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James Oswald
Il libro del male
Traduzione di
Leonardo Taiuti
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Per Barbara
Titolo originale:
The Book of Souls
Copyright © James Oswald 2013
All rights reserved
http://narrativa.giunti.it
© 2015 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: febbraio 2015
Ristampa
Anno
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2019 2018 2017 2016 2015
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Le strade sono deserte. La zona nord della città è immersa in
una calma innaturale, come se tutti i rumori fossero stati ri­
succhiati via dai festeggiamenti su Princes Street. Solo qualche
taxi occasionale disturba il silenzio, mentre un uomo avanza
a piedi, diretto chissà dove. Lontano dalla folla, lontano dal
divertimento, lontano dalla gioia.
Sta vagando da ore, alla ricerca di qualcosa, anche se nel suo
cuore sa che è ormai troppo tardi. È già stato lì? Quel luogo
è terribilmente familiare: le lancette dell’orologio della torre
puntate sulla mezzanotte e sull’imminente nuovo millennio;
l’acciottolato luccicante di pioggia; il bagliore arancione sull’a­
renaria, che tinge tutto di una luce diabolica. I piedi lo portano
giù, attraverso i nove cerchi dell’inferno, la sua disperazione
aumenta a ogni passo.
Perché si ferma sul ponte? Forse ha sentito un suono ina­
spettato. L’ eco di un grido di tanti anni prima. O forse è l’im­
provviso silenzio della città che trattiene il respiro, mentre con­
ta gli ultimi secondi che la separano da una nuova alba. Non
riesce a condividere quell’entusiasmo, non gli importa niente.
Se potesse fermare il tempo, ricominciare, farebbe tutto diver­
samente. Ma questo è soltanto un istante, e dopo ne seguiranno
altri, e altri ancora. All’infinito.
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Si appoggia al parapetto di pietra e osserva l’acqua sotto­
stante, scura e agitata. Qualcosa l’ha portato qui, lontano dai
festeggiamenti e dal baccano.
Una potente esplosione segna la fine del vecchio e l’inizio
del nuovo. I fuochi d’artificio si alternano in rapida successio­
ne, sorgendo da dietro gli alti edifici e illuminando il cielo. Un
milione di nuove stelle riempiono la volta celeste, scacciando le
ombre, riflettendosi sull’acqua nera, mostrando il suo orribile
segreto.
Un lampo, e l’acqua assume strane forme che svaniscono
subito, fantasmi di un’immagine.
Un lampo, e pesci spaventati fuggono dalle dita che stavano
mordicchiando.
Un lampo, e lunghi capelli neri fluttuano nella corrente,
come alghe tra le onde.
Un lampo, e la forza repressa di una settimana di pioggia
abbatte gli ultimi ostacoli. Quella cosa si muove lentamente
verso il mare, rotolando nell’acqua.
Un lampo, e una faccia pallida lo guarda con occhi suppli­
chevoli.
Un lampo…
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«Aaah! Cavolo, è un topo quello?»
«Abbassa la voce, agente.»
«Ma sergente, mi è salito su un piede. Era grosso come un
castoro.»
«Non mi interessa, neanche se era grande quanto me! Sta’
zitto finché non ci fanno il segnale.»
Un silenzio teso calò sulla strada buia, dove il manipolo di
poliziotti se ne stava acquattato dietro i sacchi della spazzatu­
ra, davanti a un edificio apparentemente privo di vita. Il co­
stante, sommesso ruggito della città attorno a loro sottolinea­
va quell’immobilità; la luce insufficiente dell’unico lampione
funzionante avvolgeva ogni cosa in un’atmosfera crepuscolare.
Era mattina presto e chi viveva in quella zona della città stava
sicuramente dormendo o era privo di sensi per il troppo bere.
Due ticchettii dalla ricetrasmittente, poi una voce metallica
nella cuffia: «Sul retro è pulito. Via libera».
Le figure scure si mossero, spuntando dalla spazzatura.
«Okay, gente, al mio segnale. Tre… due… uno…»
Lo schianto del legno spezzato riecheggiò nell’aria, seguito
da un grido.
«Accidenti, non era nemmeno chiusa.» Poi: «Cristo santis­
simo, il pavimento è coperto di merda!».
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L’ ispettore Anthony McLean sospirò e accese la torcia.
Riusciva solo a vedere la figura in nero dell’agente Jones che
tentava di districarsi da una pila di sacchi della spazzatura am­
mucchiati nell’ingresso.
«A Tulliallan non ti hanno insegnato a controllare prima?»
Superò l’agente e s’infilò nell’edificio umido, annusando l’aria
e cercando di non soffocare. Spazzatura marcia, mista a piscio
e muffa, l’odore tipico dei sobborghi di Edimburgo. Di solito
però non era così intenso, e comunque non era mai un buon
segno.
«Bob, a te il pianoterra. Jones, aiutalo.» McLean si voltò ver­
so l’ultimo membro del gruppo, un giovane detective dai tratti
angelici, che aveva avuto la sfortuna di trovarsi alla centrale
un’ora prima, con l’aria di uno che non aveva niente di meglio
da fare. Ecco la ricompensa per tanto entusiasmo, pensò Mc­
Lean. «Vieni con me, MacBride. Vediamo se troviamo qualcosa
per cui sia valsa la pena sfondare una porta aperta.»
Il condominio aveva tre piani, ognuno dei quali ospitava due
appartamenti. Nessuna delle porte era chiusa e i graffiti dise­
gnati su ogni superficie disponibile erano vecchi di almeno un
paio di generazioni. McLean entrò con cautela in tutte le stanze,
illuminando con la torcia mobili rotti, prese elettriche strappa­
te via e qualche topo morto. Il detective MacBride gli rimase
sempre vicino come un Labrador obbediente: quasi troppo per
i suoi gusti. O forse gli stava accanto solo perché aveva paura di
sfiorare qualcosa. McLean non poteva biasimarlo. Per mandare
via quella puzza ci sarebbero volute settimane.
«Un’altra perdita di tempo» disse McLean quando uscirono
dall’ultimo appartamento e si fermarono sul pianerottolo di
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fronte. I vetri delle finestre che davano sui giardini lì intorno
erano spariti da tempo. Se non altro, il vento freddo avrebbe
spazzato via un po’ di quel cattivo odore.
«Mmm, perché siamo qui, signore?» La domanda suonò
poco convinta, come se MacBride fosse stato combattuto fino
all’ultimo prima di pronunciarla ad alta voce.
«Ottima domanda, detective.» McLean puntò la torcia verso
le scale, poi sul soffitto, illuminando un lucernario di vetro
rinforzato. Era lontano dalla portata dei vandali e abbastanza
robusto da resistere a una cannonata, eppure un paio di pan­
nelli erano incrinati. «Abbiamo ricevuto una soffiata da un
informatore. Una spia. Com’è che li chiamano ora? Human
Intelligence?» accompagnò queste parole disegnando delle vir­
golette con le dita. «A dire il vero… il mio informatore è un
tossico di nome Izzy ed è completamente inutile. Mi rifila un
sacco di stronzate solo perché mi tolga dai piedi. Mi ha detto
che questo posto era usato come centro di spaccio. Stupido io
ad avergli creduto.»
Altre luci guizzarono nell’oscurità del pianoterra, dove il
sergente Bob Laird e l’agente Taffy Jones si facevano largo tra
i sacchi della spazzatura. Se avessero trovato qualcosa avreb­
bero chiamato, ma a giudicare dalla situazione era poco pro­
babile. Ultimamente era sempre così. Poldo ne sarebbe stato
entusiasta.
«Forza. È meglio se non facciamo salire tutte le scale a Bob
il Burbero. Torniamocene al calduccio in centrale.» McLean
cominciò a scendere, ma arrivato a metà strada si accorse di
non essere stato seguito. Si voltò e vide MacBride che puntava
la torcia in un punto sopra la lunetta di una porta. Un piccolo
portello permetteva di accedere alla soffitta dell’edificio. Non
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ci sarebbe stato nulla di sospetto, se non fosse stato per il fatto
che era chiuso da un paletto nuovo di zecca.
«Non crede che lassù possa esserci qualcosa, signore?» chie­
se MacBride quando McLean lo raggiunse sul pianerottolo.
«C’è solo un modo per scoprirlo. Fammi salire.»
McLean si infilò la torcia in bocca, poi mise il piede sulle
mani a coppa del detective. Non c’era nulla a cui sostenersi,
eccetto una piccola sporgenza sotto il portello, e dovette al­
lungarsi per mettere il piede sulla balaustra traballante prima
di riuscire a tirare il paletto. Il punto in cui fino a poco tempo
prima si trovava un lucchetto era più lucido.
«Tieni duro.» McLean spinse il portello. All’inizio fece re­
sistenza, poi si aprì con facilità, ruotando su cardini ben oliati.
Lo accolse un’oscurità diversa e un odore dolce di muschio,
decisamente in contrasto con il tanfo che impregnava il resto
dell’edificio. Girò la testa finché non riuscì a puntare la torcia
nell’apertura; vide fogli di alluminio sulle travi, basse panche
di legno, luci fluorescenti.
«Non la reggerò ancora per molto, signore.» La voce di
MacBride tremava per lo sforzo. McLean si diede la spinta
sulla balaustra e saltò sul pianerottolo. L’ altro lo guardava con
un’espressione preoccupata, come se temesse di venire rimpro­
verato per la sua debolezza. McLean gli sorrise.
«Prendi la radio» disse. «Credo che presto ci servirà una
squadra della scientifica.»
Eliminare i sacchi della spazzatura era servito a rendere l’aria
più respirabile, ma il pavimento era appiccicoso e coperto di
liquami su cui era meglio non indagare troppo. McLean osser­
vò la fila di agenti della scientifica in tuta bianca scendere dal
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furgone, passare per il corridoio e salire le scale, trasportando
valigette d’alluminio piene di attrezzature costose.
«Mi dispiace per il poveraccio che dovrà occuparsi di quella
roba.» Bob il Burbero indicò con la testa la pila di sacchi della
spazzatura, che erano già stati classificati come «prove» e in
attesa di un camion che li portasse via.
«Dovrò farlo io, come sempre. Chi è l’ufficiale in comando,
qui?» Una figura vestita di bianco si fermò a metà del corridoio.
Si tolse il cappuccio mostrando una nera e irsuta capigliatura.
Secondo alcuni, in centrale, Emma Baird usciva con McLean,
secondo altri no. Lui comunque non la vedeva da due setti­
mane, era rimasta su ad Aberdeen per un addestramento o
qualcosa del genere. Scorgendola nella penombra, desiderò che
l’incontro fosse avvenuto in una circostanza migliore. Guardò
Bob il Burbero, che si mostrò indifferente.
«Ciao, Em» McLean uscì dall’ombra per farsi vedere. «Pen­
savo fossi ancora ad Aberdeen.»
«Sto cominciando a rimpiangerla» disse lei, guardando il
mucchio di spazzatura. «Sai che quell’attico non viene utiliz­
zato da mesi, vero?»
«Merda.» Un altro vicolo cieco. Eppure gli era sembrata così
promettente come pista…
«Esatto, merda. Ventitré puzzolenti sacchi di merda, per
essere precisi. E toccherà a me analizzare tutto, pur sapendo
che dentro non c’è un cazzo di utile per la tua indagine. A
meno che tu non decida che non è necessario…» Si interruppe
e guardò prima lui, poi Bob, come se non sapesse bene a chi
rivolgersi.
«Se potessi lo farei, Em» McLean tentò di sorridere, ma
sapeva che sarebbe stato inutile. «Conosci Poldo.»
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«Oh, cavolo. Non è mica lui che comanda?» Emma accar­
tocciò il cappuccio della tuta nella mano guantata, se lo infilò
in tasca, si voltò e urlò ai ragazzi della scientifica. «Forza, gen­
te. Prima cominciamo, prima ci facciamo una doccia.» E uscì
senza dire altro.
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Una pioggia gelida sferza il cimitero, trasformando la neve in
una poltiglia grigiastra. Il cielo è plumbeo, le nubi si rincorrono
come onde. Lui è in piedi sul bordo della fossa e scruta il buio,
mentre un religioso mormora qualche banalità.
Uomini forti afferrano le corde che avvolgono il feretro.
Lei è lì dentro, immobile e fredda, nel vestito preferito di sua
madre. Il suo vestito preferito. Lui vuole aprire il coperchio e
vedere quel viso, un’ultima volta. Vuole stringerla tra le braccia
e far sì che il passato scompaia, che tutto questo non sia mai
successo. Cosa avrebbe dato pur di tornare indietro di un paio
di mesi? L’ anima? Di sicuro. Portatemi il contratto e firmerò
con il sangue. Non mi serve un’anima, ora che lei non c’è più.
Ma non si muove. Non riesce a muoversi. Dovrebbe aiutare
gli uomini a sotterrarla, ma non ce la fa. L’ unica cosa che riesce
a fare è restare lì, in piedi.
Una mano sul braccio. Si volta e vede una donna vestita
di nero. Le lacrime le scorrono lungo il viso bianco, ma il suo
sguardo è pieno di odio. Quegli occhi lo accusano. È colpa sua.
È colpa sua se la sua bambina, la sua unica gioia, sta per essere
ricoperta di terra. Sarà cibo per i vermi. È morta.
Non può dare torto a quegli occhi. Hanno ragione, la colpa
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è sua. Se la donna l’avesse spinto nella tomba, lui non l’avrebbe
fermata. Sarebbe stato felice di giacere sulla sua bara. Qualsiasi
cosa sarebbe stata meglio che cercare di vivere senza di lei.
Ma lo sa che ci proverà.
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Era da poco passato mezzogiorno e il pallido sole autunnale
stava già per tramontare. McLean guardò le nuvole che incom­
bevano su Salisbury Crags e tremò al pensiero dell’inverno
in arrivo, quando la mole di cemento della centrale l’avrebbe
inghiottito in un mondo di luci artificiali e finestre fumé. In
quel momento voleva solo sentire il vento sul viso. In qualsiasi
posto, ma non al chiuso.
«Vuole rimanere lì fuori tutto il giorno, signore? Dentro
c’è una tazza di tè che mi aspetta.» Bob il Burbero sbatté la
portiera della volante e si diresse verso l’ingresso posterio­
re della centrale. Non aveva fatto più di una dozzina di passi
quando il suono di un clacson lo fece sobbalzare. Uno stridio
di freni e una Jaguar station wagon nuova fiammante inchiodò
sulla rampa che usciva dal parcheggio sotterraneo. Un uomo
dall’imponente figura scese dall’auto.
«Scusami, Bob. Non ti avevo visto, ero controsole.»
«Che cavolo, Needy. C’è mancato poco!» disse Bob portan­
dosi una mano sul petto, con fare teatrale, e appoggiando l’altra
sul cofano dell’auto. «Bella carriola, comunque. Mi deve essere
sfuggito qualcosa, hanno dato un aumento a tutti i sergenti?»
«Lascia perdere Bob, tu spendi tutti i tuoi soldi in birra e
donne…»
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McLean guardò Needy, sergente John Needham per chi
non lo conosceva bene. Re dei sotterranei della centrale, del
magazzino delle prove e guardiano degli archivi. Di solito si
poteva fare affidamento su di lui per portare un po’ di allegria
in qualsiasi situazione. Ora, però, sembrava teso, aveva il volto
pallido e stanco.
«Buon pomeriggio, signore.» Needy si mosse con difficoltà
per salutare McLean, la gamba gli dava più problemi del solito.
McLean ricordava l’atletico sergente che l’aveva preso sotto la
sua ala, tanti anni prima. Se non fosse stato per uno sfortunato
incontro con un coglione ubriaco, probabilmente sarebbe stato
Needy a condurre le indagini e McLean a chiamarlo signore.
«Buon pomeriggio, Needy. Bob ha ragione. Bella macchi­
na. Hai deciso di farti un regalo per la pensione? Ormai non
manca molto.»
«A febbraio.» Needy non sembrava felice al pensiero. «Dopo
Capodanno, addio a tutto.» Allargò le mani a indicare il cortile
e le pareti smorte, come se chiamasse l’applauso di un pubblico
immaginario, dietro le finestre silenziose. «I Needham lavo­
ravano in polizia prima ancora che costruissero questo posto.
Un centinaio d’anni di servizio, fra tutti. E io sono l’ultimo.»
«Come sta il tuo vecchio, a proposito?» chiese McLean. Tom
Needham, quarant’anni di carriera in polizia. Era da un po’ che
non passava in centrale. Di solito se ne andava in giro come
se quel posto fosse suo e ficcava il bastone da passeggio negli
affari di tutti. Non importava che fosse in pensione da tempo e
non fosse autorizzato a stare lì. Non c’era nessuno, alla centrale,
che avrebbe osato dirgli di andarsene.
Un’ombra passò sul viso di Needy, che fece per risalire in
macchina.
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«È di nuovo in ospedale. Stavo andando a trovarlo.»
«Fagli i miei auguri» disse McLean. «Non voglio trattenerti.»
«Tranquillo, non ci tengo a restare. Voglio essere il più lon­
tano possibile da qui quando Poldo saprà del tuo raid di sta­
mattina.»
«E tu come diavolo fai a saperlo?» chiese McLean. Ma Needy
si limitò a sorridere, chiuse la portiera e sfrecciò via.
La tensione cresceva mentre McLean saliva le scale che con­
ducevano al cuore della centrale. La percepiva nell’immobilità
dell’aria. Poi c’era l’odore della paura che pervadeva i corridoi.
Oppure qualche agente aveva bisogno di farsi una doccia.
La più grande centrale operativa dell’edificio occupava una
vasta porzione del primo piano. Le alte finestre davano sulla
strada, dove si addensava il traffico dei pendolari dei Borders,
diretti in centro. McLean entrò al suo interno e fu accolto da
un clima di fermento. Agenti e sergenti in uniforme correvano
avanti e indietro tra una fila di computer, una lavagna a parete
e una mappa della città che copriva un muro intero. Decine di
persone parlavano al telefono; una considerevole forza lavoro
impiegata in straordinari sempre più lunghi. E tutto per cosa?
Una soffiata inutile che li aveva condotti a un sito abbandonato
da tempo che probabilmente non aveva niente a che vedere
con la loro indagine.
«Bene, bene, bene. Guarda un po’ chi c’è. Stavo comincian­
do a chiedermi che fine avessi fatto.»
McLean si voltò, sollevato di poter riferire le ultime noti­
zie all’unico che forse non l’avrebbe massacrato. L’ ispettore
Langley era un tipo a posto, per essere della narcotici. Tecni­
camente, tutta l’indagine avrebbe dovuto essere affidata a lui;
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a McLean sarebbe dovuto toccare solo il supporto logistico,
qualunque cosa significasse, ma entrambi erano stati costretti
ad assumere ruoli diversi a causa delle costanti interferenze
di un certo ispettore capo che, con sollievo di McLean, non
sembrava essere nei paraggi.
«Com’è andata, allora?» chiese Langley, tentando invano di
non far capire che sapeva già tutto.
McLean fece spallucce. «Troppo presto per dirlo. La scien­
tifica potrebbe trovare qualcosa. Di sicuro le abbiamo dato
parecchio su cui lavorare.»
«Sì, ho sentito.» Langley si esplorò una narice con l’indi­
ce, che poi osservò come se stesse decidendo se infilarselo in
bocca o meno. Alla fine optò per strofinarselo sulla giacca. «E
a quanto pare anche il capo.» E spostò lo sguardo alle sue spal­
le, verso una porta aperta. In quel momento, McLean sentì la
temperatura scendere; nella centrale operativa calò il silenzio.
«Dove diavolo sei stato, McLean? È tutto il giorno che ti
cerco.»
L’ imponente figura dell’uomo che McLean meno sopporta­
va al mondo fece il suo ingresso nella stanza: l’ispettore capo
Charles Duguid, altrimenti detto Poldo. Era la settimana in cui
sfoggiava l’abito marrone di poliestere, logoro sui polsi e lucido
sui gomiti. Sembrava più un professore che un detective, il tipo
di professore che gode nell’infierire sui ragazzini meno bravi
e il cui comportamento fomenta la rabbia degli studenti. Con
quei capelli radi e grigi, il viso pallido e butterato, che diventava
rosso di rabbia alla prima occasione, la figura allampanata e le
mani troppo grandi, sembrava un orango vestito a festa.
Cerca di essere ragionevole, almeno all’inizio, pensò McLean.
«Se ricorda, signore, le ho detto che sarei andato a verificare
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una soffiata di uno dei miei informatori. Sa quanto è difficile
beccare questa gente. Ho pensato di fare in fretta prima che se
la svignassero.»
«Quindi l’indagine è già chiusa? Mentre parliamo, i colpe­
voli sono in cella e la città è nuovamente libera dalla minaccia
della cannabis…» sogghignò Duguid. «Non eri un semplice
sergente, il mese scorso?»
«Non vedo cosa c’entri questo con…»
«Alcuni di noi hanno un po’ più di esperienza di te nel ge­
stire le indagini, McLean. Anche il nostro Langley ha arrestato i
suoi bravi spacciatori, ai suoi tempi. E lo sai qual è l’aspetto più
importante di una squadra investigativa, eh? Ricordi l’addestra­
mento, eh?» A ogni «eh?», Duguid si avvicinava sempre di più,
sfruttando al massimo la sua altezza per intimidire McLean.
«È una parolina semplice, McLean.» Duguid gli puntò un di­
to sul petto, l’unghia ingiallita dopo una vita di sigarette. «Squa­
dra. S. Q. U. A. D. R. A. Non si parte per un raid senza coordinarsi
con tutti gli altri. E invece tu che fai? Acchiappi i primi agenti
che ti capitano sottomano e fai irruzione a pistole spianate?»
McLean voleva protestare, ma rinunciò subito quando si re­
se conto, suo malgrado, che nelle parole dell’ispettore capo c’e­
ra del vero. Si era completamente scordato della squadra, quella
di cui avevano parlato nel veloce briefing lo stesso giorno.
«Be’, che hai da dire in proposito?» chiese Duguid, frugan­
dosi nelle tasche della giacca e tirando fuori una mentina che
aveva l’aria di essere vecchissima. La ripulì da quello che Mc­
Lean sperò fosse tabacco e se la infilò in bocca.
«Abbiamo trovato fari potenti e attrezzatura idroponica nel
loft dell’edificio indicato dal mio informatore» rispose, poi rag­
guagliò l’ispettore capo circa le attività del mattino. Per una
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volta, Duguid non lo interruppe, forse perché era troppo preso
a godersi la sua mentina al sapore di tabacco.
«Quindi, quelli della scientifica stanno analizzando per noi
due dozzine di sacchi di spazzatura. E confermi che era una
vita che qualcuno non entrava in quel posto…»
McLean fece una smorfia. «Almeno sappiamo che sono
passati di lì.»
«Sappiamo bene dove sono stati, McLean. Abbiamo indivi­
duato mezza dozzina di siti in tutta la città.» Duguid indicò con
una mano la fila di computer e gli agenti chini sulle tastiere o
rivolti agli schermi con sguardo miope. «Abbiamo un’infinità
di informazioni su dove sono stati. A me serve sapere dove
sono adesso.»
«Lo so, signore, ma…»
«Non una parola di più. È già abbastanza penoso dover ascol­
tare Langley che si lamenta tutto il giorno come una pecora. Ti
ho fatto entrare in quest’indagine perché il sovrintendente capo
McIntyre pensava fosse una buona idea.» Duguid s’incupì pro­
nunciando il nome della sua superiore, come se il solo pensiero
fosse sufficiente a metterlo di malumore. «L’ hai sicuramente
fregata con il tuo sorriso, ma con me non funziona.»
«Se non vuole il mio aiuto, signore, ho un sacco di altre cose
di cui occuparmi. Non sappiamo ancora chi dà fuoco a quei
vecchi edifici, per esempio.» McLean si rese conto di sembrare
patetico, ma era troppo tardi per rimangiarsi tutto. Duguid si
stizzì e diventò rosso come un peperone.
«Fuori, McLean.» La sua voce stava crescendo di tono e di
volume. «Vai a cercare il tuo piromane. Lascia il vero lavoro a
chi lo sa fare.»
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