News letter by Max Creativity

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Oggi consideriamo il cinema come una forma d’arte, ma coloro che per primi si interessarono alla possibilità di registrare e riprodurre il movimento non furono personalità del mondo artistico. Tra i precursori della nascita del cinema troviamo infatti
esponenti del mondo scientifico come Eadweard Muybridge o Étienne Jules Marey.
Il primo riuscì a fotografare le varie fasi della corsa di un cavallo servendosi di dodici macchine fotografiche posizionate lungo il percorso compiuto dall’animale.
Muybridge continuò ad utilizzare e perfezionare la sua tecnica per lo studio del
movimento umano ed animale. Nel 1878 creò lo zooprassinoscopio, un primo
rudimentale proiettore, che funzionava tramite dei dischi rotanti sui quali erano
impressi disegni ricavati dalle sue fotografie. Le sue sequenze fotografiche possono
essere montate e riprodotte come fossero dei filmati, ma Muybridge non realizzò
mai dei film. I risultati delle sue ricerche scentifiche sono raccolti nell’opera Animal
locomotion. An electro-photographic investigation of consecutive phases of animal
movements (1872-1885).
Anche Étienne-Jules Marey si interessò allo studio del movimento animale e costruì, nel 1882, il fucile fotografico, uno strumento capace di impressionare dodici fotogrammi in un secondo sfruttando un maccanismo del tutto simile a quello
di una comune rivoltella (in inglese, il verbo “to shoot” ha ancora oggi il duplice
significato di “sparare” ed “effettuare una ripresa cinematografica”).
Marey fu il primo a usare un meccanismo ad intermittenza per impressionare la
pellicola fotografica. Come abbiamo visto l’invezione di un meccanismo simile
costituiva una dei presupposti senza i quali il cinema non avrebbe potuto venire
alla luce. A Marey si deve il più antico filmato della storia del cinema: La Vague
(1891), realizzato con questa sua invenzione.
http://www.dailymotion.com/video/x1gr0j_j-e-marey-1891-la-vague-primo-film_shortfilms
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SIAMO A pORTO vIRO (RO) VIA ROSSINI, 5/F
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l monito arriva direttamente da Vinton Cerf, non
certo uno che ha problemi con il mondo digitale, stiamo parlando del vicepresidente di Google
considerato uno dei “padri di internet”. Come mai un
uomo che ha il web nelle vene ci invita a stampare le Aggiungerei che c’è anche una componente emotiva
nostre fotografie proprio durante il meeting annua- nell’avere una foto tra le mani, appesa in casa o incolle della American Association for the Advancement lata in un album, ed i più “romantici” potranno capirmi.
of Science? Semplice: perchè rinunciando alla carta
stampata corriamo il rischio di creare un “buco nero”
di informazioni paragonabile al Medioevo, un’epoca di cui sappiamo relativamente poco a causa della
scarsità di documenti scritti.
Su cosa si basano le affermazioni di Vinton Cerf?
Sull’evolversi continuo e veloce della tecnologia.
Negli anni ’80 eravamo abituati ad utilizzare i floppy disk o le videocassette per salvare i nostri testi, le
nostre immagini e tutti i documenti digitali. Ed oggi?
Quante possibilità abbiamo di riuscire, con successo,
ad avere accesso ai nostri file salvati su supporti obsoleti? Poche.
Gli apparecchi capaci di leggere informazioni da un
floppy non sono molti, sono quasi rari e non tutti
hanno avuto la prontezza di convertire i propri file
quando era il momento.
Proprio a proposito della conversione Cerf ha affermato che spesso, per chi studia la storia, sono i documenti “privati” a fare la differenza e fornire testimonianze sincere. Chi avrebbe la premura di copiare
anno dopo anno, tecnologia dopo tecnologia, le pagine di un blog?
Sembra un paradosso che, nell’epoca dell’informazione e delle notizie che circolano alla velocità della luce
si corra il rischio di non lasciare alcuna traccia, eppure
è proprio questo che emerge dal discorso del guru di
Google che parla di “putrefazione dei bit“.
La soluzione? Stampare le proprie immagini ed i documenti importanti, trasportare nel mondo fisico i
nostri ricordi e non limitarci a lasciarli in un database
virtuale.
Le fotografie andrebbero stampate, non solo condivise.
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na fotocamera molto
interessante per chi
ama la condivisione
(telematica a cartacea) a tutto spiano. Era stata presentata durante il Ces (Consumer
Electronics Show) di Las Vegas
2014 ed ora sui può, finalmente pre-ordinare (consegne
previste per gennaio).
Già lo scorso gennaio ci aveva
colpiti per la capacità di racchiudere, in un unico device,
il bello delle Polaroid e la tecnologia 2.0 alla quale, oramai,
siamo abituati. Stiamo parlando della Polaroid Socialmatic,
l‘ultima uscita dell’azienda
fondata 1937 da Edwin H.
Land. La casa produttrice per
nostra fortuna non è rimasta
radicata al passato ma ha cercato un modo per rinnovare
il suo prodotto rendendolo
credibile e ben adattabile alle
ultime tecnologie. Spazio alle
novità senza però rinunciare
a ciò che di Polaroid amiamo
di più: la possibilità di stampare le foto in un istante, senza
cambiare dispositivo.
Polaroid Socialmatic
Già dal nome possiamo intuire che condividere le nostre
immagini sui profili social sarà
facilissimo: si potrà fare direttamente dalla fotocamera,
senza aver bisogno di passare
dal computer o dallo smartphome, una connessione WiFi sarà sufficiente. Ma non è
tutto: al suo interno batte un
cuore Android, il sistema operativo di Google.
tecnologia e social
Polaroid Socialmatic: da oggi puoi acquistarla
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e caratteristiche tecniche di Polaroid
Socialmatic:
Sensore da 14 Megapixel
Display touchscreen da 4,3
pollici
4 GB di memoria interna
espandibili tramite una microSD
Fotocamera posteriore e
frontale (per la modalità selfie)
Interfaccia Wi-Fi integrata
Connessione tramite bluetooth al proprio smartphone
(magari proprio per utilizzarne
la connettività e geotaggare le
immagini non solo per trasferirvi le foto)
Exclusive QR Mood Assistant™ (per creare in automatico QR code relativi agli scatti
condivisi)
Stampa con ZINK® Zero ink®
printing technology
Disponibile su Amazon in due
differenti colori, bianco o nero,
costa 299 dollari, quindi circa
240 euro.
Torniamo a parlare del social blu. Questa volta non parleremo di cose serie: niente
privacy, niente delucidazioni sui termini di servizio e niente previsioni sul futuro.
Oggi vogliamo parlare di Facebook con ironia, ridere del nostro modo di utilizzarlo
per smettere di prenderci troppo sul serio. Ci sono una serie di “errori” che puntualmente commettiamo su Facebook ma che dovremmo evitare se teniamo alla nostra
salute.
8 cose che devi smettere di fare su Facebook
1. Avere tra gli amici il tuo ex ed i suoi parenti non è una buona idea. Cancella tutti,
fai pulizia e smetti di controllare maniacalmente quei profili. Niente like, niente
commenti, niente di niente. Non barare: chiedere agli amici di monitorare al tuo
posto i profili “scottanti” non è valido.
2. Evita le discussioni politiche e non iniziarne mai una con l’amico della sorella
dell’ex fidanzato della cugina di tua madre. Se si tratta di un amico discuti di politica
in riunione, se si tratta di un semi-sconosciuto non ne vale la pena.
3. Gli amici di Facebook non sono come i punti fedeltà del supermercato: non si
vincono premi in base al numero. Quindi cancella le persone che non conosci, quelle
con le quali non interagisci e quelle che non riescono a stimolare il tuo interesse
(vedi punto due)
4. I compleanni sono un problema. Sono un problema per il festeggiato che riceverà
milioni di notifiche inutili mentre è in ufficio, aprirà il suo profilo e leggerà centinaia
di post tutti uguali. Se stai pensando che potresti fare gli auguri in modo originale
lascia perdere: le formule “creative” come “eppi bordei” e “angurie” non sono più
creative dal 1990. Un modo diventato originalissimo nell’ultimo periodo è quello di
citofonare, salire, scroccare un caffè e fare gli auguri di persona. Se il compleanno è il
tuo ricordati che non devi ringraziare tutti gli 800 utenti che hanno speso 3 secondi
per digitare sei lettere sulla tua bacheca.
5. Parliamo ora dei post indiretti. Status, immagini, frasi pungenti riferite a qualcuno
che però non è menzionato. Per prima cosa i problemi della vita reale non si risolvono su quella virtuale (torna al punto precedente e segui il consiglio del citofono).
Passi lo strumento virtuale ma il punto è proprio il post indiretto che, se tutto va
bene, non verrà capito. Su Facebook puoi taggare una persona semplicemente scrivendo le prime lettere del nome, non serve nemmeno più digitare la chiocciolina…
6. Le foto (ed i video) dei bambini non andrebbero pubblicate. Primo per una
questione di privacy e sicurezza e secondo perchè un giorno questi bambini diventeranno adulti e chiederanno ai genitori come mai sono stati tanto ridicolizzati in
pubblico.
7. Gli status minacciosi contro chi ti invita a giocare serviranno solo a far sfregare
le mani al tuo analista che vedrà in te un’ottima fonte di guadagno. Esiste una
procedura per non ricevere le notifiche di questo genere.
8. Le richieste di amicizia. Si chiamano “richieste” proprio perchè c’è anche l’opzione
di rifiutarle.
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Adolescenti e Internet: il resoconto di Save the Childrens
Save the Childrens ha recentemente effettuato una ricerca sui giovanissimi ed il loro
modo di utilizzare il web. In effetti il tema adolescenti e Internet è scottante e gli adulti
devono iniziare a porsi qualche domanda per avere una linea chiara da seguire e non
rischiare di dover correre ai ripari quando è troppo tardi. Le insidie che il web porta con
sé sono note, forse è meno noto che anche il fatto di essere disconnessi potrebbe essere
dannoso. I dati raccolti fanno emergere le due facce più allarmanti della medaglia: da
un lato ci sono adolescenti sempre connessi e senza il minimo controllo da parte di chi
li educa (con tutto quello che ne consegue), dall’altro ci sono ben 452mila adolescenti
italiani che non hanno mai avuto accesso a Internet, non leggono e non svolgono attività culturali.
Adolescenti e internet, il profilo dei “troppo connessi”
I ragazzi presi in esame hanno tra i 12 ed i 17 anni, si tratta quindi di minorenni sottoposti a rischi non indifferenti. In effetti il 41% degli intervistati ha ammesso di chattare su
Whatsapp anche con persone che non conoscono direttamente. Il trend nasce a “causa”
dei gruppi: in molti hanno ammesso di scrivere attivamente su svariati gruppi differenti
senza conoscerne tutti i partecipanti. Già a partire da questo primo punto un genitore
dovrebbe iniziare a preoccuparsi perchè tutti gli utenti possono visualizzare il numero
di telefono di tutti i partecipanti. Ma non è tutto: un ragazzo su quattro ammette di aver
inviato messaggi, video e foto con riferimenti sessuali ed il 33% si dà appuntamento
con qualcuno conosciuto solo attraverso questi gruppi. Incontri che non sempre vanno
come si potrebbe sperare: nel 46% dei casi la persona conosciuta nel mondo reale non
è chi diceva di essere in quello virtuale.
Un altro grande problema per gli adolescenti troppo connessi è il cyberbullismo: il 35%
degli intervistati afferma di aver avuto a che fare (indirettamente e non) con atti di
questo genere. Un’allarmante ricerca del 2012 ha analizzato 41 casi di suicidio di ragazzi
sotto i 18 anni negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito e in Australia. Secondo
lo studio, il 78% degli adolescenti che hanno commesso suicidio sono stati vittime di
bullismo sia a scuola che on-line, mentre solo il 17% sono stati esclusivamente vittime
di cyberbullismo. Pur non essendo contemplata in questo ultimo studio, l’Italia non è al
sicuro da questo problema e più di un drammatico caso di cronaca avvalla questa tesi
angosciante.
Adolescenti e Internet, il profilo dei “disconnessi”
Dopo aver letto i dati apocalittici riportarti qui sopra i disconnessi potrebbero sembrare
molto fortunati: messi in salvo da rischi e pericoli che la rete porta con sé. Ma non è così:
perchè se da un lato è vero che Internet è potenzialmente pericoloso, dall’altro, bisogna
ammetterlo, offre una serie infinita di possibilità positive.
Il primo fatto allarmante: dietro la disconnessione c’è spesso una situazione economica
sfavorevole ed il 22,7% degli adolescenti non connessi vive in una famiglia che definisce la propria situazione patrimoniale “insufficiente”. La disconnessione nella maggior
parte dei casi va di pari passo con la “povertà educativa“: un ragazzo su 5 (il 21.1%)
dichiara di non aver letto un libro o visto un film al cinema negli ultimi 12 mesi mentre,
tra i ragazzi connessi, la percentuale scende al 5,3%. Il 48,2% degli “online” ha visitato
un museo, una mostra o un sito archeologico nell’ultimo anno ma il dato scende al
25,7% tra i disconnessi. E’ difficile stabilire quanto la “povertà educativa” già citata abbia a che fare con Internet e quanto, invece, con la situazione economica della famiglia.
Bisogna però ammettere che la rete, se usata nel modo giusto, può essere uno strumento per arricchirsi culturalmente ed imparare.
Adolescenti e Internet come devono comportarsi gli adulti?
Come sempre a vincere dovrebbe essere il buon senso: sì all’utilizzo della rete ma avendo sempre la cura, la voglia e la pazienza di controllare come questa viene utilizzata.
L’errore che spesso viene commesso da parte dei genitori è quello di “cedere” perchè la
maggior parte dei ragazzi possiede uno smartphone, una connessione ed un numero
non calcolabile di profili social. L’omologazione, in alcuni casi, è dannosa.
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I Ray-Ban Wayfarer
non sono solo gli occhiali più venduti della storia,
ma un vero e proprio fenomeno di costume che ha saputo nascere,
morire e rinascere tante e tante volte nel corso dei decenni.
I wayfarer sono stati disegnati
da Raymond Stegeman nel 1952. Raymond era un
inventore che creò decine di progetti per la Bausch and Lomb,
l’allora proprietaria della Ray-Ban Il design degli occhiali era un cambio
radicale con il passato, sia nella forma che divenne subito uno status symbol, soprattutto maschile, che per i materiali: i Wayfarer furono infatti i primi occhiali a sfruttare
le nuove materie plastiche e segnarono l’inizio dell’uso delle montature in plastica.
Se si pensa alle sottili montature in metallo che venivano vendute negli anni cinquanta si capisce
subito come i Wayfarer fossero assolutamente innovativi e fuori dagli schemi per l’epoca.
Appena introdotti divennero subito un successo commerciale incredibile, aiutati senza alcun dubbio da un
marketing azzeccatissimo che puntava molto sul cinema e su testimonial d’eccezione.
Kim Novak portava i Wayfarer in Costa Azzurra nel 1954, così come Marilyn Monroe non mancava di indossarli
ad ogni buona occasione.La svolta vera arrivò nel 1961 quando Audrey Hepburn indossando una versione oversize dei
Wayfarer in Colazione da Tiffany li fece diventare un vero e proprio oggetti di culto. Durante gli anni cinquanta e sessanta
celebrità di ogni tipo come John Lennon, Bob Dylan, James Dean, il presidente John F. Kennedy, Roy Orbison e Andy Warhol
indossavano regolarmente dei Wayfarer per proteggersi dal sole.
Dopo il boom incredibile degli anni ’50 e ’60 le vendite cominciarono a calare: i wayfarer erano inevitabilmente passati di moda
e negli anni settanta furono quasi cancellati dal listino Ray-Ban per lasciare il passo ad occhiali più estroversi e particolari, tipici
dell’epoca degli Hippies.La Ray-Ban ci riprova nel 1980 facendo indossare i suoi Wayfarer niente meno che a Jake Blues e a suo fratello Elwood.. meglio conosciuti come Blues Brothers. Il successo del film è storia, ma nonostante questo nel 1981 furono vendute solo
18000 paia di Wayfarer: la morte dell’occhiale più venduto della storia sembrava ormai certa.
Solo un marketing ancora più spinto poteva risollevare il mito e la Ray-Ban lo sapeva. Contro ogni pronostico decise di investire
50.000 dollari l’anno in product placement per i suoi Wayfarer all’interno di produzioni cinematografiche e televisive: dal 1982 al 1987
i Wayfarer apparvero ogni anno in oltre 60 tra film e telefilm.Nel 1983 i Wayfarer tornarono alla grande, anche grazie a Tom Cruise e
al famoso Risky Business: 360.000 paia vennero vendute in quell’anno, era l’inizio di un nuovo fenomeno di costume che avrebbe abbracciato tutti gli anni ottanta.Arrivati al 1986, grazie ad altre apparizioni in serie televisive di successo come Miami Vice e Moonlighting, la Ray-Ban aveva perso il conto dei Wayfarer venduti: si era arrivati a 1 milione e mezzo di pezzi in circolazione.
Contemporaneamente i Wayfarer spopolavano nel mondo della musica: Johnny Marr, Debbe Harry dei Blondies, Elvis Costello,
Morrissey, Patti Smith, gli U2.. tutti indossavano Wayfarer, chi per contratto, chi per scelta: i Wayfarer passarono dai due modelli disponibili nel 1981 a più di 40 diversi modelli (per forma e colore) nel 1989: furono una delle icone degli anni ottanta
ed entrarono nella storia un’altra volta.Ma la storia si ripeté negli anni novanta dettando un’altra caduta per le vendite
dei Wayfarer: la popolarità immensa raggiunta negli anni ottanta si trasformò, come spesso succede, in noia e i nuovi
modelli di occhiali, più avvolgenti e moderni che uscirono in quella decade (Oakley su tutti) spadroneggiarono le
vendite lasciano cadere nel dimenticatoio ancora una volta i Wayfarer.Il ciclo di vita dei famosi occhiali Ray-Ban
non era però ancora finito: grazie ad un redesign nel 2001 e alla moda del vintage dei primi anni duemila i
Wayfarer stanno oggi rivivendo l’ennesima nuova giovinezza.Nel 2007 Ray-Ban si accorse che vecchi
Wayfarer degli anni cinquanta e sessanta venivano vendute e cifre stratosferiche su Ebay e colse la
palla al balzo introducendo i Wayfarer Original che riprendevano esattamente il design dei
primi modelli prodotti cinquanta anni fa.I Wayfarer sono tornati ancora sul naso di
tanti appassionati, più come fenomeno di vintage che di costume, ma il design immortale di questi occhiali testimonia come un oggetto tanto
semplice quanto un paio di occhiali da sole possa a tutti
gli effetti entrare nella storia.
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METTI IN
EVIDENZA
L’ EVENTO
NEL TUO LOCALE
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FOTORITOCCO
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ovrei avere Lightroom o Photoshop?”
Questa è la domanda che un sacco di
persone che usano Photoshop Elements
mi pone quando stanno pensando di passare
a Lightroom o alla versione completa di
Photoshop.
Qualche annio fa questa era una decisione
facile, perchè Lightroom non esisteva. Se
si voleva fare un passo avanti rispetto ad
Elements, la versione completa di Photoshop
era l’unica scelta possibile. Ma da allora Apple
ha lanciato Aperture, Adobe ha risposto con
Lightroom, Nikon e Canon hanno aggiornato
i loro software, e una miriade di altre aziende
ha aggiunto ancora altre opzioni interessanti.
Per ora ho intenzione di parlare solo di
Lightroom e Photoshop, soprattutto perchè
queste sono le due scelte più popolari e anche
perchè sono le due applicazioni che conosco
meglio e sono la scelta naturale per le
persone che desiderano fare il salto di qualità
da Elements, altro programma di Adobe.
La risposta breve
Ecco la soluzione più semplice per il vostro
dilemma: usateli tutti e due.
Però probabilmente chi fa questa domanda
non può permettersi l’acquisto di tutti e
due, o non ne vuole sapere di usare due
programmi diversi.
Quindi, ecco una risposta leggermente più
lunga: se si vuole strizzare ogni grammo
di perfezione dalle immagini, realizzando
grandi stampe, senza preoccuparsi di dover
apprendere un software piuttosto complesso,
allora consiglio di fare il grande passo e
acquistare Photoshop CS5.
Se invece non avete bisogno della perfezione,
volete elaborare molte immagini efficacemente e non volete perdere troppo tempo
nell’apprendimento del software, allora
Lightroom fa per voi.
Naturalmente non è tutto così chiaro e
semplice. E’ possibile realizzare belle stampe
in grande formato anche con Lightroom, ma
la versione completa di Photoshop vi darà
alcuni strumenti extra che Lightroom non ha.
E’ possibile elaborare un gran numero di
immagini con Photoshop CS5, ma Lightroom
è più veloce e, per la maggior parte delle
persone, più facile da imparare.
Alcuni pro e contro
Nel confronto tra questi programmi, è
importante rendersi conto che Photoshop
CS5 comprende quasi tutte le funzionalità di
Lightroom e altro ancora.
Bridge, un’applicazione separata inclusa con
CS5, contiene la maggior parte delle funzioni
del modulo “Libreria” di Lightroom.
Adobe Camera Raw (ACR), anch’esso incluso
con CS5, è sostanzialmente identico al modulo “Sviluppo” di Lightroom.
Quindi, se volete la massima potenzialità e la
sofisticazione della versione completa di Photoshop, potrete effettivamente risparmiare
soldi saltando Lightroom, dal momento che
in sostanza
si possono
fare tutte le
stesse cose
con Bridge
e Camera
Raw.
Il problema,
con questo scenario, è che andare avanti e
indietro tra queste tre applicazioni distinte:
Bridge, Adobe Camera Raw e Photoshop non
è assolutamente comodo. Inoltre Bridge è
lento, non intuitivo, e con alcuni problemi.
Lightroom fonde elegantemente le funzioni
di Bridge e Camera Raw (più poche altre) in
un unico programma e di solito è anche più
veloce di Bridge ed abbastanza intuitivo e
facile da imparare.
Ho visto molti studenti che non avevano
familiarità con Lightroom, all’inizio di un
seminario diventarne entusiasti entro la
fine del corso. E’ un ottimo strumento per
le persone che hanno fatto, a malincuore, il
passaggio dalla pellicola o che non vogliono
approfondire tutte le complessità della
camera oscura digitale, ma cercano qualcosa
di abbastanza sofisticato per migliorare facendo sì che le loro conoscenze e competenze
aumentino.
Personalmente sono arrivato a Lightroom da
una direzione diversa. Avevo usato Photoshop
per molti anni.
Lightroom inizialmente era solo un sostituto
più conveniente per la combinazione di
Bridge e Adobe Camera Raw.
Da quando Lightroom è cresciuto, diventando
più sofisticato, lo uso sempre di più e Photoshop sempre meno.
L’aggiunta del Pennello di regolazione, con
Lightroom 2, mi ha permesso di schiarire
e scurire, funzioni che trovo essenziali per
ogni immagine. Ora posso elaborare molte
immagini ,direttamente dai file Raw, per
stampe di grandi dimensioni, senza mai
toccare Photoshop, fatta eccezione per lo
sharpening finale di stampa.
Ho anche imparato ad apprezzare la flessibilità del flusso di lavoro non distruttivo di
Lightroom.
Lightroom, infatti, non altera mai i file Raw
o Jpeg originali. Invece, scrive un insieme di
istruzioni su come si desidera che appaia l’immagine e applica tali istruzioni solo quando
si esporta l’immagine fuori da Lightroom (ciò
vale anche per Adobe Camera Raw). Questo
significa che
posso sempre tornare
indietro e
modificare
qualsiasi
aspetto di
qualsiasi
immagine, senza dover ricominciare da capo.
Lasciate che vi dia un esempio del perchè
penso che questo sia così importante: con
l’avvento di Lightroom 3 e Photoshop CS5,
Adobe ha aggiornato la riduzione del rumore,
affinando gli algoritmi di Lightroom e Adobe
Camera Raw.
Questo, a mio parere, è stato un miglioramento importante qualcosa di cui ho
voluto approfittare. Purtroppo, ho un sacco
di vecchie immagini che sono state trattate
con regolazione iniziale in Camera Raw o
Lightroom, poi prese in Photoshop per il
resto. Dal momento che avevo trattato queste
fotografie prima che fosse possibile portare i
file Raw in Photoshop come oggetti avanzati,
ho dovuto ricominciare da capo con ogni
immagine se volevo approfittare delle nuove
funzionalità di Lightroom 3.
Se avessi originariamente elaborato queste
immagini interamente con Lightroom non
avrei avuto bisogno di ricominciare. Pochi
click sarebbe bastati per aggiornare tutte
queste immagini con gli ultimi algoritmi di
riduzione del rumore e di incremento della
nitidezza, mantenendo inalterati tutti i miei
altri aggiustamenti alle immagini.
PHOTOSHOP
O
LIGHTROOM?
Avendo imparato questa lezione, ho
ritrasformato le mie immagini, per quanto
possibile, con Lightroom 3 e il meno possibile
con Photoshop. Questo non solo è stato relativamente rapido e facile, ma anche i risultati,
non solo la nitidezza e il rumore, ma l’aspetto
complessivo, sono stati buoni o migliori del
mio precedente lavoro con Photoshop.
Senza dubbio questo è dovuto anche alla mia
maggiore esperienza, ma certo mostra ciò
di cui Lightroom è capace. E se mai Adobe
aggiornerà ancora il motore in Lightroom,
potrò aggiornare tutti questi file solo con un
paio di clic.
Certo si può far sì che anche Photoshop si
comporti in modo non distruttivo usando i
livelli di regolazione e gli oggetti avanzati,
ma ci sono limitazioni. Inoltre non è possibile
aggiornare le impostazioni di nitidezza su
un centinaio di file di Photoshop contenenti
oggetti avanzati con pochi clic.
Perchè Photoshop è ancora indispensabile
Come avrete compreso apprezzo molto
Lightroom. Non è perfetto, ma fa un sacco di
cose per bene.
Eppure trovo ancora Photoshop indispensabile per alcune elaborazioni, come queste:
- Taglio prospettico
- Ritocchi pesanti (per macchie di polvere
semplice posso usare Lightroom)
- Selezioni complesse
- La combinazione di 2 o più immagini
(compositi, espansione gamma di contrasto,
ampliare la profondità di campo, panorami)
- Curve mirate
- Regolazione di una serie precisa di colori
con tonalità / saturazione
- Regolazioni selettive del colore
Molte di queste modifiche possono essere
fatte anche con “Elements”, ma naturalmente
ci sono alcune limitazioni, ad esempio, non
possono aprire immagini in “Elements” come
oggetti intelligenti, limitandone la flessibilità. Poi ci sono quelle cose che Elements e
Lightroom non possono fare. Io spesso uso la
regolazione selettiva per le fotografie a colori
di paesaggi e le curve mirate che talvolta
sono proprio indispensabili.
Ma comunque penso che Lightroom ed
“Elements” combinati possano lavorare bene,
e anche di più, per molti fotografi.
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Allen Jones (scultore)
ARTE
Allen Jones (Southampton, 1º settembre 1937) è uno scultore e artista pop britannico. Vive e lavora a Londra.
Jones è nato a Southampton e dal 1955 al 1961 ha studiato presso il College Hornsey of Art (Londra). Nel 1960 è stato espulso dal
Royal College of Art, dal 1961 al 1963 ha insegnato presso Croydon
College of Art. La sua mostra di sculture erotiche, come Sedia, Tavolo
e Appendiabiti (1969), è incentrata sulla furniphilia: i suoi soggetti
femminili si trasformano in elementi di arredo umani. Molto del suo
lavoro attinge all’immaginario del feticismo, della passione per il lattice e il BDSM.
Le sculture del Korova Milkbar dal film Arancia meccanica si ispirano
alle opere di Jones, dopo che questi respinse la richiesta di Stanley
Kubrick di curare la scenografia del film senza compenso.
Jones ha curato il design nel film Maîtresse del 1975 diretto da Barbet
Schroeder.
Nel 1986 è stato nominato membro della Royal Academy.
David Gilmour, chitarrista dei Pink Floyd, tiene in mano una copia di
Figures di Allen Jones durante le porzioni di intervista in Pink Floyd
a Pompei.
Hans Hartung
Un artista poliedrico, aperto, colto, un maestro-innovatore della pittura
del Novecento che filtra ogni esperienza alla luce di una sua personale concezione dell’arte, per rimanere fedele a sé stesso. Hans Hartung
(Lipsia ,1904 - Antibes, 1989) è un pittore dal linguaggio complesso, tedesco di nascita e francese d’elezione, ha conosciuto direttamente tutti i movimenti avanguardisti del ‘900, senza tuttavia omologarsi in nessuno di essi, distillando ogni esperienza tramite la
sua personale concezione dell’arte come linguaggio inimitabile ed
autonomo. Hartung affronta i suoi primi esercizi pittorici da autodidatta per poi approfondire il suo bisogno di conoscenza presso
l’Accademia di Belle Arti di Dresda (1925-26) e di Monaco (1928).Allievo di Kandinskij, si allontanò dall’insegnamento del Bauhaus,
esperienza decisamente rigida per uno spirito indipendente come il suo.Viaggiando in Europa, si appassionò ai grandi maestri,
come Rembrandt, El Greco, Goya, e agli espressionisti tedeschi, in particolare Kokoschka e Nolde.Durante il conflitto mondiale la
scelta di contrastare e combattere il nazismo lo spinse ad arruolarsi come volontario nella Legione straniera. Ferito gravemente nei
combattimenti di Belfort, nel tentativo di trascinare un camerata ferito entro le proprie linee, gli venne amputata la gamba destra.
Esempio di coraggio e valore militare, venne decorato della Croce di guerra del 1939-1945, della Medaglia militare e della Legione
d’Onore. Nel 1945, stabilitosi a Parigi e divenuto cittadino francese nell’anno successivo, riprese il discorso interrotto di pittore. Era
partito nel 1923 con macchie e, dopo circa sei anni, proseguì con segni scuri votati al verticalismo di ascendenza gotica, punte
aguzze su fondi luminosi che si incontrano in dialoghi struggenti e nervosi, profondamente spirituali. La pittura segnica di Hartung
si inserisce nella ricerca dell’Arte Informale, anche se da quest’ultima si differenzia per la mancanza di un netto rifiuto della forma.
Nelle opere degli artisti che utilizzano la pittura segnica, la forma, tende a trasformarsi in “segno”, in elemento grafico riconoscibile
a livello formale, ma non nel suo contenuto. Il segno è tutto, può tutto, esprime la pulsazione vitale dell’universo “in una linea morbida o flessibile, curva e fiera, rigida o possente, in una macchia di colore stridente, gioioso o sinistro”. Dagli anni Sessanta l’artista
moltiplica la sua produzione sperimentando nuovi materiali, e nuovi metodi; utilizza, acrilici, vinilici, dipinge con pistole a spruzzo,
spugne, stiletti, e le dimensioni dei suoi quadri diventano monumentali. Nel 1973 costruisce, da un suo progetto, la straordinaria
casa e gli studi di Antibes, al centro di due ettari di oliveto, dove vi trascorse il resto della vita.Negli anni Ottanta si susseguono
numerose tele in cui Hartung riprende la sua definizione cosmologica declinandola in nuovi elementi, alla luce di una nuova produzione, ora decisamente pittorica. Negli ultimi giorni di vita, provato da un lungo periodo di immobilità, Hans Hartung sentì nuovamente l’euforico desiderio di creare, la volontà di tradurre in segno l’energia che lo pervase.
Sceso nello studio con la sua sedia a rotelle, ordinò tele di quattro metri per due che andranno ad accogliere le ultime libere volontà
di un uomo votato interamente all’arte.
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Max Colombo
ARTE
& fotografia
La Fotografia esiste dal 1820,
quindi ha una storia di meno di
200 anni. L’arte bidimensionale,
invece, per quanto ne sappiamo, è un’espressione umana da
oltre 20.000 anni, cioè da quando vennero realizzati i primi dipinti di animali, sulle pareti delle grotte di Lascaux, in Francia.
Impressionismo: qualità della luce
La maggior parte dei fotografi è consapevole degli insegnamenti dell’impressionismo, in primo luogo perché è un movimento
che lavorava con la luce naturale e le sue caratteristiche mutevoli. Claude Monet e Georges Seurat erano più interessati al modo
in cui le cose venivano viste, piuttosto che creare descrizioni realistiche dei loro soggetti.
Questo movimento crebbe di pari passo con la fotografia. Dal
1860 circa in poi c’è stato un interscambio continuo, tra fotografia ed impressionismo, in quanto entrambi cercavano di definirsi
uno in relazione all’altro.
Almeno un pittore, Edgar Degas, fu anche fotografo e coloro che
studiano le sue composizioni riconoscono immediatamente che
il suo insolito uso del taglio era intrinsecamente fotografico. In
realtà, rispecchia ciò che la maggior parte di noi oggi realizza
con Photoshop ed altri software di imaging.
Più che altro, l’impressionismo ci ricorda che la luce è la fonte
primaria di un’immagine, dipinta o fotografata, e che la qualità
della luce, che è stata l’oggetto di maggior interesse per gli impressionisti, può esaltare o distruggere una foto.
Chiaroscuro: Utilizzo di contrasto
Il termine “chiaroscuro” è usato per descrivere i dipinti ad olio
drammaticamente illuminati, con forti contrasti, che caratterizzarono la pittura del XVI secolo. Quando un fotografo oggi
esegue un ritratto che illumina un solo lato del viso, lasciando
La fotografia, quindi, essendo
la più giovane fra le arti visive,
non può fare a meno di rifarsi
ai millenni precedenti di creatività delle immagini. Le migliaia
di anni di sviluppo, di pensiero,
di ricerca e di duro lavoro che
hanno segnato la storia dell’arte
ci possono fornire, infatti, potenti fonti di ispirazione fotografica.
svanire l’altro nel buio, magari inconsapevolmente, sta utilizzando lo stesso strumento di Ugo da Carpi, Giovanni Baglione e, soprattutto, Caravaggio.
Il chiaroscuro è una potente
tecnica dell’arte rinascimentale, usata ancora oggi da innumerevoli fotografi. Ma risulta
piuttosto complicata, come sa
bene chiunque abbia lavorato
in studio usando una singola
fonte, molto diretta, di luce.
Studiare la pittura manierista e barocca è un modo per contribuire a padroneggiare questa tecnica.
I Maestri della Composizione
Il primi e migliori maestri di composizione erano i pittori e i disegnatori. La maggior parte dei fotografi è consapevole dei principi di base della composizione: le linee, la regola dei terzi, la
forma, la proporzione e l’equilibrio. Ma i maestri della pittura rimangono insuperati nell’utilizzo combinato di questi elementi,
per catturare e focalizzare l’attenzione.
Peter Paul Rubens, pittore fiammingo che lavorò nel XVI e XVII
secolo, portò la complessità compositiva all’estremo. Joan Mirò,
pittore spagnolo del XX secolo, ha utilizzato gli stessi principi,
ma li ha applicati con parsimonia.
Alcuni dei più grandi fotografi, come Henri Cartier-Bresson e
NOLEGGIO FURGONI
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Miguel Rio Branco, hanno lavorato prima con i pennelli per poi
passare alle macchine fotografiche.
Entrambi sono maestri di composizione formale, proprio perché
hanno passato lunghe ore a studiarla.
Una profonda familiarità con la composizione in pittura può essere applicata alla fotografia per creare vere opere d’arte, piuttosto che semplici istantanee.
Espressionismo Astratto: andare oltre
L’espressionismo astratto, caratterizzato dai dipinti a “sgocciolatura” (dripping) dell’amato-odiato artista americano Jackson
Pollock, rappresentava qualcosa di più profondo delle semplici
macchie di colore. L’idea di coprire una superficie di segni, usando immagini non-figurative, è stata una delle più importanti rivoluzioni artistiche del XX secolo.
L’idea è che ci sia qualcosa di più profondo, qualcosa che scaturisce dal subconscio, che può essere catturato ed espresso
dall’arte.
Questo è un terreno fertile per i fotografi artistici e tutti coloro
che sono interessati a spingere i loro orizzonti fotografici verso
nuove direzioni.
Ricordiamo che l’arte bidimensionale è antichissima, ha una lunga storia di studi, esperimenti ed innovazioni. I fotografi, quindi,
non dovrebbero ignorare questa parte del patrimonio visivo comune, ma piuttosto, abbracciarla, costruire su di essa, e applicarla al proprio lavoro.
C
La pittura non è la fotografia, ma ci può dare lezioni fondamentali che possono aiutarci a fare
meglio il nostro lavoro di fotografi.
Orari:
Lunedì15:30-19:00
Martedì15:30-19:00
Mercoledì15:30-19:00
Giovedì15:30-19:00
Venerdì15:30-19:00
SabatoChiuso
DomenicaChiuso
Corso Risorgimento, 214
45014 Porto Viro (RO)
Telefono:348 874 0772
S.N.C. di Zanella Teddy
Autolavaggio a mano / self 24 ore
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aperto dalle ore 5.30
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'
L
ucille non suona più. B.B. King, la leggenda del blues che ha ispirato decine di musicisti, se n’è andato, a
quasi 90 anni (li avrebbe compiuti in settembre) dopo 60 anni di una carriera che lo ha portato dalle piantagioni
di cotone alla leggenda. Apparteneva a quella straordinaria generazione di musicisti che aveva elettrificato il
Blues e lo aveva trasformato in musica urbana ponendo di fatto le basi per quello che oggi è il rock’n’roll: l’influenza esercitata è immensa, a cominciare
dai grandi padri del rock inglese che si sono formati studiando nota per nota il repertorio di questi musicisti.
Riley B. King (il suo vero nome) è stato uno dei chitarristi più celebri e importanti di sempre: con la sua Lucille (la leggendaria Gibson 335 ribattezzata così, pare, con il nome di una ragazza per la
quale due uomini avevano litigato provocando un incendio in cui aveva rischiato di morire) aveva creato uno stile più morbido e chiaramente ispirato al jazz e al rhythm and blues rispetto a quello,
decisamente più “rootsie” di gente come Muddy Waters e Howlin’ Wolf. Uno stile fatto di glissati e note lunghe, creato con un inconfondibile tecnica della mano sinistra sul manico.
A questo modo di suonare puramente solistico faceva da contrasto il suo modo di cantare da “shouter”, forgiato sul modello dei cantanti da big band. Musicalmente parlando, si era formato a Memphis. B.B., il suo nome d’arte, era l’abbreviazione di Blue Boy ma in principio era l’abbreviazione di Beale Street Blues Boy: Beale Street a Memphis è la strada dei club di blues e ancora oggi è uno dei
luoghi principali del culto di B.B. King. Di questo culto uno degli adepti più devoti è stato Eric Clapton che nel 2000 ha registrato un album con lui e nel 2005 ha partecipato, insieme a Van Morrison,
Billy Gibbons, Sheryl Crow, Darryl Hall & John Oates, John Mayer, Mark Knopfler, Glenn Frey, Gloria Estefan, Roger Daltrey, Bobby Bland ed Elton John al disco celebrativo per l’80mo compleanno.
La lista dei personaggi che hanno suonato con lui va da Luciano Pavarotti a Bruce Willis, da Zucchero a David Gilmour, da Slash a Phil Collins passando per il Gotha della musica nera, compresi Ray
Charles, Aretha Franklin, Chaka Khan, Bobby Bland ed Etta James con cui ha dato vita a una versione memorabile di “Thrill Is Gone”, il suo più grande successo insieme a “Sweet Little Angel” e alla
trascinante versione di “Everyday I Have The Blues”. Certamente uno dei picchi di celebrità lo ha toccato nel 1988 grazie agli U2 che insieme a lui registrarono “When Love Comes To Town”, ai tempi di
“Rattle And Hum”.
Come molti musicisti neri della sua generazione, a parte le collaborazioni, B.B. King è sempre rimasto
fedele a un modo classico di fare musica. Che vuol dire: concerti, concerti, concerti. Era sempre in tournée,
si era rassegnato solo da poco a non viaggiare in pullman con i suoi orchestrali e solo perché lo aveva
costretto la figlia preoccupata dal suo stato di salute. Un suo concerto era come un appuntamento con un
vecchio amico: l’orchestra cominciava a swingare un brano, l’annuncio, l’ingresso in scena sparando note
dalla sua Lucille mentre i trombettisti suonavano ballando. Lui sempre sorridente e sudatissimo, con le
sue giacche damascate e le manone a dispensare prelibatezze swing, cantava i suoi classici con le tasche
piene di quelle spillette a forma di Lucille che per anni sono state uno degli oggetti più concupiti dai fan.
Era davvero una leggenda ma non concepiva una vita lontano dal palco: è andato avanti fino all’ultimo, sfidando il diabete e gli acciacchi dell’età e di una carriera
lunghissima, vissuta senza gli agi delle star. Lucille non suona più e il mondo ha perso uno degli ultimi grandi di una generazione che ha cambiato la storia della
musica.
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POP ART
Serigrafia digitale: foto, scanner, photoshop,
stampa applicata su pannello 30x30 rifinita a mano
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« In genere, il jazz è sempre stato come il tipo d’uomo con cui
non vorreste far uscire vostra figlia. »
MUSICA
Via Adria Nova, 6
ADRIA (RO)
è gradito l’ appuntamento
Il jazz è attualmente una
forma musicale, ma nacque tra il 1600 e 1700
come fenomeno sociale
dagli schiavi di pelle scura africani che trovavano
conforto e speranza nelle
loro anime improvvisando collettivamente od individualmente canti. Il
jazz viene riconosciuto come fenomeno musicale solo tra Ottocento e
Novecento e piace molto anche ai «bianchi».Si sviluppa negli Stati Uniti,
prima nelle piantagioni sud-americane e poi arriva con le jam session
(improvvisazioni collettive di suonatori che componevano musica «ad
orecchio»), gruppi di suonatori (massimo 3 strumenti) e con le jazz band
a New Orleans, Louisiana. È nato come musica vocale perché si eseguiva
durante il lavoro nelle piantagioni o durante costruzioni ferroviarie e delle strade, questo per ritmare e coordinare i movimenti del lavoro (infatti
il ritmo era binario, deriva ad esempio dalla raccolta e rimessa del cotone
nella cesta). Il jazz arriverà anche a Chicago con Louis Armstrong e poi
anche in Europa dove avrà un successo grandissimo. Con gli anni andrà
modificandosi e diventerà anche una musica commerciale con lo swing
fino a riprendere le tradizioni della cultura afroamericana delle prime
jazz band col bebop.
Nel jazz ci sono due forme primarie: il blues, in 12 battute (3 frasi musicali), e la canzone, in 32 battute. L’essenza dell’improvvisazione è nella
linea melodica, ciò è dovuto al fatto che il mezzo jazz prototipico (originale) è il gruppo di ottoni, in cui, dato che ogni suonatore può produrre una sola nota alla volta, gli assoli sono necessariamente melodici. Il
pianoforte venne dopo, copiando però le caratteristiche dell’insieme di
ottoni. Sin dai primi tempi il jazz ha incorporato nel suo linguaggio i generi della musica popolare americana, dal ragtime, al blues, alla musica
leggera fino alla musica colta, soprattutto statunitense. In tempi più recenti il jazz si è mescolato con tutti i generi musicali moderni anche non
statunitensi, come il samba, la musica caraibica e il rock.Il jazz si è trasformato, nel corso di tutto il XX secolo, evolvendosi in una gran varietà di
stili e sottogeneri: dal dixieland di New Orleans dei primi anni, allo swing
delle big bands negli anni trenta e quaranta, dal bebop della seconda
metà degli anni quaranta, al cool jazz e al hard bop degli anni cinquanta,
dal free jazz degli anni sessanta alla fusion degli anni settanta, fino alle
contaminazioni con il funk e l’hip hop dei decenni successivi.
orari d’ apertura
8,00/12,30
14,30/20,00
Sabato orario continuato
8,00/18,00
Lunedì chiuso
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il 18 - 19 - 20 settembre 2015 la 18a edizione di
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settimana per perdersi tra abbigliamento, accessori, bellezza, gusto, grandi firme della moda, stile
di vita e musica; tutto rigorosamente “d’annata”. Un’esperienza sensoriale, emotiva e intellettuale che rende i visitatori protagonisti di un revival che trascende i confini temporali, in cui il passato è fonte d’ispirazione. Un’immersione nello stile di vita, nella moda
e nel costume di uno “scampolo di storia” con
eventi collaterali coinvolgenti, come i preziosi
archivi storici in mostra, eventi di musica live,
spettacoli, corsi di ballo e laboratori a tema. Un tuffo nel periodo che va dagli anni ’20 agli
anni ’80, con la moda, il modernariato, articoli da
collezionismo, profumi, capi sartoriali dell’epoca,
pezzi di design, con un occhio di riguardo al mercato che si è creato intorno ad essi e al mondo
del collezionismo.
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La musica new age
NEW AGE
è uno stile musicale caratterizzato dall’assenza di ritmo e dal carattere meditativo, lineare e
ciclico dei brani, con l’intento di offrire un ascolto rilassato dal punto di vista emotivo. La nascita di questo genere è spesso collocata
negli Stati Uniti alla fine degli anni settanta, nonostante alcuni segnalano esempi precedenti riconducibili al genere, in particolare al
primo album da solista di Jon Anderson (cantante degli Yes) intitolato Olias Of Sunhillow (1975),
album che alcuni considerano il primo album New Age. Negli anni a seguire il genere ha subito varie
evoluzioni e trasformazioni di pensiero date dal fatto che anche musicisti non definiti “alternativi”
proponevano nel loro repertorio anche melodie inerenti appunto alla musica new age. Questo ne
scaturiva modificazioni a volte anche ben rappresentative e trasformando il genere con definizioni
allargate: sensitive new age, soft new age, pop new age, alternative new age ecc.
Il genere si afferma all’inizio degli anni ottanta dall’incontro della musica ambient di Brian Eno, Robert
Fripp, Harold Budd, Jon Hassell, e della Kosmische musik dei Tangerine Dream, Ash Ra Tempel, Holger
Czukay e Cluster con musiche, stili e temi di carattere etnico a sfondo genericamente spirituale, incorporando elementi del jazz di
avanguardia di alcuni artisti dell’etichetta discografica ECM. La produzione di musica New Age è comunque strettamente connessa
con la diffusione delle filosofie orientaleggianti che avviene durante gli anni ottanta: la richiesta, da parte di maestri e terapeuti,
di musica rilassante e suggestiva di facile ascolto ha caratterizzato questo genere dalla programmatica assenza di ogni forma di
sperimentazione musicale, nonostante tra i “padri fondatori” della musica New Age vi siano importanti musicisti contemporanei. Il
successo della musica New Age presso il grande pubblico, infatti, è dovuto all’intuizione da parte di alcuni produttori discografici (tra
tutti William Ackerman dell’etichetta Windham Hill Records di Palo Alto) di offrire questa musica melodica e distensiva come “la
musica classica degli yuppies”.
1
Cristalloterapia
L
a cristalloterapia è una pratica di medicina alternativa, che si prefiggerebbe
di eliminare disfunzioni o malesseri mediante la collocazione di minerali su
determinati punti del corpo.
Secondo i sostenitori di questa pratica, ogni cristallo avrebbe una sorta di “campo
energetico” proprio ed avrebbe la capacità di entrare in contatto con ogni forma vivente del regno animale. Il cristallo opererebbe nel corpo umano sui piani
definiti come “fisico-emotivo-mentale” e spirituale, riportando “l’equilibrio” e
“l’armonia”.
Non esiste alcuna prova scientifica di tali affermazioni; la stessa espressione campo energetico, come intesa dalla cristalloterapia, è priva di qualsiasi significato
o riscontro; soprattutto, non esiste alcuna prova di efficacia o utilità clinica del
metodo.
La scelta del cristallo
Secondo chi propone queste pratiche, ogni cristallo avrebbe presunti “effetti”. Il
cristallo, acquistato o trovato in natura, potrebbe essere scelto anche basandosi
sull’intuito e sulle sensazioni ed emozioni ricevute dal contatto col minerale.
Applicazione
I cristalli verrebbero usati soprattutto per presunti scopi terapeutici e spirituali e
per “ricaricare” la presunta aura dell’organismo, un “campo energetico” che, secondo le credenze New Age, circonderebbe gli esseri viventi.
I sostenitori della cristalloterapia credono anche nell’esistenza di altre ipotetiche
applicazioni delle pietre, come la cura a distanza e la cura dell’aura.
Presunte proprietà dei vari cristalli
Vari cristalli produrrebbero presunti effetti diversi; ad esempio:
per l’insonnia: sarebbe indicata la malachite, perché scioglierebbe le tensioni,
diffondendo calma e serenità;
per le donne in gravidanza: la fluorite favorirebbe il trasferimento di “energie
benefiche” della madre al figlio;
per i disturbi del fegato: il diaspro tigrato e leopardato diminuirebbe i dolori
epatici;
per l’ansia: l’agata di Botswana dovrebbe far cessare il panico;
per rilassare: la sodalite servirebbe per conciliare il sonno e rilassare corpo e
mente;
per il mal di testa: l’ametista aiuterebbe a far passare le emicranie.
Critiche e controindicazioni
La cristalloterapia non ha alcun fondamento scientifico e, come altre forme di
medicina alternativa, il principale pericolo di questi trattamenti proviene dalla
possibilità che chi soffre di determinate patologie trascuri terapie di comprovata
efficacia, per affidarsi a pratiche pseudoscientifiche alternative, come questa.
“La Cristalloterapia è un metodo che favorisce l’autoguarigione naturale attraverso l’uso di cristalli, pietre e minerali di varie forme e colori permettendo di raggiungere e mantenere uno stato di benessere psico-fisico tramite la
stimolazione delle risorse naturali dell’individuo.
Abbandonando per un attimo il giudizio possiamo ampliare la nostra percezione e concederci di accogliere le meraviglie che i cristalli sanno trasmettere. Praticare Cristalloterapia significa soprattutto crescita e cambiamento, il
benessere fisico è una piacevole conseguenza della forte spinta introspettiva
a cui portano i cristalli.”
definizione di cristalloterapia Tatiana V. 2005
Il termine Cristalloterapia ad oggi è risultato controverso in ambito olistico perchè contiene il termine “terapia”. Nonostante non faccia alcun riferimento alla terapia in senso medico e tradizionale del termine è considerato
di uso improprio per gli operatori olistici perchè potrebbe causare ambiguità.
Sarebbe opportuno, come è successo per altre discipline, utilizzare un termine diverso ad esempio Aromaterapia > Aromatologia. Sfortunatamente
Cristallologia risulta buffo ma sarebbe la terminologia corretta così come
Trattamenti con cristalli. E’ ancora di utilizzo comune “cristalloterapia”, non è
vietato usarlo, purchè si sappia che non ha alcun riferimento a cure, medicamenti, medicina, ecc.
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un caro saluto, Antonella, Martina, Elena
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Max Colombo
Il termine concettuale, nel campo artistico, ha un significato polivalente.
Il primo artista ad aver usato la definizione «concettuale» è stato Joseph
Kosuth intorno alla metà degli anni
Sessanta. Il suo intento era di proporre opere il cui proposito non era
il godimento estetico bensì l’attività
del pensiero. Del 1965 è una delle sue
opere più famose, «Una e tre sedie»
(vedi dx), in cui espone una sedia
vera, un’immagine fotografica e la
definizione scritta della parola “sedia”.
Ciò a cui tende è di avviare nello spettatore la riflessione sul rapporto, problematico e conflittuale, che esiste
tra realtà, rappresentazione iconica
(immagine) e rappresentazione logica (parola).
Il termine fotografia concettuale è
tanto usato quanto poco definito.
C’è chi lo interpreta come un movimento legato a un arco temporale
ben preciso, gli anni 1960- 70 e chi
lo intende come un metodo della fotografia che vuole stimolare l’attività
intellettuale.
La fotografia è “concettuale” quando, tramite oggetti reali e concreti,
si esprime un concetto che può non
avere nulla a che fare con il loro senso
quotidiano. Quando “si allude visivamente, o si rappresenta una parte per
il tutto, o si rappresenta un concetto
in modo metaforico trasferendo il suo
significato su qualcos’altro”.
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Max Colombo
ESTETICA ZEN APPLICATA
ALLA FOTOGRAFIA & AL DESIGN
Sette principi estetici giapponesi
per cambiare il tuo pensiero
In questo intervento breve ma illuminante (così come insegna nelle sue lezioni),
Garr Reynolds propone un approccio diverso al Design e alla Fotografia, mediato dai
precetti Zen. Una semplice ma folgorante serie di principi che possono diventare
suggerimenti ispiranti per la creatività.
Confrontarsi con le idee estetiche della tradizione giapponese, nozioni che possono
apparire estranee alla maggior parte di noi, è un buon esercizio di pensiero laterale,
un termine coniato da Edward de Bono nel 1967.
Il “Lateral Thinking” serve per cambiare i concetti e le percezioni, in altre parole a
vedere le cose da un altro punto di vista.
Pensare al design o alla fotografia esplorando i principi dell’estetica Zen può non essere
un esempio di “pensiero laterale” in senso stretto, ma è un buon esercizio per renderci più
flessibili aiutandoci a creae in modo diverso grafica e design nella nostra vita professionale quotidiana.
I principi dell’Estetica Zen che si trovano nell’arte del karesansui, il giardino tradizionale giapponese, ad esempio, ci possono insegnare molte cose, anche se sono
sconosciuti alla maggior parte delle persone.
I principi sono interconnessi e si sovrappongono, ma non è possibile semplicemente
mettere le idee in scatole separate. Fortunatamente, Patrick Lennox Tierney ha elaborato questi concetti in alcuni brevi saggi. Qui di seguito sono elencati sette principi (ce
ne sono di più) che governano l’estetica del giardino giapponese e altre forme d’arte in
Giappone, che si possono applicare al design e alla fotografia.
Questo forse stimolerà la creatività o il pensare in modo nuovo relativamente ai
problemi connessi alla creatività.
Sette principi per cambiare la vostra percezione
Kanso Semplicità o l’eliminazione del disordine.
Le cose sono espresse in un modo semplice, piano e naturale. Ci ricorda di non pensare
in termini di decorazione, ma in termini di chiarezza, una sorta di chiarezza, che può
essere raggiunta attraverso l’omissione o l’esclusione del non essenziale.
Fukinsei Asimmetria o irregolarità.
L’idea di controllare l’equilibrio in una composizione tramite l’irregolarità e l’asimmetria è un principio centrale dell’estetica Zen. L’Enso ( “cerchio Zen”), per esempio,
è spesso disegnato (col pennello) come un cerchio incompleto, a simboleggiare
l’imperfezione che è parte dell’esistenza. Nel design grafico anche l’equilibrio
asimmetrico è un processo dinamico positivo. Proviamo a cercare (o creare) la bellezza
nell’asimmetria bilanciata. La natura stessa è piena di bellezza e relazioni armoniose
che sono asimmetriche anche se equilibrate. Questa è una bellezza dinamica che attira
e coinvolge.
Shibui / Shibumi La bellezza di essere sottovalutati, o di essere proprio quello che si
doveva essere, senza elaborazioni. Un modo diretto e semplice, senza essere appariscente. Elegante semplicità e articolata brevità. Il termine è talvolta usato oggi per
descrivere qualcosa di fresco ma splendidamente minimalista, comprese le tecnologie
e alcuni prodotti di consumo. (Shibui letteralmente significa di gusto amaro).
Shizen Naturalezza. Assenza di finzione o artificiosità, pieno intento creativo non
forzato. Per ironia della sorte, la natura spontanea del giardino giapponese che lo
spettatore percepisce non è casuale. Questo ricorda che il design non è casuale, anche
se stiamo cercando di creare la sensazione di un ambiente naturale. Non una natura
grezza in quanto tale, ma con un obiettivo e un proposito.
Yugen Suggestione o suggerimento, piuttosto che manifestazione.
Un giardino giapponese si può dire sia un insieme di sfumature e di elementi simbolici. Fotografi e designers possono certamente pensare a molti modi per implicare
visivamente non mostrando il tutto, ma solo una parte .
Datsuzoku Libertà dall’abitudine o dalle formule.
Fuga dalla routine ordinaria e quotidiana. Trascendere il convenzionale. Questi principi
descrivono la sensazione di sorpresa e di stupore quando ci si rende conto che ci si può
liberare dal convenzionale. Il Professore Tierney dice che il giardino giapponese stesso,
“... realizzato con le materie prime della natura e il suo successo nel rivelare l’essenza
delle cose naturali per noi è una scoperta sorprendente. Molte sorprese vi aspettano
quasi ad ogni angolo di un giardino giapponese. “
Seijaku Posizione tranquilla o di calma tensione, silenzio, solitudine.
Questo è legato alla sensazione che si può avere in un giardino giapponese. La
sensazione opposta sarebbe di rumore e disturbo. Come possiamo portare un senso di
“calma attiva” e di quiete negli effimeri modelli al di fuori delle arti Zen?
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Expo Milano 2015
è l’Esposizione Universale che l’Italia ospiterà dal primo maggio al 31 ottobre 2015 e
sarà il più grande evento mai realizzato sull’alimentazione e la nutrizione. Per sei mesi Milano diventerà una vetrina
mondiale in cui i Paesi mostreranno il meglio delle proprie tecnologie per dare una risposta concreta a un’esigenza vitale: riuscire a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto del Pianeta e dei suoi equilibri. Un’area
espositiva di 1,1 milioni di metri quadri, più di 140 Paesi e Organizzazioni internazionali coinvolti, oltre 20 milioni di
visitatori attesi. Sono questi i numeri dell’evento internazionale più importante che si terrà nel nostro Paese.
Expo Milano 2015 sarà la piattaforma di un confronto di idee e soluzioni condivise sul tema dell’alimentazione, stimolerà la creatività dei Paesi e promuoverà le innovazioni per un futuro sostenibile. Ma non solo. Expo Milano 2015 offrirà
a tutti la possibilità di conoscere e assaggiare i migliori piatti del mondo e scoprire le eccellenze della tradizione agroalimentare e gastronomica di ogni Paese. Per la durata della manifestazione, la città di Milano e il Sito Espositivo saranno
animati da eventi artistici e musicali, convegni, spettacoli, laboratori creativi e mostre.
L’importanza del territorio
La cooperazione tra i popoli è fondamentale per raggiungere l’obiettivo di “Nutrire il Pianeta”, garantendo cibo sufficiente e sicurezza alimentare a tutto il mondo.
Expo Milano 2015 sarà il luogo d’elezione per il confronto
sui temi dell’agricoltura, dello sviluppo sostenibile, della
lotta contro la fame per il benessere comune.
Le parole chiave di questo viaggio sono innovazione, risparmio energetico, rispetto dell’ambiente e delle risorse
naturali. I protagonisti di questo dialogo a più voci saranno i Paesi, le Organizzazioni internazionali, la società civile
e le aziende.
“Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” è il Tema al centro
della manifestazione, il filo logico che attraversa tutti gli
eventi organizzati sia all’interno sia all’esterno dello Sito
Espositivo. Expo Milano 2015 sarà l’occasione per riflettere e confrontarsi sui diversi tentativi di trovare soluzioni alle contraddizioni del nostro mondo: se da una parte
c’è ancora chi soffre la fame (circa 870 milioni di persone
denutrite nel biennio 2010-2012), dall’altra c’è chi muore
per disturbi di salute legati a un’alimentazione scorretta
e troppo cibo (circa 2,8 milioni di decessi per malattie legate a obesità o sovrappeso). Inoltre ogni anno, circa 1,3
miliardi di tonnellate di cibo vengono sprecate. Per questo
motivo servono scelte politiche consapevoli, stili di vita
sostenibili e, anche attraverso l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia, sarà possibile trovare un equilibrio tra disponibilità e consumo delle risorse.
La riflessione sul Tema si trasforma anche in un momento
di condivisione e di festa, grazie a incontri, eventi e spettacoli da vivere in compagnia della mascotte Foody e degli
allegri personaggi che la compongono. Ogni aspetto, ogni
momento, ogni Partecipante di Expo Milano 2015 declina
e interpreta il Tema scelto, Nutrire il Pianeta, Energia per
la Vita.
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IL CORAGGIO DI ESSERE NOI STESSI
TOGLI LA MASCHERA CHE INDOSSI E...
Per quanto possiamo essere capaci,
abili ed intelligenti abbiamo bisogno
di essere coraggiosi per affrontare e
superare le situazioni, a volte piacevoli ed a volte impegnative, dure ed
impreviste che la vita ci pone davanti.
Il “coraggio” è quella forza interiore
definita “forza d’animo e di pensiero” che permette a chi ne è dotato di
non sbigottirsi di fronte ai pericoli, di
affrontare con serenità i rischi, di non
abbattersi per dolori fisici o morali,
più in generale, permette di affrontare a viso aperto la sofferenza, il
pericolo, l’incertezza e l’intimidazione
e allo stesso tempo di essere coscienti
e responsabili e quindi di tirarsi indietro quando è necessario. Quindi avere
coraggio non significa non provare
paura ma significa essere pienamente consapevoli della paura ed avere la
forza d’animo per affrontarla.
Il coraggio è di solito determinato da
una predisposizione personale caratteriale o dato dalla forza di disperazione quando è cieco ed incosciente,
tipico di chi si trova in una situazione
disperata.
E’ necessario non confonderlo con
l’essere temerario ovvero con l’essere
sprezzante del pericolo in modo im-
prudente, sconsiderato, avventato,
precipitoso, privo di consapevolezza
e di senso di responsabilità perché
non tiene conto delle conseguenze
delle azioni e non contempla una visione obiettiva delle proprie effettive
capacità.
Da ciò si evince che il saper cedere,
il riuscire ad arrendersi e accettare di dire NO è
dimostrazione
di coraggio e se,
quando si è osservato bene e serenamente la situazione complessiva,
si decide di non affrontare la prova
non ci si deve sentire dei codardi o dei
falliti ma semplicemente realisti e dotati di senso di responsabilità. Essere
responsabili significa che qualsiasi sia
il risultato, buono o cattivo, qualsiasi
cosa accade non può essere imputata
ad altri o a cause esterne, ma solo a
se stessi. Purtroppo, anche se essere
coraggiosi è fondamentale per vivere,
non è possibile diventarlo per imposizione o per comando ma è possibile
divenirlo attraverso l’osservazione
di se stessi, n quanto il coraggio ha
un suo pilastro nell’autostima che si
fonda sulla consapevolezza che nasce
dall’osservazione neutra, serena e
priva di giudizi di se stessi, essenziale
per auto-comprendersi e scegliere di
agire o non agire in modo consapevole.
.....l’ accoglienza è stata molto
calorosa e amichevole questo ci
ha fatto pensare a fare un’ uscita
speciale dedicata a questa Città.
Voglio intanto ringraziare le attività
che hanno appoggiato il progetto
e, quelle che entreranno a farvi
parte.
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cell. 3801453258
Inoltre chi vuole diventare coraggioso
deve abbandonare il pensiero che le
cose vanno sempre allo stesso modo
e non si deve adagiare nell’abitudine
e/o perdersi nella paura di rischiare,
ricordando che anche al migliore prima o poi tocca la sconfitta ma che si
rialza, analizza la situazione, apporta
le opportune variazioni di strategia e riprende
il proprio cammino.
Vero è, che il
rialzarsi richiede di stringere i denti, di resistere al
dolore, alla fatica ed alla disperazione
ma che ne vale sempre la penza. Uno
sforzo impegnativo e gravoso che,
chi si arrende auto-commiserandosi,
mascherando la paura di rimettersi
in discussione e di affrontare il nuovo,
non deve compiere.
Nella società odierna l’essere coraggioso consta sempre più in manifestazioni esteriori tendenti all’apparire e/o all’avere e sempre meno
all’espressione della propria unicità,
umiltà che può avvenire attraverso
l’assunzione di responsabilità delle
proprie azioni, sostenendo e difendendo apertamente, senza reticenze
le proprie opinioni anche a costo di
ricavarne un danno. Si preferisce accettare e seguire le idee della massa o
quanto meno non contrastarle per poi
auto-commiserarsi e sentirsi vittima
di un mondo ingiusto che non potrà
mai cambiare.
Ma seguendo l’onda del più forte, si
abbassa la testa e giorno dopo giorno
si chiude l’anima fino a soffocarla dietro una finta apparenza. Così facendo
si perde l’identità e la libertà. E quando si perdono queste, abbiamo perso
tutto. Non si vive più, non si è più
creativi, si diventa come delle barche
in balia delle onde di un mare in tempesta che le travolgono.
Word by Stefania Trotta
NEWSLETTER 30 GIUGNO 2015
BOKEH
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I
l 1961 fu un anno importante per la Mini soprattutto per il
lancio della Mini Cooper, ovvero la versione sportiva elaborata
da John Cooper (titolare dell’omonimo team di Formula 1). L’elaborazione consisteva, essenzialmente, nell’incremento di cilindrata
da 848 a 997 cm³, nell’adozione di 2 carburatori tipo SU da 1.25, di
freni anteriori a disco e di un assetto rivisto. La potenza di 55 CV (non molti in assoluto) era
sufficiente, abbinata alle straordinarie doti stradali della Mini, a garantire ottime prestazioni. Sempre
nel 1961 vennero realizzati 15 esemplari della Mini in configurazione spiaggina, progettata dall’argentino Ricardo Burzi. Una Austin Mini Cooper S da competizione La Mini Cooper, opportunamente
elaborata, s’aggiudicò la vittoria di classe del rally di Montecarlo del 1963, con alla sua guida il pilota
Timo Mäkinen. Alla fine dello stesso anno le Wolseley Hornet e le Riley Elf adottarono un motore di
cilindrata maggiorata a 998 cm³ e potenza di 38 CV. Sul finire del 1964 tutte le Mini berlina (incluse le
Cooper, le Cooper S e le varianti Wolseley e Riley) adottarono le sospensioni Hydrolastic, già montate
dal 1962 sulle Austin e Morris 1100. Le versioni station wagon mantennero, invece, le sospensioni
d’origine. Con l’occasione la Cooper venne affiancata dalla Cooper S, con motore di 1071 cm³ da 70
CV. La Cooper S (1071 cm³) con potenza portata a circa 85Cv s’aggiudicò il rally di Montecarlo edizione
del ‘64 con alla guida il pilota Patrick Barron “Paddy” Hopkirk. Nel corso del 1964 la gamma Cooper e
Cooper S cambiò ancora, con l’introduzione di una nuova versione per la Cooper “normale” con motore
portato a 998 cm³ (55CV) e la produzione di due nuovi modelli Cooper S 1.0 (970 cm³, 65 CV) e la
Cooper S 1.275 (1275 cm³, 76 CV) che si andarono ad affiancare alla oramai famosa versione da 1071
cm³ (70 CV). La Cooper S 1.275 s’aggiudicò inoltre nuovamente il rally di Montecarlo nel 1965, 1966
(fu tuttavia squalificata per fanali irregolari) e nel 1967, nonché il rally dell’Acropoli del 1967. La Mini
Cooper di Timo Mäkinen La Mini Cooper S 1275 del pilota Rauno Aaltonen e del co-driver Tony ambrose
vinse il Campionato Europeo Rally del 1965 (Il campionato mondiale comparve solo negli anni ‘70).
E’ la più potente delle MINI.Questa John Cooper
Works è la più potente della storia del marchio con
i suoi 231 CV del suo quattro cilindri 2.0 turbo. Il
cambio è un automatico a 6 marce e impiega 6,1
secondi per coprire lo 0-100 km/h.
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a rivista Rolling Stone aveva affidato ad
Annie Leibovitz il compito di immortalare John
Lennon e Yoko Ono nel
loro appartamento nel
Dakota Building a New
York City, in occasione
dell’uscita del loro disco “Double Fantasy”.
La Leibovitz collaborava con la testata già da 10 anni
ed uno dei primi
servizi che Annie
svolse per loro,
a soli 21 anni,
fu proprio a
John Lennon.
Quel ritratto
le valse la
sua prima
cover.
Ricorda la Leibovitz: “Yoko Ono voleva levarsi solo la maglietta ma le consigliai
di rimanere vestita”. Il
commento di John Lennon dopo lo scatto che
li ritrae sul pavimento
fu “hai catturato esattamente la nostra relazione”. Poche ore dopo il
servizio, circa 4, ricorda
Yoko Ono, “Il destino si
abbattè su di noi”. John
Lennon venne ucciso.
Il 22 gennaio del 1981
veniva pubblicato e messo in vendita Rolling Stone, con in prima pagina
quella che fu nominata
la migliore fra tutte le
copertine pubblicate nel
XX secolo. In quell’edizione per la copertina
non ci fu alcun titolo nè
testo, escluso il nome
della testata.
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word Ceruti Paola
“La lezione che ho imparato a fondo, e che desidero trasmettere agli altri, è di conoscere a quale durevole felicità possa condurre l’amore per un giardino.”
Gertrude Jekyll
Gertrude Jekyll
[1843 - 1932]
Designer di giardini e scrittrice di
giardino e di giardinaggio. Ha scritto
più di 1000 articoli, per riviste come
Country life e The garden, e creato
oltre 400 giardini, che si possono ancora oggi ammirare in Gran Bretagna
e Nord America. La sua influenza sul
design del giardino è ancora forte,
grazie alle sue teorie e ai suoi libri
come Bosco e giardino, Ilgiardino dei
colori e Old West Surrey
DIPINGERE CON I FIORI
Nata in una famiglia benestante studia pittura e botanica,scelta molto
inusuale per una donna dell’epoca vittoriana,assimilando i principi
dell’”Art &Craft”,che, uniti alla sua
ecezionale sensibilità artistica e al
suo talento le permettono di elaborare uno stile incofondibile, famoso
per l’utilizzo delle fioriture e dei colori
delle piante come se fossero pennellate di colore stese su un immenso
quadro.
MUNSTEAD WOOD
Miss Jekyll approdò al landscape gar-
den non più in giovane età,quando a
poco più di quarant’anni i medici le
diagnosticarono una forma di grave
e progressiva miopia e le consigliarono di abbandonare le attività che
più la gratificavano e appagavano
la sua espressività , il ricamo, ma soprattutto la pittura (aveva alle spalle
già una carriera ben avviata come
acquerellista); decise perciò di ritirarsi
in campagna ed appoggiandosi caro
amico di famiglia, l’architetto Edwin
Lutyens, si fece costruire una residenza circondata da 15 acri di terreno, la
chiamò Munstead Wood . Arreda il
giardino ispirandosi al preromanticismo di Turner e all’impressionismo di
Monet;alterna fioriture dalle diverse
tonalità fredde, poi calde,poi di nuovo
fredde,creando eccezionali bordure
capaci stupire gli sgurdi ed emozionare l’anima. Nel dicembre del 1900,
la rivista Country Life, dedica un articolo allo straordinario lavoro svolto a
Munstead Wood:
“La regola per ottenere effetti è di
semplice enunciazione ma di dif-
ficile esecuzione: raggruppate audacemente, con un pensiero, tutte
le stagioni e tutti i colori; formatevi
nella mente molti quadri in sequenza, quadri che siano armoniosi in se
stessi e in armonia l’uno con l’altro,
e poi realizzateli. Questo è l’inizio e la
fine di tutta la faccenda, ma è anche
dove entra in campo l’immaginazione dell’artista. Per il resto, le regole
auree sono due e facili da rispettare:
non essere schiavi della pulizia, e non
tentare di far crescere piante che non
amino il terreno del vostro giardino”.
UN NUOVO MODO DI “FARE GIARDINI”
Nasce la teoria tonale:stanze separate
da muretti a secco, pergolati , sentieri
vengono concepiei come quadri realizzati con piante vive, le cui pennellate sono il susseguirsi delle diverse
essenze nelle bordure,studiate per
colore e stagione; giardini naturali ,
rocciosi, acquatici si alternano e si arricchiscono di stagni laghetti, ruscelli,
panchine reglando un’atmosfera idilliaca.
9
UN LAVORO SENZA FINE
A partire dal 1914 Gertrude Jekyll,insieme ell’architetto Edwin Lutyen
portò a termine oltre 400 progetti di
giardini tra Regno Unito, Nord America ed Europa.Fu anche prolifica
scrittrice: scrisse 13 libri ( il primo
fu Home and Garden - Casa e Giardino) , contribuì a libri di altri autori
scrivendone la prefazione e pubblicò
oltre 1000 articoli sugli argomenti di
cui aveva competenza, che apparvero
per lo più in Country Life, The Garden
e Gardening Illustrated, scritti in uno
stile meticoloso, pratico e scientifico,
solamente nell’anno 1930, a più di 86
anni, scrisse 43 articoli per la rivista
Gardening Illustrated).
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P.zza Matteotti, 1
Loreo (RO)
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di Enrica Pezzolato
Baccalà, Sarde in saore, Carne e pesce alla griglia.
ogni settimana offerte stuzzicanti in scaffale
prodotti e souvenir del delta.
Il sabato con il mercato il pollo allo spiedo costa 5€
Z
Ellen Dissanayake, Affiliate Professor presso la University of Washington a Seattle, negli USA,ha trascorso lunghi anni in Sri-Lanka e
Papua Nuova Guinea, a stretto contatto con le popolazioni tradizionali di cacciatori-raccoglitori. Da quest’esperienza “di prima mano”,
che l’ha portata a condividere costumi, lingua, usi di società assai lontane da quella occidentale, ha preso avvio già negli anni Settanta
e Ottanta la sua originale riflessione sull’origine evolutivadelle arti. Nei suoi libri (What is Art For?, del 1988, e Homo Aestheticus: Where
Arts Come From and Why, del 1992) Ellen affronta la questione delle arti muovendo da un originale ripensamento del concetto stesso di
arte, in chiave etologica: “arte” è anzitutto un comportamento, piuttosto che un oggetto o un prodotto, precisamente un comportamento
making special finalizzato cioè alla trasformazione dell’esperienza ordinaria in qualcosa di straordinario, di “speciale”
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