Seminario sull'Agamennone Breve riassunto degli incontri trascorsi (per chi vuole ripassare e per chi è stato assente) 1° incontro, 27 Novembre 2007 Edizione critica Leggeremo l'Agamennone in edizione critica, cioè in un testo che è stato costituito (determinato) non semplicemente ristampando un'edizione precedente, bensì consultando tutti i manoscritti antichi che ci hanno tramandato l'opera in questione. Le edizioni critiche sono preparate dai filologi. I manoscritti non sono altro che i libri antichi, precedenti all'invenzione della stampa: possono essere papiri, cioè rotoli di papiro appunto, che risalgono all'antichità classica (i più antichi del IV a.C., i più recenti del V d.C.), o codici, cioè fogli di pergamena o carta rilegati, di epoca medievale, del tutto simili ai nostri libri. La stragrande maggioranza degli autori antichi ci è giunta in codici: i papiri sono molti meno e sono frammentari, poiché ritrovati dagli archeologi nei loro scavi in Egitto, erosi dal tempo. Poiché copiando a mano è inevitabile commettere errori (soprattutto copiando difficili testi in greco antico, magari in epoche in cui il greco antico non era più parlato!), si capisce che, in tanti secoli e in tante copiature, i testi antichi si sono riempiti di errori, cioè si sono allontanati dall'originale. In filologia per errore si intende qualsiasi cambiamento del testo originale, anche qualora questo cambiamento sia perfetto dal punto di vista grammaticale, sintattico, ecc. Compito dell'editore critico è appunto quello di identificare il maggior numero possibile di questi errori nei manoscritti e di costituire un testo il più vicino possibile all'originale. Capita raramente che un'opera antica ci sia giunta in un unico manoscritto: in tal caso il lavoro necessario per l'edizione critica consiste nel leggere il più attentamente possibile tale manoscritto e valutare parola per parola se il testo ha ‘le carte in regola‘ per essere quello che l'autore in origine ha scritto: le parole e espressioni che paiono insostenibili vengono corrette in base al contesto, allo stile dell'autore, a espressioni simili in altri autori ecc. Quando invece i manoscritti sono più di uno l'editore deve confrontarli uno con l'altro, e in tutti i casi in cui la loro lezione (cioè il testo di un preciso passo) è diversa, deve valutare quale di esse corrisponde alla lezione originale; oppure, se nessuna ha ʻle carte in regolaʼ, proporre una correzione. Lavoro lunghissimo, difficile, pieno di soggettività! Per brevità, ciascun manoscritto si indica con una lettera latina maiuscola (A, B, C). I rapporti di parentela tra i manoscritti (per esempio se A è stato copiato da B, oppure se A e B sono stati entrambi copiati da C) si disegnano in uno stemma, una specie di albero genealogico (vedi quello dei manoscritti dell'Agamennone). Questo è importante perché per esempio, se B risulta copiato da A, allora B quasi sempre si può mettere da parte, perché ovviamente conterrà tutti gli errori che ci sono in A e in più altri errori commessi da chi ha copiato B da A. Se si capisce che due o più manoscritti esistenti sono ‘fratelli’, nel senso che sono copie di uno stesso manoscritto, ma quest'ultimo non è più esistente, il ‘genitore’ scomparso si indica con una lettera greca minuscola (α, β, γ). Infine, se si può provare che tutti i manoscritti esistenti derivano in ultima analisi da un unico ‘antenato’ scomparso, quest'ultimo si indica con una lettera greca maiuscola. L'Agamennone è tramandato in cinque manoscritti, e in più abbiamo una piccola strisciolina di papiro che conserva alcune lettere dei primi versi della tragedia. Tragedia greca Non faremo un'introduzione alla tragedia greca, perché è un argomento così complesso che ritarderebbe troppo la lettura dell'Agamennone. Della tragedia come genere poetico parleremo via via che leggeremo le varie parti dell'Agamenonne. Intanto, per cominciare, limitiamoci a poche notizie basilari: 1) La tragedia è costituita, da cima a fondo, di versi, cioè è da cima a fondo poesia (i greci non avevano dubbi su cosa fosse o non fosse poesia: la poesia è solo in versi, misurati dalla metrica). 2) I versi sono di due tipi: recitati o cantati. I versi recitati non avevano melodia e accompagnamento musicale; i versi cantati avevano melodia e accompagnamento musicale (purtroppo le melodie non sono state trascritte insieme ai testi; ne possediamo solo brevissimi frammenti). 2b) Comunque tutti i versi greci, sia recitati sia cantati, sono di tipo quantitativo, cioè costituiti da un'alternanza regolare di sillabe lunghe e sillabe brevi. 3) I versi recitati sono affidati agli attori, i versi cantati al coro. Il coro non solo canta, ma contemporaneamente danza (χορεύω = danzo). I componenti del coro si chiamano coreuti. 4) Gli attori monologano e dialogano sulla scena; il coro danza e canta nell'orchestra. La scena ha la forma rettangolare ancora oggi usata, l'orchestra (ὀρχέω = danzo) è una spianata circolare situata in genere più in basso della scena, con al centro l'altare di Dioniso, nume protettore della tragedia. 5) Talvolta il poeta tragico affida versi cantati agli attori (situazioni di particolare pathos), oppure versi recitati al capo del coro, il corifeo, che in quel momento dialoga con gli attori. 6) Il verso recitato della tragedia è il trimetro giambico; i versi cantati sono svariati e complessi e in questo seminario non li affronteremo. 7) Il trimetro giambico è l'unione di tre metri giambici; un metro giambico è, nella forma base, composto di quattro sillabe in questa sequenza: x–⏑– (leggi: 1ª indifferente, 2ª lunga, 3ª breve, 4ª lunga) Pertanto lo schema del trimetro è: x–⏑– x–⏑– x–⏑– Tuttavia l'ultima sillaba del verso può anche essere breve: infatti, dato che la fine del verso impone comunque una pausa, piccola o grande che la si faccia, anche una sillaba breve, ‘sommata’ alla pausa, corrisponderebbe comunque a una lunghezza. Pertanto lo schema del trimetro giambico diviene: x–⏑– x–⏑– x–⏑⏓ 7b) I trimetri giambici di Eschilo spesso corrispondono a questa forma base. Ma sono sempre possibili le sostituzioni: due sillabe brevi prendono il posto di una lunga: ⏕ . Pertanto lo schema può variare anche di molto, se in un verso c'è più di una sostituzione. 7c) Nella lettura scolastica, si pone un accento su ogni seconda sillaba delle coppie: x–́ e ⏑–́ . Ne risulta un ritmo martellante e monotono (il famigerato tatà tatà tatà tatà ecc., degno parente del tàtata tàtata dell'esametro scolastico) che non ha nulla a che fare con il trimetro greco, dove ogni parola conservava il suo accento naturale (che era melodico, non intensivo) e al tempo stesso si percepiva il ritmo dettato dalla regolare alternanza di sillabe lunghe e brevi. Nel caso di sostituzioni, l'accento va sulla prima delle due brevi che sostituiscono la lunga. Eschilo Il poeta e la sua arte li conosceremo col tempo, leggendo la tragedia. Intanto vi ho riferito il giudizio del retore latino Quintiliano, che pur riconoscendo la sua grandezza lo definisce rudis e incompositus, che non sono complimenti e fanno pensare che, come noi, anche i latini trovassero difficoltà nel comprenderlo. Va detto che Eschilo è il primo e più antico dei grandi tragici: Sofocle e soprattutto Euripide hanno sviluppato uno lingua e uno stile più moderni, più raffinati, così che l'arte di Eschilo è parsa subito arcaica (nelle commedia Le Rane di Aristofane c'è un bellissimo confronto tra Eschilo e Euripide). Del resto come dice Murray, un editore moderno, nella sua prefazione in latino, Eschilo è come una Sirena che ha attirato tanti col fascino del suo canto, ma tanti ha fatto naufragare... Il Prologo Le tragedie si compongono di parti ben distinte. La prima è in genere il prologo, parte recitata affidata a un attore o più attori, una sorta di introduzione. Dopo il prologo viene la parodo, il primo canto/danza del coro, chiamata così dalla πάροδος, ingresso laterale dal quale il coro entrava nell'orchestra. Procedendo nella lettura dell'Agamennone conosceremo una per una le varie parti della tragedia greca. Il prologo dell'Agamennone è giustamente famoso e considerato un capolavoro. Parla una guardia (φύλαξ), più esattamente una vedetta, che da un anno è stata incaricata dalla regina Clitemestra, moglie di Agamennone, di passare insonne le notti sul tetto del palazzo degli Atridi, in Argo (sì, in Omero Agamennone è re di Micene, qui di Argo). Perché tale strano incarico, che cosa deve vedere la vedetta? È in corso la guerra di Troia, Agamennone è assente; Clitemestra lo ha tradito con Egisto e ne aspetta il ritorno intenzionata ad assassinarlo. Prima di partire, Agamennone aveva concordato con Clitemestra che, in caso di vittoria, avrebbe fatto pervenire la notizia ad Argo tramite una catena di fuochi, che sarebbero stati via via accesi sulle cime di determinati monti lungo il percorso tra Troia e Argo (stratagemma che ritroviamo nel film "Il Signore degli Anelli", come ha notato Corinna). Clitemestra, che non vuole essere presa alla sprovvista da un improvviso ritorno del marito, ha incaricato la vedetta di sorvegliare l'orizzonte per annunciare subito l'atteso segnale di fuoco. Queste informazioni non ci sono fornite da didascalie dell'autore, come nel teatro moderno, ma si ricavano dalla tragedia stessa. Traduzione e commento La traduzione dell'Agamennone presuppone sempre la discussione e la scelta di molteplici possibilità interpretative. I problemi che il testo pone sono così tanti, che a volte non se ne viene a capo e bisogna rassegnarsi a intuire il suo significato, senza poterlo rendere con esattezza. Ecco come abbiamo inteso i versi 1-7: 1 2 3 4 5 6 7 Agli dei chiedo l'allontanamento di queste fatiche, di questa guardia cioè annuale in lunghezza, durante la quale giacendo sulla casa degli Atridi, tra le braccia, come un cane, conosco l'adunanza degli astri notturni, sia quelli che portano l'inverno sia l'estate ai mortali, splendenti signori, che spiccano nel cielo, astri, qualora tramontano e il loro sorgere. Ed ecco le considerazioni che ci hanno condotto a tale traduzione: 1 πόνος: bene il significato primario della parola, "fatica", perché vegliare un anno su un tetto (inverno compreso!) è realmente faticoso. θεούς: gli articoli in tragedia non si usano (come in Omero), quindi nella traduzione siamo noi a dover stabilire dove e come porli, come in latino. 2 φρουρᾶς: apposizione di πόνων. In ἐτείας (< τὸ ἔτος, anno) μῆκος (cf. μακ-ρός, lungo), "annuale in lunghezza", l'accusativo di limitazione μῆκος sembra ridondante, inutile: invece abbiamo visto che esprime la psicologia del personaggio, che di questa lunghezza... non ne può più; allo stesso modo noi diciamo "ho faticato un anno intero" dove basterebbe dire "un anno", per enfatizzare la durata della nostra fatica. ἥν: pronome relativo che riprende φρουρᾶς, con funzione di compl. di tempo continuato; come ha notato Elena, in prosa quest'uso è permesso solo con vocaboli che di per sé esprimono un lasso di tempo (giorno, mese ecc.). 3 στέγαις: στέγη è il tetto, < (σ)τέγω, copro (cf. la nostra tegola); il plurale in genere significa "casa". ἄγκαθεν: ha fatto impazzire gli studiosi. Due possibilità: o è la forma sincopata di ἀν(έ)καθεν = ἀν(ά)καθεν, da ἀνά, e significa "su, sopra" (ma in tal caso dovrebbe reggere un genitivo, cioè ci vorrebbe στέγης); oppure deriva da ἀγκών, gomito, braccio, e vuol dire "tra le braccia", come in un passo delle Eumenidi (stessa trilogia!) dove il significato è sicuro perché l'espressione ἄγκαθεν λαβὼν βρέτας, "prendendo la statua tra le braccia", non lascia dubbi. Abbiamo scelto la seconda ipotesi. κυνὸς δίκην: la lingua poetica è particolare: qui δίκην non ha a che fare con la giustizia, ma funge da preposizione posposta (posta dopo la parola) e significa "come, al modo di". 2-3 Dunque, con le scelte interpretative che abbiamo fatto, che scena e che senso si ricavano complessivamente? La vedetta dice che il suo modo abituale di passare le notti è "sdraiato" (κοιμώμενος) "tra le braccia" (ἄγκαθεν) "come un cane" (κυνὸς δίκην): sicuramente intende dire "con la testa tra le braccia", ma supino (pancia in su, testa poggiata sui palmi delle mani) o prono (pancia in giù, testa appoggiata sui dorsi delle mani)? Irene ha capito subito che la vedetta stava prona, perché il suo compito era scrutare l'orizzonte in attesa del segnale di fuoco, non osservare la volta celeste. I versi seguenti sembrano smentire questa ipotesi, perché la vedetta dice di conoscere bene le costellazioni; ma poi parla specificamente del loro tramontare (ὅταν φθίνωσιν) e sorgere (ἀντολάς), cioè proprio di quelle fasi in cui le stelle si trovano all'orizzonte! 4 κάτοιδα: perfetto fortissimo da οἶδα = so; κατά avrà il consueto valore intensivo, "fino in fondo" (< dal valore locativo "giù"), "bene". ὁμήγυριν: vocabolo poetico < ὁμός, uguale + √ ἀγορά. 5 qui tutto scorre bene; βροτός, in genere tradotto "mortale" anche se non si è sicuri dell'etimologia, è comune nell'epica. 6 αἰθέρι: αἰθήρ è il cielo come volta celeste. 7 †ἀστέρας†: le croci indicano una parola o un passo che l'editore ritiene "disperato", ovvero per il quale nessun manoscritto offre una lezione credibile e nessun filologo ha proposto una correzione convincente. In questo caso le difficoltà sono due: 1) metrica, poiché la prosodia (quantità sillabica) di ἀστέρας è –⏑⏑, cioè la seconda sillaba lunga del trimetro è sostituita da due brevi; ma gli studiosi hanno constatato che Eschilo sostituisce la seconda sillaba solo quando usa nomi propri, mentre qui il nome è comune; 2) stilistica, perché la ripetizione di "astri" suona scadente e inutile. Nel prossimo incontro vedremo quali correzioni sono state proposte. Noi per adesso traduciamo la parola così com'è, osservando che essa merita rispetto dato che la piccola strisciolina di papiro ci testimonia che non è sicuramente un errore nato in epoca bizantina (il papiro è del II d.C.). ὅταν φθίνωσιν: il significato è chiaro, ma la sintassi no, perché non è chiaro come questa frase si colleghi a quanto precede: probabilmente riprende φέροντας, nel senso che le costellazioni "portano" le stagioni "qualora tramontano", cioè una stagione inizia col tramonto (o col sorgere) di una costellazione. ἀντολάς: il significato, "sorgere", cade a fagiolo, dato che subito prima si parla di tramonto delle costellazioni; la sintassi invece non convince, perché l'accusativo non ha un verbo da cui dipenda. Difatti sono state proposte per il precedente ἀστέρας diverse correzioni che diano un verbo a questo verso, oppure si è pensato a cambiare il caso in dativo, ἀντολαῖς, così che significhi "con il loro sorgere" (portano le stagioni).