L` economia italiana negli ultimi quindici anni: analisi

L’ economia italiana negli ultimi quindici anni:
analisi, problemi e proposte
Michele Di Maio∗
Università di Macerata
Dicembre 2007
Introduzione
Questa bibliografia raccoglie 55 tra i più significativi contributi prodotti negli ultimi anni sul
tema del declino economico italiano e, più in generale, sull’analisi della performance dell’economia italiana. L’obiettivo di questo lavoro è di fornire una guida utile e maneggevole a questa
ormai vastissima letteratura. La metodologia di selezione dei 55 lavori qui discussi è riportata in
Appendice. Ad ogni lavoro è associato un breve sunto nel quale si sono indicati i temi trattati,
la metodologia utilizzata nell’analisi e le principali conclusioni. In particolare, si è cercato di
evidenziare i rimandi incrociati tra i differenti contributi, le similarità e le differenze nelle metodologie di analisi e ci si è soffermati, in particolare, sulle proposte di politica economica che
nei lavori vengono avanzate.
Riferimenti bibliografici
[1] Battaggion, M. R. e Tajoli, L. (2000). Ownership structure, innovation process
and competitive performance: the case of Italy, CESPRI Working Papers, n.
120
Secondo le Autrici, due elementi caratterizzano l’economia italiana: 1) la bassa attività
innovativa sia in termini di investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&D) che di output (per
∗
DIEF - Dipartimento di Istituzioni Economiche e Finanziarie, Università di Macerata.
E-mail:
[email protected]. Questo lavoro è parte del progetto di ricerca L’economia italiana tra declino nazionale e
competitività internazionale finanziato dal Dipartimento di Istituzioni Economiche e Finanziarie dell’Università
degli Studi di Macerata. Un ringraziamento particolare va a Luca De Benedictics per i preziosi consigli e gli utili
commenti. Ogni errore è mia esclusiva responsabilità
1
esempio misurato in numero di brevetti); 2) l’essere specializzata in settori intensivi in
lavoro. La bassa propensione all’innovazione (e la conseguente debole performance) delle
imprese italiane può in qualche misura essere legata al peculiare assetto proprietario che
caratterizza il tessuto produttivo del paese: altissima presenza di imprese piccole e medie
e la prevalenza di assetti proprietari nei quali non c’è separazione tra proprietà e controllo
(capitalismo familiare). Il governance system italiano è caratterizzato da mercati dei capitali ’piccoli’, debole separazione tra proprietà e controllo, alta concentrazione della proprietà
e forte presenza dello Stato. L’evidenza empirica indica che questo tipo di struttura proprietaria è un freno all’attività innovativa delle imprese italiane e ne rallenta cosı̀ anche la
crescita e la possibilità di proiezione internazionale. Infatti, i dati mostrano che le Società
per Azioni e le grandi imprese sono significativamente più innovative delle altre tipologie di
imprese. Le imprese che sono più capitalizzate possono infatti più facilmente raggiungere
un soddisfacente grado di risk diversification tra i diversi proprietari. Le imprese grandi
hanno invece un vantaggio che deriva dal fatto che possono diversificare il rischio di investimenti in R&D su differenti prodotti. Per le piccole imprese le cose sono molto diverse: nel
caso di imprenditore singolo questo sarà molto probabilmente più risk averse rispetto ai
manager di una grande impresa. Anche se cosı̀ non fosse, in ogni caso egli sarà difficilmente
in possesso di tutto il capitale necessario per affrontare investimenti importanti in ricerca
e sviluppo. Considerando che l’accesso ai finanziamenti è più difficile per le piccole imprese
(e che spesso la proprietà familiare preferisce evitare controlli esterni sulla propria attività)
la cosa più probabile è che alla fine la piccola-media impresa decida di non innovare.
[2] Bassanetti, A., M. Iommi, C. Jona-Lasinio e F. Zollino (2004). La crescita
dell’economia italiana tra ritardo tecnologico e rallentamento della produttività,
Temi di Discussione, 539, Banca d’Italia
Durante il periodo 1981-2001, la crescita della produttività totale dei fattori (TFP) ha
spiegato poco meno di un quarto della crescita del prodotto e ha subito una brusca decelerazione dalla metà dello scorso decennio. Lo sviluppo dell’economia italiana è stato
sostenuto soprattutto dall’accumulazione di capitale, in particolare delle componenti non
direttamente correlate con le nuove tecnologie; queste ultime hanno infatti fornito un apporto molto ridotto al processo di crescita. Il principale impulso alla crescita della produttività
totale è derivato dal terziario (in misura maggiore dai Trasporti e comunicazioni e dall’Intermediazione monetaria, finanziaria e assicurazioni). In generale, si riscontra una ampia
eterogeneità negli andamenti della TFP a livello settoriale, ulteriormente amplificata, nel
calcolo dei contributi alla dinamica aggregata, dalla variabilità dei pesi dei settori nel totale
della produzione.
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[3] Bernardi, L. (2004). A proposito di declino, Il Mulino, n. 412, p. 380-384
In questo lavoro l’Autore discute le tesi di Faini (2004). L’Autore suggerisce che sarebbe
interessante capire (a lato della spiegazione data da Faini) come la relazione negativa tra
produttività e occupazione che ha caratterizzato gli anni Novanta sia stata influenzata dalla
riduzione della presenza delle imprese medio-grandi, la persistenza di produzioni mature e
il ridotto utilizzo di ICT (Information and Comunication Technologies). Si sottolinea che,
nonostante tutti gli accorgimenti che si possono (e devono) utilizzare per una corretta misurazione della competitività italiana sui mercati internazionali (come suggerito da Faini),
rimane il fatto che dal 1996 questa risulti costantemente peggiorare qualunque sia l’indicatore utilizzato. In particolare, l’export ha tenuto nei settori tradizionali ma non ci sono
segnali di crescita nei settori tecnologicamente avanzati. Per quanto riguarda la questione
demografica, l’A. concorda con Faini (2004) sul fatto che i confronti di reddito pro-capite
misurano meglio il benessere individuale. Ma rileva anche che non è detto che questo sia
un buon indicatore della performance dell’economia nel suo complesso. Un’economia che
cresce in aggregato avrà una dinamica del reddito pro-capite che dipende dall’andamento
demografico. Quindi uno stesso reddito pro-capite potrebbe essere ottenuto da un’economia
in crescita come da un’economia che non cresce. Secondo l’A. tra le due la situazione migliore è comunque la seconda, se non altro per le prospettive di lungo periodo. Allo stesso
tempo, l’A. continua, è difficile immaginare che un’economia stagnante possa attirare immigrazione o che la bassa dinamica demografica possa facilmente essere invertita essendo
questa causata in parte dall’incertezza dei redditi e dell’occupazione. Infine l’A. critica le
modalità della stabilizzazione finanziaria attuata negli anni ’90: l’errore sarebbe stato non
accompagnare la riduzione della domanda (e quindi della spinta innovativa) con un sostegno (compensativo) dell’offerta. In particolare, l’A. sostiene, la concertazione avrebbe avuto
come effetto ’perverso’ l’indebolimento delle sollecitazioni all’efficienza e all’innovazione questo avrebbe causato la dissociazione tra alto tasso di profitto e basso tasso di crescita
(su questo si veda anche Ciocca (2004) e Travaglini e Saltari (2006)).
[4] Berta, G. (2004). Declino o metamorfosi dell’industria italiana, Il Mulino, n.
411, p. 77-89
L’Autore critica aspramente la tesi di Gallino (2003), secondo il quale il motore dello sviluppo non può che essere la grande impresa che però l’Italia, almeno a partire dagli anni
’70, è stata incapace di sostenere a causa di una classe imprenditoriale e politica pessima. In
particolare l’A. critica la proposta di un ritorno ad un ’esteso’ intervento pubblico e all’utilizzo di politiche industriali, che invece avrebbero già dimostrato i loro limiti. Al contrario,
3
fuori dalla dicotomia declino si/no, bisogna vedere elementi che indicano trasformazione.
In particolare, secondo l’A., il motore del cambiamento e il possibile futuro perno dello sviluppo sarebbe il sotto-sistema delle medie imprese particolarmente attive nell’Nord-Ovest.
L’analisi si basa sui dati del CENSIS raccolti nel XXXVII Rapporto sulla situazione del
paese 2003 (5 Dicembre, 2003). L’A. esprime una grande fiducia nella vitalità dell’economia
italiana, che solo una classe politica incapace non riesce a catturare e incanalare in modo
positivo. Il problema dimensionale, la bassa innovazione, i bassi investimenti in infrastrutture, i conti pubblici in disordine sono problemi reali e importanti che non vengono negati
ma si sottolinea la contemporanea presenza di importanti elementi di vitalità che hanno
bisogno però di essere colti. Secondo l’A. il dibattito grandi imprese vs distretti è forse
ormai alle spalle. Bisogna prendere atto della situazione: l’Autore concede che si sarebbe
potuto fare qualcosa di più per salvare la grande industria italiana ma non lo si è fatto
quando, negli anni ’90, forse ancora qualcosa si poteva fare. Ma ormai è tardi. Lo sviluppo
delle nuove imprese dovrà avvenire lungo due direttrici: il legame con il sistema territoriale
e l’integrazione internazionale.
[5] Boeri, T., Faini, R., Ichino, A., Pisauro, G. e Scarpa C. (a cura di) (2005). Oltre
il declino. Il Mulino, Bologna
Questo libro raccoglie alcuni importanti contributi sul dibattito sul declino economico italiano (ad esempio Faini e Sapir (2004)). Nell’Introduzione si offre una definizione di declino
economico: diminuzione del tasso di crescita potenziale di un paese. Gli Autori sottolineano
come questo sia un fatto ben più grave di un semplice rallentamento congiunturale. Non è
la crescita ’a tasso zero’ degli ultimi tre anni a far parlare di declino, quanto il riconoscimento pressoché unanime che l’Italia non è più in grado di sostenere tassi di crescita elevati,
anche lontanamente comparabili con quelli degli anni Sessanta, Settanta e primi Ottanta.
Ma uscire dal declino, sembra sostenere questo libro, si può: occorre operare delle scelte
e trasformare il pessimismo in energia positiva. Il libro offre anche una serie di proposte
di policy su alcuni dei temi cruciali: 1) il finanziamento degli start-up innovative; 2) la
creazione di un’authority sui trasporti; 3) l’enforcement delle regolamentazioni dei mercati
finanziari; 4) la ridefinizione del sistema retributivo dei docenti universitari per attrarre docenti e ricercatori dall’estero; 5) il contenimento della spesa pubblica attraverso un sistema
di costi standard.
[6] Brandolini, A. e P. Cipollone (2001). Multifactor productivity and labour
quality in Italy, 1981-2000. Temi di discussione, 422, Banca d’Italia
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L’analisi mostra che: 1) nel caso italiano l’evoluzione della TFP è l’elemento centrale nella
spiegare la dinamica della produttività; 2) l’andamento della TFP ha avuto un impatto
negativo sulla crescita della produttività del lavoro negli ultimi 10 anni (risultato confermato
anche dall’analisi presentata in Saltari e Travaglini (2006).)
[7] Bugamelli, M. (2001). Il modello di specializzazione internazionale dell’area
dell’euro e dei principali paesi europei: omogeneità e convergenza, Temi di
Discussione, 402, Banca d’Italia
Il modello di specializzazione dell’area dell’euro è poco polarizzato e caratterizzato da una
bassa specializzazione nei prodotti con più alta dotazione di capitale umano. Il settore di
maggiore specializzazione è senza dubbio quello della meccanica; i pasei dell’area euro sono
invece poco specializzati nei settori che producono beni tradizionali e quelli a elevato contenuto tecnologico. Il modello di specializzazione mostra quindi ritardi significativi rispetto
agli Stati Uniti e al Giappone nei comparti high skill considerati strategicamente importanti
per il futuro, se non altro perchè più dinamici. I risultati evidenziano che l’area dell’euro
è composta da paesi strutturalmente differenti. Alla Francia e alla Germania, molto simili all’area nel suo complesso, si contrappongono l’Italia e la Spagna, che concentrano la
propria produzione nei settori a dotazione di capitale umano medio-bassa. In particolare,
l’Italia risulta molto più sbilanciata verso tali settori e dotata di un modello fortemente
polarizzato. Data l’eterogeneità tra i paesi membri, è dunque ragionevole attendersi che
shock settoriali e le fluttuazioni del tasso fi cambio possano avere effetti asimmetrici. Per
la specificità della struttura dei vantaggi comparati, è l’Italia il paese europeo destinato
a differenziarsi all’interno dell’area dell’euro. La specializzazione in comparti con elevata
elasticità della domanda rispetto ai prezzi ed esposti alla concorrenza dei paesi emergenti a
basso costo del lavoro tende ad amplificare gli effetti delle fluttuazioni del cambio dell’euro
sulla performance commerciale di tali comparti e quindi dell’Italia nel suo complesso. Questi effetti sono poi ulteriormente amplificati dalla forte polarizzazione del modello italiano.
Infatti, il modello italiano, il più polarizzato dell’area, è molto sbilanciato verso i propri
settori di specializzazione (beni tradizionali e meccanica). Dall’analisi dell’evoluzione dei
modelli di specializzazione tra la prima e la seconda metà degli anni novanta risulta una
debole evidenza di convergenza. In ogni caso il modello italiano sta cambiando molto più
lentamente rispetto a quello degli altri paesi dell’area euro.
[8] Bugamelli, M. e Rosolia, A., (2006). Produttività e concorrenza estera. Temi
di Discussione, 578, Banca d’Italia
5
Nel dibattito sul declino economico italiano si è spesso posta l’attenzione sul possibile legame
tra l’accresciuta pressione competitiva che i beni tradizionalmente di successo dell’industria
italiana stanno subendo sui mercati internazionali e il rallentamento della crescita. Dal 1995
ad oggi, la crescita del PIL è stata debole sia rispetto ai decenni precedenti sia rispetto a
quella degli altri principali paesi dell’area dell’euro. Come mostrato da Brandolini e Cipollone (2001) e Bassanetti et al. (2005) in accurati esercizi di contabilità della crescita, il
rallentamento si è accompagnato a quello della produttività totale dei fattori (TFP): l’aumento della TFP, che era stato il principale (se non l’unico) motore della crescita del valore
aggiunto dell’industria manifatturiera tra il 1981 e il 1995, si è sostanzialmente annullato
nell’ultimo quinquennio, contribuendo per meno di un terzo alla crescita del prodotto. Dopo
il 1995 anche la performance dei prodotti italiani sui mercati internazionali è peggiorata: la
quota italiana sul mercato mondiale, valutata a prezzi costanti, è andata costantemente riducendosi. Come dimostrano il corrispondente aumento della quota tedesca e l’invarianza di
quella francese, la perdita di peso dell’Italia non riflette semplicemente l’effetto dell’entrata
massiccia di nuovi paesi competitori, ma una difficoltà specifica. Molti commentatori hanno
individuato il punto di contatto tra la bassa performance della crescita del prodotto e quella
delle quote di mercato mondiale nella peculiare specializzazione produttiva dell’industria
manifatturiera italiana, sbilanciata verso i settori più maturi, meno avanzati tecnologicamente e a più alta intensità di lavoro (tessile, abbigliamento, cuoio, calzature, etc.). Sarebbe
dunque questa particolare struttura produttiva a esporre (soprattutto) l’Italia all’accresciuta concorrenza dei paesi meno sviluppati e come tali caratterizzati da un minor costo del
lavoro. Gli A. fanno notare come i lavori che analizzano la ’qualità dell’export’ rilevano
come la pressione competitiva (anche se crescente) sia molto più ridotta di quella che può
apparire a prima vista (De Nardis e Traù, 1999; Monti, 2005). A fronte di questa evoluzione
sfavorevole sui mercati internazionali, cosa è accaduto all’attività produttiva delle imprese
operanti nei settori tradizionali? Durante gli ultimi ventianni l’incidenza dei settori tradizionali, rispetto al complesso dell’industria manifatturiera italiana, si è ridotta di circa tre
punti percentuali in termini di valore aggiunto, di quasi cinque in termini di occupazione.
La produttività del lavoro ha invece mostrato un andamento opposto, risultando più dinamica nei settori tradizionali che, durante gli anni novanta, hanno registrato il rallentamento
verificatosi nella media degli altri comparti manifatturieri. Lo studio trova una correlazione
positiva tra pressione competitiva dai paesi emergenti (quote di mercato) e produttività
(settoriale) delle imprese italiane.
[9] Callieri,
C, (1999). Imprese di piccola dimensione,
made in Italy e
internazionalizzazione della produzione. Economia Italiana, vol.3, 559–572
6
Secondo l’Autore i due nodi strutturali dell’economia italiana sono la specializzazione anomala e la questione dimensionale. La questione della specializzazione in realtà non appare
molto grave dato il posizionamento qualitativo delle imprese italiane nei settori nei quali
esportano. Ma il fatto che il modello di specializzazione non stia evolvendo (a causa anche
di vincoli di natura istituzionale che non favoriscono la rapida riallocazione delle risorse dai
settori in declino ai nuovi settori) suggerisce anche (probabili) future difficoltà del sistema
industriale nella competizione internazionale e un accumulo di ritardo sempre maggiore nei
settori ad alta tecnologia. Anche la questione dimensionale ha effetti negativi per quanto
riguarda la dinamica dell’innovazione, che appare piuttosto deludente. Questa situazione
ovviamente deriva dalle condizioni tecnologiche legate alla dimensione. Ma perchè esiste
questa anomalia dimensionale? Le cause della questione dimensionale sono: 1) fattori di
natura istituzionale (legislazione che ha favorito le imprese piccole e medie; 2) un generale
processo di outsourcing delle grandi imprese (un processo che avuto inizio nei primi anni
’70); 3) la non volontà di aprire le imprese. Il problema dimensionale è ovviamente un problema sempre piè pressante dato il nuovo contesto internazionale e la crescente competizione
globale. Le proposte di politica economica sono: 1) di sostenere la qualità (quale unica via
per rimanere competitivi)e 2) di incentivare la proiezione internazionale delle piccole medie
imprese soprattutto attraverso gli IDE. Secondo gli A. è però pre-condizione indispensabile,
affinchè si possa invertire l’attuale situazione di difficoltà, la creazione di una nuova cultura
imprenditoriale e manageriale.
[10] Chiarlone, S. (2001). Evidence of product differentiation and relative quality in
Italian trade, Rivista Italiana degli Economisti, vol. 6, pp. 147-168
Nel periodo 1986-1998, il commercio estero italiano è stato caratterizzato da flussi commerciali di tipo bilaterale, ad indicare che il modello di specializzazione italiano è (molto) simile
a quello dei propri partners commerciali. Poichè il tipo di commercio intra-industriale che
caratterizza l’Italia è di tipo verticale piuttosto che orizzontale, i timori di una forte pressione competitiva da parte dei paesi emergenti devono essere ridimensionati. Lo studio mostra
come, nel caso italiano, i flussi di commercio bilaterali siano particolarmente rilevanti per i
settori caratterizzati da alta differenziazione di prodotto. I flussi unidirezionali caratterizzano invece i settori tradizionali. Il risultato interessante è che, mentre l’Italia esporta beni di
alta qualità nei settori tradizionali, esporta quelli di bassa qualità nei settori avanzati. Anche se questa situazione suggerisce una forte esposizione dell’Italia rispetto alla concorrenza
dei paesi emergenti, l’Autore individua un processo di quality up-grading delle esportazioni
italiane che dovrebbero cosı́ essere in grado di difendersi dalla sfida competitiva, basata sul
basso costo del lavoro, proveniente dalle economie emergenti.
7
[11] Ciocca, P. e Rey, G. M. (2004). Per la crescita dell’economia italiana. Economia
Italiana, vol. 2 , 333–354
Il ridimensionamento del settore pubblico avvenuto durante l’ultima parte degli anni ’90,
ha prodotto stabilità macroeconomica ma non ha generato, come invece ci si aspettava, un
processo di crescita sostenuto. La difficile fase attuale dell’economia italiana , è dovuta: 1)
alla crisi della grande impresa; 2) alla difficoltà dei distretti di riconvertirsi e innovare; 3)
ad una specializzazione immutata dagli anni 80). L’indicatore delle difficoltà nelle quali si
trova l’economia italiana è la perdita di competitività che le esportazioni italiane hanno
registrato su tutti i mercati. Secondo gli Autori, il problema dell’Italia è un problema di
offerta e non di domanda (che si potrebbe più facilmente risolvere). Il ristagno ultradecennale è dovuto a quattro fattori: 1) finanze pubbliche squilibrate; 2) infrastrutture fisiche
e giuridiche inadeguate; 3) il cronico nanismo delle imprese; 4) scarse sollecitazioni concorrenziali. Elencano una (lunga) serie di proposte e politiche di intervento in ognuno dei
quattro campi. In particolare secondo gli A. sarebbe necessario risanarevle finanze pubbliche, adeguare le infrastrutture fisiche e giuridiche ai nuvoi bisogni del paese, favorire la
crescita dimensionale delle imprese e il miglioramento della qualità dei prodotti destinati
alle esportazioni, incrementare e favorire la concorrenza nei mercati domestici.
[12] Ciocca, P. (2004). L’economia Italiana: un problema di crescita. Rivista Italiana
degli Economisti, vol.1, supplemento, 7-28
L’Autore sostiene che, se è vero che la tendenza al rallentamento del tasso di crescita
dell’economia italiana data dagli anni ’70, la caduta della sua performance internazionale
(il cui indicatore principale è la riduzione della quota italiana nel commercio mondiale)
risale agli anni ’90. La riduzione della concorrenza interna ha ’impedito’ che gli alti tassi di
profitto degli anni ’90 stimolassero un aumento degli investimenti. Contrapponendosi alla
tesi sostenuta da Faini (2004), l’Autore argomenta che l’economia italiana è obbligata a
crescere se non vuole declinare. Dato che il declino va ricercato nel confronto storico, non
vi è, infine, alcun dubbio che in questa fase l’economia italiana sia in declino.
[13] D’Antonio, M. e Scarlato, M. (2004). Trent’anni di trasformazioni dell’economia
italiana: verso la ripresa dello sviluppo? Economia Italiana, vol. 2, 276–332
A partire dagli anni ’70, l’economia italiana è stata caratterizzata da una accentuata propensione inflattiva dovuta alla dilatazione della spesa pubblica e alla crescita dei salari reali
(debolmente compensata da aumenti di produttività). L’Italia ha pagato un costo elevato
per attenuare l’instabilità macroeconomica. In particolare, lo sradicamento delle aspettative inflazionistiche ha comportato un alto costo in termini d’investimenti, produzione e
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crescita. Questo perchè per frenare l’inflazione si è ricorsi (quasi esclusivamente) all’utilizzo
di una politica monetaria restrittiva. La reazione del sistema produttivo sono state: 1) il
decentramento dalla grande alla piccola impresa e dal Nord al Sud (per approfittare degli
incentivi allo sviluppo); 2) l’introduzione di nuove tecnologie labur-saving; 3) il miglioramento della qualità della produzione. Punti di forza del sistema che da queste re-azioni è
emerso: i distretti. Punto di debolezza: frammentazione aziendale - che implica bassa capacità d’innovazione e lenta crescita della produttività. Gli A. propongono, quali politiche per
uscire da una fase di lento sviluppo: 1) finanziare la ricerca pubblica; 2) fornire incentivi
per fare crescere dimensionalmente le imprese (ma senza ricorrere alle industria di Stato).
Gli A. esprimono un grande ottimismo circa le capacità imprenditoriali presenti nel tessuto
produttivo e quindi rispetto alla possibilità di ripresa dell’economia italiana.
[14] Daveri, F. e Jona-Lasinio, C. (2005). Italy’s decline: getting the facts right.
Mimeo
La cattiva performance dell’economia italiana non è dovuta ad uno sfortunato ciclo, ma è
invece in linea con un trend di lungo periodo. Il declino italiano è causato dalla riduzione
della produttività del lavoro (e in parte alla stagnazione demografica) e non ad una riduzione
del numero di ore lavorate. In particolare, secondo gli Autori si sarebbe spostata (in modo
rilevante) verso destra la curva di offerta (riforme del mercato del lavoro) mentre la curva di
domanda si sarebbe spostata molto meno. Si è cosı́ avuto un aumento dell’occupazione ma
un rallentamento del tasso di crescita della produttività (e quindi dei salari). La riduzione
della produttività è un fenomeno comune a tutte le industrie italiane. Gli A. sostengono
che il recente rallentamento della crescita della TFP è probabilmente più grave rispetto
ad episodi passati. Un risultato interessante della loro analisi è il fatto che non sembra
esserci evidenza di una ’tassa’ del settore servizi sulla manifattura. Gli A. discutono anche
la presenza di un apparente puzzle: l’accumulazione del capitale sarebbe proseguita anche
durante il periodo di crescita ridotta. Secondo gli A. questo fenomeno si spiega con la
riallocazione di investimenti da settori nei quali i prezzi degli assets stavano diminuendo
(macchinari) verso settori nei quali stavano aumentavano (immobili). Infatti, se si escludono
gli immobili, la TFP e l’accumulazione si muovono nella stessa direzione (cioè si riducono).
Senza questo accorgimento, ad una TFP che diminuisce si accompagnerebbe un aumento
degli investimenti.
[15] De Benedictis, L. e Tamberi, M. (2000). La specializzazione internazionale dell’Italia: anomalie, dinamica e persistenza, in Rapporto sull’industria italiana,
Centro Studi Confindustria, Maggio
9
L’analisi degli Autori mostra che l’economia italiana soffre di due anomalie: 1) la specializzazione internazionale; 2) la questione dimensionale. Alla fine degli anni ’90, queste non
sembrano ancora essere un grave problema per il sistema Italia.
[16] De Cecco, M. (2004). Alle radici dei problemi dell’industria italiana nel secondo
dopoguerra. Rivista Italiana degli Economisti, vol.1, supplemento, 103-116 - e
De Cecco, M. (2004). Il declino della grande impresa, in Toniolo, G. e Visco,
I. (a cura di), Il declino economico dell’Italia. Cause e rimedi, cap.8, Bruno
Mondadori, Milano
L’Autore argomenta che il declino (degrado) dell’economia italiana data dal 1963, quando
il boom economico si trasformò in un crollo degli investimenti privati. Da un punto di vista
di sistema paese, il problema più rilevante è quello delle grandi imprese che sono sempre
più in difficoltà. Questa situazione tenderà a peggiorare sempre più fino a che ci sarà un
definitivo abbandono dei settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo. La condizione per il
rilancio del paese è la creazione di un contesto che possa favorire la vitalità del sistema delle
grandi imprese. Per quanto riguarda le proposte è evidente che l’elaborazione di possibili
soluzioni deve partire dalla constatazione che gli imprenditori italiani si sono da tempo
(forse da più di trent’anni) trasformati in rentiers. La strada per uscire dal degrado passa
per il superamento di quelli che sembravano ’tratti originali’ del modello Italia mentre erano
solo anomalie che in fretta si sono trasformate da benigne in maligne (a causa del mutato
contesto economico globale). E’ necessario difendere le (poche) grandi imprese rimaste ma
senza per questo mantenerne necessariamente gli assetti proprietari e manageriali. Quindi il
capitale straniero è benvenuto, ovviamente a condizione che si riesca a contrattare in modo
efficace il passaggio dalla proprietà italiana a quella straniera. Secondo l’A. è essenziale
poi indurre le imprese crescere dimensionalmente e a internazionalizzarsi sempre in più,
soprattutto in termini di outsourcing della manodopera per quelle produzioni che competono
con paesi emergenti a bassi salari. Questo processo di profonda trasformazione produttiva
deve necessariamente accompagnarsi ad una rinnovata collaborazione tra impresa e ricerca.
Da questo punto di vista, il ruolo delle banche diventa ovviamente centrale (e un ulteriore
limite del sistema Italia evidente). L’A. individua nella possibilità di sfruttare i risultati della
ricerca pubblica a fini privati, tramite venture capital e altre iniziative imprenditoriali, uno
strumento importante per favorire la ripresa del’economia italiana.
[17] Del Gatto, M., Ottaviano, G. e Pagnini, M. (2005). La competitività delle
imprese italiane; all’origine del malessere. Economia Italiana, vol. 1, 75-94
10
L’analisi prende avvio dalla constatazione che non vi sia dubbio alcuno che la crescita italiana sia diminuita. La causa però non è da attribuirsi, come da molti commentatori sostenuto,
alla perdita di competitività. La ragione principale di questo andamento è invece la riduzione della produttività che, diminuendo la competitività delle imprese italiane sui mercati
esteri, produce una contrazione delle esportazioni. La crisi di competitività è dovuta in
larga parte alla poca concorrenza interna che impedisce al processo di distruzione creatrice
di dispiegarsi. Secondo gli A., infatti, solo un maggiore livello di concorrenza permetterebbe
di selezionarele imprese migliori, aumentando cosı̀ la produttività media del sistema. In altre parole, per aumentare la competitività bisogna stimolare la crescita della produttività,
obiettivo che si può raggiungere solo attraverso più concorrenza. L’analisi, svolta sui dati
a livello impresa, mostra che: 1) la bassa produttività è un ostacolo alla presenza delle
imprese sui mercati internazionali; 2) i problemi di produttività sono fortemente collegati a
caratteristiche strutturali del territorio. Questo significa che la produttività delle imprese è
fortemente influenzata da condizioni quali l’efficienza delle infrastrutture e dei servizi, la facilità di accesso, la dimensione e grado di apertura del mercato. Da questa analisi segue che
la svalutazione valutaria è una politica sbagliata perchè, facendo guadagnare competitività
nel breve ma non nel lungo periodo, indebolisce la forza selettiva della concorrenza. Chiare
le linee di intervento proposte: maggiore concorrenza tra le imprese sul mercato; maggiore integrazione dei mercati regionali attraverso lo sviluppo delle infrastrutture; maggiore
concorrenza nei servizi alle imprese e snellimento burocratico.
[18] Faini, R. e Sapir, A. (2005). Un modello obsoleto? Crescita e specializzazione
dell’economia italiana, in Boeri, T. (a cura di), Oltre il declino, pp. 19-65. Il
Mulino, Bologna
Gli Autori sostengono che la perdita di competitività (misurara in termini di quote di
mercato UE e mondiale) e crescita lenta durante l’ultimo decennio non sono spiegate da:
1) forti spinte salariali (anzi, al contrario, si è registrata una forte moderazione salariale);
2) shocks idiosincratici di offerta causate da volatilità e rincari prezzi energia e materia
prime, ciclo del dollaro, crisi finanziaria Asia 1997-98. Tutti questi fattori hanno infatti
colpito Italia in modo identico o solo lievemente diverso rispetto agli altri concorrenti UE; 3)
cambio reale sopravalutato. I due Autori, al contrario, propongono una spiegazione basata:
1) sull fatto che il modello di specializzazione è più rigido, più esposto a concorrenza dei paesi
emergenti, meno intensivo in capitale umano e alte tecnologie; 2) che esiste un circolo vizioso
domanda-offerta che a quello è collegato. Per quanto riguarda il primo aspetto, gli Autori
mostrano come, a partire dall’inizio degli anni ’90, i settori di vantaggio comparato sono
tendenzialmente a crescita lenta della domanda mondiale. Questa sfavorevole composizione
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settoriale si accentua dopo la fase della lira debole che dà un effimero rilancio al ’Made in
Italy’. L’analisi conferma il crescente svantaggio comparato dell’Italia nei settori intensivi
in R&S (aspetto solo parzialmente correlato all’intensità di manodopera qualificata). A sua
volta, la bassa propensione dell’Italia rispetto agli investimenti in R&S non dipende solo
dalla composizione del prodotto ma anche dai comportamenti delle imprese a parità di
settori e dimensione media d’impresa.
[19] Faini, R. (2004). Fu vero declino? L’Italia negli anni ’90’, Il Mulino, pp. 10721083 e in Toniolo, G. e Visco, I. (a cura di), Il declino economico dell’Italia.
Cause e rimedi, cap.3, Bruno Mondadori, Milano
L’Autore argomenta che, a differenza di quanto da molti commentatori sostenuto, il declino
italiano non è iniziato negli anni ’90. La decelerazione della crescita del PIL nel caso italiano
è dovuta in buona parte ad una riduzione demografica, non compensata da un sufficiente
aumento dell’occupazione. L’A. suggerisce quindi che non si può parlare di declino perchè,
se considerato in termini pro-capite, il divario con gli altri paesi e gli USA in particolare,
si annulla. Per quanto riguarda l’export l’andamento decrescente della quota italiana sull’export mondiale è ben spiegato dagli andamenti: 1) del tasso di cambio del dollaro; 2) del
prezzo del petrolio e 3) del tasso di cambio reale dell’Italia. Quindi, essenzialmente fattori non strutturali: non ci sarebbe dunque nessuna indicazione di un deterioramento della
competitività (di lungo termine) delle esportazioni durante gli anni ’90. In aggiunta, solo
una piccola parte della perdita di quote è dovuta al (peculiare) modello di specializzazione.
In ogni caso sono i fattori di offerta (e.g. la forte crescita della popolazione mondiale) che
hanno un ruolo prevalente anche se troppo spesso sottovalutato. In pratica, continua l’A.,
la perdita di quote non può essere automaticamente associata a perdita di competitività
che anzi sembra essere (depurata da questi altri fattori) in linea con l’andamento di lungo
periodo. L’A. sostiene che, anzi, durante gli anni ’90 si sono forse gettate le basi per una
ripresa. L’analisi mette poi in luce quale è stato e continua ad essere il problema che ha
caratterizzato l’economia italiana negli ultimi decenni: l’incapacità di creare occupazione
e contemporaneamente aumentare al produttività. Nel caso italiano, tra le due variabili
sembra esserci, durante gli anni Novanta, una correlazione negativa - non solo ciclica. Nella
prima parte del decennio Novanta, la rigidità del mercato del lavoro avrebbe indotto le
imprese a processi di capital deepening (aumento di produttività accompagnato però da riduzione di addetti). Nella seconda parte, invece, le riforme del mercato del lavoro avrebbero
generato l’effetto contrario: aumento dell’occupazione ma riduzione della produttività. Il
declino dal tasso di crescita della produttività negli ultimi anni è infatti innegabile. Quali
le cause? L’Autore esclude che il declino sia effetto del risanamento avviato durante gli
12
anni ’90 o che sia causato dal basso tasso di investimento. Invece, le cause vanno cercate
in alcuni nodi strutturali: 1) l’arretratezza del Mezzogiorno (che secondo l’Autore verrebbe risolta se si riducesse la rigidità del mercato del lavoro Meridionale, magari con una
differenziazione salariale Nord-Sud); 2) la rigidità del mercato dei beni e dei servizi (dalla
cui liberalizzazione ci si aspetta un aumento significativo della produttività, un aumento
della capacità di attrazione dei capitali stranieri e un cambiamento della specializzazione
produttiva) e 4) una bassa offerta di lavoro qualificato (l’Autore propone quindi di finanziare la formazione e non la ricerca di base delle imprese nei settori avanzati). Questi nodi
strutturali, presenti da molto prima degli anni ’90, non hanno impedito, per lungo tempo,
la crescita dell’economia italiana. Le cose però adesso stanno cambiando e il nuovo contesto
globale ne rende necessaria una loro rapida eliminazione. L’Autore conclude presentando
un dettagliato elenco di specifiche proposte:
1. Introdurre un sistema di credito d’imposta permanente a favore delle spese in R&S,
con un trattamento privilegiato degli start up ad alta tecnologia;
2. sostenere le proposte della Commissione Europea per un nuovo bilancio dell’Unione
che favorisca investimenti in capitale umano e tecnologia;
3. creare un nuovo ente a livello europeo con il compito di finanziare la ricerca di base;
4. introdurre un sistema di prestiti d’onore per gli studenti universitari nelle facoltà
scientifiche;
5. accrescere le risorse a favore del sistema universitario, in linea con la media europea,
distribuendo una quota progressivamente più elevata di tali risorse sulla base di criteri
di efficienza;
6. favorire la mobilità dei lavoratori da settori in declino a settori in espansione attraverso
una riforma dei sussidi di disoccupazione e dei regimi di protezione dell’impiego;
7. introdurre, se possibile a livello europeo, un nuovo sistema di visti a favore degli
immigrati altamente qualificati;
8. agevolare fiscalmente la creazione di consorzi di servizi volte a favorire il processo di
internazionalizzazione delle piccole e medie imprese;
9. riformare il diritto fallimentare in senso meno punitivo per l’imprenditore;
10. promuovere lo sviluppo dei fondi di venture capital
[20] Gallino, L. (2003). La scomparsa dell’Italia industriale. Giulio Einaudi Editore,
Torino
13
L’Autore descrive due delle debolezze dell’economia italiana. La prima è l’emarginazione
dell’Italia dal ’cuore oligopolistico’ del mercato internazionale. La seconda, che dalla prima deriva, è un assolutamente non funzionante sistema degli incentivi alla formazione di
capitale umano e in ultima analisi di formazione della classe dirigente del paese (tramite
le endogeneità sottolineate dalla teoria della crescita endogena). L’analisi mostra come il
nostro paese ha perso (o fortemente ridotto) la sua capacità produttiva in settori industriali nei quali era stato fra i primi al mondo. È il caso dell’informatica e della chimica. Allo
stesso tempo, l’Italia è uscita quasi completamente da mercati in continua crescita quali
l’elettronica di consumo. Ma perchè l’Italia è cosı̀ in difficoltà? L’Autore individua una
lunga serie di manchevolezze della classe dirigente, dell’imprenditorialità italiana, dei molti
governi che si sono succeduti nelgi anni (accumunati però dalla pratica diffusa del clientelismo). L’Autore sostiene con forza la necessità della ricomparsa di una politica industriale,
volta a favorire l’occupazione ad alta intensità di conoscenza.
[21] Gallino, L. (2003). Politiche industriali:
Italia-Europa. Promemoria per la
sinistra. La Rivista del Manifesto, n. 43, pp. 19-24 (Ottobre)
L’analisi dell’Autore prende avvio dalla constatazione che, durante gli ultimi lustri, l’Italia
ha perso o (almeno) fortemente ridotto la sua capacità industriale in settori di permanente
rilevanza strategica quali l’informatica, la chimica, l’aeronautica civile e l’elettromeccanica
high tech. In particolare, il grave indebolimento produttivo e finanziario dell’industria automobilistica ha di fatto privato l’Italia di uno dei settori dotati di maggior capacità di traino
per l’intera economia, che si realizzerebbe attraverso la diffusione dell’innovazione tecnologica dal settore al resto della struttura produttiva del paese. Questa perdita è tanto più
grave nel caso italiano, poichè nessun altro settore può sostituire quello automobilitstico in
questo ruolo essenziale di produttore/diffusore di tecnologia. Un grande ritardo si registra
anche nel campo delle tecnologie ottiche e delle nanotecnologie. Perchè si è arrivati a questa situazione? Secondo l’A. le cause sono molteplici. Tra queste le più rilevanti sono due.
La prima è il basso tasso di investimenti in ricerca e sviluppo. L’A. quindi suggerisce che
l’Italia dovrebbe, prima di tutto, puntare ad elevare rapidamente il livello medio di formazione professionale. Una seconda importante determinante della situazione attuale è stato
il fatto di aver abbandonato (in modo irreversibile) settori strategici e di non essere stati
capaci di supportare la grande impresa di stato. L’assenza di una chiara linea di politica
economica-industriale (in parte attribuibile ad una irrazionale distribuzione delle competenza in materia) ha aggravato al situazione. L’Autore propone di prendere ad esempio, per
una riforma delle modalità di intervento dello Stato, il modello francese o quello tedesco, nei
14
quali sono accentrati in un unico organismo le competenze e gli strumenti per l’intervento
in ambito industriale e il coordinamento degli investimenti pubblici in tecnologia.
[22] Gambardella, A. e Varaldo, R. (2001). L’asimmetria piccole-grandi imprese in
Italia e l’avvento della New Economy. Economia Italiana, n.2, 337-376
Condizione necessaria per poter sfruttare appieno le opportunità di aumenti di produttività
derivanti dall’adozione di nuove tecnologie è la rimozione, soprattutto nelle imprese di
piccola dimensione, di vincoli e ostacoli di carattere organizzativo e imprenditoriale. Secondo
gli Autori il nodo strutturale dell’economia italiana risiederebbe nella carenza di dotazione
di capitale umano, in particolar modo nei settori a media e alta tecnologia. Mentre il
sistema scolastico e universitario ha il compito di aumentare l’offerta di capitale umano che
sia in grado di sfruttare al meglio le nuove tecnologie, le grande imprese devono diventare
scuole di managerialità. Il problema dimensionale italiano si è aggravato proprio a causa
dall’avvento delle ITC. Secondo gli A. l’aumento degli investimenti in capitale umano è
condizione necessaria per poter sfruttare appieno le nuove opportunità tecnologiche. A
fianco a questa altre due proposte/politiche porterebbereo, nell’opinione delgi A., a buoni
risultati. La prima è sostenere ed incentivare l’attrazione di multinazionali straniere, non
solo per fini produttivi ma anche con l’obiettivo di sviluppare collaborazioni di Ricerca e
Sviluppo, situazione che potrebbe anche generare formazioni di imprese spin-off domestiche.
La seconda è l’implementazione di politiche tese ad aumentare la dimensione media delle
imprese. Queste dovrebbero puntare a favorire i processi di ristrutturazione e merger &
acquisition. E’ quindi necessario che a politiche industriali regionali si affianchino politiche
nazionali ed europee che creino il miglior contesto possibile per lo sviluppo e la crescita
delle imprese.
[23] Grillo, M. (2004). Dentro un’ ‘economia che non gira’. Il Mulino, n. 413, p.
415-425
L’Italia è stata caratterizzata da un modello di export-led growth per tutta la seconda metà
del XX secolo. I legami tra l’industria esportatrice e il resto del sistema economico hanno
condizionato il modello di sviluppo. L’Autore suggerisce che uno dei principali elementi che
ha reso possibile il successo delle esportazioni italiane nel periodo tra gli anni ’70 e la seconda
metà degli anni ’90 sia stato il cambio flessibile. Se cosı́ fosse il nuovo contesto della moneta
unica richiederebbe un appropriato (ri)disegno della politica economica (completamente)
nuovo rispetto al passato. L’Autore rileva come nel giro di pochi decenni (tra gli anni’60 e
’70) la grande industria a elevato contenuto tecnologico (anche a causa delle varie forme di
protezione di cui è stata oggetto) ha in definitiva abdicato al suo ruolo nella definizione del15
la specializzazione internazionale italiana, sia direttamente che indirettamente (e.g. tramite
la fornitura di beni intermedi agli esportatori). L’Autore argomenta che le difficoltà delle
imprese esportatrici non sembrano dovute a debolezze proprie delle imprese: considerando
confronti intra-industry le imprese italiane esportano beni di alta qualità e incrementano il
numero di mercati di sbocco. Le difficoltà sono invece sistemiche e il problema principale
riguarda la competitività di costo. In presenza di cambio flessibile, le imprese italiane trasferivano il problema della competitività di prezzo (esclòsivamente) sul costo (allontanando
il problema e innescando la spirale svalutazione-inflazione), spostando cosı̀ il problema. Ma
oggi, fa notare l’A., il costo del lavoro non è già più un problema (’grazie’ ad un ampio processo di sostituzione in favore del capitale). I costi che le imprese sopportano originano nelle
’retrovie’, nei settori non esportatori che forniscono beni intermedi. La capacità competitiva
delle imprese esportatrici è fortemente condizionata da problemi concorrenziali nei settori
intermedi. Questa conclusione è confermata da alcuni studi empirici che mostrano come i
settori più dipendenti dai settori ’problematici’ hanno registrato una performance inferiore.
Da questa analisi, l’Autore propone come prima e necessaria azione di politica economica
per uscire dalla stagnazione un recupero di efficienza tramite un processo di aumento della
concorrenza nei settori dei servizi alle imprese. Questo azione deve essere la premessa di
un cambiamento del modello di specializzazione (obiettivo che comunque non sembra essere facile da raggiungere ne (forse) neppure necessario nel breve). Infine, l’Autore rileva
come molti degli attuali problemi legati alla mancanza di concorrenza nei settori dei servizi
siano dovuti alla cattiva implementazione del processo di privatizzazione-liberalizzazione;
quest’ultimo non ha prodotto i risultati attesi perchè guidato da un’ottica di breve periodo
che ha finito per sostituire ai monopoli pubblici monopoli privati.
[24] Mammarella, G. e Ciuffoletti, Z. (1996). Il declino: le origine storiche della crisi
italiana. Mondadori, Milano
Salvati (2004) considera questo libro come l’anticipazione di molti dei temi che verranno
poi discussi dagli economisti circa il declino economico nel decennio successivo.
[25] Marzano, A. (2002). La dimensione delle imprese italiane nello scenario della
globalizzazione. Economia Italiana, vol.3, 555-567
L’Autore giudica poco utile la contrapposizione tra piccola e grande impresa. Anzi, esisterebbe una correlazione positiva tra la performance dell’economia e la capacità di imprese di
diverse dimensioni di collegarsi in rete. Secondo l’A., poichèe la variabile dimensionale non
è la più importante nella determinazione della performance di impresa si devono cercare
gli strumenti per stimolare la competitività delle piccole e medie imprese che si collegano
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in rete. L’obiettivo è quello di ottimizzare le economie esterne: ampliare le infrastrutture,
migliorare il sostegno all’internazionalizzazione, potenziare la ricerca e il capitale umano.
Per disegnare le politiche ottimali bisogna individuare i punti deboli e forti del modello
italiano. Punti forti sono la forte specializzazione nei settori tradizionali e della meccanica.
Un punto di debolezza è invece la scarsa presenza dell’Italia nei settori caratterizzati di
economie di scala e della tecnologia. Le nuove politiche industriali dovrebbero quindi indirizzare il modello si specializzazione verso questi settori. Allo stesso tempo è necessario
supportare le nuove imprese entranti (start-up). Per quanto riguarda il vincolo finanziario
alla crescita, nel caso italiano questo riguarda principalmente la tutela degli investitori. In
pratica, attualmente nè il mercato nè la legislazione offrono le sufficienti tutele agli investitori non controllanti. Questa situazione ostacola la crescita dimensionale delle imprese.
Quindi, un ruolo centrale nell’evoluzione del modello italiano dovrebbe giocarlo il sistema
finanziario.
[26] Milana, C. e Zeli, A., (2002). Productivity Slowdown and the Role of ICT
in Italy: A Firm-Level Analysis, in OECD, The Economic Impact of ICT.
Measurement, Evidence and Implications, Paris, 2004, Chapter 12, pp. 261-277
Gli Autori svolgono un’analisi a livello di impresa per individuare le cause del rallentamento
della crescita. La causa principale che individuano è il cambiamento tecnologico negativo,
cioè un peggioramento della performance delle imprese che adottano le best-practise che
non è stato compensato dall’aumento dell’efficienza tecnica delle altre imprese. Questo
indica che il rallentamento della TFP potrebbe avere natura strutturale. Una possibile
soluzione per la situazione difficile nella quale si trova attualmente l’Italia sarebbe favorire
gli investimenti in ICT. I risultati empirici presentati nell’articolo mostrano che in tutte
le industrie considerate, la TFP è positivamente influenzata da un aumento dell’intensità
di ICT. In aggiunta,il basso tasso di accumulazione di ICT spiega una buona parte della
stagnazione italiana.
[27] Monti, P. (2005), Caratteristiche e mutamenti della specializzazione delle
esportazioni italiane, Temi di Discussione n. 559, Banca d’Italia.
Questo lavoro esamina i mutamenti nella composizione delle esportazioni italiane nel periodo compreso tra il 1985 e il 2001. L’obiettivo è di valutare come e se questi cambiamenti
abbiano concorso al rallentamento della crescita dell’export italiano rispetto a quello mondiale durante gli anni novanta. Nel periodo in esame non emergono variazioni significative
nella specializzazione delle esportazioni italiane, rimasta concentrata in due categorie di
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merci: prodotti tradizionali a basso contenuto tecnologico (calzature, tessile e abbigliamento, mobili, pelli e pellami, etc.) e manufatti specializzati di livello tecnologico medio alto.
Dall’analisi emerge che nei settori appartenenti alla prima categoria l’Italia ha tuttavia subito una progressiva erosione dei propri vantaggi comparati rispetto ai concorrenti esteri,
fenomeno che non ha invece interessato i manufatti specializzati. L’analisi empirica mostra
anche che nella seconda metà degli anni novanta la dinamica della domanda mondiale per
le varietà di merci nelle quali l’Italia è specializzata è inferiore a quella media mondiale e
che questo ha influito negativamente sull’andamento delle esportazioni. Un’analisi per indicatori sulla somiglianza delle esportazioni dei paesi della UE con quelle dei paesi emergenti
evidenzia, inoltre, una sensibilità alla concorrenza relativamente maggiore per le esportazioni italiane, soprattutto nei manufatti tradizionali. Distinguendo le esportazioni non solo
per tipologia di beni ma anche per qualità, approssimata dai valori medi unitari all’esportazione, il lavoro mostra che negli anni novanta soltanto una frazione molto contenuta delle
esportazioni italiane è stata esposta alla diretta concorrenza delle merci provenienti dai
paesi emergenti, ossia è stata venduta sui mercati internazionali a prezzi e in ammontare comparabili a quelli di queste ultime. Lo spostamento degli esportatori italiani verso
produzioni di più elevata qualità, per far fronte alle pressioni competitive provenienti dai
paesi emergenti, è stato più intenso nei comparti dei prodotti tradizionali a basso contenuto
tecnologico.
[28] Nardozzi, G. (2004). Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione.
Laterza, Bari
L’Autore analizza la storia dell’economia italiana dal miracolo del dopoguerra ad oggi. L’epoca del miracolo economico è descritta dall’Autore come un breve periodo di superamento
del problema storico dell’economia italiana che è la mancanza di concorrenza nel mercato. Secondo l’A. però quella (breve) stagione non ha avuto effetti duraturi in termini di
sistema concorrenziale. Fin dagli anni Sessanta, una sorta di sistema oligarchico ha ripreso
il sopravvento. È questa la radice dei mali che oggi fanno presagire un declino economico
italiano. Al centro della riflessione dell’A. si trova l’industria, protagonista del boom economico del secondo dopoguerra e oggi sul banco degli imputati nel dibattito sulla perdita di
attrattiva del nostro sistema Paese. L’asse portante dell’analisi è il tema della concorrenza.
L’A. espone una tesi molto chiara: le nostre attuali difficoltà dipendono dal fatto che le
imprese italiane si trovano ad affrontare una concorrenza crescente con una bassa pressione
competitiva. Senza la spinta della concorrenza, la dinamica dell’innovazione si arresta, si
perdono quote di mercato, si rallenta la crescita della produttività. Le cause di queste dif-
18
ficoltà sono molteplici e i responsabili numerosi: politici, imprenditori, sindacalisti. Il tema
principale rimane però quello del disegno di un sistema di incentivi efficiente ed efficace.
[29] Onida,
F. (1999). Quali prospettive per il modello di specializzazione
internazionale dell’Italia, Economia Italiana, vol. 3, 573-626
Alla fine degli anni ’90 l’economia italiana mostra chiari segni di debolezza per quanto riguarda il posizionamento internazionale e la competitività. Le difficoltà sono l’effetto della
presenza di due peculiarità: l’anomalia dimensionale e l’anomalia del modello di specializzazione internazionale. Il modello di specializzazione italiano presenta sempre più evidenti
limiti. In particolare: 1) scarsa presenza nei settori oligopolistici; 2) difficoltà delle piccole
e medie imprese (PMI) a controllare le fasi a valle; 3) ritardo nella crescita multinazionale del sistema produttivo. In particolare, scondo l’A., una delle debolezze più gravi del
sistema industriale italiano riguarda il basso grado di internazionalizzazione delle imprese.
Le ragioni di questo ritardo sono : 1) la piccola dimensione rende più difficile la scelta di
internazionalizzarsi anche a causa della riluttanza ad assumere managers; 2) difficoltà a
reperire supporto finanziario. Inoltre il modello produttivo italiano è caratterizzato da una
forte propensione all’importazione di tecnologia piuttosto che alla produzione della stessa.
Questo è dovuto anche alla bassissima collaborazione tra ricerca accademica e ricerca industriale. Allo stesso tempo, la presenza di poche grandi imprese minimizza la possibilità
di generare spillover tecnologici e di creare domanda di lavoratori high-skilled. Si innesca
cosı̀ una perversa dinamica bassa domanda di capitale umano/ bassa offerta. Secondo l’A.
le imprese e il contesto istituzionale non reagiscono con la necessaria rapidità alle nuove
condizioni che si creano sui mercati globali. Riassumendo, i vincoli alla competitività del
sistema Italia sono: 1) scarsa innovazione; 2) debolezza del sistema creditizio e delle banche;
3) bassa internazionalizzazione delle imprese.
[30] Onida, F. (2003). Growth, competitiveness and firm size: factors shaping the
role of Italy’s productive system in the world arena, CESPRI Working Papers,
144. Review of Economic Conditions in Italy, no.3 (2002)
L’analisi prende avvio dalla constatazione che l’anomalia dimensionale dell’economia italiana è andata accentuandosi negli ultimi anni, avendo come effetto ultimo la riduzione della
produttività media dell’economia. Secondo l’Autore la crescita dimensionale delle imprese
italiane è frenata da: 1) l’esistenza di numerose difficoltà strutturali dell’economia italiana; 2) dalla tendenza degli imprenditori a mantenere immutata la struttura organizazativa
delle imprese. Questo è un aspetto rilevante e perchè non vi è dubbio che la perdita di
competitività delle imprese italiane (in termini di export) è da attribuirsi agli ostacoli che
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la anomalia dimensionale impone rispetto alle prospettive di internazionalizzazione e di
espansione transnazionale. Ulteriore elemento di difficoltà è il disfacimento dei grandi-medi
gruppi italiani che si sono polverizzati negli ultimi trenta anni. L’A. rimarca come una
struttura industriale di questo tipo sia rischiosa soprattutto in relazione alla bassa domanda di lavoratori high-skilled che genera, nonostante la crescente offerta di capitale umano
del paese.
[31] Onida, F. (2004). Se il piccolo non cresce. Piccole e medie imprese italiane in
affanno. Il Mulino, Bologna
L’Autore argomenta come il problema che caratterizza l’economia italiana non sia tanto
(o solo) l’alto numero di piccole e piccolissime imprese, ma piuttosto il fatto che in Italia
esse non riescono a compiere il salto dimensionale. A questo si aggiunge, ulteriore motivo
di preoccupazione, il fatto che ci siano poche medie e pochissime grandi imprese in buona
salute. La ragione di questa anomalia dimensionale è da ricercarsi nell’esistenza di numerosi
vincoli alla crescita delle piccole e medie imprese (PMI). Questi sono in particolare: il
fatto che le PMI siano specializzate in settori poco dinamici della domanda mondiale, che
scontino le difficoltà di un trapasso generazionale, che gli imprenditori siano riluttanti (e
allo stesso tempo abbiamo grandi difficoltà) ad aprire al capitale di rischio, che la piccole
imprese facciano scarsa innovazione tecnologica e investano poco in formazione del capitale
umano (pecca che condividono con il complesso del sistema economico italiano), che ci siano
grandi disincentivi derivanti da un quadro istituzionale che non facilitano la transizione e
la crescita. L’Autore offre però anche motivi di ottimismo e indicazione di una possibile
strada da percorrere descrivendo le esperienze di alcuni gruppi italiani di medie dimensioni
che si sono affermati come imprese multinazionali di successo.
[32] Pellegrini, G. e Di Palma, S. (2001). Competitività del sistema Ialia:
un
confronto micro/macro. Economia Italiana, n.2, 379-400
L’analisi svolta degli Autori porta a escludere l’esistenza di indizi di un processo di declino
economico presente o futuro. Infatti i risultati dell’analisi, svolta utilizzando dati a livello
di impresa, indicano che durante il periodo 1990-2000: 1) le imprese italiane non sembrano
aver perso il passo rispetto ai concorrenti europei, in quanto la dinamica della produttività
è simile a quella tedesca; 2) le piccole imprese sembrano aver mostrato un particolare
dinamismo. Concludono quindi che il modello italiano sembra attrezzato per affrontare le
nuove sfide competitive che lo aspettano. Data la riduzione della profittabilità (dovuta in
parte alle politiche di rientro del debito) una politica utile per accellerare la crescita del
paese potrebbe essere quella di proseguire sulla strade delle privatizzazioni e liberalizzazioni
20
dei mercati in modo aumentare la competizione (e quindi l’efficienza) nei settori in cui alte
barriere all’entrata (istituzionali) permettono il mantenimento di rendite di posizione.
[33] Petrini, R. (2003).Il declino dell’Italia. Editori Laterza, Roma
L’Autore svolge un’approfondita analisi nella quale evidenzia come l’Italia si trovi, sotto
molti punti di vista, in una fase di profonda difficoltà. Alle radici del declino dell’Italia
c’è, innanzitutto, la crisi del nostro export, e l’annosa assenza dai comparti high-tech.
Le debolezze sono sempre più evidenti: imprese troppo piccole che non investono (non
possono investire) in nuove tecnologie, pochi brevetti e molti cervelli in fuga. Questo è il
risultato di anni di bassa ricerca scientifica e formazione che è ora diventa crisi dell’export. Il
problema quindi non è più (se mai lo fosse stato) un mercato del lavoro rigido ma piuttosto
un mercato del lavoro che non investe in qualificazione. L’Autore sostiene anche che in
Italia il meccanismo di ’mercato’ è assolutamente non funzionante: dominano ancora i
monopoli e i risparmiatori non si sentono protetti. A queste si aggiungono una serie di altre
difficoltà: il precariato e la disuguaglianza che aumentano, un senso di crescente insicurezza
e all’orizzonte una nuova questione morale e istituzionale.
[34] Rossi, S. (2004). Economia italiana: perchè la deriva non si muti in declino, Il
Mulino, n. 414, p. 639-650
L’Autore data l’inizio dell dibattito sul declino al 2001, in seguito alla pubblicazioni di
numerosi lavori che mostravano il divario di crescita e produttività tra Usa e Europa (l’Italia in particolare). Il divario era di vecchia ma data la fase ciclica l’aveva reso ancora
più evidente. Quella che l’A. chiama la retorica del declino si basa sui dati riguardanti la
bassissima crescita e la dinamica delle esportazioni. Anche se alcuni Autori hanno cercato
di ridimensionarne la gravità, la situazione è chiaramente critica. L’A. rileva come è molto
chiaro che la componente della domanda che è responsabile per il rallentamento della crescita economica è quella estera. Quali sono le ragioni di questa crisi di competitività? I dati
mostrano che la causa principale è l’aumento dei costi unitari di produzione. Questo non è
però causato dalla dinamica salariale o del costo del capitale ma dal declino della produttività. A sua volta la produttività si riduce non per una insufficiente offerta di fattori ma a
causa della ridotta capacità di combinare efficientemente la dotazioni di fattori.A monte di
tutto questi c’è il ritardo delle imprese italiane nell’adozione di ITC, che a sua volta è dovuta
alla peculiare specializzazione in settori tradizionali e alla ridotta dimensione delle imprese
italiane. Quindi, il binomio specializzazione-dimensione è il nodo strutturale (attraverso il
legame tecnologia (ICT) - produttività) dell’economia italiana. L’A. attribuisce il miracolo
degli anni ’50 all’attività delle grandi imprese pubbliche nei settori allora strategici (chimica
21
siderurgia automobili). Quando queste entrarono in crisi negli anni ’70 il motore divennero
le piccole imprese specializzate nel Made in Italy (invisibili allo stato e ai sindacati). Questo
modello, abile a intercettare i desideri dei consumatori a livello mondiale ha sostenuto la
nostra economia fino a quando una nuova rivoluzione ha sconvolto l’economia. La radicale
mutazione dovuta all’introduzione del nuovo paradigma tecnologico ha modificato tutto. In
questo nuovo contesto le grandi economie, fondate su grandi imprese in settori con grandi
economie di scala hanno approfittato della nuova spinta tecnologica. L’Italia invece, data la
sua peculiare struttura industriale, non ha ricevuto alcun beneficio ed è rimasta indietro.
Da questa analisi derivano alcune apparentemente semplici politiche industriali. La politica
industriale può essere perseguita in due modi. Aumentando la spesa pubblica oppure modificando le regole. Posto che le condizioni internazionali e il debito pubblico italiano non
consentono (se non con enormi sforzi di tagli da effettuare in altri comparti che genererebbero una forte opposizione da parte di diversi gruppi di interesse) la prima via rimane la
seconda. Il problema di fondo dell’economia Italia è il binomio specializzazione-dimensione.
Perchè le imprese italiane rimangono piccole? Perché gli imprenditori non entrano nei settori più tecnologicamente avanzati? Due questioni di fondo: la concorrenza e la questione
innovazione-istruzione. L’economia italiana si caratterizzata da ’sacche’ di protezione che
non creano incentivi alla crescita dimensionale (vedi anche Nardozzi (2004)). Allo stesso
tempo, il sistema Italia è incapace di generare conoscenza (sia a livello pubblico che privato) che possa essere trasferita al mondo delle imprese per favorirne la crescita. Per quanto
riguarda il primo problema, l’A. propone: 1) la liberalizzazione dei servizi di pubblica utilità riservando allo Stato la proprietà e la gestione delle reti; 2) l’eliminazione degli albi
professionali (con conseguente abbassamento dei costi per i servizi sostenuti dalle imprese).
Per affrontare il secondo problema, l’A. suggerisce di prendere a modello il sistema dei PhD
americani e anglosassoni al fine di creare una situazione di concorrenza tra università e
di forte collaborazione ricerca accademica-innovazione imprenditoriale. Propone quindi di
abolire il valore legale del titolo di studio e il ruolo pubblico dei docenti.
[35] Rossi, S. (2005). La deriva del sistema produttivo: che cosa insegna la realtà
delle imprese, Il Mulino, n. 419, p. 451-462
Le economie europee si trovano attualmente ad affrontare nuove e più difficili sfide. Da un
lato l’economia americana dall’altro le rampanti e immense economie cinese ed indiana (e
le loro consorelle asiatiche). Queste ultime, iniziano ad abbandonare la fase della copia per
iniziare la fase della concorrenza vera e propria. L’analisi prende avvio dal riconoscimento
di una fase di quasi-stagnazione a livello Europeo che assume nel caso italiano connotati
ancora più marcati. La crescita bassa registrata negli ultimi anni è dovuta alla bassa di22
namica produttiva che deriva essenzialmente da un problema di offerta e non di domanda.
In particolare si tratta di un problema di competitività internazionale del nostro sistema
industriale. Due le cause principali: 1) la specializzazione nei settori tradizionali e 2) la
piccola dimensione media delle imprese. Queste due peculiarità strutturali indeboliscono il
sistema produttivo a causa del contemporaneo emergere del nuovo paradigma tecnologico
basato sull’informatica. La produttività italiana cresce più lentamente che nel resto del
mondo perchè la piccola impresa e le imprese specializzate nelle produzioni tradizionali (o
peggio ancora quando le due cose coincidono) non possono trarre vantaggi significativi in
termini di efficienza dall’introduzione di sistemi digitalizzati. Questi infatti sono tanto più
efficienti tanto più sono applicati a processi produttivi complessi ed articolati. L’Autore
propone una suddivisione sei produttori in tre (quattro categorie): 1) quelli che hanno un
vantaggio tecnologico acquisito e quindi sono al riparo (momentaneamente) della concorrenza proveniente dai paesi emergenti, che anzi diventano per loro importanti mercati di sbocco
2) quelli che devono competere con i paesi emergenti ma che, se sono in grado di trovare
una via di uscita tecnologica (ovvero riescono a diversificare la produzione spostandosi in
settori tecnologicamente continui ma più avanzati), escono vincitori dalla competizione 3)
coloro che, anche a causa del settore di appartenenza devono accettare la sfida sul terreno
dei costi (quando il marchio Made in Italy non basta più perché i gusti mondiali cambiano
oppure la contraffazione è incontrollabile). In questo caso la delocalizzazione difensiva è
l’unica risposta di cui sono capaci. 4) coloro che di fronte alla concorrenza internazionale
si rifugiano in settori protetti (sanità privata, servizi di pubblica utilità) e alla ricerca di
rendite di posizione La premessa è un errore ricercare una riposta di breve periodo (altamente inefficiente) nel protezionismo perchè i problemi da affrontare sono di lungo periodo.
L’altra cosa da evitare è distribuire in modo indiscriminato aiuti pubblici. L’Autore propone ricette differenziate per ciascuno dei primi tre gruppi. Per quanto riguarda il primo
gruppo di produttori l’obiettivo di politica economica dovrebbe essere quello di rendere il
più efficiente possibile tutto il sistema amministrativo e legale nel quale operano le imprese.
Infatti, più che una riduzione del livello di tassazione, quello che davvero darebbe un impulso al sistema produttivo sarebbe la riduzione dei costi legati alle inefficienze della macchina
amministrativa. In questo senso, con un costo zero (al contrario che nel caso dei sussidi o
della riduzione delle tasse) si avrebbe un beneficio maggiore. Nel secondo caso invece ciò
di cui hanno bisogno le imprese è un sostegno per intraprendere l’attività di innovazione.
Questa potrebbe essere sia interna che tramite l’approfondimento o la creazione ex-novo di
rapporti di collaborazione con università e centri di ricerca. Nel terzo caso, bisogna differenziare l’intervento. Nel caso in cui l’internazionalizzazione sia la penetrazione in un nuovo
23
mercato, queste sono sempre da sostenere per le ricadute che possono innescare (anche se
probabilmente solo nel lungo periodo) sulla domanda di lavoro qualificato in Italia. Prendendo atto del fatto che la chiusura di un impresa è sempre l’esito peggiore, nel caso invece
si tratti di delocalizzazione difensiva (e quindi di riduzione di occupazione domestica che
permetta però al sopravvivenza magari di una piccola parte dell’attività in Italia) allora la
politica pubblica deve prevedere meccanismi che ne attutiscano le ripercussioni sul territorio d’origine. Obiettivo comune a tutte le tipologie rimane l’incrementare la dimensione
media delle imprese al fine di metterle in condizione di sfruttare le possibilità del nuovo
paradigma tecnologico. Un fortissimo ostacolo alla crescita dimensionale è però la natura
fortemente familiare della proprietà e la non volontà di aprirsi al mercato borsistico.
[36] Rossi, S. (2006). Ritorno alla crescita. Una visione riformista della ripresa
economica, Il Mulino, n. 423, p. 72-80
Le ragioni del ristagno dell’economia italiana negli ultimi 10 anni sono legate al mutamento
dello scenario internazionale e in particoalre: 1) al cambiamento del paradigma produttivo;
2) ai nuovi e più agguerriti concorrenti. L’anomala struttura dimensionale e la conseguente
(anomala) specializzazione produttiva hanno ostacolato il passaggio dal vecchio al nuovo
paradigma. La conseguenza è stata una riduzione della produttività e quindi della competitività del sistema Italia. Le imprese italiane hanno reagito a queste sfide in diversi modi
a seconda delle loro caratteristiche (vedi anche Rossi (2005)). Ma, secondo l’Autore, l’intervento pubblico deve orientare e indurre gli imprenditori ad adottare strategie d’attacco
più che di difesa (anche perché solo le prime possono produrre nel lungo periodo il cambiamento strutturale di cui il modello di specializzazione italiano ha bisogno). Questo non può
avvenire, come è stato in passato, attraverso un decisore pubblico ma piuttosto attraverso
politiche pubbliche ’orizzontali’. Quali? Il primo nodo da sciogliere riguarda la questione
dimensionale. La politica economica dovrebbe proporre norme e istituzioni che inducano
gli imprenditori ad aumentare la dimensione media delle imprese. Due gli strumenti: 1)
la tassazione; 2) l’azione sulla struttura finanziaria delle imprese. Il secondo nodo è quello
della concorrenza. Occorre portare a termine le liberalizzazioni con l’obiettivo di mantenere pubbliche le reti ma privati le erogazioni. Terzo, bisogna agire sull’offerta di capitale
umano di cui le imprese hanno bisogno. L’ultimo nodo è quello delle esternalità di sistema:
l’obiettivo è quello di fornire il sistema Italia delle infrastrutture sopratutto immateriali di
cui ha urgente bisogno. L’Autore fa notare come probabilmente la non attuazione di questi
obiettivi e la timidezza del centrosinistra sono dovute alla incapacità di declinare valori e
ideali in forme adatte al presente.
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[37] Saltari, E. e Travaglini, G. (2006). Le radici del declino economico. Occupazione
e produttività in Italia nell’ultimo decennio. UTET. Torino
La crescita economica europea (e quella italiana in particolare) ha iniziato a rallentare (rispetto agli USA) a partire dagli anni Settanta. Ma dalla metà degli anni Novanta questo
deficit di crescita si è accentuato. Il PIL dell’Italia è cresciuto più lentamente di quello degli
altri paesi EU e nel confronto con gli USA il reddito pro-capite in PPP è ritornato ai livelli
degli anni ’70. Questa nuova situazione è caratterizzata da due fatti stilizzati: 1) un aumento dell’occupazione accompagnato da una tenue crescita della produttività del lavoro;
2) l’aumento dei profitti, intesi sia come quota del prodotto nazionale che in rapporto allo
stock di capitale, seguito da un rallentamento dell’accumulazione del capitale per occupato
e del progresso tecnologico in essa incorporato. Gli Autori pongono al centro della loro
analisi il mercato del lavoro e la sua recente evoluzione. Nell’ultimo decennio il mercato del
lavoro italiano è stato oggetto di un profondo processo di riforma (pacchetto Treu e Legge
Biagi) che ha fortemente aumentato l’offerta di lavoro. Allo stesso tempo la moderazione
salariale ha ridotto la quota dei salari sul reddito nazionale. A fronte di questo opportunità,
però, le imprese non hanno avviato un processo (necessario) di investimento in settori ad
alta tecnologia. La persistenza del modello di specializzazione italiano ne è la riprova: la
compressione salariale, mantenendo alta la redditività di settori produttivi tradizionali, non
ha generato nessun incentivo per una trasformazione del tessuto produttivo in senso più
avanzato. A questa opportunità mal sfruttata si aggiunge il rallentamento del progresso
tecnologico che ha interessato tutti i settori dell’economia italiana. Anche se questo è un
fenomeno comune a molti paesi europei, il caso italiano è eclatante: la TFP (la misura del
progresso tecnologico) ha addirittura registrato tassi di crescita negativi trascinando verso
il basso la produttività del lavoro e la crescita del PIL. Quindi, anche se c’è stato un aumento dell’offerta di lavoro, il rallentamento della produttività, agendo negativamente dal
lato della domanda, ha frenato la crescita del reddito. La gravità della situazione si misura
comparando i dati dell’economia italiana ed europea con quella statunitense: in Europa
all’aumento dell’occupazione ha fatto da contraltare la minore crescita dell’intensità di capitale ed una caduta decisa della crescita della TFP. Questo non è accaduto invece negli
Stati Uniti dove l’utilizzo del fattore lavoro è stato accompagnato da investimenti ad alto
contenuto tecnologico e da una crescita della TFP. Per la prima volta dal secondo dopoguerra il tasso di crescita della produttività oraria del lavoro statunitense è risultato superiore
a quello europea e italiano in particolare. Gli A. mostrano come il rallentamento della TFP
(e quindi della produttività del lavoro) dipenda (almeno in parte) dalla diversa dinamica
di accumulazione nei settori ICT e non-ICT in Italia (ed Europa) vs US. Mentre l’Europa
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e l’Italia hanno accresciuto nell’ultimo decennio la quota del PIL investito nel settore non
ICT, gli USA l’hanno ridotta. Anche se la specializzazione produttiva (caratterizzata da
uno sbilanciamento verso i settori tradizionali) è in parte causa di questa dinamica, il rallentamento della produttività è presente in tutti i comparti. La causa è il ritardo europeo
(particolarmente evidente nel caso italiano) nella spesa in R&D (sia privata che pubblica).
Il differenziale di spesa privata nel caso italiano non è attribuibile in modo diretto alla
specializzazione nei settori non-ICT (per definizione caratterizzati da bassa opportunità di
innovazione). Infatti in Italia il peso dei settori ICT e di quelli tradizionali in percentuale del
valore aggiunto è analogo a quello dei paesi dell’area europea. Ciò che invece può spiegare
la differenza nella componente privata della spesa in R&D è la dimensione delle imprese e
l’organizzazione interna dei comparti industriali. A questo si aggiunge il fatto che la spesa
pubblica è sensibilmente inferiore alla media europea e ha natura orizzontale (e quindi poco
efficace).
[38] Salvati, M. (2003). Perchè non abbiamo avuto (e non abbiamo) una ”classe dirigente adeguata”? Un’interpretazione politica dello sviluppo economico italiano
nel dopoguerra, Stato e Mercato, n.3, 399-434 (anche nel supplemento della
Rivista Italiana degli Economisti (2004))
Le cause delle difficoltà dell’Italia sono molte ma tra questi spiccano per rilevanza la disomogeneità del tessuto istituzionale e culturale del paese e i problemi legati alla Pubblica
Amministrazione caratterizzata da una inefficienza elevatissima. Questa difficile situazione è poi aggravata da: 1) una struttura produttiva frammentata e caratterizzata da una
specializzazione in produzioni a bassi salari; 2) dalla mancanza di una chiara ed efficace
regolamentazione dei mercati; 3) dalla presenza di un settore pubblico ipertrofico. L’A. nega
con forza che la soluzione dei problemi dell’Italia possa essere un po’ più di flessibilità e un
po’ meno di pressione fiscale. Al contrario, la prospettiva del declino (termine che comunque
l’A. suggerisce di usare con estrema attenzione) si avvicina precipitosamente a causa di una
classe dirigente e di una gestione della cosa pubblica assolutamente incapace delle sfide che
gli si prospettano.
[39] Salvati, M. (2004). Contro il declino, una politica comune, Il Mulino, n. 415, p.
823-834
Il declino c’è, ma non è un fatto recente. Questo rimane vero anche se ultimamente la
perdita di competitività si è fatta più evidente nei confronti dei partner stranieri e l’aumento dell’occupazione è accompagnato da una riduzione della produttività (fatto non
certo incoraggiante). Il declino ha origini lontane: la metà degli anni ’60. La crescita del
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reddito dipende dall’andamento della produttività e del tasso di occupazione. Per far crescere insieme queste due quantità, le imprese dovrebbero però essere capaci di impiegare
più lavoratori senza perdere in produttività (cosa che fino ad adesso non hanno fatto). In
altre parole dovrebbero innovare, creare, essere competitive. Nel caso le imprese italiane
non fossero in grado di svolgere il loro ruolo di traino per il paese, l’A. suggerisce che un
alternativa potrebbe essere far diventare l’Italia un’attrattore di i capitali stranieri. L’A.
sottolinea l’importanza del ’buco nero’ rappresentato dal Mezzogiorno. Questa non è solo
un’area arretrata (come tante ce ne sono in Europa): i problemi più gravi riguardan la
criminalità e l’assenza di elementi essenziali per uno sviluppo economico duraturo - i.e. infrastrutture e servizi pubblici e privati. La ricetta proposta per uscire da questa situazione
è l’aumento della competizione in tutti gli ambiti: Stato, mercato e società. La risposta
al declino non può venire da manipolazione macroeconomiche anche perchè i margini di
manovra per politiche macro coraggiose sono esigui dato il contesto europeo. La strada per
il rilancio dello sviluppo passa quindi attraverso politiche micro, sul lato dell’offerta. La
causa del declino è da ricercarsi nel tempo ’sprecato’: due decenni (’70 e ’80) nei quali non
si sono implementate le riforme strutturali necessarie per adeguare l’economia alle esigenze
di un modello di concorrenza internazionale. Gli anni ’90, invece, sono serviti a mettere in
ordine i conti pubblici che si trovavano in una situazione catastrofica. Dato che la causa
prima delle difficoltà dell’economia italiana è stata di natura politica la risposta non può
che essere politica. L’auspicio e la speranza dell’A. è che si avvii un processo di ricerca e di
individuazione da parte dei ceti dirigenti (al di là degli schieramenti) di alcune priorità ed
obiettivi che possano indirizzare l’economia verso un nuovo periodo di crescita.
[40] Savona, P. e Viviani C. (2005). Sviluppo e politica economica in Italia: il ruolo degli investimenti esteri nel nuovo assetto competitivo globale. Economia
Italiana, vol. 1
Secondo gli Autori, nella valutazione della situazione dell’economia italiana non bisogna
concentrarsi esclusivamente sulla misurazione della competitività delle imprese italiane ma
sulla attrattività del paese in termini di capitali esteri. Sono infatti gli investimenti diretti
esteri il metro di giudizio per capire se il paese stia perdendo spinta o meno. Il modello
del Made in Italy, che gli A. riconoscono ha funzionato per lungo tempo, presenta però
debolezze proprio rispetto ad questo aspetto. Le delocalizzazioni sono un indicatore della
dinamicità delle imprese italiane, se queste però mantengono le fasi più preziose in Italia.
La imitabilità del Made in Italy è invece il suo lato debole. Gli Autori esprimono forte
scetticismo rispetto alle proposte di politica economica che vedono nell’aumento della spesa
in R&D uno strumento per uscire dalla fase di stagnazione e tentare di entrare in nuovi
27
settori. Gli A. infatti sostengono la necessità di mantenere la centralità del Made in Italy,
che è stato e dovrebbe rimanere il modello di sviluppo italiano. Due le ragioni. La prima
riguarda il forte e prezionso legame tra il Made in Italy e le radici storiche del Paese. La
seconda è il riconoscimento che probabilmente il ritardo col quale ci affacceremmo nei nuovi
settori è ormai incolmabile.
[41] Signorini, L. F., (2003). Introduzione, in Economie locali, modelli di agglomerazione e apertura internazionale. Nuove ricerche della Banca d’Italia sullo
sviluppo territoriale. Atti del Convegno, Bologna, 20 Novembre
L’Autore rileva come la situazione attuale dell’economia italiana presenti molti interrogativi
rispetto alla possibilità che il modello di sviluppo basato sulle piccole imprese sia sulle forze
economiche locali sappia far fronte al nuovo contesto economico. Nel decennio 1990-2000 l’economia italiana ha mostrato evidenti segnali di debolezza (PIL, rallentamento produttività
e diminuzione delle quote dell’export). Anche se rispetto a ciascuno di questi indicatori la
gravità della situazione attuale è probabilmente ridimensionabile, non si può negare che la
situazione non sia rosea. In particolare desta preoccupazione la dinamica della produttività
in relazione alla TFP e il fatto che le quote di mercato si sono ridotte anche rispetto ai concorrenti europei. In aggiunta, la durata di questo periodo suggerisce di escludere che si tratti
dell’effetto ciclico delle politiche macroeconomiche restrittive implementate per risanare la
finanza pubblica. L’A. discute la questione della peculiare struttura dell’economia italiana:
peculiare per quanto riguarda la dimensione, la specializzazione e anche il contenuto tecnologico. Il punto che l’Autore sottolinea è che, almeno fino ad ora, questa peculiarità non
ha (aveva) ostacolato il processo di crescita. Ma oggi le cose potrebbero essere cambiate
a causa del passaggio al nuovo paradigma tecnologico. In particolare le ICT potrebbero
aver modificato la situazione per tre ragioni, Primo, le ICT danno vantaggi inferiori alla
piccole imprese rispetto alle grandi. Secondo, c’è evidenza di scelte inefficienti da parte delle
piccole imprese - investono meno di quanto dovrebbero (forse per motivi culturali). Allo
stesso tempo esistono vincoli istituzionali che non facilitano la rapida trasformazione e la
riallocazione delle risorse (l’A. suggerisce che rispetto a questo, anche se qualcosa ’e stato
fatto, molto rimane da fare in tema di liberalizzazioni e privatizzazioni). Terzo, le piccole
imprese sono caratterizzate da un basso livello di capitale umano. Questo è ovviamente un
ostacolo l’adozione di ICT che, spesso, richiedono un alto livello di istruzione formalizzata.
La conclusione del lavoro è però che il rallentamento dell’economia italiana non può essere
attribuita esclusivamente alla anomalia dimensionale (cioè alla performance dei distretti) e
che invece i nodi strutturali dell’economia italiana, anche se in alcuni casi risultano essere
particolarmente rilevanti per i distretti, riguardino maggiormente le grandi imprese.
28
[42] Toniolo, G. e V. Visco (a cura di) (2004). Il declino economico dell’Italia. Cause
e rimedi. Bruno Mondadori Editori, Milano
Il libro si interroga sulla situazione attuale dell’Italia. Quali sono le cause, i caratteri, le
dimensioni del fenomeno chiamato declino? Soprattutto: in che modo si può contrastarlo?
L’analisi evidenzia una situazione difficile ma, in alcuni casi, anche alcuni elementi sui quali
puntare per superare l’attuale fase di difficoltà. Per fermare il regresso, l’Italia deve compiere un salto di qualità nella formazione, nella ricerca, nei servizi offerti allo stato sociale e nel
risanamento dei conti. Gli Autori fanno notare che alcune delle riforme necessarie a innescare un nuovo processo di crescita non richiedono risorse aggiuntive (ma anzi ne potrebbero
generare grazie alla riduzione dei costi): i.e. aumentare la concorrenza, promuovere l’efficienza della Pubblica Amministrazione, rinnovare (radicalmente) l’Università e la ricerca
(qui notano che a parità di risorse impiegate la nostra performance è peggiore di quella dei
nostri partner europei). Il messaggio generale è che la pre-condizione per realizzare questo
progetto è che si crei un ’patto’ condiviso tra società civile e classe dirigente, con obiettivi
di interesse pubblico.
[43] Toniolo, G. (2004). L’Italia verso il declino economico? Ipotesi e congetture in
una prospettiva secolare. Rivista Italiana degli Economisti, vol.1, supplemento,
p. 29-46
Il concetto di declino economico si riferisce all’incapacità di un sistema economico e sociale di
adattarsi al mutare delle condizioni esterne. Mentre la storia dell’ultimo secolo racconta un
susseguirsi di successi dell’economia italiana, a partire dagli anni ’70 il processo di rapida
convergenza rallenta. Nell’ultimo decennio la performance è stata ancora più deludente:
questo è dovuto a: 1) il declino della grande impresa anche a causa della ristrutturazione
industriale incompiuta; 2) la deriva della spesa pubblica; 3) il perpetuarsi di aspettative di
inflazione. Come rilevato anche da Salvati (2003), gli anni Ottanta sono stati una grande
occasione mancata. Nel 1992, poi la situazione precipitò e i costi che si dovettero sopportare
furono molto gravosi. Per valutare in modo equilibrato la situazione bisogna considerare sia
gli aspetti di forza che di debolezza del sistema economico italiano. I punti di forza sono: 1)
un alto livello del reddito; 2) un alto livello di produttività oraria; 3) la presenza di segnali
di ripresa delle economia del Meridione. Mentre i livelli sono paragonabili a quello delle altre
grandi economie, quello che invece preoccupa è la dinamica di queste variabili. I lati deboli
del modello riguardano: 1) la bassa partecipazione alla forza lavoro; 2) capitale sociale
insufficiente; 3) la questione dimensionale; 4) il basso livello di istruzione; 5) la bassa spesa
per ricerca e sviluppo: 6) un altissimo livello del debito pubblico. L’Autore ritiene che la
29
situazione sia grave e che sottovalutarla possa essere molto pericoloso anche perché questa
perdura da ormai molto tempo. I segnali più preoccupanti non sono quelli che vengono dalla
riduzione della crescita della produttività (perchè secondo l’Autore in linea con la dinamica
registrata in Francia e in Germania) ma piuttosto dai risultati registrati dall’export. La
perdita di competitività infatti è il segnale più chiaro ed evidente di una incapacità di
adattarsi ad un contesto che cambia rapidamente. Le ricette per contrastare il declino
sono, secondo l’A., semplici: 1) promuovere la concorrenza, privatizzare e abbandonare la
difesa dei campioni nazionali; 2) promuovere l’efficienza della pubblica amministrazione e
della giustizia; 3) rinnovare il Welfare State in modo da dare nuove e più adatte forme di
protezione; 4) riformare profondamente la scuola, l’Università e la ricerca. 5) modernizzare
le reti di comunicazione e del trasporto.
[44] Traù, F. (a cura di) (1999). La questione dimensionale dell’industria italiana.
Il Mulino, Bologna
Il libro raccoglie una serie di articoli che discutono della specificità della struttura dimensionale dell’industria italiana in relazione al suo grado di ’competitività’. La questione dimensionale rappresenta da un lato il principale imputato nei processi intentati contro l’
inadeguatezza del modello di specializzazione nazionale e contro il suo presunto ritardo tecnologico (le produzioni italiane sono considerate troppo mature a causa della prevalenza di
imprese troppo piccole per sostenere la sfida della globalizzazione in mercato che non siano
di nicchia). Dall’altro, l”anomalia’ dimensionale viene invece invocata come la principale
fonte di ’salvezza’ dei saldi commerciali e dell’occupazione: in un mondo divenuto sempre
più turbolento, nel quale è necessaria una sempre più elevata capacità di adattamento, le
realtà produttive di piccola dimensione possono essere un importante vantaggio competitivo
per il sistema Italia. La tesi centrale del libro è che la questione dimensionale e la questione
della specializzazione devono invece essere considerate simultaneamente.
[45] Trento, S. (2003). Stagnazione e frammentazione produttiva, Il Mulino, n. 410,
p. 1093-1102
L’Autore sostiene che il problema italiano non è tanto legato alla dinamica nascita/morte
delle imprese (che è simile a quella degli altri paesi europei) ma riguarda piuttosto il tasso
di crescita dimensionale delle imprese che sopravvivono che invece è molto basso. Questa
situazione non può certo essere spiegata solo dall’esistenza dell’art.18. La causa profonda
va invece ricercata in una serie di condizioni perculiari dell’economia italiana: 1) la lentezza
del sistema giudiziario; 2) la regolamentazione del mercato del lavoro che rende costoso
avere dei lavoratori dipendenti; 3) la non volontà di aprire l’impresa (familiare) all’esterno.
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Poichè secondo l’A. il problema italiano è un problema dimensionale, e quindi di natura
interna e non esterna, le proposte di nuovo protezionismo sono prive di senso. Parimenti
perdenti sarebbero i richiami all’obiettivo di modificare la specializzazione produttiva o di
far crescere l’attività innovativa (le politiche industriali per i settori strategici). Due aspetti
è bene tenere in considerazione nel disegno delle politiche: 1) l’insufficiente tutela degli
azionisti di minoranza può spiegare la riluttanza ad aprire la proprietà e quindi blocca la
crescita dimensionale; 2) le piccole imprese si caratterizzano per più bassa produttività,
salari e qualifica. Compensano tutto questo con evasione, elusione e riduzione delle tutele
sindacali e ambientali. Le ricette di politica economica che quindi l’A. propone sono: 1)
l’aumento dell’offerta di strumenti finanziari adatti a sostenere le PMI (venture capital); 2)
la semplificazione della regolamentazione dei mercati al fine di indurre le imprese a (decidere
di) crescere; 7) incentivare le imprese a fare ricerca anche mediante accordi collettivi (e non
individuali) con l’Università.
[46] Trigilia, C. (2005). Un grande assente nel dibattito sul declino: lo sviluppo
locale, Il Mulino, n. 417, p. 28-38
L’Autore rileva la scarsa attenzione dedicata nel dibattito sul declino economico italiano
al tema dello sviluppo locale. In particolare il miglioramento dell’ambiente istituzionale e
la liberalizzazione dei mercati sono condizioni necessarie ma non sufficienti per innescare
un nuovo processo di crescita e sviluppo. I problemi del modello italiano datano per lo
meno alla crisi del 1992. In quella occasione termina il modello di sviluppo basato su un
reciproco scambio tra il sostegno al dinamismo dei sistemi locali e il ’disordine’ dei conti
pubblici. La crescita dei distretti tra gli anni ’70 e la fine degli ’80 aveva compensato la
crisi della grande industria. Al fine di cercare sostegno politico tra i vari gruppi di interesse
(ad esempio attraverso la svalutazione per favorire le esportazioni e il sostegno diretto alla
domanda per le imprese - i.e. i trasferimenti verso il Mezzogiorno) quel modello di sviluppo
aveva però creato forti scompensi per quanto riguardava la finanza pubblica. L’entrata in
Europa ha modificato questo sistema in modo irreversibile. Nel momento in cui ci sarebbe voluto uno sforzo più forte per sostenere la competitività del sistema Italia, il paese
si trovava nella condizione di una grave crisi economica e politica. E’ da quel momento
che il problema della ri-organizzazione del modello di sviluppo è diventato improrogabile.
Anche le condizioni reali sono peggiorate: bassa crescita aggregata, la più bassa crescita
della domanda mondiale per i settori tradizionali, e una sempre più ridotta presenza delle
imprese italiane nei settori tecnologicamente più avanzati (che sono quelli che crescono di
più a livello mondiale). La produttività cresce poco anche perchè non si sfrutta il potenziale
derivante dall’introduzione delle ICT (questo a causa della bassa dimensione media delle
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imprese e alla loro specializzazione). Rimangono e si aggravano i problemi legati al Mezzogiorno (alto tasso di disoccupazione e criminalità). Le politiche proposte contro il declino
- liberalizzazioni e il miglioramento del contesto istituzionale - sono accomunate dall’idea
che una volta offerti gli incentivi corretti ad attori isolati questi siano in grado di innescare
lo sviluppo. Al contrario l’Autore individua nel carattere relazione dell’economia contemporanea l’elemento cruciale per disegnare nuove politiche per lo sviluppo. Questo perchè il
processo di innovazione richiede la compartecipazione di molti e differenti soggetti pubblici
e privati individuali e collettivi. Secondo l’A. la sfida competitiva si vince anche grazie ai
beni collettivi ’dedicati’ che sono il frutto di una intensa collaborazione e scambio tra impresa e politica locale. Ne consegue che per superare il problema del nanismo delle imprese
italiane non sia affatto sufficiente ridurre ’lacci e lacciuoli’ o introdurre schemi individuali
di incentivi. Le medie imprese organizzate a rete hanno invece bisogno di input specifici che
da sole non possono produrre. Strettamente legato a questo discorso è quello che riguarda
il tema dell’innovazione. E’ opinione condivisa che l’interazione università-realtà imprenditoria locale è cruciale. Secondo l’A. però finanziare la ricerca o creare le condizioni per il
venture capital sono solo condizioni necessarie ma non sufficienti per riavviare il processo di
crescita. Quindi le politiche pubbliche devono avere come obiettivo quello di legare e coordinare i diversi soggetti. Si evidenzia cosı̀ la necessità di una autorevole leadership politica.
Le politiche di sviluppo devono essere ben delimitate e valutabili sia ex-ante che ex-port.
L’A. si fa promotore di visione che nega la necessità della separazione tra sfera politica e
mercato. Solo una sinergia tra le due può permettere all’economia italiana di ripartire.
[47] Vaciago, G. (2003). Il declino dell’economia italiana, Il Mulino, n. 410, p. 10841092
La difficile situazione economica che caratterizza tutti i paesi dell’area Euro è dovuta alle
modalità di introduzione della moneta unica e dei meccanismi previsti per sostenere la
crescita economica nell’Unione Monetaria. In ogni caso, nota l’Autore, rimane comunque da
spiegare la più bassa crescita della produttività in Italia, sia rispetto al passato che rispetto
agli altri paesi europei. Il problema di fondo è la bassa interazione tra il nuovo paradigma
tecnologico della New Economy e le caratteristiche strutturali della nostra economia. Una
spiegazione l’attuale declino a partire dai problemi di sempre (troppe piccole imprese, molta
burocrazia, poca innovazione) dell’economia italiana non convince l’Autore. Qualcosa di
nuovo deve essere infatti intervenuto se le stesse condizioni che prima non impedivano la
crescita ora sembrano bloccarla. Secondo l’A. il punto centrale è che la New Economy
ha necessità, per poter distribuire i suoi benefici all’intero sistema economico, di trovare
un mercato di ’qualità’. Il problema è che, mentre in Italia si è per anni discusso solo di
32
riforme del mercato del lavoro, i mercati dei beni e dei capitali sono rimasti immutati. E’ la
qualità di questi mercati che invece deve ora necessariamente migliorare data la strettissima
complementarità tra questi e la New Economy. Allo stesso tempo sia l’euro che la New
Economy richiedono un aumento della specializzazione produttiva per sfruttare la massimo
i propri vantaggi comparati. Anche sotto questo aspetto sembra che l’Italia sia in ritardo.
Seconodo l’Autore infine, è assolutamente necesaria una semplificazione e una divisione
chiara delle responsabilità di governo e amministrative. In concreto le proposte dell’A.
sono: 1) più concorrenza tra le imprese e più cooperazione tra i governi della UE. 2)
limitare l’intervento statale alla regolazione e alla gestione dei beni pubblici; 3) investire in
creazione di capitale umano - istruzione; 4) sfruttare le potenzialità della New Economy;
5) riformare il Welfare state in modo che possa accompagnare il cambiamento strutturale
di cui l’economia italiana ha bisogno; 6) attirare investimenti stranieri.
[48] Vaciago, G. (2005). Ma è davvero recessione?, Il Mulino, n. 420, p. 733-742
L’Autore argomenta che la situazione nella quale si trova l’Italia da più di dieci anni è
un ritardo (o declino) e non una recessione. La distinzione è ovviamente è importante.
Infatti, mentre nel secondo caso si tratterebbe di un problema macroeconomico causato
dalla temporanea caduta della domanda aggregata, nel primo caso si avrebbe a che fare con
un problema microeconomico legato alla mancata crescita o addirittura alla diminuzione
della produttività. E’ chiaro quindi che le ricette saranno completamente diverse. L’Autore
sostiene che siamo di fronte ad un problema di crescita della produttività dovuta alla bassa
adozione di tecnologie ICT. Allo stesso tempo, è la mancanza di pressione competitiva
nella nostra economia che rallenta il processo di acquisizione di queste tecnologie da parte
delle imprese. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che poco si può fare sul
lato della domanda, dove gli strumenti di politica monetaria e di bilancio pubblico sono
già ampiamente utilizzati. Il problema è la mancanza di fiducia che impedisce qualsiasi
manovra espansiva di produrre crescita, presagendo già la stretta successiva necessaria al
suo finanziamento. L’alternativa da perseguire è invece un impulso alla crescita che ridia
fiducia ai consumatori. L’Autore attribuisce gran parte della responsabilità per la situazione
nella quale si trova il Paese alle politiche economiche sconsiderate portate avanti dal governo
Berlusconi.
[49] Varaldo, R. (2004). Competitività, economie locali e mercati globali: alle radici del declino industriale e delle vie per contrastarlo. Economia e politica
industriale, vol. 31, p. 43-65
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L’Autore analizza la situazione attuale dell’economia italiana adottando come punto di
osservazione la realtà dei distretti manifatturieri. Partendo dalla premessa che l’economia
globalizzata richieda una trasformazione verso una produzione altamente knowledged-based,
l’Autore individua nella bassa offerta di lavoratori skilled il principale vincolo alla crescita.
Il modello italiano basato sui distretti soffre in modo particolare di questa scarsa offerta. Ma
questo, ovviamente non è l’unico ostacolo. Il modello distrettuale, che in passato ha sostenuto il processo di sviluppo dell’economia italiana mostra, in questo momento di difficoltà
e trasformazione, come i pregi di una volta si siano tramutati in difetti. Per superare questa
fase i distretti devono trasformarsi da poli di eccellenza produttiva in poli di eccellenza
innovativa oltre che di marketing e di capacità di difesa dei mercati. Per attuare questo
programma di medio-lungo c’è necessità di cooperazione tra imprese, istituzioni centrali e
locali e le istituzioni di formazione e ricerca. In questo senso, è fondamentale che la qualità e
la quantià dell’offerta di capitale umano siano adeguate alla necessità di imprese che devono
competere a livello globale.
[50] Venturini, F. (2004). The determinants of Italian slowdown: what do the data
say? Mimeo
La tesi dell’Autore è che l’Italia ha sfruttato in modo molto marginale l’opportunità offerta dalle ICTs a causa di un sistema-paese che non favorisce l’innovazione. Il dato più
importante riguarda però il fatto che l’Italia mostra segni di debolezza (i.e. bassa crescita
della produttività) sempre più evidenti nei settori tradizionali. A questo si aggiunge una
ulteriore carenza nei settori nei quali l’Europa è già molto indietro rispetto agli USA (i.e.
servizi che utilizzano ICTs). Dai dati emerge chiaramente che la ragione prima del rallentamento della crescita della produttività è dovuta alla caduta constante e quantitativamente
rilevante della TFP. Poichè, nel caso italiano, i settori tradizionali rappresentano una quota
notevole del PIL, il rallentamento lı̀ verificatosi ha fortemente influenzato la dinamica della
produttività aggregata del lavoro. Anche se il rallentamento della crescita della TFP è un
accadimento che ha accomunato altre economia avanzate negli ultimi dieci, questa riduzione
nel caso italiano è: 1) più marcata; 2) più persistente (è iniziata a fine degli anni ’80); 3)
caratterizza la maggior parte dei settori italiani (tanto che anche i settori high-tech registrano una riduzione nella crescita dell’efficienza). La causa principale di questa dinamica
è da ricercarsi nella bassa capacità innovativa dell’intero sistema-paese. Una seconda causa
della riduzione della crescita della TFP può essere l’eccessiva regolamentazione del mercato.
Infatti, la presenza di barriere amministrative, riducendo la concorrenza, riducono anche gli
incentivi per le imprese a sfruttare nel modo più efficiente le risorse o ad adottare tecnologie
d’avanguardia. Questa interpretazione è supportata dall’analisi che mostra come le ICTs in
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Italia sembrino generare basse esternalità. L’Autore suggerisce che, se l’obiettivo è quello
di aumentare l’efficienza dell’intera economia, allora il primo settore nel quale le barriere
amministrative devono essere ridotte è quello dei servizi. Questo produrrebbe due effetti
positivi: 1) un effetto diretto che agirebbe attraverso l’aumento dell’efficienza del settore
stesso; 2) un effetto indiretto attraverso l’aumento dell’efficienza dei settori che usano i
servizi. L’autore fa infatti notare come in Italia i servizi sono i settori più regolamentati
(rispetto alla media OECD) e sono quelli nei quali la crescita della TFP ha rallentato di
più durante gli anni ’90
[51] Viesti, G. (2005). Poche e grandi scelte per il Mezzogiorno, Il Mulino, n. 418,
p. 261-270
L’Autore sostiene che una delle maggiori debolezze del sistema Italia sia senza dubbio rappresentata dal Mezzogiorno. Quindi la domanda centrale del dibattito sul declino economico
italiano dovrebbe essere: come valorizzare il Mezzogiorno per far crescere di più l’Italia?
L’Autore rileva come invece questo problema non sia al centro del dibattito economico politico. Probabilmente è cosı̀ perchè buona parte della classe dirigente considera improbabile
che la situazione nel M. possa migliorare. La conseguenza è che si cerca quindi di far crescere
il Paese nonostante il Mezzogiorno. La posizione dell’Autore è che invece proprio i momenti
di difficoltà acuta come quello presente sono quelli più adatti per discutere con ambizione
delle possibili soluzioni di un porblema grande e annoso come quello del M. La prima scelta
da fare riguarda la distribuzione degli investimenti: dove concentrare lo sforzo di politica
economica. Mentre la (non detta) strategia attuale è quella di investire nel Centro-Nord
confidando che ’la locomotiva traini i carrelli di fondo’ servirebbe invece una politica di
investimento forte nelle carenti infrastrutture del M. che sono l’elemento indispensabile per
la crescita. L’Autore sostiene che l’attuale politica sembra invece avere come riferimento
culturale il timore che qualsiasi investimento nel M. sarebbe immediatamente preda di una
classe politica e imprenditoriale clientelare o addirittura criminale. In questo senso anche la
continuazione del processo di liberalizzazione (si pensi agli scali aeroportuali) si rivelerebbe
la politica migliore per ridare slancio al Sud. Una volta che si sia deciso di mettere al centro
della politica economica il M., bisogna ovviamente decide cosa fare nel concreto. L’Autore
propone di liberalizzazione e riorganizzazione le attività economiche e di rafforzare i fattor
di competitività: istruzione; infrastrutture, ricerca. In particolare propone lo spostamento
di risorse dai trasferimenti da famiglie e imprese agli investimenti: in altre parole da interventi per compensare le imprese per le diseconomie ambientali nelle quali sono costrette ad
operare ad interventi per rimuoverle. Tutto questo deve ovviamente accompagnarsi al disegno di una governance multilivello per poter efficacemente implementare queste politiche.
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Si arriva quindi all’ultima questione - che è poi sempre stata quella centrale - quella della
qualità del governo locale. Secondo l’Autore, più che una questione economica, la questione meridionale è oggi una questione politica, di classe dirigente. Allo stresso tempo, però,
una politica contro il declino economico non può certo solo basarsi sull’attività delle classi
dirigenti locali (che necessitno comunque una più attenta selezione e controllo) ma deve necessariamente basarsi su grandi scelte nazionali, nel quadro delle politiche comunitarie. Un
ruolo di primo piano hanno in questo senso sia la politica estera che la politica commerciale
(il cui obiettivo dovrebbe essere allargare il mercato di sbocco del M.); la costruzione di reti
di trasporto e comunicazione per avvicinare il M. al Mediterraneo; regole di concorrenza
che stimolino la qualità e la quantità dell’offerta di servizi.
[52] Visco, I. (2004). La crescita economica in Europa:
ritardi e opportunità,
L’Industria, vol.2, p. 289-316
In questo lavoro si discutono i risultati di un’indagine OECD dal titolo: The Sources of
Economic Growth in OECD Countries. L’A. mostra come durante gli ultimi 10-15 anni
si sia verificato un notevole rallentamento della crescita in numerose economia europee. Il
basso tasso di crescita del PIL in Europa è il risultato di un tasso di utilizzazione della
forza lavoro insufficiente e di una contemporanea diminuzione della produttività del lavoro.
La seconda è l’effetto di una ridotta accumulazione di capitale, non tanto in termini di
quantità ma piuttosto di insufficiente investimento in ICT e capitale umano e R&D. L’A.
suggerisce come una sia necessaria una ampia riforma della regolamentazione dei mercati
sia dei beni che dei fattori affinché le imprese possano innovare e crescere. Queste difficoltà
caratterizzano in modo particolare l’economia italiana.
[53] Vivarelli, M., Piga, M. e M. Piva, (2004). Il triangolo competitivo: innovazione,
organizzazione e lavoro qualificato. Mimeo
Secondo gli Autori, il declino economico dell’Italia è dovuto all’esaurimento delle potenzialità di un modello di specializzazione basato sui settori tradizionali, sul ruolo delle piccole
imprese (anche laddove queste si siano organizzate in senso distrettuale) e sulla prevalenza
di scelte innovative centrate sul progresso tecnico incorporato e sulle innovazioni di processo. Sul piano strutturale sono quindi auspicabili: 1) un’articolata riconversione industriale
che incentivi lo sviluppo dei settori avanzati; 2) la progressiva diminuzione delle politiche
a sostegno della micro e piccola impresa e della natalità imprenditoriale e l’incremento invece - di politiche di supporto alle medie imprese e alla crescita post-entry; 3) una politica
industriale e dell’innovazione favorevole agli investimenti in R&S, con particolare riferimento alle innovazioni di prodotto. Passando al livello di impresa, la tesi degli Autori è che
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la reazione alla tendenza al declino debba passare per una co-evoluzione dei tre vertici di
un triangolo competitivo. In pratica sono necessari rilevanti e contemporanei investimenti
in innovazione, cambiamento organizzativo e risorse umane. Infatti, la semplice esortazione ad aumentare indistintamente gli investimenti in innovazione appare intrinsecamente
insufficiente a risollevare il livello di competitività delle imprese industriali italiane. Gli interventi di politica economica dovrebbero invece includere: 1) il sostegno diretto o indiretto
all’ammodernamento delle strutture organizzative delle imprese; 2) il coinvolgimento delle
rappresentanze aziendali nella previsione e gestione dei fenomeni di skill-bias; 3) il rafforzamento dell’educazione generalista. Quindi, mentre le questioni di struttura industriale
possono essere affrontate solo con un’opportuna politica volta ad incoraggiare sia lo sviluppo dei settori più intensivi in ICT sia gli investimenti in R&S da parte delle medio-grandi
imprese, gli Autori sostengono che si debba anche operare a livello delle singole imprese nell’incentivare uno sviluppo equilibrato del triangolo innovativo e competitivo che concerne
tecnologia, organizzazione e risorse umane. La tesi proposta è che le imprese italiane non
solo siano poco innovative ma siano anche incapaci di coniugare virtuosamente progresso
tecnologico, cambiamento organizzativo e riqualificazione delle risorse umane.
[54] Zanetti, G. (2001). La competitività del sistema produttivo italiano nella
prospettiva europea. Economia Italiana, n.2, 299-335
Le debolezze del sistema Italia sono dovute: 1) alla questione dimensionale; 2) alla bassa
specializzazione nei settori basati sulla scienza; 3) alla rigidità nell’allocazione delle risorse
(in particolare il lavoro); 4) alla vulnerabilità energetica; 5) ai bassi investimenti in ricerca.
L’ obiettivo da perseguire è quindi un aumento della competitività tramite l’aumento del
valore aggiunto e della resa dei fattori impiegati. Uno dei problemi dell’Italia è che le piccole
imprese non sono più un fattore di dinamicità ma un fattore frenante per il progresso di upgrading qualitativo della produzione. Questo limite è tanto più importante e stringente oggi
che non si può sperare di conseguire ulteriori riduzioni dei costi di produzione. Per quanto
riguarda le proposte, l’Autore sottolinea come la ricetta per aumentare la competitività
non può però venire da un generica richiesta di aumentare le risorse destinate alla ricerca o
alla diffusione dell’innovazione. L’approccio da seguire invece è quello della gradualità nel
migliorare la struttura esistente anche se l’obiettivo di lungo periodo rimane quello della sua
profonda modifica. Nell’immediato sembra infatti necessario rispondere alla sfida proveniente dai nuovi competitori. Per quanto riguarda il finanziamento della ricerca, dati i vincoli,
l’Autore propone di concentrali su pochi importanti progetti in modo da raggiungere una
scala minima di efficienza e di rendere le italiane imprese degli interlocutori credibili a livello
internazionale. Allo stesso tempo il fatto che la produzione mondiale si stia evolvendo nella
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direzone della forma reticolare apre, secondo l’Autore, nuove prospettive al sistema Italia,
che con l’esperienza delle piccole imprese e dei distretti ha già un bagaglio di competenze
adatte a questa nuova situazione. C´è però bisogno di un forte processo di integrazione e
aumento di coordinamento tra le piccole imprese per sfruttare questa nuova opportunità.
Quindi le politiche pubbliche devono avere come obiettivo: 1) l’incentivo al coordinamento
e all’integrazione; 2) il sostegno delle start-up soprattutto nei settori più avanzati tecnologicamente. Questo nel breve perio. Nel lungo è indispensabile indurre una trasformazione
strutturale della produzione italiana verso beni a più alto contenuto tecnologico e di valore
aggiunto.
[55] Zanetti, G. (2005). Tratti strutturali dell’economia italiana: rigidità dell’offerta
e competitività. Economia Italiana, n.1, pp. 15-57
L’Autore argomenta come la strada da perseguire per risollevare l’economia italiana sia
l’aumento della produttività tramite l’innovazione di prodotto (piuttosto che attraverso un
aumento della produttività indotto da un aumento del livello di meccanizzazione). Ostacolo
a questa trasformazione è la rigidità del sistema italiano e in particolare la sua (persistente)
specializzazione in settori a bassa tecnologia. Risulta quindi necessario aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo ma tenendo in dovuta considerazione la necessità di attuare
piani selettivi di investimento dati i vincoli alla spesa. La ricerca di un maggior coordinamento tra ricerca pubblica e privata nell’attuazione di progetti trasversali va accompagnata
sia da politiche orizzontali di contesto che facilitino gli investimenti sia da un quadro di
incentivi stabili. Un punto centrale della proposta dell’Autore è la soluzione della questione dimensionale. Per risolvere questa anomalia italiana bisogna andare nella direzione di
accordi tra imprese o di veri e propri processi di aggregazione. E’ inoltre necesario accompagnare questa fase di trasformazione con opportune politiche che favoriscano e facilitino
il cambiamento strutturale (ammortizzatori sociali).
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Appendice: Criteri adottati per selezionare la Bibliografia
La bibliografia è stata costruita considerando tutti i lavori (libri, articoli, working papers)
pubblicati negli ultimi 20 anni (cioè a partire dal 1988), indipendentemente dalla nazionalità
dell’Autore(i) e della lingua utilizzata.
Nella ricerca libera sul web sono stati utilizzati i motori di ricerca GOOGLE e GOOGLE
SCHOLAR.
Per la ricerca bibliografica di libri, articoli e working papers sono state utilizzate le banche
dati:
• ECONLIT
• JSTOR
• ELSEVIER
• BLACKELL
• IDEAS
• SSRN
• ESSPER (LIUC)
Sono stati analizzati tutti i lavori risultati dall’inserimento delle seguenti ’parole chiave’
(introdotte sia in italiano che in inglese):
• economia italiana
• declino italiano
• declino economico italiano
• anomalia italiana
• specializzazione internazionale Italia
• anomalia specializzazione Italia
• dinamica produttività Italia
• rallentamento produttività Italia
• dinamica crescita Italia
• rallentamento crescita Italia
• questione dimensionale Italia
• politica sviluppo Italia
• politica economica Italia
• politica industriale Italia
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Di ognuno degli Autori dei lavori inclusi nella bibliografia, nonché degli Autori citati nelle
bibliografie di ciascun lavoro, si è analizzata l’intera produzione scientifica degli ultimi 20 anni,
verificando l’esistenza di eventuali altri lavori sull’analisi della performance dell’economia italiana
o sul tema del declino economico italiano rilevanti per la presente discussione ma che fossero
rimasti esclusi dalla ricerca precedente.
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