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Un uomo sulla misura
del suo Dio
di Carlos García Andrade, c.m.f.
Una grande sfida per la teologia attuale è di arrivare a pensare l’uomo seguendo il modello della vera immagine di Dio, Gesù Cristo. Forse continua
ad avere un peso maggiore, nella nostra idea di uomo, più l’eredità greca che
non la novità rivelata. E cambiare è un bisogno urgente.
O
ggi, 50 anni dopo il Vaticano II, si capisce con sempre maggiore chiarezza
che le nuove vie aperte per il pensiero teologico attraverso questo evento
epocale hanno significato una vera rivoluzione in diversi settori della teologia. Basta pensare alla decisiva transizione dalla visione canonica della Chiesa come
Società perfetta alla prospettiva teologica che guarda alla Chiesa come Mistero di
comunione e la definisce come Sacramento della salvezza; o alla teologia trinitaria che,
dopo gli avvii suggeriti dal Concilio – e che in realtà sono rimasti ancora soltanto degli
avvii –, si è risvegliata finalmente da un letargo secolare che l’aveva resa un settore
isolato e piuttosto irrilevante della teologia; o agli studi biblici ed esegetici, finalmente
riconosciuti e accolti all’interno della Chiesa cattolica.
C’è, però, un campo del pensiero teologico in cui sembra che questa svolta non sia
ancora arrivata. Un campo che rimane impostato piuttosto secondo le vie tradizionali. Dove gli spunti di novità – che certamente non mancano – non hanno ancora
prodotto una nuova maniera di impostare la propria visione. Mi riferisco al campo
dell’antropologia teologica, della visione cristiana dell’uomo.
Motivi per una transizione
Se si guarda, però, alle radici, si vede subito che non mancano i motivi che richiamino un orientamento nuovo della visione cristiana sull’uomo.
Da una parte c’è, infatti, l’approfondimento dell’antropologia biblica che appare
molto diversa rispetto all’antropologia “ufficiale”, perché non si basa sulle categorie
dell’ontologia greca. In essa si mostra una maniera davvero alternativa di comprendere l’uomo. Si tratta di una visione unitaria, non duale (distinzione/divisione tra
anima e corpo); di una visione integrata, in cui i diversi aspetti che sono presi in
considerazione coinvolgono tutto l’uomo (non solo una “parte” dell’uomo), tuttavia
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contemplato da prospettive diverse; una visione relazionale in cui l’uomo non è visto
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come isolato (autosufficiente), ma soggetto di tre relazioni strutturali che configurano
il suo essere: col mondo, al quale appartiene, con gli altri uomini, con lo stesso Dio.
Quest’antropologia però non è stata integrata nella visione classica, è rimasta, per così
dire, “in parallelo” alla dottrina tradizionale, e non ha dunque fecondato ancora l’antropologia, rimasta troppo dipendente dallo schema duale di anima/corpo.
Dall’altra parte, la metafisica classica ha perso ormai la sua base “fisica”. Sappiamo che
la metafisica tradizionale ha impiegato come nozione-base l’idea della sostanza. Con essa
cercava di proporre una realtà a sé stante, completa, sussistente e indipendente dalle
altre realtà del contesto, che, dunque, dipende soltanto dalla comunicazione dell’essere
da parte dal Creatore. Insomma, la sostanza appare come la realtà che trova in se stessa
la ragione del proprio esserci.
L’antropologia nata e sviluppatasi su questa falsariga tende allora a mettere in primo piano gli elementi che avvicinano la persona umana a questo ideale di sostanza (individualità, sussistenza, autosufficienza, incomunicabilità). Da qui nasce la classica definizione
di persona come individua substantia rationalis naturae fornita da Severino Boezio. Su
questa infrastruttura metafisica s’inserisce la novità dell’antropologia cristiana, che presenta l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, dimensione che si cerca di spiegare
collegando analogicamente le facoltà superiori dell’uomo (intelligenza e libera volontà)
con qualcosa di simile che non può, certo, mancare in Dio,
giacché si tratta di perfezioni.
Tutte le realtà sono
Il problema deriva dal fatto che è stato il supporto fisico a
lasciare senza fondamento la stessa idea di sostanza. Dopo le
immerse in una rete
scoperte della fisica subatomica e delle particelle elementari,
di rapporti, di vincoli,
si capisce che l’idea di sostanza come realtà statica, permadi equilibri vitali
nente, che rimane in se stessa e per se stessa, come sottofondo
fisso dei cambiamenti – che sono soltanto accidentali – e che
che permettono loro
non dipende da altre realtà perché non ha bisogno di nulla
di sopravvivere, di
per esistere, è semplicemente irreale, inesistente.
combinarsi con altre, di
L’apparente compattezza statica delle realtà create nasconde un gioco intensissimo di elementi infinitesimali, che inteformare nuove realtà.
ragiscono costantemente tra di loro secondo leggi precise e
forze che, dal punto di vista della metafisica, possono essere
capite soltanto come “relazioni”, come rapporti e scambi energetici tra le cose. E queste
“relazioni” sono più decisive per il reale che gli stessi componenti. Anche considerando
i livelli chimici o biologici si mostra che l’apparente indipendenza di una sostanza, di un
essere vivo, non è tale. Tutte le realtà sono immerse in una rete di rapporti, di vincoli, di
equilibri vitali che permettono loro di sopravvivere, di combinarsi con altre, di formare
nuove realtà. E questi vincoli e interdipendenze si moltiplicano e sono sempre più multiformi, nella misura in cui le realtà sono più evolute e complesse.
Se arriviamo allo specifico livello umano, la psicologia e la filosofia sociale, e la stessa
sociologia, ci hanno fatto vedere già da tanto tempo quanto contino i rapporti interpersonali che riusciamo a stabilire con le altre persone, per la costituzione e maturazione del
proprio Io. Fino al punto di dire che senza queste relazioni vissute bene, non si riesce
ad avere una vita normale.
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In sintesi, in tutti i livelli della realtà c’è un intreccio di vincoli, di rapporti, di collegamenti che sono decisivi, perché la stessa realtà possa esistere, svilupparsi e maturare. Dunque una metafisica della realtà che non tenga conto di queste dimensioni
relazionali, considerandole come puramente accidentali, è semplicemente sbagliata
e si mostra come irrilevante.
In realtà è possibile dire che la svolta generale è stata già prospettata, e non pochi
anni fa. Basti fare riferimento alla prospettiva che J. Ratzinger ne ha tracciato, con
esplicito riferimento alla radice trinitaria, nel 1968, a Tubinga, quando era ancora
professore di teologia.
Con la costatazione che Dio era, sì sostanzialmente Uno, ma pure esiste in
lui il fenomeno di un’attività dialogica, d’una distinzione e d’un rapporto di
colloquio, per il pensiero cristiano la categoria della “relazione” venne così ad
assumere un’importanza completamente nuova. [...] Un’esperienza del genere,
infatti, scardina sin dalle radici l’antica suddivisione della realtà in sostanza,
intesa come componente primaria e genuina, ed accidenti, intesi come componente soltanto casuale. Ora appare chiaro che, accanto alla sostanza, si trova anche il dialogo, la “relatio”, intesa come forma ugualmente originale dell’essere.
[...] [Qui] si cela un’autentica rivoluzione del quadro del mondo: la supremazia
assoluta del pensiero accentrato sulla sostanza viene scardinata, in quanto la
relazione viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente del reale. Si
rende così possibile il superamento di ciò che noi chiamiamo oggi “pensiero
oggettivante” e si affaccia alla ribalta un nuovo piano di essere1.
Una citazione ampia ma importante, che ci fa capire che la spinta verso una nuova
ontologia, di stampo trinitario, è in atto da parecchi anni anche se, per dire la verità,
ancora fa una fatica enorme a decollare e non riesce ad affermarsi. Ma non è capitata
la stessa cosa con l’antropologia. E bisogna domandarsi il perché.
Il deficit cristologico-trinitario
In realtà la ragione di questa mancanza è semplice. Il modo di capire l’incarnazione
del Verbo da parte della teologia tradizionale ha fatto sì, infatti, che il Cristo non sia
stato mai inteso come un prototipo di umanità, ma sia stato invece presentato come
“un caso unico”, eccezionale (una persona che assume due nature distinte in sé).
Senza dubbio è un fatto eccezionale, ma non si è riusciti a vedere che, essendo Egli
una persona divina, in Lui si trova il modo giusto, adeguato, originale di vivere la
natura umana.
Questo è accaduto, forse, perché si è letta l’incarnazione del Verbo soltanto, o primariamente, come risposta al peccato dell’uomo (dunque come un fatto che non
apparteneva al piano originale di Dio, ma che è stato quasi una “soluzione d’emergenza” davanti al fatto del peccato); forse perché si è vista l’incarnazione in una forma astratta, pensata come l’assunzione di una natura umana da parte di una persona
divina, come se fosse un caso di un principio generico (in cui, per esempio, sarebbe
Solo nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. […]
Cristo, che è l’Adamo nuovo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo
amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione.
Ma, sia per i motivi prima riferiti, sia perché questa visione richiama subito quella
nuova ontologia che non si riesce a far nascere, sembra che tutto continui a rimanere
abbastanza bloccato.
Prospettive che si aprono
Ci troviamo dunque davanti a un orizzonte accennato dallo stesso Concilio, la cui ricezione ecclesiale è stata però molto limitata, e, ancora oggi, si fa una fatica immensa
ad assumerla con decisione. Siamo troppo abituati, anzi, direi troppo “attaccati”, alle
categorie e interpretazioni classiche, tanto che non riusciamo a prendere sul serio la
semplice proposta del Concilio.
Possiamo qui fare solo qualche accenno, tuttavia mi pare importante indicare gli
aspetti rilevanti che appaiono se si guarda l’uomo alla luce di Cristo e della “radice”
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possibile concepire che sia stato il Padre o lo Spirito ad incarnarsi) e dunque dove
non si manifesta nessun rapporto speciale tra il fatto che si sia incarnato il Verbo e la
stessa seconda divina persona.
Per queste mancanze cristologiche, le categorie fondamentali dell’antropologia
cristiana non hanno fatto riferimento al Dio così come è stato rivelato da Gesù,
ma a un’idea di Dio previa, piuttosto filosofica, certamente monoteista, ma non
trinitaria. E se l’idea monoteista di Dio sostiene il valore dell’unicità e dell’unità
di ogni persona umana e favorisce un’etica dell’unificazione della persona umana,
contemporaneamente però non proietta la persona verso la sua relazionalità e lascia
a questa dimensione un ruolo secondario. Infatti, come afferma la Commissione
Teologica Internazionale, «l’indebolimento, nella cultura moderna, del fondamento
cristologico e trinitario della creazione dell’uomo ha avuto evidenti ricadute anche
sull’antropologia»2.
Bisogna pensare l’uomo immagine di Dio sì, ma in Cristo, e non fuori, o prima della
considerazione di Cristo stesso. Questo perché è la stessa rivelazione biblica a dirci
che Cristo è «immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione» (Col
1, 15).
Secondo me questa mancanza di centralità cristologica, che implica anche la dimenticanza della radice trinitaria – l’unica che spieghi le peculiarità di Gesù – ha condizionato decisivamente l’idea cristiana di uomo che ancora subisce la pesante eredità
del dualismo antropologico caratteristico della cultura greca.
Per questo diventa un segnale molto importante che sia stato proprio il Vaticano II a
cercare di cambiare rotta. Ha restituito alle origini la grandezza cristiana della visione
dell’uomo, proprio attraverso il recupero della centralità cristologica e trinitaria del
famoso testo della Gaudium et Spes al n. 22:
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trinitaria.
Sul piano personale, il cambiamento è fondamentale. Se nel modello classico, infatti,
si metteva l’accento sulla sussistenza e autonomia della persona singola per esprimere
la specificità dell’essere umano, questo cambia radicalmente quando si pensa a Gesù.
Gesù appare come l’uomo in pura donazione, che non pensa a se stesso. Tutta la sua
vita si esprime nel darsi al Padre, e nel darsi ai fratelli. Bisogna, dunque, cambiare radicalmente l’idea di uomo. Uomo significa non solo la capacità di isolarsi e decidere
per se stesso, ma, anzitutto, la capacità di riconoscere l’altro, di accogliere l’altro e di
donare se stesso, nell’amore e per amore, per edificare una vera reciprocità. Questo
significa che, in fondo, essere uomo significa essere capace di quella relazionalità
dell’amore che esprime ed edifica la persona, più che essere soltanto individuo (distinto, autosufficiente, sussistente).
Non si pretende certo di negare adesso l’unicità di ogni persona, che fa di ogni essere personale un esemplare unico, diverso da tutti gli altri. Ciò tuttavia si capisce
attraverso un altro schema: la mia individualità, quell’autocoscienza che mi fa sentire
diverso da tutti gli altri, è pure il risultato di un rapporto. Del rapporto che Dio stabilisce con me quando mi chiama all’esistenza.
Uomo significa [...] Bisogna, dunque, postulare un’interpretazione diversa anche dell’anima. L’anima non è una sostanza spirituale che
la capacità di Dio mi dona come se fosse una proprietà, una cosa che mi
riconoscere l’altro, è stata data e che possiedo. C’è bisogno di interpretare l’adi accogliere l’altro nima dell’uomo secondo una nuova ontologia relazionale,
la persona, la sua autocoscienza, la libertà e l’amore,
e di donare se stesso, dove
sono il frutto della chiamata all’esistenza operata da Dio.
nell’amore e per Sarebbe come l’orma che la vocazione all’essere da parte di
amore, per edificare Dio lascia sulla natura del nuovo soggetto, generato dai geUn rapporto con l’essere infinito che spalanca alcune
una vera reciprocità. nitori.
dimensioni della sua interiorità concedendo dimensioni
infinite (autocoscienza, capacità infinita di conoscere e di
amare, libertà) che la natura non avrebbe da se stessa, e sono in noi perché siamo stati, per così dire, collegati personalmente col “sistema” Dio, e questo non si fa invano.
In questo modo l’anima non è pensata come qualcosa di strano o di esterno, inserito
da Dio in ognuno di noi non si sa come (visione che avvia la comprensione dualista
dell’uomo). È pensata, invece, come un potenziare fino all’infinito dimensioni che
in nuce appartengono alla natura umana, ma che senza lo “scambio” con Dio non
avrebbero potuto raggiungere le caratteristiche che adesso hanno.
Sul piano del rapporto con gli altri si possono accennare alcuni principi basilari che
derivano da questa nuova prospettiva.
L’identità come dono. La rivoluzione fondamentale della visione trinitaria consiste
nel credere che la propria identità cresce nella misura in cui non va difesa come un
tesoro geloso, ma va data agli altri come un dono. La persona è, e cresce, nella misura
in cui dona se stessa alle altre, è se stessa tramite la reciprocità con le altre: non posso
essere me stesso senza un rapporto positivo di scambio con gli altri.
La reciprocità come unità-distinzione. La dinamica trinitaria cerca la reciprocità,
ma non tutte le reciprocità servono. L’amore trinitario unisce, ma, al tempo stesso,
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favorisce la differenza di ognuno. «Pensiero trinitario è quello in cui io sono io, in
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te, e tu sei tu, in me»3. Significa che ogni persona troverà se stessa nell’altra se cerca
che l’altra sia se stessa, e questo impegno è reciproco. Serve soltanto la reciprocità
dell’amore che cerca l’unità.
Il Tutto in ognuno. Il carattere pericoretico della comunione trinitaria fa sì che la
promozione del diverso di ogni persona non si realizzi difendendo una zona “autonoma” (il proprio campo, la propria idea), ma donandola e perdendola nell’unità, e
riacquistandola dall’unità, assieme ai doni degli altri. Tutto va purificato – anche le
idee più geniali – dall’amore.
In realtà lo Spirito Santo è stato comunicato per riuscire a compiere questo progetto,
vivere la comunione secondo lo stile di Dio. E si comprende quanto secondo questa
nuova immagine di uomo siano decisivi i rapporti. Soltanto
nel dono personale scambievole si cresce, si matura, si evolve. Un rapporto che si specifica come amore, come agape.
La persona è, e cresce,
Dare liberamente se stessi e ricevere liberamente l’altro.
nella misura in cui
In questo modo l’amore non è più un comandamento da
dona se stessa alle
compiere, è semplicemente il modo di vivere, di essere. Si
ha quello che si dona agli altri. Non ha senso cercare di
altre, è se stessa tramite
possedere per sé, tutto deve essere condiviso. Per questo
la reciprocità con le
motivo, l’egoismo, il cercare se stessi, il vivere in modo aualtre: non posso essere
toreferenziale significa, secondo tale prospettiva, edificare
me stesso senza un
la propria vita e la propria personalità alla rovescia, fallire
totalmente, e non solo nella specificità della vita cristiana,
rapporto positivo di
ma nella propria radice di umanità. C’è, dunque tanto da
scambio con gli altri.
ripensare. Anzitutto perché il modello di Cristo parla del
dono totale della propria vita agli altri. E, da questo, siamo
ancora lontani.
1
J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, Brescia, 199611, pp. 139-141.
CTI, Dio Trinità, unità degli uomini, cap. V, 1, in «La Civiltà cattolica», 165 (2014) fasc.
3926, p. 205.
3
Cf. G.M. Zanghí, Una nueva manera de pensar, in «Ciudad Nueva», (Buenos Aires) 225
(1984) p. 10.
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