature
di forma sferica. Le HDL mature interagiscono con lo Scavenger Receptor Class B, type 1 (SRB 1).
All’interno della cellula il colesterolo libero proviene dalla neosintesi o dal pool del colesterolo
esterificato. La CERP è formata da due set di sei domini transmembrana, da una regione idrofobica
e da due domini ABC intracitoplasmatici (Owen 1999).
HDL nativa
Uptake del
colesterolo
esterificato
tramite SRB1
HDL matura
Apo A-I
Spazio extracellulare
Spazio intracellulare
Colesterolo libero
Fosfolipide
Colesterolo esterificato
Apo A-I
Dominio ABC
SRB1 = Scavenger Receptor
type B1
CERP (regione idrofobica)
Sintesi del colesterolo
libero
Pool del
colesterolo
esterificato
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Le ipoalfalipoproteinemie
sferase (LCAT), che esterifica il colesterolo trasferendo un acido grasso polinsaturo in posizione 2 della lecitina al
gruppo idrossilico del colesterolo libero.
L’apoA-I è un attivatore della LCAT. La
perdita del gruppo polare porta al trasferimento del CE nel core delle HDL,
che assumono la forma sferica delle
HDL mature (HDLm). In circolo si verifica un trasferimento tra HDLm, IDL e
LDL del CE, mediato dalla cholesterol
ester transfer protein (CETP).
Il CL viene trasferito (Fig. 2) dai
tessuti periferici alle HDL tramite la
cholesterol efflux regulatory protein
(CERP), che è una proteina transmembrana di 2201 aminoacidi codificata dal
gene ATP-binding cassette, type 1
(ABC1), gene con 49 esoni sito sul
cromosoma 21 (Langmann 1999,
Owen 1999).
Tabella 1
Principali cause di bassi
livelli di HDL (da ATP III,
modificato).
L’enzima acyl-coenzyme A: cholesterol-acyltransferase (ACAT 1) regola la trasformazione CL-CE all’interno
dei tessuti periferici.
L’ipoalfalipoproteinemia
Secondo l’Expert Panel on Detection, Evaluation, and Treatment of High
Blood Cholesterol in Adults (ATP III), i
bassi livelli di C-HDL rappresentano un
fattore di rischio maggiore per la coronaropatia (coronary heart disease CHD). Secondo M. Marcil et al (Marcil
1999) il deficit di C-HDL è l’alterazione
lipoproteica di più frequente riscontro
nei pazienti con coronaropatia precoce:
nel 4% dei casi è la sola alterazione riscontrabile, nel 25% dei casi si associa
ad altre alterazioni lipoproteiche.
Cause di bassi livelli di HDL
Insulina resistenza
Diabete mellito tipo II
Elevati livelli di trigliceridi
Sindrome metabolica
Sovrappeso e obesità
Inattività fisica
Fumo di sigaretta
Elevato introito di carboidrati
Uso di farmaci (β-bloccanti, steroidi anabolizzanti, progestinici)
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L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani
La Tabella 1 riporta le principali
cause dei bassi livelli di HDL.
Il colesterolo non HDL (C-LDL+
C-VLDL) è un nuovo parametro introdotto dall’ATP III che deve essere preso
in considerazione in presenza di ipertrigliceridemia (trigliceridi >150 mg/dl),
poiché è indicativo del metabolismo dei
trigliceridi. Si ottiene sottraendo al colesterolo totale (CT) il C-HDL (CT-CHDL); nel normale è pari al livello
ideale di C-LDL+30 mg/dl. L’ATP III
classifica come bassi i livelli di C-HDL
Tabella 2
Dati biochimici principali
in soggetti con
ipoalfalipoproteinemia
familiare, malattia di
Tangier, deficit familiare
di LCAT (Vergani 1981,
Roma 1990, Vergani
1983, Pietrini 1985,
Vergani 1984).
inferiori a 40 mg/dl e come alti i livelli di
C-HDL superiori a 60 mg/dl. Un alto livello di C-HDL è un fattore negativo
per la CHD, annulla, cioè, la presenza
di un fattore di rischio positivo.
Le forme primitive di ipoalfalipoproteinemie sono classificate (Brewer
2001) nel seguente modo:
1) Ipoalfalipoproteinemia associata
a un aumentato rischio di malattia cardiovascolare precoce:
• alterazioni del gene dell’apoA-I;
• ipoalfalipoproteinemia familiare;
Malattia
di Tangier
Ipoalfalipoproteinemia
familiare
Deficit
di LCAT
mg/dl
137
122,8±33,8
530
Colesterolo mg/dl
totale
(vn: 176-240)
60
144,6±41
243
Colesterolo mg/dl
esterificato
(vn: 120-170)
104
98±28
15
Trigliceridi
(vn: 55-150)
Col-HDL
(vn: 40-60)
mg/dl
2
25,7±4,6
8
Col-LDL
(vn: 76-145)
mg/dl
32
116,2±38,2
198
Col-VLDL
(vn: 12-29)
mg/dl
27
23,4±5,4
37
Tracce
157±11,4
98
110
67±17,6
41
15,2
17± 4,2
Non
dosabili
ApoA
mg/dl
(vn: 213-295)
ApoB
(vn: 43-135)
mg/dl
LCAT
nm/ml/h
(vn: 19,6±6,5)
153
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Le ipoalfalipoproteinemie
• sindrome dell’ipertrigliceridemia-ipoalfalipoproteinemia.
2) Ipoalfalipoproteinemia non associata a un aumentato rischio di malattia
cardiovascolare precoce:
• malattia di Tangier;
• defici di LCAT.
Vengono qui riportate le principali
caratteristiche cliniche e bioumorali dell’analfalipoproteinemia (malattia di Tangier), dell’ipoalfalipoproteinemia familiare e del deficit familiare di LCAT, con riferimento a una casistica personale
(Vergani 1981; Roma 1990; Vergani
1983). La Tabella 2 riassume i dati biochimici principali delle tre forme di dislipidemia.
La malattia di Tangier
Descritta per la prima volta nel
1961 da Donald Fredrickson, trae la
sua denominazione dall’isola di Tangier,
posta di fronte alla costa atlantica degli
Stati Uniti, dove è stato osservato il primo paziente. La malattia di Tangier è un
disordine genetico autosomico recessivo, caratterizzato dall’accumulo di esteri
del colesterolo nei linfonodi, nelle tonsille, nel fegato, nella milza, nell’intestino,
nelle cellule di Schwann (Fig. 3).
Il quadro lipidico è caratterizzato da
bassi livelli del CT, con normale percentuale di colesterolo esterificato, da
livelli normali o aumentati dei trigliceridi.
Figura 3
Biopsia di nervo
periferico del soggetto
affetto da malattia di
Tangier. Si osserva
l’accumulo di lipidi nelle
cellule di Schwann
(Vergani et al 1986).
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L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani
Il C-HDL, le apoA-I e A-II sono molto
bassi o pressoché assenti.
Sono stati riportati circa 40 casi.
Nel 1983 Vergani et al (Pietrini 1985,
Vergani 1984) hanno descritto il primo
caso italiano di malattia di Tangier. Il paziente A.Z., di sesso maschile, di anni
62, presentava neuropatia periferica,
con interessamento anche del VII nervo
cranico, perdita della sensibilità dolorifica e termica, tonsille giallo-biancastre e
splenomegalia. La bile epatica e colecistica del paziente mostrava un basso
indice di saturazione (Tab. 3).
Di recente, in soggetti con deficit
totale o parziale di HDL sono state riscontrate mutazioni del gene ABC-1
(Marcil 1999, Brook-Wilson 1999,
Rust 1999). La CERP, codificata dal
gene ABC-1, viene espressa nel fegato, nell’intestino, nel polmone, nella placenta. Un’alterazione della CERP, oltre
a un ridotto trasporto centripeto del co-
lesterolo dai tessuti periferici al fegato,
comporta una mancata trasformazione
delle HDLn in HDLm e un accelerato
catabolismo delle apoA-I (Marcil 1999,
Young 1999).
S. Calandra et al hanno esaminato il
DNA genomico del fratello con ipoalfalipoproteinemia del paziente (A.Z.) affetto
da malattia di Tangier. In uno dei due geni
codificanti per l’ABC-1 è stata riscontratauna mutazione dell’introne 2. Tale mutazione comporta una transversione G→C
con completa eliminazione dell’esone 2.
La proteina codificata, mancante di circa
60 aminoacidi, va incontro a una rapida
degradazione (Altilia et al 2001).
Ipoalfalipoproteinemia
familiare
L’ipoalfalipoproteinemia familiare è
una sindrome che si trasmette con ca-
Tabella 3
Composizione lipidica
e indice di saturazione
della bile epatica
e della bile cistica
in un soggetto affetto
da Malattia di Tangier
(Vergani 1984).
Tra parentesi i valori
normali ±1 D.S.
Bile epatica
Bile cistica
Acidi biliari (%)
75
(71±67)
81,8
(73±7)
Colesterolo (%)
2,4
(6,6±1,5)
3,5
(6,8±1,4)
Fosfolipidi (%)
22,6
(22,4±5,2)
14,7
(20,2±4,9)
Indice di saturazione
0,46
(1,13±0,28)
0,63
(1,01±0,23)
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Le ipoalfalipoproteinemie
Figura 4
Albero genealogico di una famiglia con ipoalfalipoproteinemia familiare (Vergani et al 1981).
1
2
3
I
4
5
6
7
8
?
1
2
3
4
5
6
7
†58 anni
8
9
10
11
12
13
15
?
1
2
39 anni
3
†36 anni
4
II
6
5
7
†51 anni
8
9
10
?
Deceduti
Normali
Infarto miocardico, morte
10
11
†49 anni
14
II
44 anni
9
?
†51 anni
†57 anni
16
17
?
18
?
48 anni
11
12
?
13
?
? Non valutati
HDL-C≤33 mg/dl
rattere autosomico dominante. I criteri
di definizione sono i seguenti:
1) C-HDL inferiore al 10° percentile della popolazione normale (33
mg/dl);
2) assenza di condizioni a cui l’ipoalfalipoproteinemia possa essere secondaria;
3) presenza di ipoalfalipoproteinemia in un parente di primo grado.
È una sindrome che comporta
un’alta incidenza di infarto miocardico
precoce e morte improvvisa. Nella famiglia da noi descritta (Fig. 4), l’età media
di comparsa degli eventi coronarici
maggiori (infarto miocardico, morte im-
provvisa) è di 41 anni. I livelli di CT e
trigliceridi, l’attività delle lipasi e
dell’LCAT sono nella norma, mentre
sono bassi i livelli di C-HDL e di apoA-I
(Vergani 1981). L’eziologia della malattia è probabilmente da attribuire a
un’alterazione del gene ABC-1.
La Figura 5 indica il catabolismo
dell’apoA-I autologa in un soggetto con
ipoalfalipoproteinemia familiare e in un
soggetto normale.
Il residence time dell’apoA-I autologa del soggetto con ipoalfa familiare
(soggetto II-4 del pedigree della Figura
4) è diminuito, mentre la sintesi dell’apoproteina è normale (Roma 1990).
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L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani
ta come fish-eye disease. In questi casi è presente un’accentuata opacità
corneale con l’aspetto “a occhio di pesce” (da ciò il nome della malattia)
mentre sono assenti l’anemia e l’insufficienza renale (Vergani 1983).
Il deficit familiare di LCAT
Il deficit familiare di LCAT, descritto
per la prima volta nel 1967 da Gyone e
Norum, si trasmette con carattere autosomico recessivo. Sono presenti opacità corneale, anemia con cellule a bersaglio e nefropatia con albuminuria dovuta a deposizione di LDL anomale nei
glomeruli (Fig. 6). Nei soggetti con deficit familiare di LCAT i livelli del CT e
dei trigliceridi sono alti o normali, mentre il livello del CE è molto basso. Le
HDL presentano alla microscopia elettronica la forma a disco propria delle
HDLn (Fig. 7). Esiste anche una variante fenotipica del deficit di LCAT, no-
Terapia della
ipoalfalipoproteinemia
La terapia dell’ipoalfalipoproteinemia secondaria si avvale della correzione della malattia sottostante. È importante identificare la sindrome metabolica, spesso associata all’ipoalfalipoproteinemia secondaria, il cui primum mo-
Figura 5
Frazione della dose iniettata
1,00
0,50
0,10
0,05
Soggetti normali
...............................
Curve di decadimento
dell’apoA-I in un
soggetto normale
e in un soggetto affetto
da ipoalfalipoproteinemia
familiare. Nel soggetto con
ipoalfalipoproteinemia il
residence time è ridotto
(Roma, Vergani et al
1990).
0
2
4
6
Soggetti ipoalfa
8
Tempo (giorni)
157
10
12
14
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Le ipoalfalipoproteinemie
Figura 6
Microscopia elettronica
di biopsia renale in un
soggetto con deficit
familiare di LCAT.
Sono presenti vacuoli e
formazioni elettrondense
con materiale eosinofilo
in regione
subendoteliale.
Le cellule endoteliali
sono in parte staccate
dalla membrana basale
e i processi pedicillari
sono parzialmente fusi
(Vergani et al 1986).
vens è la resistenza periferica all’insuli-
livelli ideali di LDL, quando i trigliceridi
sono ≥200 mg/dl;
• prevenire l’insorgenza di pancreatite
acuta quando i livelli di trigliceridi sono superiori a 500 mg/dl. In questo
caso bisogna ridurre i trigliceridi prima
di abbassare i livelli di LDL con dieta
a basso contenuto di grassi (≥15%
delle calorie totali), controllo del peso,
attività fisica, uso di fibrati.
In presenza di bassi livelli di C-HDL
na (Tab. 4).
In presenza di ipertrigliceridemia
con bassi livelli di C-HDL è necessario:
• ridurre i livelli di LDL (obiettivo primario) per impedire la deposizione di colesterolo nei tessuti periferici;
• controllare il peso;
• aumentare l’attività fisica;
• raggiungere livelli di colesterolo-non
HDL che non superano di 30 mg/dl i
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L. Fusaro, A. Lombardi, J. Tagliabue, C. Vergani
Figura 7
Microscopia elettronica
delle HDL native a forma
di disco di un soggetto
con deficit familiare di
LCAT (Vergani et al
1983).
Tabella 4
Criteri per
l’identificazione della
sindrome metabolica
(da ATP III, modificato).
Obesità addominale
Uomini
Donne
Circonferenza della vita
>102 cm
>88 cm
Trigliceridi
≥150 mg/dl
Colesterolo HDL
Uomini
Donne
<40 mg/dl
<50 mg/dl
Pressione arteriosa
≥130 / ≥85 mmHg
Glicemia basale
≥110 mg/dl
(<40 mg/dl) è necessario:
• riportare a livelli normali le LDL
(obiettivo primario);
• controllare il peso;
• intensificare l’attività fisica;
• controllare i livelli di colesterolo-non
HDL, quando i livelli dei trigliceridi sono compresi tra 200-499 mg/dl;
• somministrare fibrati nei pazienti con
CHD o con equivalenti CHD, quando
i livelli dei trigliceridi sono >200
mg/dl.
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Le ipoalfalipoproteinemie
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a
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lterazioni lipidiche in età
pediatrica: diagnosi, Linee Guida
e trattamento
S. Decarlis, E. Riva
Clinica Pediatrica Ospedale San Paolo
Università degli Studi di Milano
È ormai ampiamente documentato
che la malattia cardiovascolare dell’adulto ha le sue radici nell’infanzia. Il
problema della prevenzione dell’aterosclerosi in età pediatrica è oggetto di
ampio dibattito: numerosi studi indicano
che il processo aterosclerotico inizia in
età pediatrica ed è correlato ai valori di
colesterolemia, che valori elevati di colesterolo in età pediatrica sono predittivi
di valori elevati in età adulta, e infine
che i valori di colesterolemia sono correlati all’intake lipidico, specie di grassi
saturi e di colesterolo. Per quanto non
vi siano dati che correlino direttamente i
livelli di colesterolo nel bambino con la
malattia cardiaca dell’adulto, vi sono
forti evidenze che questa associazione
esista. I bambini a rischio di sviluppo di
aterosclerosi precoce nell’età adulta in
quanto ipercolesterolemici dovrebbero
essere identificati precocemente. Gli
esperti ritengono che i bambini con livelli di colesterolo superiori al 75° percentile dovrebbero essere considerati
ipercolesterolemici e potenzialmente a
rischio per malattia cardiaca nell’adulto.
Per quanto molti esperti ritengano che
anche l’ipertrigliceridemia sia un fattore
di rischio per cardiovasculopatia (CAD)
precoce, il rischio è meno definito rispetto a quello associato all’ipercolesterolemia.
L’idea di un intervento preventivo
precoce finalizzato alla riduzione dei valori di colesterolemia mediante una riduzione dell’apporto di lipidi nella dieta
si basa dunque su evidenze indirette;
essa ha dominato le raccomandazioni
della maggior parte dei gruppi di consenso, primo fra tutti l’American Academy of Pediatrics (AAP), che fornisce
le Linee Guida per la prevenzione dell’aterosclerosi in età pediatrica. Le più
recenti Linee Guida Italiane sono state
formulate dalla Società Italiana di Nutrizione Pediatrica (SINUPE), sotto la
presidenza di M. Giovannini, e sono
state pubblicate sulla Rivista Italiana di
Pediatria nel 2000.
161
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Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento
famiglie a rischio, e quelli portatori di
ipo-alfa-lipoproteinemia, obesità o altre
dislipidemie non identificabili con la sola
determinazione della colesterolemia.
L’Expert Panel on Blood Cholesterol
Levels in Children and Adolescents del
National Cholesterol Education Program
e l’AAP Committee on Nutrition consigliano che ai bambini con anamnesi familiare positiva per ipercolesterolemia
(>240 mg/dl) venga misurato il livello di
colesterolo totale; bambini con anamnesi familiare incompleta o non disponibile, o presenza di altri fattori di rischio
per CAD, dovrebbero essere esaminati
a discrezione del loro pediatra.
Secondo le Linee Guida della SINUPE,
la determinazione del quadro lipidico
deve essere effettuata in tutti i bambini
considerati a rischio in quanto appartenenti ad almeno una delle seguenti categorie:
• bambini e adolescenti appartenenti a
famiglie con almeno 1 parente di I o II
grado (1 genitore o 1 nonno) con evidenze di CAD precoce (prima dei 55
anni di vita); per CAD precoce si intendono sia gli eventi acuti quali infarto miocardico, angina pectoris, ictus
cerebri, ischemie cerebrali, vasculopatie periferiche o morte improvvisa,
sia la documentazione di un’aterosclerosi coronarica mediante corona-
La diagnosi
Lo screening “universale”, ovvero la
determinazione routinaria dei valori di
colesterolemia in tutti i soggetti in età
pediatrica, oltre a risultare costoso, non
è attualmente consigliabile. Con uno
screening “universale” potremmo sicuramente identificare tutti i soggetti affetti
da dislipidemia grave su base genetica,
ma in tal modo verrebbero anche selezionati e di conseguenza trattati inutilmente, con pericolose conseguenze psicologiche e con il rischio di carenze nutrizionali, un numero non trascurabile di
soggetti con valori borderline e rischio
cardiovascolare ridotto o poco aumentato: il riscontro occasionale di ipercolesterolemia in un bambino ha un notevole
impatto psicologico sui genitori, che
spesso sottopongono i figli a diete ipolipidiche non controllate; tali bambini
vengono etichettati come malati da genitori e compagni, i loro stessi pediatri
spesso richiedono una dieta speciale per
la mensa scolastica, e la loro dieta presenta frequentemente carenze nutrizionali. Oltre a ciò, con uno screening universale tutti i soggetti risultati “negativi”,
poiché con valori di colesterolemia totale
nella norma, verrebbero rassicurati, e
con essi anche quelli con rischio cardiovascolare elevato poiché provenienti da
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S. Decarlis, E. Riva
rografia, o il trattamento con angioplastica o by-pass aortocoronarico;
• bambini e adolescenti con almeno 1
genitore con valori di colesterolo totale superiore a 240 mg/dl, o ipertrigliceridemia grave (>300 mg/dl) o valori ridotti di HDL (<35 mg/dl) (chiedendo di visionare direttamente i valori del quadro lipidico dei genitori);
incoraggiare il genitore che non conosce il proprio assetto lipidico a eseguirne una determinazione;
• bambini e adolescenti con anamnesi
familiare dubbia o scarsa e incompleta che presentino fattori di rischio aggiuntivi quali:
– obesità;
– ipertensione arteriosa;
– fumo di sigaretta;
– sedentarietà;
– abitudini alimentari particolarmente
scorrette.
Lo screening dei soggetti a rischio
si basa pertanto principalmente sull’anamnesi familiare: dovrà essere indagato un bambino con familiarità positiva
per ipercolesterolemia o CAD precoce;
in realtà l’anamnesi familiare, se non è
ben condotta, ha una sensibilità scarsa
nell’identificare i soggetti a rischio: talora genitori e nonni sono troppo giovani
per aver manifestato una cardiovasculopatia, talora la storia familiare è incom-
pleta o poco chiara, specie nel caso di
genitori separati; molto spesso i genitori
non conoscono o non ricordano il proprio quadro lipidico, o sono inattendibili;
spesso, richiedendo il reperto scritto del
quadro lipidico dei genitori, si osservano
valori di colesterolo totale e LDL molto
più alti di quanto dichiarato, o si scopre
un’ipo-alfa-lipoproteinemia (i valori ridotti di HDL costituiscono una precisa
forma di dislipidemia con rischio elevato
di CAD) o un’ipertrigliceridemia. La raccolta anamnestica deve dunque essere
precisa e accurata.
Lo screening selettivo resta comunque il metodo preferibile per due
motivi: da un lato, per i soggetti appartenenti a famiglie senza rischio elevato
di CAD è sufficiente intraprendere un
intervento a partire dall’età adulta; dall’altro, le indicazioni dietetiche che dovrebbero essere fornite a tutta la popolazione sono comunque valide come
primo livello di intervento anche nel
bambino ipercolesterolemico.
Livelli plasmatici di lipidi
dall’età pediatrica
all’età adulta
Durante i primissimi mesi di vita i livelli di colesterolo aumentano, in gran
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Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento
parte a causa delle modificazioni delle
LDL. Nel corso dei successivi 15-20
anni, sia nei maschi che nelle femmine,
c’è scarsa variazione dei livelli di colesterolo totale; il valore medio fluttua intorno a 150-165 mg/dl. Durante questo periodo i livelli medi di colesteroloLDL rimangono leggermente inferiori a
100 mg/dl, sia nei maschi che nelle
femmine. Nelle fasi precoci della vita i
valori di colesterolo-HDL sono paragonabili nei maschi e nelle femmine; rimangono essenzialmente costanti nelle
femmine, mentre diminuiscono marcatamente nei maschi durante la seconda
decade, fino a un livello che viene conservato nell’età adulta. I livelli plasmatici
di trigliceridi, al contrario, tendono ad
aumentare transitoriamente, sia nei maschi che nelle femmine, durante il primo
anno, cadono in media a 50-60 mg/dl
negli anni seguenti, aumentano poi fino
a una media di 75 mg/dl circa entro i
20 anni d’età. All’inizio dell’età adulta si
verifica un marcato aumento del colesterolo plasmatico, dovuto quasi esclusivamente a un aumento del colesterolo-LDL. La velocità di incremento durante i successivi 30 anni è maggiore
nei maschi rispetto alle femmine.
Quando esso si associa alla diminuzione dei livelli di colesterolo-HDL, pone i
maschi a rischio molto maggiore delle
femmine per cardiopatia aterosclerotica, almeno fino alla menopausa. A causa delle variazioni dei lipidi con l’età, è
molto più appropriato utilizzare tabelle di
percentili età- o sesso- specifici quando
si confrontino livelli tra diversi soggetti e
per lunghi periodi di tempo, piuttosto
che considerare solamente i livelli di colesterolo totale.
L’alterazione del metabolismo lipidico di più frequente osservazione in età
pediatrica è l’elevazione dei valori di colesterolo totale e LDL; le alterazioni dei
valori di trigliceridi su base genetica difficilmente hanno piena espressione biochimica già dall’età pediatrica. I bambini
possono avere livelli di colesterolo moderatamente aumentati per varie ragioni. Alcuni difetti genetici primitivi possono essere associati solo a lievi alterazioni dei livelli lipidici ematici. Inoltre, esistono cause secondarie di iperlipoproteinemia che devono essere prese in
considerazione. Infine, abitudini dietetiche inappropriate, da sole o mediante
l’interazione con uno qualsiasi dei fattori
precedenti, possono contribuire ad aumentare moderatamente i livelli di colesterolo. Sebbene alcuni bambini soffrano di un’iperlipidemia familiare ben definita, la maggior parte degli individui con
iperlipidemia, sia in età pediatrica che in
età adulta, non ha una sindrome speci-
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S. Decarlis, E. Riva
fica, ma un’alterazione del metabolismo
lipidico data dall’interazione di svariati
fattori, sia genetici che ambientali, e
denominata pertanto ipercolesterolemia
poligenica (PH). Inoltre, sebbene in età
adulta i soggetti con iperlipidemia abbiano un rischio aumentato di malattia
cardiaca, non tutti gli individui iperlipidemici presentano clinicamente una malattia cardiaca.
quadro lipidico (colesterolemia totale
<180 mg/dl e LDL<110 mg/dl) dovranno essere rivalutati dopo 5 anni, e
ciò al fine di evitare che si ingeneri un
inopportuno stato di ansia nella famiglia
nei confronti dello stato di salute di un
bambino – almeno al momento – del
tutto sano; nel frattempo dovranno essere fornite alla famiglia le indicazioni
per un’alimentazione corretta ed equilibrata e per la prevenzione dei fattori di
rischio secondari.
In presenza di valori borderline
(colesterolemia LDL tra 110 e 130
mg/dl), verranno fornite le medesime
indicazioni dietetiche, sottolineando
l’importanza del potenziamento dell’attività fisica e del mantenimento del peso
corporeo ideale. La rivalutazione del
quadro lipidico è consigliabile dopo 1
anno. Se dopo 1 anno i valori risulteranno ancora alterati, in caso di familiarità per CAD precoce sarà necessario
inviare il soggetto a un centro clinico di
riferimento con esperienza in dislipidemie pediatriche e nutrizione clinica, per
Valutazione clinica
Nella Tabella 1 sono indicati i valori
del quadro lipidico da considerare accettabili, borderline, associati a rischio
intermedio o a rischio elevato in bambini e adolescenti sottoposti allo screening. Il valore di colesterolo LDL costituisce un indice di rischio cardiovascolare
più attendibile in età pediatrica rispetto
alla colesterolemia totale.
I bambini appartenenti alle famiglie
a rischio che dopo due determinazioni
presenteranno valori accettabili del
Tabella 1
Categorie ottenute
dallo screening del
quadro lipidico.
Da: SINUPE 2000.
Colesterolo totale
Colesterolo LDL
Accettabile
<180 mg/dl
<110 mg/dl
Borderline
180-199 mg/dl
110-129 mg/dl
Rischio intermedio
200-249 mg/dl
130-159 mg/dl
≥250 mg/dl
≥160 mg/dl
Rischio elevato
165
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Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento
l’inquadramento, l’approfondimento
diagnostico e l’approccio terapeutico.
Se i valori di colesterolemia risulteranno nel range di rischio intermedio
o elevato (colesterolo totale superiore
a 200 mg/dl e frazione LDL superiore
a 130 mg/dl), sarà opportuno effettuare un approfondimento volto a escludere la presenza di una forma secondaria
di dislipidemia. Le cause secondarie di
dislipidemia sono elencate nella Tabella
2. Parallelamente sarà opportuno esaminare anche gli altri membri della famiglia, qualora questo non sia ancora
stato fatto.
Una volta escluse le forme secondarie e accertato che si tratta di una di-
Tabella 2
Cause di dislipidemia
secondaria.
Da: SINUPE 2000.
slipidemia primitiva, il soggetto a rischio
intermedio o elevato e con familiarità
per CAD precoce, così come il soggetto con rischio elevato e familiarità positiva per ipercolesterolemia, dovrà essere indirizzato a un centro clinico con
esperienza in dislipidemie pediatriche e
nutrizione clinica.
Se la familiarità è positiva per ipercolesterolemia ma non per cardiovasculopatia precoce e il quadro lipidico del
soggetto si situa nella categoria a rischio intermedio, si potrà comunque
effettuare un primo intervento dietetico
ed educazionale e rivalutare il quadro lipidico dopo 6-12 mesi. In caso di persistenza di ipercolesterolemia nella ca-
Ipotiroidismo
Sindrome nefrosica
Uremia
Disglobulinemie
Lupus eritematoso sistemico
Ipopituitarismo
Sindrome di Cushing
Iperlipemia diabetica e diabete mellito
Terapia con glucocorticoidi, con estrogeni, alcolismo
Glicogenosi
Lipodistrofie
Insufficienza epatica
Colestasi
Porfiria acuta intermittente
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tegoria a rischio intermedio, sarà opportuno inviare il bambino al centro di riferimento.
Ogni bambino con valori del quadro
lipidico a rischio elevato deve invece
essere inviato a un centro di riferimento
fin dalla prima diagnosi.
Nella figura 1 è riportato l’algoritmo
per l’identificazione e il trattamento dei
soggetti a rischio.
Inquadramento nosografico
delle principali forme di
dislipidemia con espressione
in età pediatrica
L’innalzamento dei valori di colesterolo totale plasmatico è il fenotipo biochimico di più frequente riscontro in età
pediatrica; le altre forme genetiche di
dislipidemia associate a ipertrigliceride-
Figura 1
Algoritmo per l’identificazione e il trattamento dei bambini a rischio.
Da: SINUPE 2000.
PROFILO LIPIDICO: CT+TG+HDL+LDL (derivato)
accettabile
intermedio o elevato
borderline
Consigli dietetici
Mantenimento peso ideale
Stile di vita “sano”
Consigli dietetici
Mantenimento peso ideale
Stile di vita “sano”
Rivalutazione dopo 5 anni
Rivalutazione dopo 1 anno
accettabile
Familiarità negativa
per CAD precoce
borderline
intermedio o elevato
Screening dei familiari
Dislipidemia
primitiva
Dislipidemia
secondaria
Familiarità negativa
per CAD precoce
Cura della
patologia di base
Familiarità positiva
per CAD precoce
rischio elevato
LDL ≤160 mg/dl
Rinforzo
dei consigli
Controllo
dopo 1 anno
Esclusione di cause secondarie
di dislipidemia
Consultare un
centro pediatrico
di dislipidemie
intermedio
o elevato
rischio intermedio
LDL 130-159 mg/dl
Consigli dietetici
Mantenimento peso ideale
Stile di vita “sano”
Controllo dopo 6-12 mesi
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mia o riduzione della frazione HDL hanno espressione solitamente dopo lo sviluppo puberale.
Si può approssimativamente affermare che in presenza di 20 bambini con
ipercolesterolemia primitiva vi siano:
• 1 soggetto affetto da ipercolesterolemia familiare (FH);
• 3 soggetti affetti da iperlipidemia
familiare combinata (FCHL);
• 16 soggetti affetti da ipercolesterolemia poligenica (PH), determinata dall’aggregazione di molteplici geni che
segregano indipendentemente, con
effetto lieve ma additivo, su cui si inseriscono fattori ambientali che portano al fenotipo comune di ipercolesterolemia.
La diagnosi di ipercolesterolemia
familiare (FH) può essere posta in età
pediatrica sulla base di criteri clinici e
anamnestici ben precisi, oltre che con
l’analisi genetica (costosa e non disponibile in tutti i centri); il difetto, a trasmissione autosomica dominante, è
presente nella popolazione generale in
circa 1 soggetto su 500 nella forma
eterozigote, e in 1 soggetto su 1 milione nella forma omozigote. L’eterozigote
presenta valori di colesterolo totale
compresi fra 300 e 600 mg/dl nell’adulto (mediamente fra 250 e 350
mg/dl nel bambino), derivante da un
aumento della sola frazione lipoproteica
a bassa densità (colesterolo LDL); l’errore risiede nella mutazione di un singolo gene che codifica per il recettore delle LDL, deputato alla rimozione dal circolo di tali lipoproteine; il soggetto eterozigote presenta una riduzione variabile
dell’attività recettoriale e un accumulo
di LDL in diversi tessuti. Mentre la prima decade di vita è priva di sintomi clinici e nei soggetti affetti si osserverà
unicamente il rialzo dei valori di colesterolo totale e LDL, a partire dalla fine
della seconda decade si inizieranno a
osservare depositi a livello oculare (arco
corneale), cutaneo (xantomi cutanei e
xantelasmi), e tendineo (xantomi principalmente a carico del tendine d’Achille); la cardiovasculopatia ischemica si
manifesterà clinicamente nei soggetti
non trattati intorno ai 40 anni nell’uomo
e intorno ai 50 nella donna. Il soggetto
omozigote possiede invece un’attività
recettoriale pressoché nulla, livelli di colesterolo totale superiori a 600 mg/dl e
potrà presentare sintomi clinici gravi anche nella prima decade e quasi costantemente nella seconda decade di vita,
con elevata mortalità cardiovascolare se
non trattato con LDL-aferesi.
Un’ipercolesterolemia in età pediatrica si può riscontrare anche nei figli di
soggetti affetti da iperlipidemia fami-
168
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liare combinata (FCHL), detta anche
a fenotipi multipli, un’alterazione autosomica dominante piuttosto comune (frequenza stimata circa 1-2%) caratterizzata da espressioni fenotipiche diverse nei
diversi membri della famiglia (infatti 1/3
dei soggetti avrà ipercolesterolemia, 1/3
ipertrigliceridemia, e 1/3 presenterà entrambe); inoltre lo stesso soggetto può
passare da un fenotipo all’altro in diverse epoche della vita. Il colesterolo totale
raggiunge valori fra 200 e 300 mg/dl,
mentre l’innalzamento dei trigliceridi è
tra 200 e 400 mg/dl. Il difetto metabolico sottostante sembra essere un’aumentata sintesi di VLDL da parte del fegato, da cui derivano LDL più piccole,
dense e numerose, e pertanto più aterogene. Anche tale patologia si associa
a maggiore incidenza di aterosclerosi,
oltrecché a obesità, ipertensione e sindrome da resistenza insulinica.
Un tipo relativamente nuovo di dislipidemia, è l’elevazione dei livelli di lipoproteina (a) o Lp(a), una lipoproteina
con struttura quasi identica alle LDL,
ma che possiede in aggiunta un’apoproteina, detta apo(a), con elevato grado di omologia con il plasminogeno. I livelli di Lp(a) risultano essere geneticamente determinati e poco influenzati dalla dieta o dal trattamento con farmaci ipolipemizzanti. Livelli elevati di
Lp(a), superiori a 30 mg/dl, costituiscono fattore di rischio indipendente per
CAD precoce e accidenti cerebrovascolari, probabilmente a causa di un effetto
protrombogeno e antifibrinolitico. Si
possono pertanto trovare soggetti con
valori di colesterolo totale e LDL entro i
limiti di norma, ma in cui la frazione LDL
contiene elevati valori di Lp(a) (superiori
a 30 mg/dl), e che pertanto saranno
esposti a un rischio significativamente
più alto di aterosclerosi rispetto ai soggetti normali.
Vi sono numerosi altri nuovi fattori
genetici e biochimici che contribuiscono
ad aggravare il rischio cardiovascolare
del soggetto dislipidemico, quali il fenotipo dell’apolipoproteina E e dell’apolipoproteina B, i livelli di omocisteina plasmatica e molti altri.
Trattamento dietetico
dell’iperlipidemia
Secondo l’AAP-Committee on Nutrition, per i bambini iperlipidemici (colesterolo LDL medio >110 mg/dl) di età
superiore a 2 anni, il migliore intervento
iniziale è la modificazione dietetica.
L’apporto alimentare dovrebbe fornire
non più del 30% delle calorie totali come grassi (egualmente distribuiti tra saturi, monoinsaturi e polinsaturi) e non
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Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento
più di 100 mg di colesterolo/1.000 calorie (totale massimo 300 mg/24 h).
Questa è definita come “dieta prudente”
o dieta Step I dall’American Heart Association. L’AAP conferma queste raccomandazioni e suggerisce anche un limite inferiore per l’apporto dei grassi
(non meno del 20% delle calorie totali).
Si raccomanda che questa dieta venga
adottata da tutti i membri della famiglia
sopra i 2 anni di età, per incoraggiare
una compliance ottimale e migliorare la
salute. L’obiettivo minimo della dieta è
quello di ottenere livelli di colesterolo
LDL<130 mg/dl, mentre l’obiettivo
ideale è di raggiungere livelli <110
mg/dl. Se questi scopi non vengono
raggiunti anche dopo aver rinforzato la
dieta Step I, dovrebbe essere presa in
considerazione la dieta Step II (<7% di
calorie in acidi grassi saturi e <66 mg di
colesterolo/1.000 calorie, fino a un
massimo di 200 mg/24 h).
Le dietoterapie finora proposte e
sperimentate nel trattamento dell’ipercolesterolemia in età pediatrica sono rivolte principalmente alla restrizione dell’apporto lipidico totale e di grassi saturi,
sottolineando in modo marginale la necessità di mantenere un rapporto favorevole tra acidi grassi saturi, mono e polinsaturi, soprattutto essenziali; sta ora
emergendo il ruolo degli acidi grassi in-
saturi sulla regolazione di aggregabilità
piastrinica, pressione arteriosa, metabolismo glucidico, funzione immunitaria, e,
nel bambino, sullo sviluppo neuromotorio; nelle diete ipolipidiche spesso si osserva una riduzione della quota di insaturi assunti, che potrebbe portare, oltre
che alle carenze di acidi grassi essenziali, anche a un effetto sfavorevole sul
quadro lipidico e sugli altri fattori di rischio cardiovascolare. Diversi autori
hanno suggerito l’opportunità di studiare in modo più approfondito delle
diete centrate sulla modifica qualitativa,
anziché quantitativa, della quota lipidica
assunta; un’ipotesi interessante riguarda l’aumento della quota di monoinsaturi, che sembrerebbero avere effetto sul
miglioramento del rapporto LDL/HDL.
L’obiettivo principale da raggiungere
nel trattamento dietetico dell’ipercolesterolemia del bambino, è quello di instaurare delle abitudini alimentari corrette che abbiano le maggiori probabilità di
mantenersi nel tempo, fino all’età adulta. Le modifiche devono essere principalmente qualitative, volte ad ampliare il
più possibile la scelta delle diverse categorie di alimenti; di per sé, solo pochissimi alimenti devono considerarsi vietati,
tutti sono necessari purché assunti con
una frequenza adeguata.
Secondo le raccomandazioni della
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• apporto adeguato di fibre, che varia a
seconda dell’età; negli Stati Uniti, per
un calcolo rapido viene utilizzata la
formula “Age+5” (grammi di fibre
consigliate al giorno =5+età del bambino in anni); riteniamo opportuno
consigliare una quota di fibre compresa fra età+5 ed età+10, per metà di
fibre solubili e per metà di insolubili.
Dal punto di vista pratico queste indicazioni dietetiche comportano l’assunzione quotidiana di 4 pasti principali
(colazione, pranzo, merenda e cena) più
1 spuntino; le calorie giornaliere vanno
ripartite correttamente: 20% tra colazione e spuntino, 40% a pranzo, 10%
a merenda e 30% a cena.
È importante che ogni giorno siano
presenti:
• 1 occasione in cui assumere latte o
yogurt, preferibilmente del tipo parzialmente scremato (generalmente la
prima colazione, in cui è consigliato
associare cereali);
• almeno 2 occasioni in cui assumere
frutta e 2 in cui assumere verdura (in
pezzi, non frullata);
• in 2 occasioni (pranzo e cena) assumere sempre un pasto completo con
carboidrati complessi, lipidi e proteine, e, per evitare di sovraccaricare in
calorie la cena, preferire a pranzo pasta o riso con secondo piatto e con-
SINUPE, la dieta ideale dovrebbe avere
le seguenti caratteristiche:
• il 12-14% delle calorie totali costituito
da proteine (con un rapporto tra proteine animali e vegetali di circa 1:1);
• il 60% circa delle calorie totali costituito da carboidrati, principalmente di
tipo complesso (rapporto ideale 3:1
fra complessi e semplici);
• quota lipidica inferiore al 30%, ma
non al di sotto del 25%, delle calorie
totali giornaliere;
• quota lipidica correttamente suddivisa
fra acidi grassi saturi, monoinsaturi e
polinsaturi: sarebbe ottimale un apporto di saturi inferiore al 10%, di
monoinsaturi fra il 10 e il 15% e di
polinsaturi fra il 5 e il 10% delle calorie totali giornaliere; gli acidi grassi
polinsaturi devono essere associati a
un adeguato apporto di antiossidanti,
onde evitare la perossidazione lipidica
cui essi sono particolarmente sensibili; questo significa utilizzare solo oli
vegetali polinsaturi cosiddetti “dietetici” o “vitaminizzati”, cioè supplementati con antiossidanti; ricordiamo che
l’olio di oliva extravergine ne garantisce invece un apporto elevato;
• apporto giornaliero di colesterolo preferibilmente inferiore a 100 mg/1000
calorie, e comunque non superiore a
300 mg/die;
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Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento
torno, mentre a cena un piatto unico
o una minestra.
I 14 secondi piatti settimanali dovranno essere variati fra carne magra (3
volte alla settimana), pesce fresco o
surgelato (3-4 volte alla settimana), ricco in DHA (pesce azzurro, merluzzo,
salmone, tonno), evitando crostacei e
molluschi, legumi (3-4 volte alla settimana) che – associati ai cereali in un
“piatto unico” – sostituiscono non la
verdura ma la carne, 1-2 volte alla settimana formaggi “magri”, 1-2 volte alla
settimana salumi quali bresaola o prosciutto crudo senza grasso, 1 volta alla
settimana uovo.
Nella preparazione dei cibi è importante consigliare di moderare il consumo di sale e di condimenti, preferendo
l’olio extravergine di oliva e la cottura al
vapore, al forno, in umido, con pentola
“antiaderente”.
La tradizionale dieta mediterranea
costituisce il modello ideale di dieta
consigliabile, che negli ultimi anni viene
proposta anche nei paesi con tradizioni
alimentari differenti, come gli Stati Uniti.
Quando si consiglia un intervento
dietetico, è importante spiegare che la
risposta alla dieta è variabile e generalmente i livelli del colesterolo LDL non
scendono più del 10-15%. I genitori di
solito hanno aspettative illusorie riguar-
do alla riduzione del colesterolo con la
dieta, che limita la compliance quando
la risposta risulta scarsa. Bisogna pertanto spiegare che, anche se la risposta
al trattamento dietetico iniziale è limitata, le potenzialità insite nell’acquisire
uno stile di vita salutare nell’alimentazione comportano diversi benefici a lungo termine.
Le modificazioni della dieta sono
efficaci nel trattamento dell’iperlipidemia negli adulti e nei bambini sopra i 2
anni di età. Il Dietary Intervention Study
for Children ha dimostrato l’efficacia e
la sicurezza di una dieta a basso contenuto lipidico nei bambini ipercolesterolemici. In ogni caso, deve essere sottolineato che queste raccomandazioni si
intendono soltanto per i bambini oltre i
2 anni di età.
Bambini sotto l’età di 2 anni sottoposti a una dieta simile o più restrittiva
e bambini più grandi posti a diete più
restrittive da genitori precisi e rigorosi
hanno mostrato uno scarso accrescimento. I bambini sotto i 2 anni di età
necessitano di un maggiore apporto calorico per permettere la loro rapida crescita. A causa dell’elevato apporto calorico fornito dai cibi grassi, è concretamente difficile per bambini minori di 2
anni alimentarsi sufficientemente con
cibi poveri di grassi e ottenere una cre-
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scita normale. Inoltre, un maggiore apporto dietetico di acidi grassi può essere necessario per ottenere un adeguato
supporto di nutrienti necessari per il rapido sviluppo del sistema nervoso centrale. Ci dovrebbe essere sempre un’attenta supervisione per assicurare l’adeguatezza di qualunque modificazione
dietetica nei bambini. Quando il pediatra di famiglia non possieda l’esperienza
e la formazione necessaria per fornire
una guida dettagliata per simili interventi nutrizionali, è indicato effettuare un
primo inquadramento da parte di un pediatra nutrizionista, in un centro clinico
di riferimento specifico per le dislipidemie pediatriche. Prima di intraprendere
un programma di screening, il medico
dovrebbe assicurare la disponibilità di
tale specialista per i suoi pazienti. La
crescita e lo sviluppo di ogni bambino
sottoposto a trattamento dietetico dovrebbero essere monitorati e si dovrebbe riconsiderare la dieta specifica se la
crescita o lo sviluppo risultassero alterati. È anche importante spiegare al bambino e alla sua famiglia che l’ipercolesterolemia durante l’infanzia è solamente un fattore di rischio e non una malattia e si dovrebbero sottolineare gli atteggiamenti positivi che il bambino e la
sua famiglia possono attuare per ridurre
i rischi.
Altri fattori dietetici
Una dieta ricca di fibre, soprattutto
quelle solubili, ha un modesto effetto di
riduzione del livello di colesterolo nei
soggetti ipercolesterolemici. Tuttavia, le
diete ricche di fibre dovrebbero essere
utilizzate con attenzione nei bambini,
poiché essi necessitano di un adeguato
apporto calorico e di nutrienti.
Gli acidi grassi monoinsaturi riducono i livelli del colesterolo LDL, mentre
non modificano o fanno aumentare i livelli del colesterolo HDL, a differenza di
quanto si osserva con una dieta ricca in
acidi grassi polinsaturi, che comporta
una riduzione sia del colesterolo LDL
che HDL. Gli acidi grassi trans (oli vegetali parzialmente idrogenati), di comune riscontro nei cibi elaborati e nelle
margarine, sembra facciano aumentare
i livelli del colesterolo LDL, e forse anche della lipoproteina (a).
Le diete vegetariane determinano
un’ampia e significativa riduzione del colesterolo, unitamente a una sostituzione
delle proteine animali con quelle vegetali e
a una riduzione dei grassi e del contenuto
di colesterolo nella dieta. Sebbene molti
lavori abbiano dimostrato la sicurezza di
una dieta vegetariana nei bambini, si dovrebbe prestare attenzione nel valutarne la
completezza per lo sviluppo del bambino.
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Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento
Malgrado l’olio di pesce e gli antiossidanti abbiano scarsi effetti sui livelli
del colesterolo, si è osservato che riducono il rischio di CAD mediante altri
meccanismi (l’olio di pesce è utilizzato
anche nel trattamento dell’ipertrigliceridemia grave). Tuttavia, poiché queste
sostanze sono frequentemente somministrate a dosaggi farmacologici, se ne
sconsiglia l’uso sui bambini in assenza
di ulteriori esperienze. Può essere invece presa in considerazione una dieta
ricca di questi nutrienti. Per esempio,
stimolare un idoneo apporto dietetico di
frutta e verdura aiuterà a ottimizzare le
risorse naturali degli antiossidanti, come
l’aumento dell’assunzione di pesce azzurro garantisce un’ottima fonte di acidi
grassi omega-3.
lattia coronarica precoce, come l’iperlipidemia, dovrebbero ricevere massima
attenzione per cercare di minimizzare
tutti gli altri fattori di rischio. Inoltre,
molti di questi fattori di rischio sono tra
loro correlati, e quindi ridurne uno può
aiutare a ridurre gli altri (un aumento
dell’attività fisica può far diminuire
l’obesità, con conseguente riduzione di
pressione arteriosa, livelli del colesterolo
LDL e dei trigliceridi e, potenzialmente,
riduzione del rischio per diabete mellito
insulino indipendente, mentre aiuta anche a far aumentare i livelli del colesterolo HDL).
Terapia farmacologica
Analogamente all’Expert Panel of
Hyperlipidemia in Children, anche la
SINUPE ha raccomandato di utilizzare
una terapia farmacologica nei bambini
di età superiore ai 10 anni, dopo un
adeguato trial (1 anno) di terapia dietetica, se:
1) il colesterolo LDL rimane superiore a
190 mg/dl;
2) il colesterolo LDL rimane superiore a
160 mg/dl e
a) vi sia una familiarità per CAD (prima dei 55 anni di età) o
b) persistano due o più fattori di ri-
Stile di vita
Il trattamento medico dell’ipercolesterolemia dovrebbe essere valutato nel
contesto degli altri fattori, quali lo stile di
vita e le condizioni correlate ai rischi per
CAD, come l’inattività fisica, un’eccessiva sedentarietà, il fumo, l’ipertensione, l’obesità e il diabete. Questi dovrebbero essere controllati, ridotti, o se possibile eliminati. I bambini che continuano
ad avere un fattore di rischio per la ma-
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schio nel bambino o nell’adolescente dopo energici tentativi di
controllarli (diabete, ipertensione,
fumo di sigaretta, bassi livelli di colesterolo HDL, obesità severa, inattività fisica).
I farmaci che legano gli acidi biliari,
o “resine” (colestiramina o colestipol),
sono generalmente i farmaci di prima linea per il trattamento dell’ipercolesterolemia nel bambino. I farmaci che legano
gli acidi biliari riducono primariamente il
colesterolo LDL e non dovrebbero essere prescritti a pazienti con livelli di trigliceridi superiori a 300 mg/dl, poiché
esacerbano l’ipertrigliceridemia. Questi
composti non assorbibili interrompono il
circolo biliare entero-epatico attraverso
il legame degli acidi biliari nell’intestino
e l’aumento della loro escrezione nelle
feci. Da ciò deriva l’utilizzo del colesterolo epatico nella sintesi degli acidi biliari e il secondario aumento dei recettori
epatici delle LDL. Come risultato si realizza un aumento della cattura di LDL
dal sangue e una riduzione dei livelli
plasmatici di colesterolo LDL. È stata
riscontrata una riduzione del 10-20%
dei livelli di colesterolo LDL con terapia
con colestiramina in bambini con ipercolesterolemia familiare e iperlipidemia
familiare combinata. Tuttavia, si è ottenuta una scarsa compliance a lungo
termine, a causa del gusto poco gradevole del farmaco e dei disturbi gastrointestinali quali nausea, flatulenza e stitichezza. In alcuni individui può essere
tollerata anche una dose piena pari a
0,6 g/kg/die suddivisa ai pasti principali. Queste resine sono farmaci sicuri
che non vengono assorbiti a livello sistemico; tuttavia sono insolubili e devono essere sospesi in abbondanti liquidi
e sono perciò poco piacevoli da assumere. Vi sono recenti segnalazioni di
una migliore compliance e tollerabilità,
di minore incidenza di effetti collaterali e
di una buona efficacia con dosi inferiori,
pari a di 8 g/die, indipendentemente
dal peso corporeo.
L’utilizzo a lungo termine delle resine a scambio ionico non sembra interferire con crescita e sviluppo puberale;
tuttavia vi sono segnalazioni di riduzione
dei livelli plasmatici di vitamine liposolubili e di acido folico, di cui sarebbe inibito l’assorbimento intestinale. Recenti
osservazioni documentano solo una riduzione dei livelli plasmatici di colecalciferolo (vitamina D) nei bambini in terapia con colestiramina. L’acido folico invece è necessario per il metabolismo
dell’aminoacido omocisteina, i cui valori
elevati sono un riconosciuto fattore di
rischio indipendente per cardiovasculopatia. I bambini ipercolesterolemici in
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Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento
trattamento con resine a scambio ionico
presentano livelli ridotti di folati serici ed
elevazione dei valori di omocisteina plasmatica. Le attuali raccomandazioni
suggeriscono perciò una supplementazione con acido folico e colecalciferolo
in corso di terapia con resine.
Gli inibitori della HMG-CoA reduttasi (statine), per quanto non approvati
per l’uso nell’infanzia, sono stati utilizzati nei bambini con severa ipercolesterolemia che non tolleravano o non avevano un’adeguata risposta ai farmaci leganti gli acidi biliari. L’HMG-CoA reduttasi è un enzima che catalizza il passaggio limitante la velocità di biosintesi del
colesterolo; l’inibizione di questo enzima
riduce la sintesi di colesterolo e comporta un aumento dei recettori epatici di
LDL. Il Canadian Lovastatin Children
Study ha dimostrato una riduzione del
21-36% (risposta dose-correlata) nei livelli di colesterolo LDL nei ragazzi con
ipercolesterolemia familiare trattati con
10-40 mg/die di lovastatina. Non sono
stati notati effetti collaterali severi nel
periodo di follow-up di 8 settimane.
I possibili effetti collaterali delle statine includono disturbi gastro-intestinali,
cefalea, disturbi del sonno, astenia e algie muscolari o articolari. Sono stati riportati rari casi di severa miopatia e persino rabdomiolisi in alcuni adulti trattati
con inibitori della HMG-CoA reduttasi. Il
rischio di una severa miopatia può aumentare nei pazienti che assumono alcuni altri farmaci, quali eritromicina,
agenti antifungini, agenti immunosoppressivi e derivati del clofibrato, quali il
gemfibrozil e la niacina. Le transaminasi
epatiche dovrebbero essere monitorate
nei pazienti che assumono le statine,
ma è raro il riscontro di livelli elevati di
transaminasi (superiori a tre volte i livelli
normali) nei bambini. Tuttavia, dal momento che gli effetti a lungo termine
delle statine rimangono incerti, il rapporto rischio-beneficio dell’uso di questi
farmaci nei bambini dovrebbe essere
considerato accuratamente. Essi vanno
utilizzati con precauzione nelle ragazze
con possibile gravidanza, poiché non è
possibile escludere l’effetto teratogeno.
Anche l’acido nicotinico è frequentemente utilizzato nell’adulto; tuttavia i suoi effetti collaterali (flushing, disturbi gastrointestinali, tossicità epatica)
possono precluderne l’utilizzo nei bambini. Il pediatra di famiglia dovrebbe inviare
presso centri specializzati tutti i bambini
candidati a una terapia farmacologica.
Sebbene la terapia farmacologica
sia utilizzata comunemente nell’adulto
per il trattamento dell’ipertrigliceridemia,
è molto meno comunemente utilizzata
nel bambino. I punti cardine della terapia
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nel bambino con ipertrigliceridemia sono
la dieta, l’esercizio fisico e la perdita di
peso. Un esperto dovrebbe eseguire
un’attenta analisi del rapporto rischiobeneficio dell’uso della terapia farmacologica nei casi di ipertrigliceridemia grave con concomitanti complicazioni mediche. Non ci sono attuali raccomandazioni formali a riguardo della terapia dell’ipertrigliceridemia nell’infanzia.
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Alterazioni lipidiche in età pediatrica: diagnosi, Linee Guida e trattamento
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1225/01 capitolo 8
29-05-2002
A
15:15
Pagina 179
ttività ipocolesterolemiche
con batteri lattici
e bifidobatteri
V. Bottazzi
Istituto di Microbiologia e Centro Ricerche Biotecnologiche
Università Cattolica di Piacenza e Cremona
All’inizio del XX secolo Metchnikoff
suggeriva, per la prima volta, che i latte-fermentati potessero controllare l’insorgenza di malattie alle coronarie.
Gli studiosi, nella gran maggioranza, oggi concordano nel ritenere che un
alto livello di colesterolo nel plasma trova associazione con l’aumento di rischio
di malattie coronariche.
Nel corso dell’ultimo secolo molta
attenzione è stata riservata alla possibilità di ridurre il livello di colesterolo del
plasma attraverso la composizione della
dieta.
(Hepner et al 1979, Thakur et al 1981).
Molto significativi sono, a questo
proposito, i risultati delle ricerche di
Eyssen del 1973, con la dimostrazione
che animali germ-free accumulano nel
sangue molto più colesterolo rispetto a
quelli convenzionali.
Dall’esame della letteratura emergono tuttavia risultati non sempre
concordanti, ma questo non va disgiunto dal fatto che i composti ipocolesterolemici possono variare con la
tipologia dell’alimento consumato e
con le caratteristiche dei ceppi di microrganismi utilizzati nei processi fermentativi.
Recentemente, yogurt e altri lattefermentati sono stati indicati come
prodotti che contengono sostanze che
contribuiscono ad abbassare il livello di
colesterolo del siero. Così, ad esempio, un’azione diretta viene attribuita
all’acido idrossimetilglutarico e all’acido orotico, mentre l’acido urico, presente nel latte, è stato identificato co-
Attività
ipocolesterolemiche
con yogurt e altri
latte-fermentati
In questo contesto, diverse ricerche hanno indicato che il livello di colesterolo del siero può essere ridotto
con il consumo di latte-fermentati
179
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Pagina 180
Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri
me inibitore della sintesi del colesterolo (Ward et al 1982).
Rimane di fondamentale importanza lo studio che nel 1974 hanno condotto Mann e Spoerry, con l’inequivocabile dimostrazione che il consumo di
una buona quantità di latte fermentato
da parte delle tribù africane dei Masai
costituiva la ragione del mantenimento
del loro basso livello di colesterolo del
siero. Gli autori citati hanno inoltre rimarcato che questo avviene pur risultando i Masai consumatori di una dieta
ricca in carne.
Con successivi studi e ricerche viene anche dimostrato, sia per l’uomo
che per gli animali, che l’attività ipocolesterolemica è evidente con la somministrazione di latte, ma lo è nettamente
di più con il consumo di latte-fermentati, e da questo ne deriva l’indicazione
che un fattore ipocolesterolemico è
presente tra i metaboliti del processo di
fermentazione.
Da questo punto di vista, torna utile
Tabella 1
Presenza in yogurt
di alcuni componenti
ad azione
ipocolesterolemica.
Da Jaspers et al 1984.
tenere presente la composizione dello
yogurt con differente contenuto di proteine e di carboidrati di partenza, come
riportato in Tabella 1.
L’acido idrossimetilglutarico si forma durante la fermentazione dello yogurt e secondo Nair e Mann, 1977,
potrebbe essere considerato un fattore ipocolesterolemico. L’acido orotico
(vitamina B13), che è pirimidina intermediario nella sintesi di acidi nucleici,
durante la fermentazione diminuisce
per circa il 50-60% (Navder et al
1990) rispetto al valore iniziale del
latte e questo viene valutato positivamente perché induce equilibrio tra i
fattori ipocolesterolemici; infine, si
sottolinea che l’acido urico agisce come inibitore della sintesi del colesterolo (Ward et al 1982).
A titolo di esempio, per dimostrare
l’effetto ipocolesterolemico in persone
adulte, in Tabella 2 vengono riportate le
variazioni registrate da Jaspers et al,
1984, che hanno operato con tre tipi di
% di nutrienti
Acidità
Proteine Carboidrati
pH % acidità
titolabile
4,0
3,8
4,2
6,1
6,4
7,0
4,20
4,34
4,65
* Acido idrossimetilglutarico
180
1,13
1,12
0,90
Concentrazione in ppm di
HMG*
Acido
orotico
Acido
urico
180
156
115
23,2
17,3
28,2
16,8
15,2
18,2
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V. Bottazzi
Tabella 2
Concentrazione di lipidi
nel siero di adulti che
hanno consumato
yogurt.
Tabella 3
Concentrazione di lipidi
nel siero di topi dopo
consumo di yogurt e
yogurt+Lactobacillus
acidophilus.
Tipo di yogurt e
giorni di consumo
Colesterolo HDL colesterolo LDL colesterolo
totale (mg/dl)
(mg/dl)
(mg/dl)
CHI
0
7
14
189
167
178
44
41
43
121
106
115
CHII
0
7
14
182
163
165
48
33
43
113
113
94
SHIII
0
7
14
178
173
156
42
41
42
118
114
95
Indicazioni
Colesterolo
(mg/dl)
HDL
colesterolo
(mg/dl)
LDL
colesterolo
(mg/dl)
Trigliceridi
(mg/dl)
Controllo
168
54
97
91
Yogurt
157
52
88
87
116
51
47
89
Yogurt+
L. acidophilus
yogurt, in quanto preparati con tre differenti colture di batteri lattici classici
per produrre yogurt, vale a dire con
Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus e Streptococcus thermophilus. L’inclusione di yogurt nella dieta
porta, nella prima quindicina di giorni
dall’inizio della somministrazione, a una
diminuzione del colesterolo dell’ordine
del 10-12%, con una tendenza però al
rientro, con il prolungamento della
somministrazione, ai valori del controllo.
Dagli studi di Akalin et al, 1977,
emerge però un particolare molto importante, e cioè che il consumo di yogurt supplementato con Lactobacillus
acidophilus ha un effetto ipocolesterolemico molto più evidente rispetto allo
yogurt normale.
Operando con piccoli animali da laboratorio trattati per 56 giorni con yogurt e con yogurt più Lactobacillus
181
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Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri
acidophilus, sono stati ottenuti i risul-
è sempre presente nel contenuto intestinale dell’uomo e degli animali e diverse sono le dimostrazioni che la sua
somministrazione con l’alimento determina abbassamento del contenuto in
colesterolo del siero (Grunewald 1982,
Gilliland et al 1985, Danielson et al
1989, Buck et al 1994).
Lactobacillus acidophilus viene
frequentemente utilizzato nella preparazione di latte-fermentati, come acidophilus milk, oppure viene associato a
tati riuniti in Tabella 3.
Attività
ipocolesterolemica
con Lactobacillus
acidophilus
Lactobacillus acidophilus (Fig. 1)
è uno dei microrganismi probiotici più
importanti del gruppo dei batteri lattici,
Figura 1
Ceppo di Lactobacillus
acidophilus isolato da
latte-fermentato
probiotico.
182
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V. Bottazzi
Lactobacillus delbrueckii subsp. bulgaricus e Streptococcus thermophilus per ottenere un fermentato con an-
37°C (Buck et al 1994). Ugualmente,
differenze esistono per quanto riguarda
la tollerabilità verso i sali di bile. Vi sono
ceppi che impiegano solamente due
ore per aumentare in brodo colturale il
valore di densità ottica di 0,3, quando
altri, nelle stesse condizioni, impiegano
anche sette ore. La tolleranza ai sali di
bile, l’abilità a deconiugare i sali di bile
e ad assimilare il colesterolo, come riportato in Tabella 4, possono variamente proporzionarsi in singoli differenti
ceppi e assumere caratteristiche aggiuntive a quelle di specie.
Sulla base anche di queste conoscenze, si effettua quindi la scelta dei
ceppi quando si intende impiegarli come adiuvanti della dieta con attività ipocolesterolemica.
In merito alla capacità di assimilare il
colesterolo da parte di Lactobacillus
acidophilus vi è ancora, a livello interpretativo, discussione, e Klaver e Van der
Meer, 1993, ad esempio, sostengono
che l’apparente assimilazione del cole-
cora più elevate proprietà probiotiche.
È però da osservare che non tutti i
ceppi di Lactobacillus acidophilus risultano a questo riguardo sufficientemente attivi. Allo scopo della loro utilizzazione in alimentazione umana diventa
fondamentale procedere a un accurato
accertamento delle loro proprietà probiotiche. Con Lactobacillus acidophilus l’attività ipocolesterolemica viene
valutata non solamente in funzione della
produzione di acido idrossimetilglutarico
o per la capacità di abbassare la quantità di acido orotico presente nel latte,
ma anche per la capacità di assimilare il
colesterolo, nonché per l’abilità a deconiugare i sali biliari e per la tolleranza
verso i sali di bile.
Da prove di laboratorio emerge che
la quantità di colesterolo assimilato varia, a seconda del ceppo, da 83,3 a
20,5 µg/ml per 24 ore di sviluppo a
Tabella 4
Caratteristiche
di ceppi di Lactobacillus
acidophilus con attività
ipocolesterolemiche.
Indicazione
Quantità di
Grado di
Deconiugazione
di ceppo colesterolo assimilato tolleranza verso dei sali di bile
µg/ml in 24 ore a 37°
i sali di bile
µmole/ml
K4
83,3
2,6
1,2
K2
53,0
2,0
1,1
K7
20,5
2,2
0,4
183
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Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri
Attività
ipocolesterolemica
con Lactobacillus casei,
Lactobacillus reuteri
e Lactobacillus gasseri
sterolo sia invece dovuta all’abilità del microrganismo nel deconiugare i sali di bile.
Gli autori citati sostengono, sulla
base di esami di laboratorio, che il colesterolo non viene assimilato, bensì precipitato in presenza di sali di bile liberati
per deconiugazione. Contemporaneamente, altri studiosi (Walker et al 1993)
hanno però dimostrato che non esiste
relazione significativa tra assimilazione
del colesterolo e deconiugazione dei
sali di bile. In aggiunta a quanto sin qui
richiamato, si segnala che già nel 1986
Bottazzi et al dimostrano assimilazione
di colesterolo da parte di Lactobacillus
acidophilus e nel 1997 questa possibilità viene nuovamente confermata
da Noh et al.
Infine può essere ancora sottolineato che un forte effetto ipocolesterolemico con Lactobacillus acidophilus è
stato dimostrato da Zacconi et al,
1992, operando con animali da laboratorio axenici, e poco tempo dopo De
Rodas et al, dopo aver aumentato in
suini il contenuto in colesterolo del siero
con una dieta ricca di burro e di colesterolo cristallino, portandolo da 84,5 a
294,6 mg/dl, riescono a riportarlo a valori tra 100 e 150, a seconda dei soggetti, con la somministrazione per quindici giorni consecutivi di cellule di Lactobacillus acidophilus.
Lactobacillus casei è un tipico mi-
crorganismo probiotico che partecipa al
processo per la riduzione del colesterolo nel sangue.
Nell’esplicare quest’attività ipocolesterolemica, segue una via diversa da
quella preferenziale prima vista per
Lactobacillus acidophilus.
L’assimilazione del colesterolo da
parte di Lactobacillus casei è, si può
dire, minima, mentre è molto forte la
deconiugazione dei sali di bile, e per
massimizzare la potenzialità nel ridurre
la concentrazione del colesterolo del
siero si selezionano i ceppi adiuvanti alimentari in funzione di questo carattere
(Brashears et al 1998).
L’attività ipocolesterolemica è nel
complesso in funzione di una destabilizzazione delle micelle di colesterolo e di una
coprecipitazione del colesterolo con i sali
di bile deconiugati a pH inferiore a 6,0.
Lactobacillus reuteri (Fig. 2) è un
microrganismo di origine enterica che
negli ultimi tempi ha molto attirato l’attenzione degli studiosi, in particolare per
la sua alta resistenza sia al basso valore
184
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V. Bottazzi
Figura 2
Ceppo di Lactobacillus
reuteri isolato da lattefermentato probiotico.
del pH del succo gastrico (si conoscono
ceppi che diminuiscono solamente di 2
unità log dopo permanenza per 24 ore
a pH 2,0), che alla presenza dei sali di
bile. La sua origine intestinale si collega
con l’elevata tolleranza all’ambiente acido e alla bile, che rappresentano le barriere naturali all’entrata di microbiota
esogeni nel tratto gastrointestinale.
La somministrazione di Lactobacillus reuteri si traduce in una buona attività
ipocolesterolemica e secondo Taranto et
al, 2000, si può configurare con gli elementi che seguono: piccoli animali da laboratorio sono stati divisi in due gruppi,
poi la dieta di uno di questi è stata arricchita di cellule di Lactobacillus reuteri e
dopo sette giorni si è passati a supplementare in modo uguale le diete dei due
gruppi con grassi, e questo allo scopo di
raggiungere una condizione ipercolesterolemica; il risultato è stato che con il
gruppo senza Lactobacillus reuteri l’aumento di colesterolo nel siero è stato
185
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Pagina 186
Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri
dell’82%, mentre con il gruppo con
Lactobacillus reuteri è stato del 38%.
Questi risultati indicano chiaramente
che Lactobacillus reuteri può agire efficacemente come profilattico adiuvante
della dieta con effetto ipocolesterolemico.
Un altro aspetto positivo legato a
Lactobacillus reuteri è rappresentato
dal fatto che esso agisce a dosi di aggiunta alla dieta veramente basse. Con
Lactobacillus acidophilus, per ottenere un effetto positivo occorre somministrare 10 8-10 9 cellule vive al giorno
(Speck 1976), con Lactobacillus reuteri ne sono sufficienti 104 al giorno.
Ancora un’altra specie, e cioè Lactobacillus gasseri, di habitat enterico,
è interessata ad abbassare il tenore di
colesterolo (Usman, Hosono 1999).
La deconiugazione di sodio taurocolato e la capacità di assimilare il colesterolo, come è stato recentemente dimostrato
da ricercatori giapponesi (sono proprietà
possedute da Lactobacillus gasseri.
tato filante, ottenuto per intervento di
streptococchi lattici mesofili, al quale
vengono attribuite diverse attività benefiche. Fra queste, attenzione è stata riservata alla possibilità di manifestare influenza positiva nell’abbassare il colesterolo del siero.
Ancora oggi, scarse sono le conoscenze sulla composizione del polisaccaride-proteine responsabile del filante,
come pure scarse sono quelle sugli effetti fisiologici del latte-filante. Forsen et
al, 1987, hanno attirato l’attenzione
sull’attività immunostimolante e Nakajima et al, 1992, su quella ipocolesterolemica. In effetti, latte fermentato filante
prodotto con Lactococcus lactis subsp.
cremoris somministrato a ratti con una
dieta ipercolesterolemica, ha un effetto
ipocolesterolemico evidente già dopo tre
giorni a partire dall’inizio del trattamento.
Attività
ipocolesterolemica con
Bifidobacterium spp.
Attività
ipocolesterolemica
con Lactococcus lactis
subsp. cremoris
Nel metabolismo del colesterolo,
l’influenza dell’idrolisi dei sali di bile merita, come visto, larga attenzione, e negli
ultimi anni è stato accertato che l’apporto che può dare il gruppo dei bifidobatteri (Fig. 3) è di grande interesse.
Nel Nord Europa, e in particolare in
Finlandia, vi è consumo di latte fermen-
186
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Pagina 187
V. Bottazzi
Figura 3
Ceppo di Bifidobacterium
isolato da lattefermentato probiotico.
Nel 1999, uno screening per l’attività
idrolasica su sali di bile, condotto da
Tanaka et al, ha messo in evidenza che
essa è comune per Bifidobacterium e
Lactobacillus , mentre è assente in
Lactococcus lactis, Leuconostoc mesenteroides e Streptococcus thermophilus . In generale i bifidobatteri
hanno un’attività deconiugante i sali biliari superiore a quella dei membri del
genere Lactobacillus; la differenza risulta anche di dieci volte a favore dei bifidobatteri. Vi sono inoltre, come dimostrato in Figura 4, differenze tra ceppi
della stessa specie di bifidobatteri.
È interessante, nello stesso tempo,
sottolineare che la deconiugazione dei
sali di bile è proprietà di quei ceppi di
bifidobatteri che sono stati isolati dal
contenuto intestinale o dalle feci di
mammiferi che notoriamente sono ricchi di sali di bile coniugati e non coniugati. Ceppi di bifidobatteri delle stesse
specie isolati da habitat diversi, vale a
dire da ambienti senza sali di bile, non
hanno l’attività idrolasica indicata.
Della capacità a deconiugare i sali
di bile da parte di bifidobatteri, parlarono già nel 1980 Ferrari et al, e nel
1995 Grill et al fornivano caratterizzazione dell’enzima specifico che interviene nel processo idrolitico.
187
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Pagina 188
Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri
12
10
BSH attività (unità/mg)
Distribuzione
dell’idrolasi (BSH) per
sali di bile per differenti
ceppi di bifidobatteri.
Da Tanaka et al 1999.
8
6
4
2
0
B.l. = Bifidobacterium longum
B.bi. = Bifidobacterium bifidum
B.br. = Bifidobacterium breve
...............................
Figura 4
B.I.
B.bi.
Oggi si ritiene (Thari et al 1996)
che la rimozione del colesterolo con
ceppi di Bifidobacterium fatti sviluppare in substrato liquido contenente bile,
sia dovuta probabilmente alla contemporanea coprecipitazione con sali di bile
deconiugati, e ad assimilazione durante
lo sviluppo cellulare.
Recentemente, Kociubinski et al,
1999, hanno mostrato, attraverso osservazioni al microscopio ottico e a
quello elettronico a scansione, che con
lo sviluppo su TPY-bile agar di
Bifidobacterium pseudolongum si
formano dei precipitati cristallini che
contengono colesterolo.
Con l’osservazione al microscopio
elettronico a scansione della Figura 5,
si vede a fianco dei batteri lattici un cri-
B.br
stallo a morfologia laminare che è tipico
per colesterolo. Dei ceppi che sono
stati controllati, il 55,6% mostra la formazione del precipitato cristallino, mentre lo stesso non è mai stato osservato
con ceppi del genere Lactobacillus.
Altre specie di bifidobatteri capaci di
produrre il cristallo sono Bifidobacterium breve, Bifidobacterium infantis e
Bifidobacterium animalis.
Il cristallo che si forma è dato da
più composti, e fra questi il colesterolo
non rappresenta la parte più importante, ma ciò non toglie nulla al fatto che
questa non sia una via per arrivare alla
diminuzione del colesterolo, e quindi per
avere un effetto ipocolesterolemico con
l’alimentazione integrata con appropriati
microrganismi probiotici.
188
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V. Bottazzi
Figura 5
Precipitato cristallino
contenente colesterolo
ottenuto con lo sviluppo
su TPY-bile agar di
Bifidobacterium
pseudolongum
osservato al microscopio
elettronico a scansione.
Da Kociubinski et al
1999.
ottiene sia il frutto di un rapporto simbiotico che si stabilisce tra la microflora
probiotica somministrata con la dieta e
la microflora autoctona esistente a livello della porzione intestinale ciecale.
Più recentemente, sempre Fukoshima et al (1999), hanno ulteriormente
approfondito questo aspetto, e collegano l’effetto positivo con l’aumento di
acidi grassi a corta catena liberati dalla
microflora ciecale ricomposta. Quando
aumenta la produzione di acidi grassi a
corta catena, diminuisce anche il contenuto in colesterolo del fegato.
La miscela di microrganismi utilizzata dai ricercatori giapponesi citati, era
Attività
ipocolesterolemica
con la miscela di
microrganismi
probiotici
Alcuni anni or sono, Fukushima e
Nakano (1996), riferivano che una miscela di microrganismi è efficacemente
in grado di abbassare nel siero sia la
concentrazione del colesterolo, che di
idrossi-3-metilglutarile-CoA riduttasi, e
di determinare contemporaneamente
un aumento di colesterolo e di acidi biliari nelle feci di piccoli animali di laboratorio. Si considera che il risultato che si
189
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Pagina 190
Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri
data da batteri lattici, lieviti e germi sporigeni, con la partecipazione delle specie
indicate in Tabella 5 e con l’assenza di
rappresentanti del gruppo bifidobatteri.
delbrueckii subsp. bulgaricus e di
Streptococcus thermophilus, l’effetto
viene attribuito alla formazione, durante
la fermentazione di acido idrossimetilglutarico e alla sua messa in equilibrio
con acido orotico, che viene diminuito
durante la fermentazione lattica, e con
acido urico.
Con Lactobacillus acidophilus ,
largamente conosciuto come tipica
specie probiotica, emerge la capacità a
potere direttamente, durante lo sviluppo, assimilare il colesterolo, con la contemporanea deconiugazione dei sali biliari. Quindi l’attività ipocolesterolemica
attribuita a Lactobacillus acidophilus
è frutto delle due vie indicate, mentre
per Lactobacillus casei è solamente in
funzione della destabilizzazione delle micelle di colesterolo e di una coprecipitazione del colesterolo con i sali di bile
deconiugati.
Con la stessa via metabolica sem-
Conclusioni
Molti sono gli elementi a dimostrazione e quindi a sostegno che i lattefermentati, con il capostipite yogurt, e
in particolare i microrganismi probiotici,
spesso direttamente interessati alla
conduzione dei processi fermentativi del
latte, hanno proprietà specifiche per
potere esercitare attività ipocolesterolemiche.
Gli effetti ipocolesterolemici sono
dovuti a diversi meccanismi, che possono trovare elencazione nel modo che
segue.
Con il consumo di yogurt e quindi
con la partecipazione di Lactobacillus
Tabella 5
Microrganismi che
hanno contribuito alla
formazione delle miscele.
Da Fukushima et al 1999.
Microrganismi sporigeni
Batteri lattici
Lieviti
Bacillus subtilis
Lactobacillus acidophilus
Saccharomyces
cerevisiae
Bacillus megaterium
Lactobacillus casei
Candida utilis
Bacillus thermophilus
Lactobacillus plantarum
Bacillus natto
Lactococcus lactis
Clostridium butyricum
Streptococcus thermophilus
e in aggiunta Enterococcus faecalis
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bra agire Lactobacillus reuteri, che è
da considerarsi specie enterica probiotica di grande interesse.
Per Lactobacillus gasseri, la deconiugazione degli acidi biliari e la capacità di assimilare il colesterolo sono proprietà di specie recentemente dimostrate e interessanti per una specie decisamente enterica.
Un’azione ipocolesterolemica è stata dimostrata anche con Lactococcus
lactis subsp. cremoris utilizzato nella
preparazione di latte filante.
Parecchi membri del gruppo bifidobatteri hanno un’attività deconiugante i
sali biliari nettamente superiore a quella
accertata per Lactobacillus ; inoltre,
con lo sviluppo di bifidobatteri si formano precipitati cristallini che contengono
colesterolo. Questa proprietà non è di
contro posseduta dai batteri lattici.
Le specie più attive sono Bifidobacterium presudolongum , Bifido-
bacterium breve, Bifidobacterium infantis e Bifidobacterium animalis.
Infine è stato richiamato che, con
un’associazione di microrganismi, l’attività ipocolesterolemica è accompagnata
da un aumento della produzione di acidi
grassi a corta catena e dalla diminuzione del colesterolo del fegato.
Batteri lattici e bifidobatteri sono
normali componenti della microflora intestinale dell’uomo e trovano associazione con la dieta per il mantenimento
dello stato di salute e gli effetti promozionali, come visto, arrivano anche al
controllo dei rischi legati a ipercolesterolemia. Probabilmente l’effetto positivo
che si ottiene con questi gruppi di microrganismi è dovuto al contemporaneo
intervento di più meccanismi, e la conoscenza di questi si pone alla base per la
scelta dei ceppi da utilizzare come adiuvanti della dieta per raggiungere un risultato ipocolesterolemico.
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Attività ipocolesterolemiche con batteri lattici e bifidobatteri
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Volumi già pubblicati
1994 “L’alimentazione nelle diverse età: aspetti di fisiopatologia” (esaurito)
a cura di C. Vergani
1995 “Diagnostica nutrizionale: accertamento e valutazione
dello stato nutrizionale” (esaurito)
a cura di E. Lanzola
1996 “Obesità essenziale: genetica, metabolismo, ambiente”
a cura di E. Riva
1997 “Gli alimenti: aspetti tecnologici e nutrizionali” (esaurito)
a cura di A. Daghetta
1998 “I latti fermentati: aspetti biochimici, tecnologici, probiotici
e nutrizionali”
a cura di V. Bottazzi
2000 “Anoressia nervosa: dalle ragioni alla terapia”
a cura di M.O. Carruba
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