diritto ecclesiastico

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Collana diretta da F. Izzo
(magistrato) e G. Abbate (avvocato)
L’ESAME
di
AVVOCATO
2012
SINTESI MIRATA
di
DIRITTO ECCLESIASTICO
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Gruppo Editoriale Simone
Estratto della pubblicazione
20
12
SIMONE
EDIZIONI GIURIDICHE
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Nozione, principi e fonti t Patti Lateranensi
t Nuovo Concordato t Stato della Città del Vaticano
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clero) t Enti ecclesiastici
t Patrimonio ecclesiastico t Matrimonio
t Altre confessioni religiose
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Estratto della pubblicazione
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80123 Napoli
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È vietata la riproduzione anche parziale
e con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione
scritta dell’editore.
Tutti i diritti di sfruttamento economico dell’opera appartengono alla Simone S.p.A.
(art. 64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30)
Ideazione, progettazione, direzione: Federico del Giudice
Grafica di copertina a cura di Giuseppe Ragno
Per conoscere le nostre novità editoriali consulta il sito internet: www.simone.it
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PREMESSA
Questo volume — aggiornato al maggio 2012 — nato dalla quarantennale esperienza delle Edizioni Simone, consente al lettore informatizzato di avere sul
proprio tablet, i-phone, lettore e-book, pc e altri strumenti informatici una comoda sintesi della materia d’esame.
La scelta degli argomenti e il loro approfondimento sono stati calibrati sulle principali domande d’esame che abitualmente vengono proposte agli aspiranti avvocati e che sono oggetto di vivaci discussioni e confronti sui forum specialistici.
Un ricco elenco di tali domande è riportato in calce a questo volume.
La stesura di questa sintesi mirata tiene conto che il lettore è già in possesso di
pregresse conoscenze di base che è chiamato — per sostenere il coloquio — a
“rinfrescare”; pertanto vengono presentati alcuni argomenti ritenuti importanti sotto forma di trattazione organica, altri sotto forma di schede riassuntive
sulle quali è facile orientarsi.
Opportuni approfondimenti giurisprudenziali sono stati sapientemente inseriti per consentire all’ esaminando di dimostrare durante il colloquio padronanza e dimestichezza anche con l’applicazione pratica delle norme.
Si consiglia di affiancare ed integrare questo e-book con lo studio dei compendi e manuali Simone nonché con i volumi della collana “I quaderni per l’esame di avvocato”, di cui questo lavoro non rappresenta una duplicato, ma solo
una utile e ragionata sintesi panoramica del programma d’esame.
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DIRITTO ECCLESIASTICO
CAPITOLO 1: Il diritto ecclesiastico: definizione,
principi e fonti
Pag.
5
CAPITOLO 2: I Patti Lateranensi ed il nuovo Concordato
Pag.
10
CAPITOLO 3: Santa Sede e Stato della Città del Vaticano
Pag.
14
CAPITOLO 4: Le persone fisiche nel diritto ecclesiastico. Il clero
Pag.
20
CAPITOLO 5: Gli enti ecclesiastici
Pag.
27
CAPITOLO 6: Il patrimonio ecclesiastico: entrate
di diritto pubblico ed entrate di diritto privato
Pag.
33
CAPITOLO 7: L’amministrazione del patrimonio ecclesiastico,
gli edifici di culto e i beni culturali di interesse religioso
Pag.
38
CAPITOLO 8: Il matrimonio
Pag.
42
CAPITOLO 9: Le confessioni religiose diverse dalla cattolica
Pag.
56
CAPITOLO 10: Fenomeno religioso ed esperienza giuridica
Pag.
61
Questionario
Pag.
72
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CAPITOLO 1
Il diritto ecclesiastico: definizione,
principi e fonti
Sommario: 1. Definizione. - 2. Principi costituzionali del diritto ecclesiastico italiano. - 3. Le fonti del diritto ecclesiastico.
1. DEFINIZIONE
Il diritto ecclesiastico è quella parte dell’ordinamento giuridico statale avente ad oggetto la
disciplina, nell’ambito dello Stato stesso, del fenomeno religioso (DEL GIUDICE, SARACENI).
A differenza di quanto accade in Paesi, quali la Gran Bretagna e la Francia, dove le tematiche relative al fenomeno religioso sono inserite nell’ambito del diritto pubblico, amministrativo o privato, in Italia – così come in Spagna, Austria, Germania etc. – tali tematiche sono trattate in maniera autonoma in quanto dotate di propri elementi di specificità e di criteri
metodologici originali (MUSELLI - TOZZI).
Il diritto ecclesiastico in Italia, pertanto, si caratterizza:
— come parte del diritto interno in quanto si tratta di un complesso di norme che vige all’interno dello Stato;
— quale ramo del diritto pubblico poiché contempla diritti soggettivi pubblici spettanti a persone
fisiche o giuridiche che vivono nell’organizzazione statale.
Fino all’Accordo del 18 febbraio 1984, il nostro ordinamento giuridico operava una netta distinzione tra la religione cattolica, considerata come religione dello Stato (art. 1 Trattato Lateranense) da un lato, ed i culti acattolici (cd. culti ammessi) dall’altro; di conseguenza, e relativamente al nostro ordinamento, secondo alcuni autori (FEDELE, PETRONCELLI) per
diritto ecclesiastico doveva intendersi «quel complesso di norme che disciplinavano la vita della Chiesa cattolica entro l’ordinamento dello Stato» mentre il complesso delle norme statuali che regolavano (ed in effetti tuttora regolano) la vita dei culti differenti da quello cattolico rappresentava, invece, il «diritto dei culti acattolici».
Venuto meno, con l’art. 1 del sopramenzionato Accordo, il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato, non è più possibile parlare di una distinzione tra Chiesa cattolica e altre confessioni religiose, l’una e le altre tutte
egualmente libere di fronte alla legge (art. 8 comma 1, Cost.).
Oggi, pertanto, col termine diritto ecclesiastico, deve intendersi, in Italia, «il complesso delle norme che, ispirandosi ai
principi costituzionali di libertà e di eguaglianza religiosa, disciplinano, con regimi giuridici particolari, i rapporti dello Stato
con la Chiesa cattolica nonché con le confessioni diverse dalla cattolica».
In questo senso il diritto ecclesiastico va tenuto distinto dal diritto canonico che è il diritto interno della Chiesa cattolica.
Differenze tra diritto canonico e diritto ecclesiastico
Il diritto canonico studia i principali elementi che formano la struttura del diritto della Chiesa come orr
dinamento giuridico.
In particolare tale disciplina tratta la struttura e l’organizzazione giuridica fondamentale del Popolo di
Dio, i principi e le norme giuridiche che danno senso e coerenza all’intera disciplina canonica.
Tali norme fondamentali — alcune di istituzione divina, altre derivanti da opzioni storiche del legislatore — sono diffuse in tutto l’ordinamento canonico.
In questa luce vengono esaminati, fra gli altri: lo statuto giuridico fondamentale del fedele, la potestà
ecclesiastica, gli organi costituzionali di governo e la dimensione universale e particolare della Chiesa.
Il diritto ecclesiastico considera la posizione di diversi ordinamenti civili nei confronti della dimensione
religiosa e i principi cui questi ordinamenti si ispirano, particolarmente in rapporto con la religione cattolica. Esamina sotto un profilo formale le fonti statali di natura costituzionale o pattizia (concordati, inEstratto della pubblicazione
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Diritto ecclesiastico
tese, accordi ecc.), nonché le norme da esse derivate e il valore degli ordinamenti confessionali (particolarmente quello canonico) nei confronti del diritto civile. Studia poi i temi della libertà religiosa, la posizione giuridica delle confessioni, la personalità degli enti religiosi, lo statuto dei ministri del culto, il matrimonio religioso, la libertà di insegnamento, la cooperazione economica ecc.
2. PRINCIPI COSTITUZIONALI DEL DIRITTO ECCLESIASTICO ITALIANO
I principi fondamentali del diritto ecclesiastico, sono sostanzialmente i seguenti:
a) libertà religiosa, sancita dall’art. 19 Cost.: ciascun individuo, non importa se cittadino, straniero od apolide, ha il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa. Tale diritto
tutela la libertà di coscienza di ciascuno in ordine ai quesiti fondamentali sul senso dell’esistenza, sia in senso positivo, come sentimento religioso, sia in senso dubitativo, come agnosticismo, sia in senso negativo, come convinzione dell’inesistenza di una realtà trascendentale o ateismo. La libertà religiosa è garantita sia in forma individuale che collettiva e può
concretizzarsi nel proselitismo e nell’esercizio in privato o in pubblico del culto. L’unico limite espresso riguarda le manifestazioni esteriori del culto, i riti, che non possono essere contrari al buon costume, ossia l’insieme dei precetti che impongono un determinato comportamento nella vita di relazione, la cui inosservanza comporta che risulti violato il pudore sessuale, la dignità sessuale e il sentimento morale dei giovani. La libertà religiosa trova, invece,
un limite implicito nell’esigenza di garantire altri beni costituzionalmente rilevanti, come ad
esempio la dignità umana, i diritti fondamentali, il diritto di agire in giudizio, ecc. La libertà
religiosa è ulteriormente tutelata dai divieti sanciti dall’art. 20 Cost., che vieta l’imposizione
di limitazioni legislative o di speciali gravami fiscali agli enti per il solo fatto che essi abbiano carattere ecclesiastico o per il loro fine religioso.
Trattasi di un diritto pubblico subiettivo che richiede l’astensione da qualunque atto che possa limitarne o impedirne l’esercizio;
b) principio di laicità dello Stato: si tratta di un principio supremo dell’ordinamento che caratterizza la forma di Stato repubblicana. Il suo contenuto emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e
20 della Costituzione e implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni e al fenomeno religioso, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale (Corte cost., sentenza n. 203 del 1989). Il carattere laico dello Stato italiano non risponde, quindi, a principi di ostilità od estraneità nei confronti del fenomeno religioso o, al contrario, di confessionismo, bensì si pone al servizio di
concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini.
Il principio di laicità si coniuga strettamente con alcuni corollari:
— la distinzione degli ordini, affermata dall’art. 7, comma 1 («Lo Stato e la Chiesa sono,
ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani») e dall’art. 8, comma 2 Cost. («Le
confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri
statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano»). In base a tale
separazione di competenze, esistono materie che sono riservate alla sfera spirituale e materie che sono sottoposte alla esclusiva regolamentazione della sfera temporale. Ciò comporta, da un lato, che lo Stato non può interferire nella sfera di competenza spirituale, in
quanto qualunque atto di religione e delle sue istituzioni rappresenta sempre, per esso,
esercizio della libertà dei propri cittadini e, come tale, non può essere oggetto di interventi precettivi. Lo Stato, inoltre, non può ricorrere a obbligazioni di carattere religioso
per rafforzare l’efficacia dei suoi precetti o considerare la religione e gli obblighi morali
che ne derivano come imposti quali mezzo a fine dello Stato stesso. La Chiesa, a sua volta, non può pretendere di considerare le finalità dello Stato in modo strumentale rispetto
alle proprie, né tanto meno che le attività ritenute da essa necessarie all’interno della propria sfera di competenze abbiano immediatamente efficacia anche nell’ambito di sovranità spettante allo Stato;
Capitolo 1: Il diritto ecclesiastico: definizione, principi e fonti
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— l’equidistanza ed imparzialità nei confronti di tutte le confessioni religiose. Tale principio si ricava dal riconoscimento dell’eguaglianza religiosa sancita dall’art. 8, comma 1
Cost. («Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge») e dal divieto di discriminazioni basate sulla religione contenuto nell’art. 3 Cost. Non sono, quindi,
ammesse discriminazioni tra i culti che si basino su criteri di carattere quantitativo, ossia
sulla maggiore diffusione di una determinata confessione religiosa, o su criteri di natura
sociologica, ossia sulla maggiore ampiezza e intensità della reazione sociale ad eventuali violazioni dei diritti di una confessione rispetto ad altre. La protezione del sentimento religioso, quale aspetto della libertà religiosa, non è divisibile e ogni violazione dello
stesso colpisce la coscienza religiosa allo stesso modo, indipendentemente dalla confessione religiosa;
— la libertà di coscienza, che gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che le libertà fondamentali e i diritti inviolabili della persona non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento. In tale
ambito l’insegnamento della religione cattolica, ad esempio, non è stato considerato dalla Corte costituzionale come causa di discriminazione né tanto meno in contrasto con il
principio di laicità in quanto lo stato di non obbligo degli studenti che scelgono di non avvalersi di tale insegnamento esclude che si operino dei condizionamenti dall’esterno della coscienza sulla libertà di religione;
c) principio pattizio: sia l’art. 7, comma 2 («I loro rapporti [fra Stato e Chiesa cattolica] sono
regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale») che l’art. 8, comma 3 («I loro rapporti
[delle confessioni religiose diverse dalla cattolica] con lo Stato sono regolati per legge sulla
base di intese con le relative rappresentanze») affermano il principio per cui le materie che
non appartengono all’ordine esclusivo di competenza dello Stato o delle confessioni religiose devono essere regolati in modo bilaterale. I rapporti fra Stato e Chiesa cattolica sono regolati dai Patti Lateranensi. Tali Patti possono essere modificati con legge ordinaria che recepisca gli accordi fra le parti, altrimenti è necessario un procedimento di revisione costituzionale. I Patti Lateranensi e le relative modificazioni sono stati costituzionalizzati, ma in ogni
caso non possono violare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato. A loro volta le intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica regolano i rapporti fra le stesse confessioni e lo Stato per gli aspetti che si ricollegano alla specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al diritto comune. La decisione di addivenire alla
stipula delle intese rientra nella libertà delle confessioni religiose, che possono anche avvalersi del solo regime di libertà e delle regole comuni stabilite dalle leggi, e nella valutazione
di opportunità politica del Governo di iniziare le trattative, concluderle positivamente e proporre il disegno di legge che tali intese recepisca, e del Parlamento di approvare lo stesso disegno di legge. La legge, che può soltanto recepire o rifiutare l’intesa, ma non modificarne i
contenuti, è una legge atipica e rinforzata, cioè non può essere modificata da legge ordinaria che non recepisca a sua volta una nuova intesa. Può, tuttavia, essere assoggettata al normale controllo di legittimità costituzionale.
3. LE FONTI DEL DIRITTO ECCLESIASTICO
Fonti del diritto sono gli atti o fatti abilitati dall’ordinamento a produrre norme giuridiche.
Anche per il diritto ecclesiastico vige la distinzione tra fonti di produzione e fonti di cognizione.
Le prime sono gli atti e i fatti che pongono in essere le norme giuridiche; le seconde sono gli
atti attraverso i quali si portano a conoscenza dei destinatari le norme prodotte. Queste ultime
possono essere di immediata derivazione statale, esecuzione di preventivi accordi con l’autorità
religiosa o norme prodotte da ordinamenti diversi da quello statale, recepite in quest’ultimo attraverso particolari forme di collegamento.
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Diritto ecclesiastico
Da ciò consegue una ripartizione delle fonti di diritto ecclesiastico in:
—
—
—
—
fonti di provenienza unilaterale statale;
fonti di provenienza unilaterale confessionale;
fonti di provenienza bilaterale statale e confessionale;
fonti internazionali.
A) Le fonti di provenienza unilaterale statale e regionale
Sono tutte le norme che lo Stato emana direttamente e automaticamente; si distinguono in:
— fonti costituzionali, che enunciano principi generali che valgono da riferimento per tutta la
susseguente produzione normativa;
— fonti ordinarie generiche;
— fonti ordinarie specifiche.
Tra le fonti costituzionali rientrano le norme che:
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—
—
—
—
—
riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo e fra di essi la libertà religiosa (artt. 2, 3, 19);
enunciano la libertà di professione e propaganda religiosa (art. 19);
tutelano la libertà di riunione e di associazione (artt. 17 e 18);
riconoscono la libertà di insegnamento (art. 33);
sanciscono il principio pattizio nei rapporti con le confessioni religiose (artt. 7 e 8);
escludono che lo Stato possa introdurre delle discipline discriminatorie, anche di natura fiscale, a carico degli enti religiosi rispetto a quelli di diritto comune (art. 20). Si vuole cioè evitare per il futuro, che il legislatore ordinario possa, come già è accaduto in passato, imporre
norme limitative della libertà di costituzione e dell’attività degli enti di culto.
Tra le fonti ordinarie generiche si segnalano gli articoli 629 c.c. (disposizioni a favore dell’anima), 831 c.c. (disposizioni relative ai beni ecclesiastici e agli edifici di culto), 403-405 e 724 c.p (delitti contro la religione).
Tra le fonti ordinarie specifiche, che sono norme emanate per disciplinare specificamente la materia ecclesiastica, si possono citare ad esempio la famosa «legge delle guarentigie» (L.
214/1871); la L. 25-6-1929, n. 1159 (e successivi RR.DD. 28-9-1929, n. 1763 e 28-2-1930, n. 289)
regolatrice, in genere, della vita e dell’attività di tutte le confessioni acattoliche esistenti in Italia
per le parti non regolate da intese.
In tale categoria rientrano anche le leggi regionali che disciplinano materie attinenti al fenomeno religioso come l’istruzione, la salute, la valorizzazione dei beni culturali, la promozione
e organizzazione di attività culturali.
B) Le fonti di provenienza unilaterale confessionale
Sono norme, come quelle di diritto canonico, promananti da ordinamenti giuridici religiosi
che attengono a rapporti lasciati all’esclusiva regolamentazione dell’autorità religiosa, cui lo Stato
riconosce efficacia nel proprio ordinamento mediante rinvio (che può essere formale se la norma richiamata resta esterna all’ordinamento statale italiano e assoggettata nel suo essere, divenire ed efficacia al sistema esterno cui appartiene; oppure materiale, quando la stessa norma entri
a far parte dell’ordinamento statale e come tale resti assoggettata ai principi di quest’ultimo), ovvero considerandole presupposti o elementi di fatto della fattispecie regolata da norme statali.
C) Le fonti di provenienza bilaterale
Sono quelle norme di fonte pattizia, le quali rivestono esteriormente il carattere di atti unilaterali, poiché sono recepite in leggi dello Stato, ma trovano la loro fonte in accordi bilaterali;
tra le più importanti possiamo citare la L. 27-5-1929 n. 810, con la quale è stata data esecuzione
ai Patti Lateranensi; la L. 25-9-1985 n. 121, con la quale è stata data esecuzione al Nuovo Concordato; la L. 20-5-1985, n. 222, sulla disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici; varie
leggi di attuazione delle intese stipulate con le confessioni acattoliche. Rientrano in tale categoEstratto della pubblicazione
Capitolo 1: Il diritto ecclesiastico: definizione, principi e fonti
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ria anche le intese stipulate fra organi dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana e fra Regioni e Conferenze Episcopali regionali.
D) Le fonti internazionali e comunitarie
Il fenomeno religioso non è più soltanto un problema di diritto interno dei singoli Stati, ma
diviene sempre più oggetto di interesse dei soggetti di diritto internazionale. Gli atti emanati da
tali soggetti trovano applicazione nell’ordinamento italiano mediante le leggi di esecuzione. In
tale categoria rientrano, ad esempio, il Trattato di pace del 10-2-1947, il cui art. 15 è dedicato
alla tutela delle minoranze religiose; la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo (CEDU); il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Tali convenzioni sono state recepite nel nostro ordinamento mediante leggi di esecuzione che assumono il rango di leggi atipiche o rinforzate. L’art. 117, comma 1 Cost., infatti, stabilisce che la potestà legislativa regionale e statale è esercitata nel rispetto degli obblighi internazionali. Le leggi che danno esecuzione a tali obblighi, pertanto, non possono essere abrogate da altre leggi che non recepiscano modifiche dei trattati internazionali e la loro illegittimità costituzionale può essere sanzionata dalla Corte costituzionale.
Con riferimento alla CEDU, va sottolineato che tale Convenzione, resa esecutiva in Italia con la legge n. 848 del 1955,
non soltanto riconosce alcuni diritti e libertà fondamentali, ma istituisce un proprio apparato giurisdizionale autorizzato
ad emanare provvedimenti obbligatori e vincolanti per gli Stati aderenti.
La CEDU riconosce il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. La libertà di religione
può essere oggetto di restrizioni soltanto con misure stabilite per legge e necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Alcune pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno riguardato:
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il proselitismo, in una vicenda relativa ad alcuni Testimoni di Geova che, in Grecia, erano stati condannati per il reato di proselitismo. In materia la Corte ha, comunque, distinto fra proselitismo lecito e proselitismo abusivo, che supera
il limite della semplice volontà di testimoniare la personale adesione ad un credo;
la libertà di auto-organizzarsi delle comunità religiose, con particolare riferimento alla possibilità di scegliersi i propri rappresentanti;
la libertà di religione collegata alla libertà di associazione. La Corte ha ritenuto legittima la sentenza di scioglimento emanata dalla Corte costituzionale turca nei confronti del partito Refah Partisi, di ispirazione religiosa, che intendeva instaurare un sistema teocratico basato sull’applicazione della legge religiosa islamica e degli statuti personali agli
appartenenti alle altre confessioni. La Corte ha ritenuto che i comportamenti e le dichiarazioni degli esponenti di tale
partito minacciassero la laicità dello Stato turco, sancita dalla Costituzione, e la sua unità politica e legislativa;
in tema di simboli religiosi, la Corte ha escluso che il divieto di indossare il velo islamico durante le attività universitarie, imposto per assicurare la pacifica convivenza fra studenti di fedi diverse in un ordinamento democratico improntato al principio di laicità, costituisca violazione della libertà religiosa.
Anche l’Unione europea si occupa sempre più compiutamente del fenomeno religioso. Il Trattato sull’Unione europea considera i diritti fondamentali, come sono garantiti dalla Convenzione europea (CEDU) e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, come principi generali del diritto comunitario. Gli organi dell’Unione, a loro volta, possono
produrre diritto comunitario derivato attraverso regolamenti e direttive in materie che interessano o riguardano il fenomeno religioso. Infine non va trascurata la Carta europea dei diritti
fondamentali proclamata a Nizza nel 2000, alla quale il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il
1° dicembre 2009, ha attribuito lo stesso valore giuridico.
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CAPITOLO 2
I Patti Lateranensi ed il nuovo Concordato
Sommario: 1. L’art. 7 della Costituzione ed i Patti Lateranensi. - 2. Il nuovo Concordato. - 3. I principi del
nuovo Concordato. - 4. La Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.).
1. L’ART. 7 DELLA COSTITUZIONE ED I PATTI LATERANENSI
I rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono regolati dall’art. 7 Cost. Questa disposizione
si compone di due commi:
— il primo comma, sancisce che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani;
— il secondo comma, sancisce che i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi la modifica dei quali, se non concordata dalle parti, richiede il procedimento di revisione
costituzionale.
Il primo comma dell’art. 7 enuncia il riconoscimento della Chiesa cattolica come ordinamento autonomo ed originario: ciò significa che il diritto canonico, che comprende le norme prodotte
dall’ordinamento ecclesiastico, è frutto di un ordinamento sovrano e quindi ha valore in sé e non
in virtù di un riconoscimento statale. Lo Stato, inoltre, non può interferire nell’organizzazione
della Chiesa, né tanto meno sindacare i principi e i dogmi ai quali si ispira la religione cattolica.
L’art. 7, comma 1, pone però anche una limitazione a questo riconoscimento, affermando che
quest’autorità è riconosciuta alla Chiesa solo nel proprio ordine, e cioè nei limiti in cui non venga messa in discussione la sovranità dello Stato ed il rispetto delle sue leggi.
Il secondo comma dell’art. 7 ha la funzione di garantire la Chiesa cattolica da un’eventuale arbitraria decisione dello Stato di regolare unilateralmente i propri rapporti con la Chiesa stessa, dando valore di norma costituzionale al principio secondo il quale lo Stato sarebbe obbligato a regolare per via concordataria le materie che toccano gli interessi della Chiesa cattolica.
La legge che ha recepito i Patti Lateranensi, cioè gli accordi stipulati tra Stato e Chiesa l’11
febbraio 1929, è pertanto una legge rinforzata in quanto può essere modificata o abrogata da leggi ordinarie soltanto se precedute da un accordo fra Stato e Chiesa, altrimenti deve essere assoggettata al procedimento di revisione costituzionale. Ciò, tuttavia, non significa che le norme
dei Patti sono state costituzionalizzate al punto di non poter essere assoggettate in nessun caso
a controllo di costituzionalità. Secondo la Corte costituzionale, infatti, la reciproca indipendenza e sovranità fra Stato e Chiesa non possono mai mettere in discussione i principi supremi
dell’ordinamento dello Stato.
Storicamente i Patti Lateranensi rappresentarono la risoluzione di tutti i motivi di attrito tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica sorti in seguito alla presa di Roma nel 1870 e comunemente noti come questione romana. Infatti, dopo la presa
di Roma da parte del Regno d’Italia i rapporti con la Chiesa furono unilateralmente regolati con la L. 214 del 13-3-1871, la
c.d. «legge delle guarentigie». Tale legge che formalmente si preoccupava di garantire rendite, immunità e privilegi al Sommo
Pontefice, non fu mai accettata dalla Chiesa perché, essendo una legge interna dello Stato Italiano, non presentava garanzie di stabilità potendo essere, in qualsiasi momento, abrogata da un’altra legge ordinaria dello Stato (Enciclica «Ubi nos»
del 15-5-1871 di Pio IX); questa preoccupazione fu superata, appunto, con la stipula dei Patti Lateranensi, che si qualificavano come un accordo bilaterale tra ordinamenti sovrani. Alle preoccupazioni della Chiesa venne incontro anche la Costituzione Repubblicana che, prevedendo per la modifica unilaterale dei Patti il procedimento di revisione costituzionale, diede ad essi la richiesta garanzia di stabilità.
Estratto della pubblicazione
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Capitolo 2: I Patti Lateranensi ed il nuovo Concordato
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I Patti Lateranensi constavano di tre distinti documenti:
— il Trattato, che risolveva la questione dello Stato territoriale della Chiesa riconoscendo la sovranità del Pontefice sullo Stato della Città del Vaticano, esteso su di un territorio di 0,44 kmq
all’interno della città di Roma (il più piccolo Stato del mondo);
— il Concordato, che regolava i rapporti tra lo Stato e la Chiesa in Italia;
— la Convenzione finanziaria, con la quale furono regolate le questioni sorte dopo le spoliazioni degli enti ecclesiastici a seguito delle leggi eversive.
I punti qualificanti dei Patti del 1929 possono così sintetizzarsi:
— riconoscimento della religione cattolica quale religione di Stato (art. 1 del Trattato);
— una serie di privilegi per gli ecclesiastici (artt. 3, 4, 7 del Concordato);
— preventiva approvazione dello Stato per le nomine dei Vescovi e dei Parroci, e giuramento di
fedeltà allo Stato italiano dei Vescovi (artt. 19-23 del Concordato);
— riconoscimento, da parte dello Stato, dei provvedimenti emanati dall’autorità ecclesiastica in
materia spirituale e disciplinare contro ecclesiastici (art. 5 del Concordato correlato con l’art.
23 del Trattato);
— particolare regime di favore, finanziario e fiscale, per gli enti ecclesiastici (art. 29 comma 3 del
Concordato);
— intervento finanziario a favore del clero, la c.d. congrua (art. 30 del Concordato);
— riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso e riserva ai tribunali ecclesiastici delle cause relative (art. 34 del Concordato);
— insegnamento della dottrina cristiana in tutte le scuole pubbliche, eccettuate le università, considerato «fondamento e coronamento» dell’istruzione pubblica (art. 36 del Concordato).
2. IL NUOVO CONCORDATO
Il Concordato del 1929, a seguito della approvazione della Costituzione repubblicana e del
conseguente mutato clima politico, culturale e sociale, si è rivelato con il tempo un accordo superato, sia perché la posizione di privilegio concessa alla Chiesa contrastava con i valori di eguaglianza espressi dalla nuova Costituzione, sia perché esso non era più consono alla visione ecclesiologica emersa dopo il Concilio Vaticano II. Pertanto, dopo laboriose trattative, è stato sostituito da un nuovo accordo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede, stipulato il 18 febbraio
1984 ed entrato in vigore il 4 giugno 1985, comunemente denominato nuovo Concordato. Tale
accordo viene formalmente definito «di modifica» del precedente Concordato, ma costituisce in
realtà uno strumento radicalmente nuovo di regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Peraltro, l’art. 13, comma 1 del nuovo Concordato precisa anche che le disposizioni del Concordato del 1929 non riprodotte nel nuovo testo sono abrogate.
Rispetto al nuovo Concordato si è posto il problema se questo sia coperto dalla stessa garanzia prevista per il precedente accordo dall’art. 7 Cost., e cioè il procedimento aggravato per la
modifica unilaterale. Sul punto si deve ritenere che il principio pattizio debba comunque essere rispettato, per cui il nuovo Concordato non potrà essere modificato con legge ordinaria dello
Stato non preceduta da accordo con la Chiesa. Per quanto, poi, riguarda il problema del contrasto delle norme concordatarie con quelle costituzionali, e specificamente con i principi supremi dell’ordinamento ricavabili da tali norme, il problema non dovrebbe porsi in maniera spinosa come avvenuto nei confronti del vecchio Concordato, perché in quello nuovo sono stati eliminati i principali motivi di attrito con la Costituzione.
Il nuovo Concordato consta di tre elementi:
— il Preambolo, in cui si fa riferimento alle trasformazioni della società italiana a partire dalla Costituzione repubblicana ed all’importanza del Concilio Vaticano II nella vita della Chiesa cattolica per motivare la revisione dei Patti Lateranensi;
— il testo vero e proprio, in 14 articoli;
Estratto della pubblicazione
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Diritto ecclesiastico
— il Protocollo addizionale, in 7 punti, con lo scopo di assicurare, con opportune chiarificazioni, la migliore applicazione dei Patti Lateranensi e delle modifiche convenute e di evitare
difficoltà interpretative.
3. I PRINCIPI DEL NUOVO CONCORDATO
La struttura del nuovo Concordato è radicalmente diversa da quella precedente. In luogo, infatti, di un ponderoso testo formulato in maniera minuziosa e casistica, abbiamo un’agile struttura di appena 14 articoli volti, più che a regolamentare specificamente i rapporti tra Stato e
Chiesa, ad enunciare i principi ai quali tale regolamentazione dovrà ispirarsi. Ciò consente al
Concordato di adattarsi con maggior elasticità al mutare dello spirito dei tempi, garantendogli
una maggior durata.
I principi fissati dal nuovo Concordato possono essere così riassunti:
a) Neutralità dello Stato in materia religiosa (art. 1 e art. 1 del Protocollo addizionale). Viene abrogato il principio della religione di Stato e viene affermata la laicità dello Stato. Neutralità dello Stato non significa, però, indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso:
lo Stato, conscio dell’importanza che la religione riveste per la maggioranza dei suoi cittadini, s’impegna a garantire la piena realizzazione dell’individuo anche in questo campo,
disinteressandosi solo di quegli aspetti del fenomeno religioso che si collocano nella sfera
dell’irrilevante giuridico. In quest’ottica si situa l’impegno dello Stato, previsto dall’art. 11
del Concordato, volto a garantire l’assistenza spirituale ai cittadini in determinate strutture pubbliche: forze armate, polizia, ospedali, istituti di assistenza e di cura, istituti di pena
e di prevenzione, secondo modalità da stabilire con intese tra lo Stato e l’autorità ecclesiastica.
b) Completa autonomia dell’organizzazione ecclesiastica (art. 3). La neutralità dello Stato in materia religiosa si traduce anche in una maggior libertà per la Chiesa: viene infatti abrogata la norma che prevedeva il gradimento dello Stato per la nomina degli ecclesiastici
con cura d’anime, permanendo soltanto l’obbligo dell’autorità ecclesiastica di comunicare
a quella civile le nomine effettuate. La S. Sede, peraltro, si impegna a non includere alcuna parte del territorio italiano in una diocesi la cui sede vescovile si trovi nel territorio di
un altro Stato.
c) Abrogazione dei privilegi per gli enti ecclesiastici (art. 7). Viene a cadere tutta la serie di
privilegi ed esenzioni accumulate dagli enti ecclesiastici. Viene riconosciuta personalità giuridica agli enti ecclesiastici con fine di religione e di culto esistenti in Italia; agli effetti delle leggi tributarie tale fine viene equiparato a quelli di beneficenza ed istruzione. Le attività diverse da quelle di culto sono invece soggette alle leggi dello Stato ed al regime tributario ordinario. La regolamentazione della materia viene comunque demandata ad una commissione paritetica le cui conclusioni hanno formato oggetto della L. 20-5-1985 n. 222.
d) Disciplina del matrimonio cattolico (art. 8). Lo Stato si limita a riconoscere effetti civili al
matrimonio contratto secondo il diritto canonico. Viene inoltre abbandonato il regime di esclusività della giurisdizione ecclesiastica in ordine alle cause relative ai matrimoni religiosi: le sentenze di nullità del matrimonio religioso pronunciate dai tribunali ecclesiastici non sono più
indispensabili ai fini della cessazione degli effetti civili del matrimonio canonico trascritto;
esse possono essere dichiarate efficaci per lo Stato con lo stesso procedimento e con gli stessi presupposti previsti per ogni altra sentenza straniera.
e) Istruzione religiosa (art. 9). L’insegnamento della dottrina cattolica continua ad essere assicurato in tutte le scuole tranne le università, salvo il diritto di non avvalersene, e ciò in considerazione del fatto che lo Stato riconosce il valore della cultura religiosa e che i principi del
cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano.
Capitolo 2: I Patti Lateranensi ed il nuovo Concordato
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4. LA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (C.E.I.)
Un organismo che assume un rilievo particolare nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa è la Conferenza episcopale italiana (C.E.I.) nella quale si sono riuniti i Vescovi italiani.
La C.E.I. è una persona giuridica (pubblica) con sede in Roma di cui sono membri di diritto gli Arcivescovi e Vescovi, di
qualsiasi rito, delle diocesi e delle altre Chiese particolari italiane, i Vescovi coadiutori ed ausiliari nonché i Vescovi titolari che dalla Santa Sede o dalla stessa C.E.I. hanno ricevuto uno speciale ufficio stabile a livello nazionale (ad es. l’Ordinario
militare detto anche «Arcivescovo castrense»).
La C.E.I. è articolata in conferenze episcopali regionali che dipendono da quella nazionale, e fa parte del Consiglio europeo delle Conferenze episcopali.
Il presidente della C.E.I. «in considerazione dei particolari vincoli dell’episcopato di Italia con il Papa», viene nominato dal Pontefice.
Suoi compiti specifici sono:
a) studiare i problemi che interessano la vita della Chiesa in Italia;
b) dare orientamenti nel campo dottrinale e pastorale;
c) mantenere i rapporti con le pubbliche autorità dello Stato italiano.
Per quanto riguarda il punto c), che riguarda direttamente il diritto ecclesiastico, è interessante notare che il nuovo Concordato ha affidato alla C.E.I. il compito di «gestire» direttamente i termini dell’Accordo (v. ad es.: art. 13, n. 2); poiché l’attuazione di numerose norme è rinviata a intese successive tra le Parti, è previsto che i rapporti relativi si instaurino tra autorità governative e Conferenza episcopale (anziché, come un tempo, direttamente con la Santa Sede) e
questa è indubbiamente una ulteriore conferma dell’importanza data a questo organismo particolare di governo ecclesiastico.
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CAPITOLO 3
Santa Sede
e Stato della Città del Vaticano
Sommario: 1. Chiesa, Santa Sede, Stato della Città del Vaticano. - 2. Lo Stato della Città del Vaticano: elementi. - 3. L’ordinamento dello Stato della Città del Vaticano. - 4. Rapporti con lo Stato italiano. - 5. Posizione dello Stato della Città del Vaticano nell’ordinamento internazionale.
1. CHIESA, SANTA SEDE, STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO
Nel lessico usuale, termini come Chiesa, Santa Sede etc. vengono sovente usati in maniera
impropria, il più delle volte come sinonimi, mentre, invece, essi attengono a realtà e concetti ben
diversi tra loro, ed infatti distinguiamo:
a) la Chiesa è, nel suo aspetto visibile, l’istituzione fondata da Gesù Cristo; possiamo definirla
come «la società dei battezzati che professano la stessa fede, partecipano agli stessi Sacramenti e tendono alla realizzazione degli stessi fini spirituali, sotto la potestà del Romano Pontefice e dei Vescovi con lui collegati» (DEL GIUDICE). Trattasi di una società giuridicamente
perfetta, e cioè autosufficiente, che assume la figura di corporazione istituzionale non territoriale, fornita di sovranità originaria e di capacità subiettiva pubblica e privata;
b) con il nome di Santa Sede o Sede Apostolica si intende, secondo il disposto del can. 361
del codice di diritto canonico, non solo il Romano Pontefice, ma anche, se non risulta diversamente dalla natura della questione o dal contesto, la Segreteria di Stato, il Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa e gli altri organismi della Curia romana;
c) la Curia romana, a sua volta, può definirsi, secondo il dettato del can. 360 cod. dir. can. «il
complesso dei dicasteri mediante i quali il Pontefice esercita il suo alto ufficio nel governo della
Chiesa universale»;
d) lo Stato della Città del Vaticano è quel territorio sul quale, in base al Trattato del Laterano,
è riconosciuta alla Santa Sede una vera e propria sovranità.
Nonostante qualche Autore abbia messo in dubbio il carattere statuale dello Stato della Città del Vaticano, la dottrina
prevalente è ormai concorde nel ritenere che si tratti di uno Stato qualitativamente non diverso da ogni altro; e ciò sia perché lo S.C.V. possiede una personalità giuridica internazionale autonoma, sia perché persegue, come ogni ordinamento statuale, un fine generale (e cioè degli scopi istituzionali che possono essere i più vari e possono modificarsi senza che ne risulti alterata la natura dell’istituzione).
2. LO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO: ELEMENTI
Nello Stato della Città del Vaticano si riscontrano gli elementi caratteristici di tutte le persone statali e cioè: il territorio; il popolo; la sovranità. Esaminiamoli:
a) Territorio. È quello spazio geografico, sottratto del tutto alla sovranità italiana (e, ovviamente, a quella di qualsiasi altro Stato) e soggetto a quello della Santa Sede ed alla potestà di governo propria di esso Stato (art. 4 Tratt.).
Attualmente è costituito dalla Piazza S. Pietro in Roma e dai circostanti palazzi del Vaticano, i cui confini sono definiti da una pianta contenuta nell’Allegato I del Trattato, di cui costituisce parte integrante (art. 3 Tratt.).
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Capitolo 3: Santa Sede e Stato della Città del Vaticano
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b) Popolo. È costituito da:
— coloro che hanno nel Vaticano stabile residenza in ragione del loro impiego, dignità, carica o ufficio;
— coloro che sono comunque autorizzati dal Sommo Pontefice a risiedervi stabilmente con
concessione o conservazione della cittadinanza vaticana;
— il coniuge, i figli, gli ascendenti e i fratelli e sorelle di cittadini vaticani, conviventi e autorizzati a risiedere nel territorio dello Stato;
— i Cardinali residenti in Roma, anche fuori della Città del Vaticano;
— i diplomatici della Santa Sede.
Va rilevato che la cittadinanza vaticana non si basa sui tradizionali criteri dello ius soli (nascita nel territorio), ius sanguinis (nascita da genitori cittadini) o ius coniugii (matrimonio con un cittadino) ma, di regola, sul rapporto di lavoro
o sull’autorizzata stabile permanenza entro i confini dello Stato.
La cittadinanza vaticana (cumulabile con quella dello Stato cui il singolo appartiene) è, dunque, fondata sulla volontarietà, nel senso che si acquista sempre e soltanto col concorso della volontà dello Stato Vaticano da un lato e del soggetto dall’altro.
c) Sovranità. È costituita dal potere d’imperio (o potere di comando o di governo) e cioè da una
volontà suprema, originaria, indipendente, che regge l’ordinamento per il raggiungimento degli scopi suoi propri; tale potere è attribuito al Sommo Pontefice (art. 3 Tratt.).
Da un punto di vista strettamente dottrinale, lo Stato Vaticano può essere definito come:
a)
b)
c)
d)
una monarchia elettiva, visto che il Sommo Pontefice è eletto dal collegio cardinalizio;
uno stato assoluto, poiché il Pontefice ha «pienezza di potere legislativo, esecutivo, giudiziario» (art. 1 L. fondamentale S.C.V.);
Stato confessionale, relativamente ai fini religiosi che lo Stato in argomento si prefigge;
Stato patrimoniale, in quanto il potere sovrano spetta al Capo dello Stato come «diritto inerente la sua persona fisica» e si esplica anche come dominio sul territorio, oggetto della sua piena proprietà personale (DEL GIUDICE).
3. L’ORDINAMENTO DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO
A) La nuova Legge Fondamentale dello Stato della Città del Vaticano
Con Motu Proprio del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II (26-11-2000), il 22-2-2001 è entrata in vigore la nuova Legge Fondamentale dello Stato della Città del Vaticano. La necessità
di dare forma sistematica ed organica ai mutamenti introdotti in fasi successive nell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano, ha reso indispensabile l’emanazione di una legge
di riforma in modo da renderlo sempre meglio rispondente alle finalità istituzionali dello stesso,
che esiste a conveniente garanzia della libertà della Sede Apostolica e come mezzo per assicurare
l’indipendenza reale e visibile del Romano Pontefice nell’esercizio della sua missione nel mondo.
I punti salienti della legge di riforma possono così sintetizzarsi:
— il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Durante il periodo di Sede vacante, gli stessi poteri appartengono al Collegio dei Cardinali, il quale tuttavia potrà emanare disposizioni legislative solo in
caso di urgenza e con efficacia limitata alla durata della vacanza, salvo che esse siano confermate dal Sommo Pontefice successivamente eletto a norma della legge canonica;
— la rappresentanza dello Stato nei rapporti con gli Stati esteri e con gli altri soggetti di diritto internazionale, per le relazioni diplomatiche e per la conclusione dei trattati, è riservata al Sommo Pontefice, che la esercita per mezzo della Segreteria di Stato;
— il potere legislativo, salvi i casi che il Sommo Pontefice intenda riservarlo a se stesso o ad altre istanze, è esercitato da una Commissione composta da un Cardinale Presidente e da altri
Cardinali, tutti nominati dal Sommo Pontefice per un quinquennio. La Commissione esercita il suo potere entro i limiti della Legge sulle fonti del diritto (v. infra lett. B), secondo particolari disposizioni ed un proprio Regolamento;
— il potere esecutivo è demandato al Cardinale Presidente del Governatorato dello S.C.V., in
conformità con la Legge Fondamentale e con le altre disposizioni normative vigenti. Nell’eserEstratto della pubblicazione
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Diritto ecclesiastico
cizio di tale potere il Presidente è coadiuvato dal Segretario Generale e dal Vice Segretario
Generale. Tuttavia nelle materie di maggiore importanza si procede di concerto con la Segreteria di Stato;
— il potere giudiziario è esercitato, a nome del Sommo Pontefice, dagli organi costituiti secondo l’ordinamento giudiziario dello Stato. In qualunque causa civile o penale ed in qualsiasi stadio della medesima, il Sommo Pontefice può deferirne l’istruttoria e la decisione ad
una particolare istanza, anche con facoltà di pronunciare secondo equità e con esclusione di
qualsiasi ulteriore gravame;
— la facoltà di concedere amnistie, indulti, condoni e grazie è riservata al Sommo Pontefice.
In conformità all’adeguamento della situazione giuridica creata dalla nuova Legge fondamentale si è successivamente
provveduto a revisionare la Legge sul Governo dello S.C.V. (n. CCCLXXIV del 16-7-2002) che ha precisato con maggiore
dettaglio la competenza delle varie strutture operative.
B) La nuova Legge sulle fonti del diritto
Per procedere ulteriormente nel sistematico adeguamento normativo dell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano, avviato con la Legge fondamentale del 26 novembre
2000, dal 1° gennaio 2009 è entrata in vigore la Legge sulle fonti del diritto (n. LXXI), secondo
cui l’ordinamento canonico risulta la prima fonte normativa e il primo criterio di riferimento interpretativo, mentre le leggi italiane non sono più recepite automaticamente.
Tale legge è stata promulgata da Benedetto XVI nell’ottobre del 2008 e sostituisce quella del
7 giugno 1929 (emanata in seguito ai Patti Lateranensi).
Mentre la precedente normativa prevedeva una sorta di recezione automatica che si presumeva come regola, solo eccezionalmente rifiutata per motivi di radicale incompatibilità con leggi fondamentali dell’ordinamento canonico o dei trattati bilaterali, nella nuova disciplina si introduce la necessità di un previo recepimento da parte della competente autorità vaticana. Tale norma è vigente anche nei casi nei quali potrebbe presumersi una recezione ope legis.
La maggiore cautela nella recezione della legislazione italiana è giustificata da tre ragioni:
— il numero esorbitante di norme nell’ordinamento italiano;
— l’instabilità della legislazione civile per lo più molto mutevole;
— un contrasto, con troppa frequenza evidente, di tali leggi con principi non rinunziabili da parte
della Chiesa.
Come sostiene DELLA TORRE, si tratta di un’innovazione importante per quanto riguarda l’aggiornamento, ma non
così rilevante per quanto riguarda i contenuti giuridici, perché il filtro alle leggi italiane c’è sempre stato, anche nella precedente legge sulle fonti del 1929 e la legislazione italiana è sempre stata richiamata in via suppletiva.
C) La legge antiriciclaggio
In data 30 dicembre 2010 con Lettera apostolica in forma di motu proprio è stata emanata dal
sommo Pontefice Benedetto XVI la «Legge concernente la prevenzione ed il contrasto del
riciclaggio dei proventi di attività criminose e del finanziamento del terrorismo», in esecuzione della Convenzione Monetaria tra lo Stato della Città del Vaticano e l’Unione europea del
17 dicembre 2009.
La legge contiene una serie di previsioni in materia di antiriciclaggio: controlli sul denaro
contante in entrata o in uscita dallo Stato della Città del Vaticano, obblighi sul trasferimento di
fondi e, infine, presidi sanzionatori amministrativi.
Viene costituita l’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF), organismo autonomo ed indipendente con incisivi compiti di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo nei confronti di ogni soggetto, persona fisica o giuridica, ente ed organismo di qualsivoglia natura dello Stato della Città del Vaticano, dei Dicasteri della Curia Romana e di tutti gli Organismi ed Enti dipendenti dalla Santa Sede.
Nelle auspici del Legislatore l’ impianto normativo, pur tenendo conto delle peculiarità dell’ordinamento vaticano in cui si inserisce, avrebbe dovuto essere conforme ai principi e alle regole
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Capitolo 3: Santa Sede e Stato della Città del Vaticano
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vigenti nell’Unione europea, risultando allineato a quello di Paesi che, in questo ambito, dispongono di normative avanzate.
Ciò nonostante tale impianto si è dimostrato insufficiente tanto che con decreto d’urgenza n.
159 del 25 gennaio 2012 a firma del presidente del Governatorato vaticano la normativa in oggetto
è stata sottoposta a un deciso restyling.
Molte sono le novità rispetto alla legge del 2010. Innanzitutto viene introdotta la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche in caso di reati di riciclaggio con l’introduzione di pene pecuniarie che variano dai 20.000 ai due milioni di
euro. Vengono inoltre inasprite le sanzioni pecuniarie amministrative, per le persone fisiche fino a 250.000 euro, per quelle giuridiche fino a un milione di euro.
Viene, inoltre, chiarita e rafforzata la natura coercitiva delle disposizioni dell’AIF e disposta la registrazione di tutte le
persone giuridiche presso il Governatorato, stabilendo così un controllo continuativo su chi è il responsabile legale di ogni
ente, sulla natura e sui fini dell’ente che opera sul territorio vaticano. Nuove sono pure le misure cautelari prima della condanna e della confisca per riciclaggio.
Sono definite con una maggiore precisione le norme sulla riservatezza dei dati e si afferma il principio di preminenza della prevenzione e del contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo. Il diritto alla riservatezza, che fa parte anche dell’ordinamento canonico, viene salvaguardato, ma là dove c’è un’operazione sospetta, passa in secondo piano.
4. RAPPORTI CON LO STATO ITALIANO
A) Premessa
L’esiguità del territorio dello Stato della Città del Vaticano, e soprattutto la sua posizione di
enclave, cioè di Stato circondato interamente dal territorio dello Stato italiano, comportavano
che la sovranità, l’indipendenza effettiva e, al limite, le sue stesse possibilità di sopravvivenza
(SPINELLI) dipendessero in gran misura dallo Stato che lo circondava.
Di conseguenza è stato necessario stabilire, negli stessi Accordi Lateranensi (e successivamente con accordi internazionali o norme del diritto interno italiano), una serie di disposizioni
disciplinanti le particolari questioni derivanti da una tale situazione di fatto.
B) Le prerogative degli organi della Chiesa
Tali disposizioni, che implicano obblighi per entrambi i contraenti degli Accordi, individuano prerogative degli organi centrali della Chiesa nel diritto interno quali:
1) garanzie di carattere personale, che riguardano il Sommo Pontefice, i Cardinali, i Vescovi
riuniti in Concilio, i dignitari ecclesiastici, i membri della Corte pontificia, gli ufficiali di Curia. In particolare:
— la persona del Sommo Pontefice è considerata sacra e inviolabile e gli attentati, la provocazione a commetterli, le offese ed ingiurie poste in essere contro di lui sono puniti come
se fossero commessi nei confronti del Presidente della Repubblica (art. 8 del Trattato);
— i dignitari della Chiesa e le persone appartenenti alla Corte pontificia indicate in un apposito elenco, nonché una serie di altri funzionari indicati nel Trattato, sono esentati dal
servizio militare, dalla giuria e da ogni prestazione di carattere personale (art. 10 , comma 1 del Trattato);
— gli ecclesiastici che, per ragione di ufficio, partecipano fuori dello S.C.V. all’emanzione di
atti della Santa Sede, non possono essere soggetti a causa di essi ad alcuno impedimento,
investigazione o molestia da parte delle autorità italiane (art. 10, comma 3 del Trattato);
— i Cardinali godono in Italia degli onori che nel precedente regime monarchico erano dovuti ai Principi di sangue (art. 21, comma 1 del Trattato);
— l’Italia cura che non sia ostacolato il libero transito ed accesso dei Cardinali attraverso il
territorio italiano al Vaticano in occasione dei Conclavi e che non si ponga impedimento o limitazione alla loro libertà personale. Lo Stato cura che intorno alla Città del Vaticano non vengano commessi atti che comunque possano turbare le adunanze del Conclave. Tali previsioni si applicano anche ai Conclavi fuori della Città del Vaticano e ai Concili presieduti dal Pontefice o da suoi Legati (art. 21, commi 2-4 del Trattato);
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Diritto ecclesiastico
2) garanzie relative all’esercizio della potestà giurisdizionale della Santa Sede e dei suoi
rapporti con gli altri Stati. Si tratta di un complesso di norme volte a rendere effettivamente libero l’esercizio della suprema potestà di governo della Santa Sede sulla Chiesa. Il principio generale da cui tali disposizioni discendono è contenuto nell’art. 11 del Trattato, che riconosce agli enti centrali della Chiesa la personalità di diritto pubblico. Quanto ai rapporti diplomatici della Chiesa con gli Stati, l’Italia, in base all’art. 12 Tratt., ha riconosciuto alla Santa Sede il diritto di legazione attiva e passiva secondo le regole del diritto internazionale;
3) garanzie di carattere reale, relative ad immobili per lo più siti in Roma (artt. 13 -16 Tratt.);
4) garanzie di carattere economico. La principale è rappresentata dalla «convenzione finanziaria» con la quale il Regno d’Italia provvide alla liquidazione dei crediti vantati dalla Santa Sede verso l’Italia, a seguito della perdita dello Stato Pontificio e delle spoliazioni subìte.
Tra le altre garanzie di carattere economico si deve tener presente che, in base all’art. 17
Tratt. ,«le retribuzioni di qualsiasi natura, dovute dalla Santa Sede, anche fuori di Roma,
a dignitari, impiegati e salariati, anche non stabili, sono esenti in Italia da qualsiasi tributo tanto verso lo Stato, quanto verso ogni ente pubblico»; sono, ancora, previste esenzioni tributarie per immobili pontifici (art. 16 Tratt.), esenzioni da diritti doganali e daziari
per merci estere dirette alla Città del Vaticano o ad istituti della Santa Sede ovunque situati (art. 20 Tratt.).
C) Gli obblighi dello Stato italiano in relazione alla posizione di «enclave» della Città del
Vaticano
Oltre ai provvedimenti per la sistemazione dei confini (artt. 5 e 7 comma 1, Tratt.) gli Accordi prevedono i seguenti obblighi per lo Stato italiano:
—
—
—
—
—
—
adeguata dotazione di acque in proprietà; collegamento ferroviario del Vaticano alle ferrovie italiane, collegamento con la rete italiana, e direttamente anche con gli altri Stati, dei servizi telegrafici, telefonici, radiotelegrafici, radiotelefonici e postali della Città del Vaticano; coordinamento degli altri pubblici servizi (art. 6 Tratt.);
consultazione preventiva con la Santa Sede per eventuali trasformazioni urbanistiche nelle zone adiacenti la Città
del Vaticano (art. 7 comma 3, Tratt.);
libertà di corrispondenza da tutti gli Stati, compresi i belligeranti, alla Santa Sede e viceversa; libertà di accesso dei
vescovi di tutto il mondo alla Sede apostolica (art. 12 comma 3, Tratt.);
immunità diplomatiche e libertà di passaggio in territorio italiano di rappresentanti diplomatici sia della Santa
Sede che di Stati esteri presso quest’ultima (art. 19, Tratt.);
esenzione dai diritti doganali e daziari delle merci provenienti dall’estero e dirette alla Città del Vaticano o ad altri
istituti della Santa Sede, situati fuori della Città stessa (art. 20, Tratt.);
libertà di transito, in Italia, per Cardinali e vescovi, senza limitazione della libertà personale, anche nel caso di conclave o di concili (art. 21 commi 2 e 4, Tratt.).
D) Gli obblighi della Santa Sede in relazione al territorio vaticano
Essi sono:
—
—
piazza S. Pietro, pur facendo parte della Città del Vaticano dovrà rimanere normalmente aperta al pubblico e soggetta ai poteri di polizia delle autorità italiane, fino ai piedi della scalinata della basilica, nella quale le stesse autorità potranno accedere solo se richieste dalle competenti autorità vaticane (art. 3 commi 2 e 3, Tratt.);
i tesori d’arte e di scienza, esistenti nella Città del Vaticano e nel palazzo Lateranense, rimarranno visibili agli studiosi e ai visitatori, pur essendo riservata alla Santa Sede piena libertà di regolare l’accesso del pubblico (art. 18 Tratt.).
E) I rapporti di diritto penale
Essi sono compiutamente regolati dall’art. 22 Tratt., di cui riportiamo il testo integrale:
«A richiesta della Santa Sede e per delegazione che potrà essere data dalla medesima o nei singoli casi o in modo permanente, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti che
venissero commessi nella Città del Vaticano, salvo quando l’autore del delitto si sia rifugiato nel
territorio italiano, nel qual caso si procederà senz’altro contro di lui a norma delle leggi italiane.
La Santa Sede consegnerà allo Stato italiano le persone che si fossero rifugiate nella Città
del Vaticano, imputate di atti, commessi nel territorio italiano, che siano ritenuti delittuosi dalle leggi di ambedue gli Stati.
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Capitolo 3: Santa Sede e Stato della Città del Vaticano
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Analogamente si provvederà per le persone imputate di delitti, che si fossero rifugiate negli
immobili dichiarati immuni nell’art. 15, a meno che i preposti ai detti immobili preferiscano invitare gli agenti italiani ad entrarvi per arrestarle».
Va precisato che, tutte le volte in cui per un delitto commesso nello S.C.V., la Santa Sede richieda allo Stato italiano di procedere, i nostri giudici applicheranno il diritto penale italiano, poiché la funzione punitiva attiene l’esercizio di una prerogativa sovrana alla quale lo Stato non può
rinunciare applicando le leggi di altro Paese (Cass. pen. 1-5-1955).
F) L’esecuzione in Italia delle sentenze emanate dai Tribunali dello S.C.V.
Si applicano, al riguardo, le relative norme del diritto internazionale (art. 23, comma 1, Tratt.)
nonché le norme comuni interne italiane:
— per la materia civile: gli artt. 64-71 della L. 218/1995 (per la specifica disciplina applicabile
alle sentenze di nullità dei matrimoni concordatari v. infra cap. 8);
— per la materia penale: art. 12 c.p.; artt. 730-745 c.p.p.
Per il secondo comma dello stesso art. 23, «avranno invece senz’altro piena efficacia giuridica,
anche a tutti gli effetti civili, in Italia le sentenze ed i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche od ufficialmente comunicati alle autorità civili, circa persone ecclesiastiche o religiose e concernenti materie spirituali e disciplinari».
Ciò avverrà — in base alla interpretazione accettata da Santa Sede e Stato italiano nel punto
2° del Protocollo addizionale al nuovo Concordato — in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani.
5. POSIZIONE DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO NELL’ORDINAMENTO INTERNAZIONALE
Lo S.C.V. come soggetto di diritto internazionale deve essere considerato in primo luogo, uno
«Stato riconosciuto». Tale riconoscimento è stato:
— diretto ed esplicito da parte dell’Italia con gli artt. 3 e 26 comma 2 del Trattato;
— indiretto (e quindi internazionalmente vincolante) da parte degli altri Stati che mantenevano rapporti diplomatici con la S. Sede e che furono, a suo tempo, tempestivamente informati, in forma ufficiale, attraverso i normali canali diplomatici, dell’intenzione della S. Sede di
sottoscrivere con l’Italia un trattato che dava vita al nuovo Stato.
Lo S.C.V. si presenta, nei confronti degli altri soggetti del diritto internazionale, come vero e
proprio «Stato», cioè quale «istituzione che provvede autonomamente alla sua organizzazione ed attività e che stringe, con gli altri soggetti di diritto, atti internazionalmente rilevanti» (DEL GIUDICE).
Esso, infine, gode dello status di Stato neutralizzato (alla stregua, ad es., della Confederazione elvetica e della Repubblica di San Marino): si trova, cioè, in quella condizione giuridica permanente per la quale ha il diritto di non essere offeso da operazioni belliche di altri Stati e il dovere di non porne in essere.
Ciò si desume chiaramente dall’art. 24 del Trattato ove si afferma: «La Santa Sede, in relazione alla sovranità che le compete anche nel campo internazionale, dichiara che essa vuole rimanere e rimarrà estranea alle competizioni temporali fra
gli altri Stati ed ai Congressi Internazionali indetti per tale oggetto, a meno che le parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace, riservandosi in ogni caso di far valere la sua potestà morale e spirituale».
In conseguenza di ciò la Città del Vaticano sarà sempre ed in ogni caso considerata territorio neutrale ed inviolabile.
Attualmente la S. Sede intrattiene relazioni diplomatiche con 179 Stati, con l’Unione europea e il Sovrano ordine militare di Malta; ha inoltre una relazione di natura speciale con l’OLP
(Organizzazione per la liberazione della Palestina).
In particolare l’Italia e la S. Sede hanno provveduto a stabilire fra loro normali rapporti diplomatici mediante accreditamento di un Ambasciatore italiano presso la S. Sede e di un Nunzio pontificio presso l’Italia.
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CAPITOLO 4
Le persone fisiche
nel diritto ecclesiastico. Il clero
Sommario: 1. Nozione di ecclesiastico e di ministro di culto. - 2. La condizione giuridica degli ecclesiastici nel diritto civile. - 3. Sostentamento del clero e finanziamento statale delle confessioni religiose. - 4.
La previdenza sociale del clero. - 5. La condizione giuridica degli ecclesiastici nel diritto penale. - 6. Condizione giuridica dei religiosi. - 7. Il lavoro dei religiosi. - 8. Il potere disciplinare dell’autorità ecclesiastica: l’art. 23 del Trattato Lateranense.
1. NOZIONE DI ECCLESIASTICO E DI MINISTRO DI CULTO
Gli appartenenti alla Chiesa cattolica possono essere divisi in due categorie:
— i fedeli laici: cioè i battezzati non insigniti del sacramento dell’Ordine sacro;
— gli ecclesiastici: i chierici che, in virtù del sacramento dell’Ordine, svolgono particolari
funzioni all’interno della Chiesa e quindi vengono a differenziarsi dai semplici fedeli formando il clero cattolico e gli appartenenti agli istituti di vita consacrata (sia chierici che non
chierici).
La qualifica di fedele è irrilevante per il diritto, e ciò è dimostrato dal fatto che l’art. 3 Cost.
vieta le discriminazioni basate su motivi religiosi; viceversa la qualifica di ecclesiastico determina l’acquisto di un preciso status giuridico, comportante l’attribuzione di una serie di privilegi ma anche di limitazioni, e ciò è giustificato dal fatto che le funzioni degli appartenenti
al clero sono ritenute di pubblico interesse, dato che soddisfano bisogni profondamente sentiti dalla coscienza collettiva, e quindi è interesse dello Stato che siano adempiute nel modo
più conveniente.
Il nostro ordinamento molto spesso fa riferimento, più che alla nozione di ecclesiastico, a
quella di ministro di culto, riferita in generale a tutte le confessioni religiose, senza peraltro specificare cosa si intenda come tale. Non si può ritenere che i due termini siano sinonimi, in quanto non tutti gli ecclesiastici sono ministri di culto (non lo sono, ad esempio, coloro che si avviano al sacerdozio). Inoltre occorre tener conto delle regole che seguono i vari ordinamenti religiosi per attribuire tale qualifica (talune confessioni religiose, ad esempio, non distinguono tra
fedeli laici ed ecclesiastici).
La dottrina ha allora individuato due criteri per identificare il ministro di culto:
—
—
quando si tratta di riconoscere al ministro di culto una particolare capacità (es. art. 609 c.c. che riconosce al ministro la capacità di raccogliere il testamento speciale in caso di calamità pubbliche) o in caso di applicazione di norme penali, la figura del ministro di culto va individuata secondo il criterio funzionale formale, ossia tenendo conto sia
delle funzioni esercitate (per vedere se sono quelle generalmente esercitate dal ministro di culto) sia dell’esistenza, dal
punto di vista formale, dell’investitura che la confessione ha attribuito a quella persona;
negli altri casi si segue il criterio funzionale di fatto, ovvero si prescinde dall’elemento formale dell’investitura e si tiene
conto solo delle funzioni di fatto esercitate dal soggetto.
2. LA CONDIZIONE GIURIDICA DEGLI ECCLESIASTICI NEL DIRITTO CIVILE
La condizione di ecclesiastico conferisce un particolare status che comporta esenzioni, incapacità ed incompatibilità, capacità speciali.
Capitolo 4: Le persone fisiche nel diritto ecclesiastico. Il clero
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A) Esenzioni
1) In base all’art. 4 del nuovo Concordato i sacerdoti, i diaconi e i religiosi che hanno preso i
voti (i quali, in base al Concordato del 1929, erano senz’altro esenti dal servizio militare di
leva) hanno (o meglio avevano, tenuto conto che la leva obbligatoria è stata sospesa a partire dal primo gennaio 2005) solo facoltà di ottenere l’esonero o di essere assegnati al servizio
civile sostitutivo. I ministri di culto ebraici sono esonerati dal servizio militare su loro richiesta vistata dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane (art. 3, comma 2 della legge n. 101
del 1989), mentre i ministri di culto della Chiesa cristiana avventista possono essere esonerati dal servizio militare o essere assegnati al servizio civile sostitutivo (art. 6, comma 3 della legge n. 516 del 1988).
Gli studenti in teologia, quelli degli ultimi due anni di propedeutica alla teologia avviati al sacerdozio ed i novizi degli istituti religiosi possono, a richiesta, usufruire degli stessi rinvii che
erano previsti per gli altri studenti universitari italiani.
In caso di mobilitazione generale gli ecclesiastici non assegnati alla cura di anime sono chiamati ad esercitare il ministero
religioso (come cappellani) fra le truppe oppure, subordinatamente, assegnati ai servizi sanitari. Si considerano in cura
d’anime gli Ordinari (i Vescovi), i parroci, i vicari parrocchiali, i rettori di chiese aperte al culto e i sacerdoti addetti ai
servizi di assistenza spirituale in ospedali, istituti di pena etc. Una previsione analoga riguarda anche i ministri di culto della Chiesa cristiana avventista (art. 6, comma 3 della legge n. 516 del 1988), mentre i ministri di culto ebraici sono
dispensati in caso di mobilitazione soltanto quando svolgono funzioni di Rabbino capo. Per i culti ammessi, regolati
dalla legge n. 1159 del 1929 e dal relativo decreto di attuazione del 1930, in caso di mobilitazione generale i ministri di
culto possono essere dispensati su attestazione del prefetto il quale dichiari che l’opera loro è assolutamente indispensabile e insostituibile per l’assistenza religiosa dei fedeli affidati alle loro cure.
2) Per lo stesso art. 4, n. 4 del nuovo Concordato, «gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per
ragione del loro ministero». Analoga previsione è contenuta nell’art. 3 della legge n. 101 del
1989 in relazione ai ministri di culto ebraici, mentre l’art. 4 della legge n. 520 del 1995 attribuisce ai ministri di culto della Chiesa Evangelica Luterana il diritto di mantenere il segreto
d’ufficio su quanto appreso nello svolgimento del proprio ministero.
In via generale, per tutte le confessioni che non abbiano regolato in via pattizia questa materia, l’art. 200 c.p.p. esclude che possano essere obbligati a deporre i ministri di confessioni religiose i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. L’eventuale violazione della norma comporta l’inutilizzabilità delle prove raccolte ed è rilevabile in ogni stato e grado del procedimento. Tuttavia il giudice può disporre accertamenti se ha motivo di dubitare che
la dichiarazione resa da tali soggetti per esimersi dal deporre sia infondata. Se i sospetti risultano fondati, il giudice ordina al testimone di deporre. La copertura del segreto d’ufficio riguarda anche gli atti e i documenti e ogni altra cosa
esistente presso tali persone per ragioni del loro ministero (art. 256 c.p.p.). Anche in questo caso il giudice può disporre accertamenti se ha dei sospetti. Sussiste, inoltre, un divieto di intercettare conversazioni o comunicazioni delle persone indicate dall’art. 200 quando hanno ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero (art. 271 c.p.p.). La
disposizione dell’art. 200 c.p.p. si riferisce anche all’obbligo di deporre nelle ipotesi indicate, quale testimone presso il
giudice civile (art. 249 c.p.c.). Il codice penale, infine, tutela il soggetto che si è confidato con il ministro di culto configurando come reato la rivelazione di segreto professionale (art. 622 c.p.).
B) Ineleggibilità ed incompatibilità
Riguardano, in linea di massima, i ministri di tutti i culti:
1) l’art. 12, lett. c), L. 10-4-1951, n. 287, sul riordinamento dei giudizi di assise, stabilisce l’incompatibilità con l’ufficio di giudice popolare per i ministri di qualsiasi culto e per i religiosi di
ogni ordine e congregazione;
2) l’art. 60 del D.Lgs. 18-8-2000, n. 267 prevede che non siano eleggibili a sindaco, presidente
della Provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale nel territorio nel quale
esercitano il loro ufficio gli ecclesiastici e i ministri di culto, che hanno giurisdizione e cura
d’anime, e coloro che ne fanno ordinariamente le veci;
3) il ministro di qualunque culto, abbia o meno giurisdizione o cura d’anime, non può esercitare l’ufficio di notaio (art. 2, L. 16-2-1913, n. 89);
4) qualora abbia giurisdizione o cura d’anime gli è precluso anche l’esercizio della professione di
avvocato (art. 3, R.D.L. 27-11-1933, n. 1578);
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Diritto ecclesiastico
5) l’art. 8 della L. 21-11-1991, n. 374, sul giudice di pace, stabilisce l’incompatibilità di tale funzione con l’ufficio degli ecclesiastici e dei ministri di qualunque confessione religiosa;
6) l’art. 2 della L. 23-4-1981, n. 154, che prevede l’ineleggibilità a consigliere regionale nel territorio nel quale esercitano il loro ufficio gli ecclesiastici e i ministri di culto, che hanno giurisdizione e cura d’anime e coloro che ne fanno ordinariamente le veci. Tale disposizione resta in vigore fino a quando le singole Regioni, con propria legge, non disciplineranno i casi
di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente della Regione e degli altri componenti della
Giunta nonché dei consiglieri regionali, ai sensi di quanto disposto dall’art. 122 Cost.
C) Capacità speciali
Per l’art. 609 c.c., qualora il testatore non possa valersi delle forme ordinarie «perché si trova
in luogo dove domina una malattia reputata contagiosa, o per cause di pubblica calamità o d’infortunio», il testamento è valido se ricevuto da un ministro di culto in presenza di due testimoni di
età non inferiore ai sedici anni.
3. SOSTENTAMENTO DEL CLERO E FINANZIAMENTO STATALE DELLE CONFESSIONI RELIGIOSE
In seguito all’entrata in vigore della L. 20-5-1985, n. 222, recante disposizioni per il sostentamento del clero cattolico, l’art. 30 del Concordato del 1929, che confermava l’impegno, per lo
Stato italiano, di garantire ai titolari di determinati uffici ecclesiastici un reddito minimo, facendo integrare dal Fondo per il culto i redditi beneficiari che fossero risultati inadeguati, deve considerarsi abrogato.
Infatti, fino a quel momento vigeva il sistema beneficiale, per cui ogni ufficio ecclesiastico era affiancato da una persona
giuridica (il cd. beneficio) appartenente alla categoria delle fondazioni, il cui patrimonio era destinato alla retribuzione del
funzionario ecclesiastico. Tale sistema aveva dato luogo a notevoli sperequazioni nel trattamento economico di tali funzionari, poiché la retribuzione (cd. congrua) dipendeva dall’entità del patrimonio beneficiale, per cui lo Stato fu costretto ad
intervenire, versando, tramite il Fondo per il culto, il cd. supplemento di congrua a quegli ufficiali ecclesiastici, il cui beneficio producesse redditi in misura inferiore ad un dato minimo.
Il sistema beneficiale di retribuzione è stato soppresso con l’istituzione degli Istituti per il sostentamento del clero, diocesani o interdiocesani, previsti dal nuovo codex iuris canonici in conformità alle prescrizioni del Concilio Vaticano II; a tale riforma ha aderito lo Stato con l’Accordo del 15 novembre 1984 e con la L. n. 222 del 1985. La Conferenza episcopale italiana, a sua
volta, ha provveduto ad erigere l’Istituto centrale per il sostentamento del clero, con il fine di
integrare le risorse degli Istituti diocesani e interdiocesani.
Tali istituti hanno acquistato la personalità giuridica civile dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto del Ministro dell’Interno che conferisce ad essi la qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto.
La funzione degli I.d.s.c. è quella di corrispondere una integrazione della base stipendiale
dei sacerdoti (percepita dagli enti ecclesiastici o da altri soggetti, pubblici o privati, estranei alla
struttura della Chiesa), ove tale stipendio non raggiunga la misura della congrua sustentatio stabilita dalla C.E.I., ovvero nei casi in cui i sacerdoti non percepiscano alcuno stipendio. Di conseguenza, i sacerdoti che svolgono servizio a favore delle diocesi sono tenuti a comunicare annualmente all’I.d.s.c. le retribuzioni ricevute dagli enti ecclesiastici e da terzi.
I sacerdoti che prestano servizio a favore della diocesi hanno, quindi, un vero e proprio diritto
a percepire la retribuzione (ed eventualmente l’integrazione), sia secondo il diritto canonico, sia
secondo il diritto statuale; se sorgono, a riguardo, controversie tra gli I.d.s.c. e i sacerdoti, questi ultimi potranno ricorrere o alla giurisdizione ecclesiastica o alla giurisdizione dello Stato, ma sicuramente, una volta adito l’organo ecclesiastico e risolta la lite in sede canonica, non sarà possibile risollevare la questione davanti al giudice civile, perché ciò costituirebbe violazione del ne bis in idem.
Infine, la remunerazione prevista per il clero è equiparata, ai fini fiscali, al reddito di lavoro
dipendente: su tale remunerazione l’Istituto centrale per il sostentamento del clero è tenuto ad
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Capitolo 4: Le persone fisiche nel diritto ecclesiastico. Il clero
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operare le ritenute IRPEF, secondo la disciplina prevista per il detto reddito, da versare allo Stato, nonché ad effettuare, per i sacerdoti che vi siano obbligati, il pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Per quanto riguarda le entrate dell’Istituto centrale, queste sono costituite principalmente:
a) da una quota parte della somma che annualmente lo Stato, ai sensi dell’art. 47 della legge n.
222, versa alla Chiesa cattolica italiana e, per essa, alla C.E.I. Si tratta di una quota pari all’otto per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche che viene destinata, in parte, a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e, in parte, a scopi
di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica. Detta ripartizione viene stabilita sulla base delle scelte espresse dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi e, in caso di scelte inespresse, in proporzione a quelle espresse (v. amplius cap. 6, par. 3);
b) dalle erogazioni liberali in danaro ricevute dalle persone fisiche a norma dell’art. 46 della
stessa legge, per le quali è prevista la deducibilità fiscale fino all’importo di euro 1032,91;
c) da una quota parte degli eventuali avanzi di gestione degli istituti diocesani.
Come si può agevolmente notare, questo sistema di intervento finanziario dello Stato nei confronti del clero cattolico si
differenzia nettamente da quello precedente per due motivi:
a)
b)
non è più limitato a particolari categorie di sacerdoti (cioè ai titolari di benefici congruabili), ma si applica a tutti quelli che svolgono servizio in favore della diocesi;
non si attua più con un intervento diretto dello Stato (assegno supplementare di congrua) nei confronti dei singoli beneficiari, bensì con l’erogazione di un contributo globale alla Chiesa e per essa alla C.E.I., che provvederà al sostentamento del clero attraverso particolari modalità.
In generale, le confessioni acattoliche dichiarano di voler provvedere al mantenimento del culto e al sostentamento dei ministri unicamente a mezzo di offerte volontarie. Tuttavia, il sistema
dell’otto per mille e delle erogazioni liberali fiscalmente deducibili ha assunto il valore di modello applicabile anche alle confessioni religiose diverse da quella cattolica, i cui rapporti siano regolate da intese.
Ciò avviene, ad esempio, per l’Unione delle Chiese cristiane avventiste in base agli artt. 29 e 30 della legge n. 516 del 1988,
così come modificata dalla legge n. 637 del 1996. Le somme derivanti da erogazioni liberali sono destinate al sostentamento dei ministri di culto e dei missionari ed a specifiche esigenze di culto e di evangelizzazione. L’otto per mille, invece, prevede la destinazione ad interventi sociali, assistenziali, umanitari e culturali in Italia e all’estero. Per le Assemblee di Dio in
Italia, invece, le erogazioni fiscalmente deducibili sono destinate al sostentamento dei ministri di culto delle ADI e per esigenze di culto, di cura delle anime e di amministrazione ecclesiastica. Le ADI hanno, poi, dichiarato di rinunciare alla quota dell’otto per mille relativa alle scelte inespresse, che rimane di esclusiva pertinenza statale (art. 23 della legge n. 517 del
1988). Anche la Tavola Valdese ha provveduto, nel 1993, ad aderire al sistema dell’otto per mille per finanziare interventi sociali, assistenziali, umanitari e culturali in Italia e all’estero e al meccanismo della deducibilità fiscale delle erogazioni liberali a favore della Tavola Valdese per i fini di culto, istruzione e beneficenza che le sono propri e per i medesimi fini delle Chiese e degli enti aventi parte nell’ordinamento valdese. Anche la Chiesa Evangelica Luterana in Italia beneficia della deducibilità fiscale delle erogazioni liberali destinate al sostentamento dei ministri di culto e a specifiche esigenze di culto e
di evangelizzazione (art. 26 della legge n. 520 del 1995) e della ripartizione dell’otto per mille per le finalità di cui all’art. 26
e per interventi sociali, assistenziali, umanitari e culturali in Italia e all’estero. Dal 2012 anche l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia concorre alla ripartizione del gettito dell’otto per mille destinando le somme devolute ad interventi sociali, assistenziali, umanitari e culturali in Italia e all’estero. Le somme derivanti dalla deducibilità fiscale delle erogazioni liberali sono invece destinate per i fini di culto, istruzione e beneficenza che le sono propri e per medesimi fini delle Chiese e
degli enti aventi parte nell’UCEBI. L’Unione delle Comunità ebraiche partecipa alla ripartizione dell’otto per mille per il raggiungimento delle finalità istituzionali dell’ente, con particolare riferimento alle attività culturali, alla salvaguardia del patrimonio storico, artistico e culturale, nonché ad interventi sociali ed umanitari volti in special modo alla tutela delle minoranze contro il razzismo e l’antisemitismo. Inoltre, è prevista la deducibilità fiscale del contributo annuo dovuto, secondo
Statuto, da ciascuno iscritto alla Comunità in ragione della sua capacità contributiva e delle eventuali erogazioni liberali.
4. LA PREVIDENZA SOCIALE DEL CLERO
Per quanto concerne la Chiesa in sé, già nel 1941 veniva istituita una «Cassa di sovvenzioni
per il clero secolare d’Italia» nonché la possibilità, prevista dall’art. 27 della L. 222/1985 cit., per
l’Istituto centrale e gli Istituti diocesani per il sostentamento del clero, di svolgere anche funzioni previdenziali integrative autonome per il clero.
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Diritto ecclesiastico
Per quanto concerne l’ordinamento statale, tenuto anche conto del disposto dell’art. 38 Cost.,
si può dire che gli ecclesiastici godono di una tutela previdenziale generale in quanto cittadini e di
una tutela particolare in quanto sacerdoti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, gli ecclesiastici, secolari e regolari, che prestano opera retribuita alle dipendenze di terzi (Stato, enti pubblici, enti ecclesiastici, datori di lavoro privati) sono
iscritti alle rispettive forme previdenziali per quanto concerne i rischi di vecchiaia e di invalidità.
La L. 3-5-1956, n. 392 ha precisato che, nei confronti dei religiosi e delle religiose che prestino attività di lavoro alle dipendenze di terzi, l’obbligo delle assicurazioni sociali sussiste anche se le modalità di lavoro siano pattuite tra datore di lavoro e l’Ordine cui appartengono i religiosi e anche se l’Ordine stesso riscuota direttamente il compenso pattuito per la prestazione di lavoro. È sempre escluso dalla tutela il rischio della disoccupazione mentre, per quanto concerne le malattie, gli
ecclesiastici, al pari di tutti gli altri cittadini, godono delle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale (L. 23-12-1978, n.
833 e succ. modif.).
Per quanto concerne il secondo aspetto, gli ecclesiastici cattolici e, unitamente a loro, i ministri dei culti acattolici, con l’istituzione di un apposito Fondo previdenziale, sono stati equiparati, in un certo qual modo, ai liberi professionisti regolarmente iscritti agli Albi, aventi proprie ed
obbligatorie Casse professionali di previdenza.
Tale Fondo (nato dalla fusione del «Fondo per l’assicurazione e invalidità del clero» con il «Fondo per l’assicurazione e
invalidità dei ministri di culti diversi dalla religione cattolica»: v. LL. n. 579 e n. 580 ambedue del 5-7-1961) è attualmente
disciplinato dalla L. 22-12-1973, n. 903 ed è gestito dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.).
Ad esso devono essere obbligatoriamente iscritti tutti i sacerdoti cattolici secolari ed i ministri
dei culti diversi da quello cattolico.
Dal 1-1-2000 (ex art. 42, L. 488/1999) non è più necessario il possesso della cittadinanza italiana, purché l’interessato sia presente in Italia al servizio delle diocesi italiane o di chiese o enti
cattolici riconosciuti, l’obbligo sussiste anche per i cittadini italiani che lavorano all’estero alle
dipendenze di diocesi ed organizzazioni italiane.
L’obbligo del versamento dei contributi, posto a carico degli iscritti, decorre dall’ordinazione sacerdotale o dall’inizio
del ministero.
Le prestazioni erogate sono:
—
—
—
la pensione di vecchiaia. La legge 488/1999 ha elevato i requisiti di età e di contribuzione per accedere alla pensione
di vecchiaia.
Per quanto concerne l’età dopo un breve periodo transitorio, il limite di età, a decorrere da gennaio 2003, è stato elevato a 68 anni. Continuano ad essere richiesti 65 anni per coloro che hanno un’anzianità contributiva pari o superiore a
40 anni.
Il requisito contributivo minimo richiesto è di 15 anni a partire dal 1° gennaio 2006 ed aumenterà gradualmente fino ad
arrivare a 20 anni di contribuzione. Continuano a valere dieci anni per coloro che sono stati ammessi alla prosecuzione volontaria con decorrenza entro il 31 dicembre 1999. Restano confermati i 10 anni nel caso in cui i contributi versati
entro il 31 dicembre 1999, sommati a quelli versati dal 1° gennaio 2000 fino al mese di compimento dell’età pensionabile, non raggiungono il requisito contributivo minimo vigente in quel momento (11, 12, 13 anni ecc.). È utile segnalare che le rilevanti innovazioni in tema di trattamenti pensionistici operate dal D.L. 201/2011, conv. in L. 214/2011 non
trovano applicazione per gli iscritti al fondo in oggetto;
la pensione di invalidità spetta agli iscritti che abbiano contribuito al Fondo per almeno cinque anni e si trovino nella permanente impossibilità materiale di esercitare il proprio ministero a causa di malattia o difetto fisico o mentale.
La pensione di invalidità spetta anche all’iscritto ridotto allo stato laicale o esonerato dalle funzioni di ministro di culto che sia stato riconosciuto invalido e abbia i requisiti contributivi previsti;
la pensione ai superstiti spetta ai superstiti di pensionati o di iscritti che, al momento del decesso, possano far valere
almeno quindici anni di contribuzione versata nel Fondo.
5. LA CONDIZIONE GIURIDICA DEGLI ECCLESIASTICI NEL DIRITTO PENALE
Gli ecclesiastici sono soggetti come qualunque cittadino alla giurisdizione penale; già nel
1850, infatti, la L. n. 1013, all’art. 3, aveva abolito il privilegio del clero di essere giudicati da Tribunali ecclesiastici.
Il vecchio Concordato, pur non mettendo in discussione questo principio, prevedeva però una
normativa di favore in materia.
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