gestire l`economia come se del futuro ci

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L’ECONOMIA DELL’ABBASTANZA
gestire l’economia come se del futuro
ci importasse qualcosa
Coyle_Economia dell'abbastanza.indb 1
07/05/12 11.47
DIANE COYLE
ECONOMIA
DELL’
ABBASTANZA
GESTIRE L’ECONOMIA COME SE
DEL FUTURO CI IMPORTASSE QUALCOSA
Prefazione di Enrico Giovannini
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07/05/12 11.47
Diane Coyle
l’economia dell’abbastanza
gestire l’economia come se del futuro
ci importasse qualcosa
realizzazione editoriale
Edizioni Ambiente srl
www.edizioniambiente.it
titolo originale
The Economics of Enough: How to run the economy as if the future matters
Copyright © Diane Coyle, 2011
Published by Princeton University Press, 41 William Street, Princeton, New Jersey 08540
traduzione: Laura Coppo
coordinamento redazionale: Anna Satolli
progetto grafico: GrafCo3 Milano
impaginazione: Roberto Gurdo
immagine di copertina: Julee Holcombe, Babel Revisited, copyright © 2004
© 2012, Edizioni Ambiente
via Natale Battaglia 10, 20127 Milano
tel. 02.45487277, fax 02.45487333
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi
forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, comprese fotocopie, registrazioni o qualsiasi
supporto senza il permesso scritto dell’editore
ISBN 978-88-6627-032-4
Finito di stampare nel mese di maggio 2012
presso Genesi Gruppo Editoriale – Città di Castello (Pg)
Stampato in Italia – Printed in Italy
Questo libro è stampato su carta riciclata 100%
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sommario
prefazione
di Enrico Giovannini
introduzione
7
15
parte prima sfide
1. felicità 2. natura
3. futuro
4. giustizia
5. fiducia
35
71
103
135
167
parte seconda ostacoli
6. misure
7. valori
8. istituzioni
205
235
265
parte terza manifesto
9. il manifesto dell’abbastanza
293
note
ringraziamenti
bibliografia
crediti fotografici
327
341
343
359
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prefazione
Scrivo questa prefazione sull’aereo per New York, dove domani si terrà,
presso le Nazioni Unite, una conferenza internazionale dal titolo “Felicità e benessere”. Promossa dal governo del Bhutan, la conferenza sarà
aperta dal segretario generale delle Nazioni Unite, vedrà la partecipazione di oltre 600 tra politici, economisti, esperti di questioni sociali e ambientali, nonché molti rappresentanti di organizzazioni non profit provenienti da tutto il mondo.
L’obiettivo della conferenza è quello di immaginare un nuovo “paradigma” per le nostre economie e le nostre società, attraverso il quale migliorare in modo duraturo il benessere del genere umano e la felicità delle
persone. Non so se l’esito della conferenza sarà quello atteso dagli organizzatori, ma è indubbio che essa testimonia (se ce ne fosse ancora bisogno) come il mondo sia alacremente (forse bisognerebbe dire disperatamente) alla ricerca di nuovi modelli analitici e politici che aiutino tutti i paesi, quelli più ricchi come i più poveri, a rispondere alle attese dei
cittadini e degli elettori. In questo momento, infatti, le classiche “ricette” economiche e politiche non sembrano più in grado di promettere alle persone una vita nella quale il miglioramento del benessere materiale
e spirituale non sia una favola da bambini o una condizione cui è destinata solo una minoranza, ma una prospettiva storica concreta per ampie
fasce di popolazione, se non per tutti.
Le crisi che si sono susseguite a partire dal 2007 (alimentare, finanziaria, economica, ora sociale, senza dimenticare quelle generate dal cambiamento climatico) hanno mostrato quanto il mondo che abbiamo co-
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struito sia interdipendente, vulnerabile e fondamentalmente “ingiusto”,
un mondo nel quale alcuni pagano gli errori di altri, magari commessi
a migliaia di chilometri di distanza. Nel quale molti di quelli che hanno
sbagliato sono comunque “caduti in piedi”, mentre altri sono stati precipitati in difficoltà di cui avevano sentito parlare solo nei film e nei libri. Nel quale “cambiare il sistema” (come si sarebbe detto una volta) richiede ancora il sacrificio di persone che si danno fuoco o cadono sotto i colpi di fucile. Nel quale chiamiamo “catastrofi naturali” anche gli
eventi dovuti a errori umani, di cui Madre Natura e migliaia di persone
porteranno i segni per decenni.
È in questo scenario che si colloca il libro di Diane Coyle, il quale riprende alcuni dei temi da lei già trattati nel passato, sviluppandoli ulteriormente alla luce della crisi e del dibattito in corso sui cambiamenti necessari per evitare che la storia si ripeta uguale a se stessa, ivi compreso quello dedicato alla misura del successo delle nostre economie e delle nostre
società, meglio noto come la necessità di andare “oltre il Pil”. Ed è forse
proprio per il ruolo che negli ultimi dieci anni ho personalmente svolto
per promuovere nuove misure del benessere (a cui l’autrice, peraltro, fa
cenno nell’ultimo capitolo) che l’editore mi ha gentilmente proposto di
scrivere questa prefazione. D’altronde il sottotitolo del libro tocca proprio la questione chiave della dimensione politica (nonché di quella individuale) delle scelte quotidiane, cioè la presunta capacità di decidere come se il futuro contasse davvero. Non a caso la Coyle mette (giustamente) in dubbio la capacità degli statistici di misurare senza errori lo stato
e l’evoluzione dell’economia, della società e dell’ambiente incorporando
anche i costi e i benefici futuri delle attività che svolgiamo quotidianamente, e cita proprio le problematiche della misurazione come il primo
ostacolo alla realizzazione del futuro che prefigura nel libro, basato sui
concetti di felicità, natura, posterità, giustizia e fiducia.
La costruzione di una “economia della sufficienza” come quella proposta dalla Coyle nasce dal riconoscimento delle sfide che la società odierna
si deve porre rispetto a questi cinque concetti: come essere in disaccordo sul fatto che la società che vogliamo debba tendere a consentire agli
individui di ricercare la felicità (come scritto nella costituzione america-
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na), debba condurre al rispetto della natura, all’attenzione per chi verrà
dopo di noi, alla giustizia e alla fiducia? Ma come dissentire da chi ci ricorda che non sempre le nostre società e le nostre economie mettono in
pratica azioni concrete che vanno in questa direzione? In un saggio recente, il politologo tedesco Claus Offe ci ricorda che:
Mentre le élite politiche determinanti, insieme ai loro consulenti tecnocratici e agli staff amministrativi, possono rappresentare se stesse come coloro che guidano la marcia verso il progresso e vantarsi di
avere conseguito risultati quantitativi di riferimento su tassi di crescita, impieghi, bilance dei pagamenti, ripartizione del reddito, finanze dello Stato, ecc., la questione di ciò che bisogna evitare e impedire deve, al contrario, essere risolta tenendo conto della situazione dei
cittadini normali e della loro valutazione degli effetti secondari negativi del progresso economico...
...Il primo dilemma del progresso consiste dunque nel fatto che noi
continuiamo a fare cose di cui è evidente che in futuro, a posteriori,
ci dovremo pentire – e questo tanto sul piano tecnico-materiale quanto su quello della prospettiva morale. Se proseguiamo ad applicare simili criteri obsoleti, continueremo e fare cose che in coscienza non
possiamo fare, cioè che non possiamo fare con un giudizio imparziale sulle conseguenze prevedibili del nostro agire...
Ovviamente, la Coyle si schiera dalla parte di chi pensa che un mondo
diverso sia possibile, anzi indispensabile per assicurare alla razza umana
un futuro degno di questo nome, e soprattutto alle cosiddette “economie industrializzate”, cioè alla parte più ricca del pianeta. In questo mi
sento molto vicino all’autrice, tanto più che, ormai trent’anni fa, decisi
di fare l’economista proprio dopo aver letto un libro che descriveva i rischi che il mondo avrebbe corso intorno al 2020 in termini di crisi economiche, rivolgimenti sociali, guerre per il possesso delle risorse scarse,
ecc. E in questi trent’anni, vissuti da studioso e cittadino del mondo, ho
avuto modo di vedere come l’umanità sia stata capace di grandi cose, di
gravi errori e di orrori indicibili, anche nella ricca e colta Europa (si pen-
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si al dramma della ex Jugoslavia). Tutto ciò mi ha portato a concordare
con quanto sostenuto da Massimo Salvadori:
Il Progresso in cui possiamo sperare se intendiamo perseguire un vivere e un ordine civile è unicamente un Progresso difficile, non garantito se non da ciò che siamo capaci di mettere nella sua bilancia,
è un Progresso i cui lumi – e qui dobbiamo pagare un immenso tributo ai Padri illuministi – possono essere accesi o spenti da noi stessi... Sta alla nostra ragione e al nostro senso di responsabilità evitare
di essere trascinati in una notte da noi stessi creata che potrebbe essere senza ritorno.
Se, dunque, sta a noi evitare il baratro e costruire un mondo migliore, la
Coyle ci propone un percorso difficile e complesso, in cui i cinque punti
prima citati devono essere affrontati insieme, in un quadro coerente fatto di profonde innovazioni in tre ambiti, tra loro interconnessi: i sistemi di misurazione del progresso delle nostre società, il sistema di valori,
il funzionamento delle istituzioni. Nel primo ambito, si tratta di superare i limiti degli attuali concetti economici e statistici di “produzione”,
“mercato”, “ricchezza”, sviluppando nuovi strumenti statistici in grado
di dar conto di tutti gli aspetti del funzionamento delle nostre economie
e delle nostre società, affiancando al Pil indicatori affidabili (per citare
solo alcuni aspetti) del contributo che il lavoro domestico fornisce al benessere delle persone, del valore effettivo dei servizi e dei cosiddetti “beni immateriali”, che così tanto contribuiscono allo sviluppo delle persone (si pensi alla conoscenza e alle relazioni interpersonali), del “capitale sociale”, cioè delle attività e delle relazioni che garantiscono il funzionamento di una società. In questo campo molto si sta facendo, ma molto di più si deve fare, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Il vincolo principale, lo ricorda la Coyle, sono le risorse destinate alla statistica
– bene pubblico e strumento di conoscenza aperta a tutti – decisamente
insufficienti, soprattutto in quei paesi.
Particolarmente limitata è la disponibilità di indicatori delle diverse forme di capitale (economico, umano, naturale e sociale), attraverso cui le-
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gare le decisioni odierne con quelle di domani. Se per aumentare oggi il
Pil un paese distrugge le sue risorse naturali, oppure semplicemente aumenta il debito, o finanzia un programma di assistenza sanitaria insostenibile sul piano finanziario, o si dimostra incapace di amministrare la
giustizia penale o civile, allora quel paese sta “rubando” risorse alle future generazioni per appagare i bisogni della generazione attuale, cioè si
sta “mangiando il capitale” come si direbbe di chi vive al di sopra delle
proprie possibilità vendendo i gioielli di famiglia. Ma la indisponibilità
di statistiche sulle diverse forme di capitale consente ai politici e agli individui di proseguire in questi comportamenti senza rendersene conto o
senza dover renderne conto all’opinione pubblica.
Secondo la Coyle, e sono perfettamente d’accordo con lei, l’indisponibilità di statistiche adatte ad “attualizzare” l’effetto futuro dei nostri comportamenti odierni provoca effetti a catena su tutta la filiera delle decisioni: com’è noto, gli esseri umani cercano di misurare quello a cui tengono e pongono attenzione a quello che misurano. L’assenza di misura provoca una distorsione nei “valori” di riferimento cui una società si
ispira, perché le statistiche rendono evidente quello che altrimenti resterebbe nascosto: così come oggi è più difficile condurre una guerra perché la televisione ce ne mostra immediatamente gli effetti, analogamente è più difficile sostenere la necessità di politiche economiche recessive
perché le statistiche ci dicono quanti imprenditori o lavoratori si suicidano per non essere in grado di pagare i loro debiti. Ma l’assenza di misure affidabili di sostenibilità economica, sociale e ambientale rende meno
attuale il futuro, spingendoci a prendere decisioni che, come dice Offe,
non dovremmo prendere “in base a un giudizio imparziale sulle conseguenze prevedibili del nostro agire”.
Cambiare le istituzioni richiede tempo ed è per questo che la Coyle ritiene
urgente cominciare il prima possibile a mettere in pratica nuovi modelli
di governance, in cui la partecipazione dei cittadini sia più forte di quanto finora realizzato nelle società democratiche attraverso il classico sistema della delega basata sul voto. L’uso di internet è visto come una grande opportunità per coinvolgere i cittadini nella presa di decisioni lungimiranti e basate su una migliore conoscenza dei fatti. Anche la creazione
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di nuove istituzioni volte a valutare l’effetto futuro delle decisioni odierne e a influenzare la pubblica opinione nel momento delle scelte aiuterebbe ad allungare l’orizzonte delle politiche. Ma anche la corporate governance va ripensata, rivedendo il sistema di incentivi dei manager, troppo orientati al conseguimento di risultati di breve termine, a scapito della
sostenibilità e della responsabilità dell’impresa nei confronti della società.
Nel “decalogo” con cui conclude il libro, la Coyle ricorda anche la necessità di evitare che la distribuzione delle risorse economiche tra diversi gruppi sociali mini la solidità del sistema. Gli squilibri tra poveri e ricchi hanno raggiunto livelli inimmaginabili e questo mette a rischio la
coesione sociale e il futuro stesso del capitalismo democratico. Citando
la testimonianza di alcuni banchieri, il libro ci ricorda come molti manager non siano più preoccupati di fare le cose “giuste”, ma quelle che
sono “ammesse” dalla legge, e quindi hanno perso di vista il fine ultimo per cui banche e imprese esistono, che non consiste nel fare diventare immensamente ricchi i loro dirigenti, ma creare benessere per l’intera società. L’etica, ci ricorda la Coyle, deve tornare a essere la base dei
comportamenti di tutti, soprattutto dei politici e di chi è in grado di determinare i destini di milioni di famiglie e individui.
Leggendo il libro sono sicuro che a molti verrà in mente la seguente domanda: ma perché non si mette in pratica quello che la Coyle ci propone? L’interrogativo è chiaramente sbagliato. Quello giusto dovrebbe essere: ma perché non mettiamo in pratica quello che la Coyle ci propone?
Eh sì, perché il cambiamento di cui si parla deve partire da noi, dal nostro modo di osservare la realtà o di disinteressarci di essa, di consumare
o di risparmiare, di votare o di astenerci dall’esercitare il nostro dirittodovere, di educare le nuove generazioni, di lavorare e di curare i rapporti sociali, di gestire i rifiuti che la nostra famiglia produce, e potrei continuare a lungo. Naturalmente, la politica ha le sue responsabilità, prima tra tutte quella di non riuscire a elaborare una nuova e convincente idea su come dovrebbero funzionare il sistema economico e la società, di farne un obiettivo condiviso e di metterla in pratica. Per fare questo c’è bisogno di un salto culturale straordinario, non solo in chi offre
piattaforme politiche, ma soprattutto in chi le richiede.
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prefazione
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Da questo punto di vista l’Italia non parte da zero. Per esempio, nella rilevazione che l’Istat ha svolto nel 2011 chiedendo ai cittadini quali solo gli elementi più importanti ai fini del loro benessere, la “possibilità
di assicurare un futuro dei figli dal punto di vista economico e sociale”
compare al secondo posto della graduatoria, dopo la salute e prima di
avere un lavoro o un buon reddito. Ma l’Italia è anche uno dei tanti paesi che, seguendo le indicazioni del “Progetto Globale per la misura del
progresso delle società” che lanciai quando ero Chief Statistician dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), ha avviato la misura del “benessere equo e sostenibile”, mettendo in pratica il
primo comandamento del “decalogo” della Coyle, nonostante l’insufficienza dei fondi dedicati alla statistica, pari a circa la metà di quello che
viene investito in altri paesi europei (l’aumento delle risorse per gli istituti nazionali di statistica è la seconda azione indicata come prioritaria
dall’autrice). Ancora, l’Italia ha avuto per molti anni una propensione
al risparmio molto elevata, il che ha consentito alla generazione attuale di poter fronteggiare meglio la crisi degli ultimi anni, attingendo alla
ricchezza accumulata dalle precedenti, senza peraltro ricorrere a un elevato livello di indebitamento privato. Quindi si trova già culturalmente orientata a mettere in pratica, almeno parzialmente, il terzo comandamento della Coyle, che prevede anche la creazione di sistemi pensionistici e di tassazione ambientale tutti orientati al riequilibrio delle convenienze in un’ottica intergenerazionale. L’Italia sembrerebbe, quindi,
possedere alcune delle precondizioni necessarie per attuare la rivoluzione che la Coyle propone. E ciò nonostante le difficoltà odierne, o forse
proprio a causa di queste ultime.
Vorrei concludere questa prefazione con il riferimento a un’altra delle
azioni che l’autrice inserisce nel suo decalogo e che si sposa perfettamente con la proposta che ho più volte avanzato in diverse audizioni parlamentari: la creazione di un’istituzione che valuti, ex-ante ed ex-post,
l’efficacia delle politiche pubbliche nell’ottica del progresso della società,
cioè del loro impatto su quello che chiamiamo “benessere equo e sostenibile”. Mentre altri paesi si sono dotati di un tale strumento, nel quadro istituzionale italiano manca un’istituzione indipendente in grado di
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valutare gli effetti, soprattutto in un’ottica intergenerazionale, dei nuovi provvedimenti legislativi assunti a livello nazionale o locale. Soprattutto in un momento in cui le risorse pubbliche sono estremamente ridotte, sarebbe fondamentale che esse siano destinate a quegli interventi
i cui effetti positivi risultino massimi non solo sulla generazione attuale,
ma anche su quelle future.
Se disponessimo di statistiche adatte per valutare il benessere, anche in
un’ottica intergenerazionale, nonché di modelli di valutazione delle politiche e di una istituzione indipendente che li utilizzi prima dell’adozione di riforme di ampia portata (e poi successivamente per valutarne gli
effetti), sono convinto che il dibattito pubblico farebbe uno straordinario salto di qualità, e con esso la politica e anche i comportamenti individuali. Basterebbe decidere che una piccola frazione dell’ammontare di
risorse interessato dalla normativa (diciamo l’1%) sia destinato allo sviluppo delle statistiche e dei modelli di valutazione sulla materia oggetto di quest’ultima. Non mi sembra di parlare di, come direbbero gli anglosassoni, “scienza missilistica”, ma di un obiettivo a portata di mano,
che realizzerebbe ben tre delle dieci azioni proposte dalla Coyle. Sarebbe un inizio niente male.
Prof. Enrico Giovannini
Presidente dell’Istituto nazionale di statistica
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introduzione
A metà settembre 2007 mia sorella mi telefonò per chiedermi se avesse
dovuto chiudere il proprio conto corrente e mettere altrove i propri
risparmi e, in questo caso, dove sarebbero stati al sicuro. Era cliente
della Northern Rock e in quei giorni si era scatenata una vera e propria
fuga dalla banca. L’istituto non riuscì a soddisfare le richieste dei propri
clienti e dovette chiedere contante in prestito alla Banca d’Inghilterra.
I telegiornali mostravano file di correntisti terrorizzati che speravano di
riuscire a ritirare i propri risparmi. Si trattò della prima fuga da una banca
nella storia del Regno Unito. Le dissi che lo stato avrebbe rimborsato i
correntisti e che qualsiasi altra azione sarebbe stata un suicidio politico.
Mia sorella ignorò il mio consiglio (che alla fine si rivelò giusto) e si unì
alla coda davanti alla sua filiale locale. Per quanto riguarda la Northern
Rock, alla fine lo stato britannico ne assunse il controllo.
Nel settembre del 2008 fallì la banca di investimenti Lehman Brothers.
Nel giro di un paio d’anni, mentre i mercati finanziari crollavano in tutto il
mondo, divenne chiaro che questa bancarotta minacciava di far collassare
l’intero mercato finanziario mondiale come un castello di carte. Le banche
non sapevano se sarebbero state rimborsate per le transazioni nelle quali si
erano impegnate e che attraverso una serie di collegamenti estremamente
complessi potevano ricondurre alla Lehman. La fiducia tra le banche stesse
svanì nel giro di una notte. Il mercato interbancario, motore del sistema
finanziario, si bloccò. Per una settimana intera mi recai al bancomat per
prelevare quanto concesso dal mio massimale giornaliero. Dato che il
mercato interbancario aveva smesso di funzionare, era plausibile che la
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stessa cosa potesse accadere a quel sistema di compensazioni e accordi fra
le banche che rende possibili i pagamenti quotidiani attraverso le carte
di credito, i bancomat o gli assegni. Andare a fare la spesa, fare acquisti
online o pagare le bollette sarebbe diventato impossibile. Le aziende non
sarebbero state in grado di pagare reciprocamente le merci ordinate. Gli
stipendi non sarebbero stati accreditati sui conti correnti. L’economia si
sarebbe arrestata. Un anno dopo la Banca d’Inghilterra confermò che si
era andati terribilmente vicino a questa catastrofe. Il sistema finanziario
è all’apice della fiducia che presidia al buon funzionamento di tutte le
economie e di tutte le società. Quella fiducia era quasi svanita.
Questo non è un libro sulla crisi finanziaria, ma la crisi ha portato molte
persone a porsi domande fondamentali sull’organizzazione dell’economia
e su quali siano i legami fra economia e il tipo di società in cui vorremmo
vivere. L’Economia dell’abbastanza si occupa di come far sì che le politiche
dei governi e le azioni degli individui e delle imprese private siano più
utili a tutti nel lungo termine, e di come assicurarci che le conquiste del
presente non siano raggiunte a spese del futuro. Tratta di come gestire
l’economia tenendo in considerazione il futuro.
Per almeno una generazione le cose non sono andate esattamente così.
Le economie occidentali si trovano di fronte a una sconcertante serie
di problemi, tutti politicamente difficili da affrontare. In più, queste
difficoltà si sommano a un contesto di incertezza globale, a un mondo
instabile in cui gli equilibri di potere stanno cambiando mentre, ovunque
volgiamo lo sguardo, sembrano sorgere nuove minacce. Al momento, non
disponiamo né di analisi della situazione in atto né di realtà istituzionali
che ci permettano di affrontare queste sfide economiche e sociali
apparentemente irrisolvibili. Ma quello che è ancora più importante,
manca il contesto politico nel quale discutere cosa fare. Mentre in molti
paesi la maggioranza degli intervistati nei sondaggi di opinione dichiara
di non fidarsi dei politici e delle istituzioni, non esistono un processo
o una visione politica che possano aiutarci a raggiungere un accordo
democratico sulle azioni da intraprendere. La politica sembra ridurre
tutto a una questione di competenza manageriale (quale partito o leader
sarà il più capace?) oppure tende a inasprire il contrasto tra i partiti, per
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introduzione
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cui ciascuno attacca gli altri indipendentemente dalle questioni pratiche.
Mi occuperò quindi anche della politica dell’abbastanza, ossia del tipo
di dibattito che dovremmo condurre sulle sfide economiche e sui modi
per risolverle.
Affrontare quest’ultimo aspetto è per certi versi ancora più urgente di
quanto sia l’analisi delle questioni economiche. L’esperienza del passato
suggerisce infatti che, se la politica non è in grado di proporre una via di
uscita dalle difficoltà in tempi di grande cambiamento e incertezza, possono
prendere piede risposte irrazionali e violente. Le similitudini economiche
tra l’attuale recessione post-crisi e la Grande depressione non sono certo
incoraggianti, specie se dovesse rivelare possibili paralleli politici. È ormai
un luogo comune affermare che la divisione tra schieramenti politici di
destra e di sinistra è superata. Io non sono certa che sia completamente
vero, ma è certo che né la destra né la sinistra hanno al momento una
chiara visione di quello che potrebbe essere un nuovo percorso politico.
Comunque, prima della fine di questo libro, la portata radicale di alcune
delle scelte politiche che ci aspettano sarà un po’ più chiara.
la sfida dell’economia
Anche se mentre scrivo ci sono timidi segnali (forse provvisori) di ripresa, il
sistema bancario continua a reggersi sulle misure di aiuto varate dagli stati
e promosse insieme a una parziale nazionalizzazione. La crisi finanziaria
potrebbe ancora aggravarsi, dato che dipende per esempio da fattori quali
la capacità di stati europei (come la Grecia) di ripagare i propri debiti,
o da quanto sono alti i tassi di disoccupazione e per quanto tempo si
manterranno su livelli elevati. Dire che l’economia è in grossi guai è
dire poco. Qualsiasi recessione è indesiderabile anche perché comporta
la perdita di posti di lavoro, e quella attuale non è stata una recessione
qualsiasi. La crisi del sistema bancario l’ha resa la più grave dai tempi
della Grande depressione. Il processo di ripresa sarà lento e faticoso,
comporterà tagli nella spesa pubblica, aumenti delle tasse e un enorme
debito pubblico che graverà su molti paesi. Non si discute sulla bontà
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dei tagli alla spesa pubblica, piuttosto occorre riflettere sulla loro portata
e sui tempi della loro applicazione. È difficile capire come fare a creare
posti di lavoro nei prossimi anni.
La storia del capitalismo è costellata di crisi finanziarie. Molte sono
state brevi e di scala ridotta, mentre altre sono finite nei libri di storia
come grandi catastrofi, dalla South Sea Bubble del 1720 alla crisi del
1929, fino a quella che stiamo ancora attraversando.1 Parte dell’attuale
dibattito sul valore del capitalismo riguarda esattamente questa sua
costante vulnerabilità alle crisi e l’alternarsi di momenti di espansione
e di contrazione. Le economie di mercato sono instabili. Il prezzo da
pagare per la corsa continua al benessere è l’incertezza sul futuro. In realtà,
sebbene la crisi finanziaria abbia spinto molti a riflettere sulla pericolosità
di questa instabilità, vi sono oggi molti seri problemi che tutte le maggiori
economie del mondo devono fronteggiare.
Come se non bastassero le ricadute della crisi finanziaria, la popolazione
mondiale sta invecchiando rapidamente, per cui le pensioni e le
spese sanitarie peseranno ancor di più sulle spalle di chi lavora. La
percentuale della popolazione lavorativa è in diminuzione in molti
paesi. Indipendentemente dalla specifica struttura finanziaria e dal fatto
che le pensioni e l’assistenza sanitaria siano finanziate dallo stato o dal
settore privato, le persone che non lavorano devono essere sostenute
da quelle che lo fanno. In ogni paese dell’Ocse l’invecchiamento della
popolazione farà inesorabilmente crescere le spese degli stati, perché il
sostegno alla popolazione anziana è universale, che avvenga attraverso il
pensionamento, il sovvenzionamento dell’assistenza sanitaria, o attraverso
altre forme di assistenza sociale. La generazione che ha combattuto la
Seconda guerra mondiale è stata giustamente ricompensata per i sacrifici
compiuti e questa ricompensa comprende molti servizi offerti dallo stato.
I loro figli, la generazione del baby boom, hanno esteso questo sistema
di pensioni e assistenza sanitaria e ne stanno traendo ampi vantaggi. I
benefici di cui godono vengono pagati grazie a un crescente indebitamento
pubblico, parte del quale è dichiarato, mentre molto è invece implicito
nelle promesse dei servizi che verranno pagati dallo stato. Queste promesse
verranno quasi certamente disattese.
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introduzione
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In alcuni paesi, in particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito, lo
scontro politico che deriverà da queste pressioni fiscali andrà a sovrapporsi
alle fratture causate dalla grande e crescente disparità di reddito e di
ricchezza. Anche se con caratteristiche diverse, negli ultimi venticinque
anni in entrambi i paesi la diseguaglianza è cresciuta a livelli che non si
registravano dall’inizio del XX secolo. In alcune economie sviluppate,
ma con una crescita meno impetuosa, si registrano addirittura livelli di
diseguaglianza superiori. È vero che tra i vari paesi esistono differenze
sottili e complesse, ma nell’insieme si registra un contrasto tra il periodo
post bellico, in cui c’era una convergenza dei redditi dovuta all’enfasi posta
sull’equità sociale ed economica, e la situazione di disparità più estrema
degli inizi del XXI secolo. Ciò ha portato a una perdita di identità sociale
tra i diversi gruppi della popolazione e a un indebolimento dei legami
che favoriscono una società sana e un’economia dinamica.
Che dipenda o meno dalla maggiore disparità, in molti paesi ricchi si è
verificata una drammatica perdita di fiducia, di coesione o di “capitale
sociale” come viene a volte chiamato. Ciò si manifesta in forme diverse, il
che evidenzia che si tratta di un problema diffuso. Ve ne sono testimonianze
nella pratica politica, con la tendenza al calo di partecipazione alle elezioni,
o attraverso ciò che la popolazione dichiara nei sondaggi sulle istituzioni
politiche. È poi crollata la fiducia nei confronti di figure professionali
e di istituzioni un tempo molto apprezzate: dai giornalisti alla polizia,
dalle autorità locali alle grandi aziende. In quasi tutti i sondaggi condotti
nei paesi ricchi è in calo la percentuale delle persone che dichiarano
che in generale ci si può fidare del prossimo. Anche se il quadro varia
ampiamente tra i diversi paesi, per esempio come si desume dal tasso di
criminalità, dal numero di gravidanze precoci o dall’indice di mobilità
sociale, si può a ragione generalizzare affermando che in linea di massima
le persone in Occidente sono sempre meno disposte a fidarsi dei propri
concittadini.
E poi naturalmente c’è la questione dei cambiamenti climatici, a cui
si affianca il dibattito sulla misura in cui ciascuna economia dovrebbe
trasformarsi per evitare effetti catastrofici sul clima e sull’ambiente. In
questo libro potrò occuparmi solo di alcuni aspetti di questa discussione,
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l’economia dell’abbastanza
che sta diventando sempre più aspra e controversa. Qualcuno nega del
tutto che l’uomo sia una delle cause del climate change. Altri discutono
della misura in cui la minaccia dei mutamenti climatici dovrebbe farci
cambiare stile di vita o spingerci a investire in nuove tecnologie. Questo
non è un libro sull’ambiente o sul clima, e quindi cercherò di evitare di
trarre conclusioni specifiche sulle controversie ambientali. I lettori avranno
le proprie opinioni, ma penso che tutti concorderanno sul fatto che quella
ambientale è una componente importante del dibattito sull’organizzazione
dell’economia e su quanto questa soddisfi i nostri scopi.
la crisi del capitalismo contemporaneo
Queste sfide sono collegate fra loro.
Ogni generazione ha assistito a una crisi del capitalismo, all’emergere di
un insieme di problemi che derivano da cambiamenti tecnologici e sociali
profondi. Ciò si verifica quando le istituzioni e le regole che determinano
come vengono organizzate le società del mondo moderno non riescono
a stare al passo con il modo in cui le persone agiscono nel quotidiano, a
come lavorano, spendono, investono e risparmiano. La percezione della
crisi arriva poi a maturazione grazie a una causa scatenante; nella metà
degli anni Settanta fu l’aumento del prezzo del petrolio nei paesi dell’Opec
e nel 2008 il quasi-collasso del sistema finanziario globale.
L’attuale fragilità strutturale messa in luce dalla crisi delle banche ha
radici profonde, che affondano nella spettacolare serie di innovazioni
tecnologiche che si è verificata a partire dalla fine degli anni Settanta,
ossia la rivoluzione nel settore delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione (ICT, dall’inglese Information and Communications
Technology). Il settore finanziario è l’esempio più evidente di come le
ICT abbiano trasformato gli affari e le relazioni economiche. I mutamenti
tecnici hanno ridefinito relazioni esistenti da lungo tempo in tutto il
settore economico, distruggendo posti di lavoro e aziende e creandone
di nuovi. Buona parte di questo fermento è stato mediato dal sistema
finanziario. In più le nuove tecnologie delle comunicazioni e dei computer
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introduzione
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hanno trasformato la finanza, rendendola un velocissimo amplificatore
di shock che si trasmettono a tutta l’economia globale.2
La rapidità con cui si sono diffusi computer e telefoni cellulari non
ha precedenti nella storia. È impossibile prevedere quale sarà il loro
impatto sul mondo, proprio come al tempo della nascita del torchio da
stampa di Gutenberg sarebbe stato impossibile predire il Rinascimento
e l’Illuminismo. Ma la diminuzione dei costi delle nuove tecnologie,
un indicatore del ritmo di diffusione di un’innovazione, e le stime del
loro effetto sulla crescita economica, mostrano che la loro introduzione
ha avuto un peso molto più significativo di qualsiasi altra innovazione
tecnologica del passato, come la macchina a vapore o la ferrovia.3
Inoltre, le ICT esercitano un’influenza fondamentale sul modo in cui
viene organizzata l’economia, su cosa produce e sui beni e i servizi che le
persone possono acquistare. Per esempio, il minor costo dell’accesso alle
informazioni rende l’organizzazione a gerarchia centralizzata un sistema
poco vantaggioso per gestire un’azienda o un servizio pubblico. È invece
più efficiente decentralizzare i processi decisionali così che, grazie alla
maggiore accessibilità delle informazioni, i singoli siano in grado di
decidere in proprio, meglio e di pervenire a risultati ottimali. Questo
è il motivo per cui nelle grandi aziende l’impostazione gerarchica degli
anni Sessanta e Settanta è stata sostituita da organizzazioni a matrice e a
network; mentre altri settori, come quello pubblico, ritardano ancora a
cambiare approccio.4
Le nuove tecnologie sono anche tra i motori della globalizzazione. Sebbene
la politica abbia dato un forte impulso alla deregulation e alla maggiore
apertura delle frontiere, senza le ICT non si sarebbe mai verificato quel
gigantesco movimento globale di beni e di persone che è avvenuto negli
ultimi venticinque anni. Se gli impatti della globalizzazione e delle ICT
sono diventati potenti e strettamente legati, a livello dei singoli paesi
la loro gestione politica è stata invece inadeguata e, a oggi, esistono
pochi organismi politici e internazionali capaci di affrontare queste
problematiche; basti pensare alle difficoltà incontrate per raggiungere
accordi internazionali sui cambiamenti climatici, o per stabilire nuove
regole per il sistema bancario.
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l’economia dell’abbastanza
Fattore ancora più importante, la diffusione delle nuove tecnologie fa sì che
la fiducia abbia sempre più peso per il buon funzionamento dell’economia.
Qualsiasi transazione che vada oltre il baratto e lo scambio diretto deve per
forza basarsi sulla fiducia, poiché i beni e i servizi scambiati sono lontani
gli uni dagli altri nello spazio e nel tempo. Oggi queste distanze e catene
di connessioni si sono ulteriormente estese. Nell’economia moderna la
fiducia è a un tempo più essenziale e più fragile. Le istituzioni politiche
ed economiche esistenti non si sono ancora adattate all’innovazione
tecnologica, e sarà quindi essenziale far nascere altre istituzioni fondate
sulle nuove tecnologie per rafforzare la fiducia; sia la fiducia che riponiamo
gli uni negli altri, sia la fiducia che ciascuno di noi può avere rispetto alle
prospettive future.
Per riassumere, le economie avanzate, che sono l’oggetto di questo libro, si
trovano di fronte a una serie di sfide che nell’attuale contesto istituzionale
non hanno trovato risposta. Il processo di formulazione delle politiche
non funziona più bene. Le politiche economiche tradizionali tendono
ad allontanare il momento in cui una pratica insostenibile si rivelerà per
quello che è. Ciò è stato possibile perché si è preso in prestito in modo
massiccio dal futuro, sia con l’accumulo del debito per finanziare le
spese correnti sia con l’impoverimento delle risorse naturali e del capitale
sociale. Il mantenimento dei nostri livelli di benessere sta avvenendo a
spese del futuro, e ciò è sempre più evidente. Meno ovvio è quello che
possiamo fare per evitare che questo si verifichi. Da un lato ciò richiederà
la ricerca di soluzioni all’altezza delle sfide poste dall’economia, e dall’altro,
la definizione delle modalità che ne consentiranno la messa in opera.
Individuare queste modalità è fondamentale, dato che la fiducia sociale
è stata corrosa da quelle stesse condizioni che hanno causato la crisi
dell’economia.
La crisi economica è fondamentalmente anche una crisi politica. Non può
essere affrontata senza una riforma del sistema politico che riesca a rendere
accettabili e a legittimare le difficili decisioni che andranno assolutamente
prese. Non si può trascurare il fatto che in tutti i paesi siano diffuse
l’apatia, il cinismo, la mancanza di fiducia e il disprezzo nei confronti
della politica. Questi atteggiamenti purtroppo stanno minando la volontà
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di molte persone di talento attive in politica (ve ne sono davvero). Se da
una parte è difficile dare forma a istituzioni e processi di elaborazione
politica che raggiungano il consenso, come si richiede nelle democrazie,
è poi altrettanto difficile riformarli. I tentativi di riforma tendono ad
aggiungere complessità su complessità. Il funzionamento della politica e
delle istituzioni di una qualunque delle democrazie esistenti mi ricorda
il regno gotico di Gormenghast dei romanzi di Mervyn Peake: un luogo
fossilizzato fino alla paralisi da vecchie tradizioni che si sono accumulate
l’una sull’altra come una massa di stalattiti. Questa sclerosi istituzionale
è di ostacolo a politiche efficaci.
Alcuni temevano che la severità della crisi e la successiva recessione
avrebbero aperto la strada a un definitivo mutamento del quadro politico,
portando a una crisi del capitalismo che avrebbe favorito la sinistra.
Questo non è accaduto, anche perché i politici di sinistra non hanno
saputo proporre una chiara alternativa. In pratica la crisi ha colpito tutto
il sistema. Come spiega il politologo americano Benjamin Barber: “Ci
sono momenti della storia che sono epici, e in genere questi momenti
sono catalizzati da catastrofi che sfociano in mutamenti politici radicali...
Oggi stiamo vivendo uno di questi momenti critici. Saremo capaci di
farne tesoro per ripensare il significato del capitalismo?”.5
felicità, benessere sociale e crescita economica
Una delle reazioni alla crisi è stato sostenere che dovremmo voltare le spalle
alla crescita economica. In fin dei conti, la crescita minaccia il clima ed
erode la disponibilità di risorse naturali, ed è sempre la prospettiva offerta
dall’idea di crescita a spingere le persone a indebitarsi. Inoltre, molti si
sono persuasi che, a giudicare da ciò che avviene nei paesi ricchi, non vi
sia un legame diretto tra crescita economica e felicità. Se ciò fosse vero,
offrirebbe una via di uscita almeno da una parte dei nostri problemi.
Secondo i sostenitori di questa tesi, basterebbe convincere le persone ad
abbandonare l’idea che la crescita economica sia necessaria al loro benessere
per attenuarne le conseguenze ambientali o socioculturali più nefaste.
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l’economia dell’abbastanza
Si sarebbe potuto pensare che l’impatto della recessione (quando per
definizione non c’è crescita) avrebbe offerto a questi sostenitori della
“felicità” l’occasione per una pausa di riflessione. L’assenza di crescita
sembra infatti rendere infelici molte persone e, forse, dovremmo essere
più cauti nell’affermare il contrario. Esistono numerose ricerche riguardo
ai fattori che rendono felici le persone. Il movimento per la “psicologia
positiva” sottolinea l’importanza dell’impegno sociale, di un lavoro
appassionante e della libertà, in accordo con le ricerche che indicano che
l’impiego, il matrimonio, la partecipazione religiosa e le libertà politiche
insieme al reddito sono importanti indicatori di felicità. Tutto ciò sembra
piuttosto sensato e plausibile, e può portare a politiche che mirano a
combattere la disoccupazione, a salvaguardare le libertà politiche e a
facilitare l’inclinazione naturale delle persone a crearsi una famiglia.
L’affermazione che poiché la felicità non aumenta nel tempo in proporzione
al Pil e che di conseguenza la crescita del Pil non renderebbe più felici le
persone, suscita perplessità. Questa è un’affermazione importante che si
basa sull’attribuzione al Pil, un indice che può crescere illimitatamente
nel tempo, delle stesse caratteristiche statistiche dei sondaggi nei quali le
persone valutano la propria felicità in una scala da uno a tre. Tale sistema
di valutazione ha un limite superiore che viene raggiunto quando tutti
arrivano a tre (e paesi quali gli Stati Uniti e il Regno Unito sono adesso
mediamente ben sopra il due). Aspettarsi che la “felicità” rilevata dalle
statistiche continui a crescere insieme al Pil è come aspettarsi che con
la crescita dell’economia le persone diventino più alte. C’è un legame
indiretto fra economia e altezza media della popolazione che passa
attraverso la nutrizione, ma nessuno negherebbe che questo legame esista
solo perché, dopo due secoli di capitalismo, non siamo ancora alti sei
metri.
In realtà, i legami tra crescita e felicità sono più diretti che non quelli
tra l’altezza media della popolazione o l’aspettativa media di vita e la
crescita. Noi tendiamo a pensare alla “crescita” in termini astratti, ma
ciò che implica, in pratica, è sia la disponibilità di una gamma di beni
e servizi via via più ampia sia un sempre maggiore controllo da parte di
ciascun individuo sul modo in cui desidera condurre la propria vita. Il
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movimento per la “felicità” ha scarsa considerazione per la libertà e per le
opportunità di definire la propria identità che la libertà offre. Abbiamo
davvero bisogno della libertà di scegliere l’ennesimo modello di jeans
griffati, chiede Barry Schwartz nel suo libro The Paradox of Choice,6 in cui
sostiene che troppe possibilità di scelta rendono le persone più infelici.
Anche Mao era contrario alla libertà di scelta di consumo: pensava che in
Cina tutti si dovessero vestire allo stesso modo. Che professori o burocrati
scelgano per noi quello che possiamo comprare non sembra la ricetta
ideale per una società felice. La crescita del benessere dei consumatori
portata nel corso degli anni da nuove merci e da una varietà più ampia
(in altre parole dalla crescita economica) è stata enorme. Questa varietà
comprende tutto, dai cereali per la prima colazione ai libri e alla musica,
ai farmaci che prolungano una vita in salute.7
Sfortunatamente, cercare di arrestare la crescita non è la risposta adatta
alle molteplici sfide economiche del nostro tempo. Ridurre l’importanza
che si dà al consumo potrebbe forse servire ad affrontare i problemi e le
tensioni che nascono dalle diseguaglianze, partendo dal presupposto che è
il “consumo” ostentativo a imprigionare le persone nella corsa al successo
e a indurle a contrarre debiti che non possono ripagare per acquistare beni
di consumo. Ci sono certamente molte persone che trovano enormemente
più allettante la prospettiva di un’economia più “gentile e tranquilla”,
con meno lavoro, più tempo libero da dedicare alla famiglia e agli amici
e ad attività non lavorative gratificanti. La recessione ha trasformato in
necessità tendenze come il downshifting e il fai-da-te, ma questo va a
toccare anche aspetti emotivi. Sospetto tuttavia che questa prospettiva
interessi davvero a un numero molto limitato di persone, e che sia un
modo di vedere diffuso più tra coloro che non hanno problemi economici;
la ricerca della “felicità” attraverso la rinuncia ostentata è uno stile di vita
tanto quanto il consumismo. Il ritiro in un’immaginaria arcadia precapitalista non è una proposta sensata, indipendentemente da quanto
forte possa essere il suo appeal emotivo.
Quindi il bisogno di continuare a far crescere l’economia per migliorare il
benessere dei cittadini rende ancora più ardue le sfide qui illustrate. Come
spiegherò, sarà necessario risparmiare di più e consumare meno risorse di
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l’economia dell’abbastanza
quanto si sia fatto negli ultimi due decenni. Questo rallenterà la crescita,
a meno che l’economia non migliori grazie all’aumento di produttività.
In più, una crescita più rapida sarà essenziale per ripagare parte della
montagna di debiti contratti dagli stati in nome dei loro cittadini. Negli
anni Novanta e nei primi anni del Duemila, nella maggioranza dei paesi
dell’Ocse il potenziale economico a lungo termine era migliorato grazie
all’innovazione tecnologica. Ma ciò non è stato sufficiente a prevenire
il consumo eccessivo, l’esaurimento delle risorse naturali e un enorme
accumulo di debiti che gravano sui contribuenti futuri. Di conseguenza,
dovranno essere attuate politiche che probabilmente nel breve termine
freneranno la crescita economica, anche se gli elettori continueranno ad
aspettarsi un’economia in crescita e non in contrazione o stagnante come
lo è stata nella recente recessione.
costruire le basi dell’economia dell’abbastanza
Come possiamo arrivare a un miglior equilibrio tra presente e futuro?
Per affrontare questa sfida, e quindi per rispondere alla domanda, sono
necessari tre ingredienti: una migliore capacità di misurazione, un insieme
di valori condivisi e, infine, la definizione di nuove istituzioni adatte alla
nuova situazione.
La prima è il riconoscimento del fatto che tutte le economie mancano
degli strumenti statistici adatti a far sì che le politiche tengano conto
dell’eredità che lasciano alle generazioni future. Alcune recenti iniziative
hanno messo in luce la necessità di affiancare al Pil una serie di altri
indicatori che inquadrino lo stato attuale dell’economia. Alcuni paesi lo
stanno già facendo, in particolare l’Australia. Inoltre, occorrono metodi
più adatti a misurare la ricchezza in senso più ampio, che siano cioè
capaci di tenere conto delle risorse naturali necessarie al funzionamento
dell’economia e del capitale umano e sociale disponibile. Considerare oltre
al flusso di entrate annuali anche la ricchezza complessiva e le riserve di
risorse naturali di un’economia è vitale per allungare l’orizzonte di tempo
al quale le politiche devono aspirare. Tuttavia, queste iniziative possono
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rimediare solo a un tipo di deficit statistico. I cambiamenti strutturali
delle economie avanzate pongono sfide ancora maggiori. Gli effetti delle
nuove tecnologie e l’alto livello di benessere in economie quale quella
degli Stati Uniti fanno sì che gran parte della crescita aggiuntiva sia
immateriale. I “servizi” sono per lo più di questo tipo e rappresentano
una parte importante dell’attività produttiva. A essi sono per esempio
riconducibili tutte quelle fasi di ricerca e di progettazione che poi portano
alla realizzazione effettiva di un bene, oppure le attività di personalizzazione
e assistenza rivolte ai clienti. Le statistiche convenzionali non sono state
capaci di registrare i valori immateriali di un’economia, anche se ci sono
state alcune innovazioni interessanti in questo senso.
Poiché non esistono indicatori statistici in grado di quantificare i valori
immateriali, diventa molto difficile non sottovalutarli. Sono sempre di
più i settori economici in cui l’attività produttiva non cresce se viene
misurata in modo convenzionale. In effetti non è chiaro che cosa si
intenda per “produttività” quando il concetto non è applicato a un
prodotto fisicamente esistente. In un’economia non materiale basata
sui servizi dobbiamo misurare qualcosa di completamente diverso. Ma
poiché ciò che viene misurato è un’impropria definizione di produttività,
che in effetti non cresce, ci sono ampi settori dell’economia che vengono
sistematicamente sottovalutati, così come le persone che ci lavorano.
Per esempio, ballerini e artisti di teatro dispongono di un massimo di
365 sere l’anno per esibirsi, e non possono diventare più “produttivi”.
Le infermiere diventano senza dubbio meno e non più produttive se si
devono occupare di più pazienti, eppure per come funzionano le statistiche
risulta il contrario. Nell’economia online i prodotti digitali possono essere
infinitamente produttivi potendo essere duplicati praticamente in modo
gratuito, ma se sono gratis potrebbero non essere prodotti nelle quantità
necessarie. In questi esempi le misurazioni non riescono a valutare le cose
che per noi contano (in un’accezione non economica), e ciò a sua volta
rende complesso valutarle in termini monetari.
Questo ci porta direttamente al secondo elemento, ossia la chiarezza sui
valori e sugli obiettivi delle politiche economiche e delle scelte politiche.
Nella gestione dell’economia esiste un “trilemma”, o dilemma con tre
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aspetti. Si tratta di utilizzare le risorse nel modo più efficiente possibile, di
dividerle equamente tra le persone e di garantire agli individui quanta più
libertà e autodeterminazione possibili. In realtà, è possibile raggiungere
solo due di questi tre obiettivi contemporaneamente. Orientarsi verso
l’efficienza dei mercati e l’aumento della crescita e allo stesso tempo verso
una più ampia libertà sarà d’ostacolo all’equità. L’enfasi sull’equità e
sull’efficienza richiede che venga data meno importanza all’individualità e
alla realizzazione di sé; invece di occuparsi solo di sé e dei propri standard
di vita le persone dovrebbero pervenire a una sorta di auto-disciplina,
così come l’“etica del lavoro protestante” portò alle conquiste degli albori
del capitalismo e permise che queste venissero ampiamente condivise. I
valori condivisi che permettevano all’economia capitalista di funzionare
bene sono stati erosi. Il nostro presente malessere riflette l’assenza di
significato delle istituzioni e degli accordi che contribuiscono a dare
forma all’economia. Oggi sono troppo orientati verso l’individualismo e
la gratificazione dei desideri immediati. Nell’Economia dell’abbastanza
i valori della reciprocità e della pazienza dovranno contare di più.
Ovviamente le grandi decisioni collettive sulle priorità cambiano a
seconda delle epoche e delle società nelle quali vengono prese. Il trilemma
può anche non essere un problema, per esempio alcuni miglioramenti
nell’efficienza possono essere attuati all’interno di standard di individualità
ed equità, ma alla fine risultati migliori in uno di questi aspetti andranno
a detrimento dell’altro. L’esistenza del trilemma è la ragione per cui spesso
sembra esserci una dinamica innata nelle economie capitaliste. Marx ed
Engels pensavano che il capitalismo contenesse in sé i semi della propria
distruzione. Altri, in particolare Joseph Schumpeter, hanno inteso il
processo come una continua reinvenzione guidata dalla tecnologia e
dalle imprese. A mio parere, a seconda dalle circostanze (e al mutare delle
tecnologie), le politiche e il contesto istituzionale dell’economia devono
cambiare in modo da ristabilire un equilibrio tra efficienza, equità e
libertà.
Questi conflitti tra priorità emergono con estrema chiarezza non appena
si analizzano quelli che le persone immaginano debbano essere i ruoli
“dello stato” e “dei mercati”, specialmente oggi che la crisi finanziaria ha
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intaccato la reputazione dei mercati. Come ben sa qualsiasi economista,
il “libero” mercato non esiste. In qualsiasi contesto in cui le persone o le
aziende commerciano in beni o servizi, il processo è regolato dalle leggi
e dalle specificità culturali della società in cui avviene. In tutto ciò non
vi è nulla di “libero”, anche se le norme variano in base ai contesti e
possono essere più o meno restrittive. I mercati sono un tipo di istituzione
economica, come lo sono le famiglie, le imprese, il settore non profit,
i sindacati e anche i diversi enti e settori statali. In molte circostanze
il mercato è il modo migliore per organizzare le numerose transazioni
messe in atto dalle persone. Non c’è modo migliore per coordinare la
grande quantità di informazioni necessarie a far combaciare domanda e
offerta, e la pianificazione economica da parte dello stato si è rivelata un
modo terribile di farlo. In alcuni casi, però, i mercati non raggiungono
i risultati sperati.
Questo non sorprende gli economisti, che possiedono un ampio
catalogo di “errori e malfunzionamenti del mercato”. Sfortunatamente,
sono proprio le stesse circostanze che causano il malfunzionamento dei
mercati a impedire che l’intervento pubblico centri gli obiettivi desiderati.
Prendete il classico esempio dell’inquinamento causato da una fabbrica,
un “male” imposto all’ambiente circostante, ossia all’esterno all’azienda,
e quindi definito, in termini economici, “esternalità”. Il prezzo di
vendita dei prodotti della fabbrica non terrà in alcun conto degli effetti
dell’inquinamento e quindi essa non sarà incentivata in nessun modo a
limitare le proprie emissioni. In teoria lo stato può compensare questa
esternalità imponendo una tassa sulle emissioni. Ma, in genere, l’autorità
pubblica non possiede abbastanza informazioni per stabilire quale sia la
giusta entità della tassa. In pratica è più facile che le autorità stabiliscano
limiti quantitativi alle emissioni di sostanze inquinanti. Solo che su questo
aspetto sono molto vulnerabili alle pressioni delle lobby, ed è difficile
che gli stati intraprendano azioni dirette per punire casi di evidente
inquinamento. In breve, l’esistenza di un’esternalità rende difficile sia ai
governi sia al mercato raggiungere l’esito ideale. È per questa ragione che
nascono così tante altre istituzioni che hanno l’obiettivo di affrontare le
situazioni in cui vi sono delle esternalità o vi sono carenze informative.
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Istituzioni efficaci sono in grado di considerare gli interessi di tutti allo
stesso modo. I semafori ne sono un buon esempio: per evitare di essere
coinvolti in un incidente è quasi sempre nell’interesse di tutti rispettare
un semaforo rosso. In questo senso i semafori sono autoregolanti, poiché
(nella maggior parte dei paesi, ndR) sono in grado di regolare il traffico
senza altri supporti.8
Ciò porta al terzo aspetto fondamentale, ossia la necessità di riformare
le istituzioni sull’onda dell’innovazione tecnologica che ha rivoluzionato
l’economia. Occorre in particolare rivedere le istituzioni statali e i processi
attraverso i quali vengono prese le decisioni collettive. “Lo stato” è il
nome che diamo alla struttura che ci permette di vivere in società ampie
e complesse. “Governance” è il termine che gli scienziati sociali utilizzano
per includervi quelle istituzioni che stanno alla periferia della politica e
della burocrazia ufficiali. In generale, nessuna istituzione che partecipa
alla governance si è purtroppo rinnovata dal punto di vista tecnologico e
della comunicazione, ovvero della maggiore facilità con cui è oggi possibile
accedere alle informazioni.
Al momento non esistono processi di implementazione delle politiche
che siano ancora dotati di reale credibilità, e ciò rende quasi impossibile
immaginare di arrivare a qualcosa di simile al consenso quando si
devono prendere decisioni difficili. Al contrario, in molte democrazie
occidentali, la politica pare incapace di elaborare delle pratiche effettive,
e ciò a prescindere dalle apparenti differenze ideologiche e politiche che
esistono fra i partiti. La retorica dei partiti può differire profondamente,
ma di solito le differenze su specifici provvedimenti sono una questione
di sfumature. Gli Stati Uniti sono probabilmente l’esempio più chiaro,
data la profondità delle differenze culturali e filosofiche tra repubblicani
e democratici. Altrove ci sono dibattiti accesi ma inutili su questioni di
competenza manageriale dei singoli partiti, con poche o nessuna differenza
tra di loro in termini di filosofie politiche o ideologie. Parallela alla sfida
istituzionale vi è anche una sfida politica, e c’è bisogno di trovare un
dibattito politico appropriato sulle priorità e le opinioni condivise.
Nei prossimi anni, la tecnologia potrebbe trasformare il rapporto tra
politici ed elettori. Numerose sperimentazioni in questo senso sono
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in corso. Infatti, se le decisioni da prendere sulle scelte e le azioni da
perseguire terranno conto dei bisogni del futuro, saranno necessarie
strutture istituzionali basate sulle nuove tecnologie. In questo modo,
le strutture più adeguate potranno sottrarre le decisioni alle gerarchie
centralizzate, per arrivare a una collaborazione tra i mercati e gli stati che
terrà conto degli enormi cambiamenti tecnologici e strutturali avvenuti e
che sarà più efficace e ponderata di quella che abbiamo avuto in passato.
I mercati e gli stati hanno bisogno gli uni degli altri per funzionare
efficacemente, e infatti spesso “falliscono” nelle stesse situazioni. L’esistenza
dei costi di transazione e delle asimmetrie informative costituisce una
sfida per qualsiasi realtà istituzionale. Il lavoro del 2009 dei premi Nobel
Elinor Ostrom e Oliver Williamson si concentra esattamente sul modo
in cui questi aspetti della realtà danno forma a diversi tipi di risposta
istituzionale. Il mondo dell’informazione, profondamente trasformato a
causa delle ICT, sta rivoluzionando la governance di tutte le economie,
e questa rivoluzione è appena cominciata.
la struttura di questo libro
Questo libro è diviso in tre parti. La prima illustra le sfide interconnesse
che contribuiscono a delineare l’Economia dell’abbastanza e la necessità,
che le accomuna tutte, di politiche economiche e sociali più lungimiranti.
Il primo capitolo parla di felicità e ne esamina i miti costitutivi e gli
elementi di realtà, proprio per chiarire le dimensioni poste dalla sfida al
suo raggiungimento, e dimostra che non c’è nessuna ricetta per la felicità
delle persone. Ognuno dei capitoli successivi esamina, nel contesto di
un’economia la cui struttura è trasformata dalle nuove tecnologie, le
questioni poste dal cambiamento climatico, dal debito, dall’iniquità
e dal deterioramento del capitale sociale. Ho privilegiato questi temi,
solo apparentemente separati, perché sono quelli in cui le prospettive di
futuro appaiono più compromesse e quelli che presentano la maggiore
interconnessione di interessi individuali. Il filo conduttore di questa
scelta è l’importanza data al senso di responsabilità per il prossimo. La
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l’economia dell’abbastanza
nostra incapacità di dire “abbiamo quanto basta” fa sì che i nostri figli e
nipoti pagheranno un caro prezzo per riparare i danni causati da questa
generazione.
La seconda parte del libro illustra alcuni degli ostacoli che rendono
difficile affrontare queste sfide. Come possiamo misurare un’economia
sempre più immateriale? Come dovremmo cercare di riconciliare o dare
peso a valori di fondo che sono forse reciprocamente incompatibili? E
in che modo le istituzioni che governano le nostre economie, nel senso
più ampio della governance, devono cambiare?
La terza parte, il capitolo finale, presenta il “Manifesto dell’abbastanza”.
Pensare all’abisso che separa le politiche e la governance attuali dagli
obiettivi che dobbiamo raggiungere entro non più di un decennio può
essere scoraggiante, e questo capitolo illustra alcuni primi passi per
intraprendere questa strada. Una volta avviati, quelli successivi diverranno
sempre più chiari.
Questo libro si propone due obiettivi: illustrare le complesse sfide
economiche che ci troviamo di fronte e definire una via che porti a
una pratica politica più efficace. Ancora più importante, descrive
l’orientamento della nuova politica di cui abbiamo bisogno, che sarà
fondamentale nella prospettiva di economie e società più attente al
benessere delle persone. Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, ha
scritto che “il capitalismo orientato al profitto si è sempre appoggiato a
valori istituzionali complementari”.9 Le politiche degli ultimi trent’anni
purtroppo si sono sganciate dai valori esterni al mercato. Con questo libro
invece spero di essere riuscita a indicare alcuni dei primi passi necessari a
costruire un’economia futura basata su un vero senso dei valori.
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