Una nuova interpretazione di Saussure1

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Una nuova interpretazione di Saussure1
Nell’articolo di A. Burkhardt, pubblicato nella Zeitschrift für germanistische Linguistik2, l’autore riassume e commenta estensivamente il libro di J. Fehr, Linguistik und Semiologie3. Riferendosi al Cours de linguistique générale, Burkhardt
giunge a questa prima osservazione:
Il lettore non specializzato perde l’informazione più importante, vale a dire che il testo pubblicato con il nome di Saussure non voleva essere un’opera completa e definitiva – infatti
l’opera era costituita solo dalle lezioni preparate per gli studenti e per essi eseguite –, ma si
trattava semplicemente di un panorama di lezioni introduttive aventi il compito di preparazione degli studenti agli esami e quindi facilitate nel loro contenuto e non concepite per una
pubblicazione. (Burkhardt 1998:210)
Occorre precisare che le mie osservazioni, che verrò facendo, sono rivolte principalmente al libro di Fehr (Fehr 1997), anche se, contemporaneamente, alle interpretazioni di Burkhardt, che accoglie fondamentalmente le tesi di Fehr, in special
modo in relazione alla distinzione di sincronia e diacronia.
Io vorrei osservare, ora, in relazione a queste perentorie affermazioni di Burkhardt, che non è facile, e forse non è possibile, stabilire quale valore teorico Saussure attribuisse alle tesi sostenute nelle sue lezioni ginevrine, pronunciate fra il
1906 e il 1911. Una cosa è certa, che il testo pubblicato da Bally e Sechehaye (Saussure 1967), e successivamente dalla Édition critique curata da Rudolf Engler
(Saussure 1968), deve essere esaminato e giudicato in base al suo valore teoricolinguistico. Il Cours, e in special modo l’Édition critique, deve essere oggetto di una
riflessione, che sia in grado di scoprire ed evidenziare i valori e i concetti che essa
contiene, sia in relazione alla linguistica generale, sia in relazione alla filosofia del
linguaggio.
L’Édition critique di Engler, e, in special modo la trascrizione degli appunti di
Emile Constantin, permettono di ricostruire, in maniera abbastanza esatta, il pensiero linguistico di Saussure. E ciò può avvenire anche indipendentemente dal valore teorico che lo stesso Saussure attribuisse, sulla base di una semplice supposizione, alle tesi da lui sostenute nelle lezioni ginevrine.
Il Burkhardt, manifestando ancora i suoi dubbi circa le intenzioni di Saussure di
formulare una dottrina nelle sue lezioni, fa intervenire il pensiero di Fehr, il quale
1 Anm. d. Red.: Die deutschsprachigen Zitate in diesem Aufsatz wurden von R.R. ins Italienische übersetzt.
2 Burkhardt 1998.
3 Fehr 1997.
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Renzo Raggiunti
afferma « . . . che gli editori [e con essi la maggior parte dei fruitori, R.R.] hanno
preso la teoria saussuriana, contenuta nelle sue lezioni, alla lettera e non hanno
cercato di capirla anche come una interpretazione permeata propriamente dal
dubbio» (Fehr 1997:211). È, certamente, una prerogativa dei grandi ricercatori, in
tutti i campi dello scibile, il fatto di essere talvolta assaliti dal dubbio. Ma su alcuni momenti o aspetti della ricerca, e su alcuni risultati conseguiti, il dubbio deve
venir meno, altrimenti la ricerca perderebbe il suo primo e autentico significato,
che consiste nella scoperta di alcune verità e dobbiamo sicuramente affermare che
se si fanno cadere alcuni punti fermi della ricerca linguistica saussuriana, quali il
concetto di segno come rapporto arbitrario di significante e significato, la distinzione di langue e parole, la definizione di lingua come sistema di significanti e di
significati, la tesi dell’antinomenclaturismo, la distinzione di rapporti associativi e
rapporti sintagmatici, la distinzione di sincronia e diacronia; se si fanno cadere
questi punti fermi, viene a scomparire la linguistica generale di Saussure e le componenti implicitamente filosofiche di tale linguistica.
A quali di questi enunciati è rivolta la critica di Fehr? Dobbiamo rispondere a
questa domanda, e, nello stesso tempo, dobbiamo discutere la sua critica per stabilire fino a qual punto essa dimostra una validità. Come afferma Burkhardt, il libro di Fehr consiste di tre parti: « . . . di un commento introduttivo comprendente
più di duecento pagine, intitolato ‹Saussure fra linguistica e semiologia›, dagli scritti postumi e non pubblicati di Saussure (della lunghezza di più di trecento pagine)
che – insieme a passaggi contrassegnati e sottolineati – vengono offerti in traduzione tedesca, da un’appendice di circa settanta pagine che contiene un abbozzo
biografico dettagliato, e da una bibliografia degli scritti saussuriani . . . » (Burkhardt 1998:211).
Nel paragrafo 3, intitolato «Der andere Saussure», e precisamente quello posto
in evidenza e descritto dal Fehr, viene anzitutto criticata la posizione dei filosofi
che intendono la lingua come nomenclatura, ignorando «assolutamente» il ruolo
che gioca la dimensione del tempo nella lingua. Ma giustamente il Burkhardt riconosce che «nel Cours stesso Saussure indirizza diplomaticamente questa critica
solo, in generale, contro il grosso pubblico . . . da cui si deduce che esso [il pubblico] abbia interiorizzato l’ideologia linguistica dei filosofi» (Burkhardt
1998:215).
A questo punto Burkhardt fa un confronto fra la posizione di Saussure e quella di Wittgenstein, come autore delle Philosophische Untersuchungen. Mentre
Wittgenstein, assumendo egli stesso una posizione antinomenclaturista, afferma
che il significato del segno linguistico deve essere legato alla prassi sociale delle regole e dei giochi linguistici, Saussure, come dice Burkhardt, « . . . si mostra poco interessato all’aspetto autenticamente pratico della lingua, anche se pur tuttavia ritorna sempre al rapporto riconosciuto come fondamentale tra forma del segno
[Zeichengestalt] e significato del segno» (Burkhardt 1998:216). Saussure, distinguendosi da Wittgenstein, respinge la posizione dei «filosofi», come afferma Burkhardt, « . . . con l’argomentazione che loro avrebbero sviluppato un concetto stati-
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co di segno, unendo i segni agli oggetti, non chiarendo in tal modo il concetto di
mutamento semantico: Quando un oggetto, ovunque esso sia, potesse essere punto di arrivo [Endpunkt] a cui è associato un segno, – si dice fra l’altro nella bozza
di Saussure – cesserebbe nello stesso istante di essere la linguistica ciò che è . . .»
(Burkhardt 1998:216).
Ciò che caratterizza la linguistica è il fatto che essa è una scienza dei segni, e che
il segno ha due facce, quella del significante e quella del significato. E se cambia il
significato, la rappresentazione, cambia anche il segno. Come afferma Burkhardt:
«La ‹sonorità del segno› e la ‹rappresentazione›, ad essa collegata, sono strettamente connesse e sono sottoposte entrambe ad un mutamento non spiegabile solo
tramite un mero insegnamento sulla denominazione, ma tramite un concetto di
segno differenziato» (Burkhardt 1998:216).
Fino a questo punto non si manifesta «l’altro Saussure», quello che l’autore
dell’articolo vorrebbe spiegare e dimostrare sulla base del commento di Fehr e di
passi dell’opera postuma di Saussure. Anzitutto stabilisce alcune tesi sul concetto
di segno:
1. Il segno linguistico è il collegamento bilaterale di immagine sonora, «articolazione del suono» e di «rappresentazione», «signifiant» e «signifié».
2. Esso è arbitrario, è un collegamento associativo con altri segni e forma con essi un sistema
vicendevolmente reciproco di valori condizionanti.
3. È dinamico, vale a dire sostanzialmente instabile nel tempo e nello spazio.
(Burkhardt 1998:216)
Secondo Burkhardt, condizionato da Fehr, mentre le prime due tesi sono in accordo con la consueta interpretazione di Saussure nella terza si palesa «un lato
completamente nuovo del segno». Io mi permetto di osservare che la terza tesi può
rientrare, con un po’ di buona volontà, nella consueta interpretazione del Maestro
ginevrino, se non dimentichiamo che egli ha distinto la diacronia dalla sincronia.
Dal modo in cui si interpreta il rapporto fra sincronia e diacronia, e dal modo in
cui si definiscono l’una e l’altra, può dipendere la valutazione e il giudizio su ciò
che viene denominato «l’altro Saussure».
Ma vediamo come Fehr sostiene la sua convinzione che vi sia un «altro Saussure» che non è in accordo con il Saussure della interpretazione tradizionale. A suo
avviso è la caratteristica costitutiva dell’arbitrarietà del segno linguistico a render
possibile il mutamento: «Perché i segni linguistici sono fondamentalmente basati
sul caso, le combinazioni di suono e significato costituenti un segno possono basarsi soltanto sul proprio valore nel sistema linguistico, i segni linguistici non sono
mai assoluti, bensì sempre relativi, determinabili con gli altri segni dello stesso sistema con il quale essi coesistono» (Fehr 1997:155).
Da quanto è stato affermato fino ad ora, non vedo affatto come si manifesti un
altro Saussure. Non è neppure in disaccordo con il Saussure che noi conoscevamo,
un’altra affermazione di Fehr che appare abbastanza ovvia e sicuramente accettabile, sulla trasmissibilità del segno: « . . . una cosa che non è solo trasmissibile
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(transmissible) ma che di sua natura è determinata ad essere trasmessa (transmis),
riprodotta.» (Saussure in Fehr 1997:130). Per la linguistica ciò significa che i segni
linguistici circolano fra loro, cioè vengono trasmessi «di bocca in bocca». Ne deriva la conseguenza che « . . . un determinato segno è in linea di principio instabile
e mutevole quale combinazione di valori di suono e significato» (Fehr 1997:155).
Queste affermazioni di Fehr non sono affatto in contrasto con le tesi sostenute da
Saussure nelle sue lezioni ginevrine. La trasmissibilità del segno, la sua instabilità
dovuta al carattere diacronico di ogni lingua che è soggetta a trasformarsi nel tempo, non sono nozioni assenti o lontane dai contenuti di quelle lezioni, che hanno
poi trovato la loro più compiuta formulazione nella edizione critica del Cours, ad
opera dello Engler (Saussure 1968). E non vi è nel Cours nessuna affermazione
che sia in contrasto con questa tesi del Fehr: «È certamente una prestazione fondamentale delle lingue il fatto che i segni siano slegati dagli oggetti a cui essi fanno riferimento, circolino e possano essere trasmessi. Però, perché questo avvenga
si deve distinguere in modo fondamentale fra ordine dei segni e ordine degli oggetti a cui questi si riferiscono» (Fehr 1997:144s.).
Ma si ha, poi, da parte di Fehr, una accentuazione eccessiva dell’aspetto diacronico del processo di trasmissione dei segni, trasmissione che è necessariamente legata a qualsiasi atto di comunicazione: «I segni non possono essere considerati
semplicemente delle ‹combinazioni› di ‹articolazioni› [suoni] e di ‹pensieri› ma devono essere pensati come ‹combinazioni› che esistono solo nel processo di trasmissione, alla cui mutevole dinamica essi sono irrimediabilmente sottoposti»
(Fehr 1997:135).
È qui che Fehr, con la sua interpretazione del segno, come esistente soltanto nel
«processo di trasmissione», cade nell’errore di annullare del tutto una condizione
necessaria, per ogni atto linguistico, per ogni processo di trasmissione, per ogni
atto di comunicazione: il sistema-lingua, che condizionando contemporaneamente o sincronicamente il parlante e l’ascoltatore, rende possibile lo stesso processo
di trasmissione. Perciò i segni non sono combinazioni che esistono solo nel «processo di trasmissione»; essi preesistono al processo di trasmissione e, sistematicamente, condizionano il processo di trasmissione, e lo rendono possibile. Fehr, mi
sembra, e non soltanto Fehr, ha preso un cammino che lo conduce inevitabilmente ad attribuire alla lingua, ad una lingua, soltanto un carattere diacronico. Ma
attribuire alla lingua, a qualsiasi lingua, soltanto un carattere diacronico significa
rendere assolutamente incomprensibile l’atto linguistico come atto di comunicazione.
A questo punto, Burkhardt, per determinare la posizione di Saussure, in relazione alla nozione di «trasmissione» intersoggettiva, cita Keller, che afferma che
questo originale pensiero non risulta dal Cours poiché, sebbene Saussure abbia espressamente ripetuto e sottolineato nei suoi appunti che il concetto di transmission designa una dimensione costitutiva per il segno (e della sua teoria), questa dimensione del segno non appare mai da nessuna parte nei relativi passi del testo,
quello pubblicato da Bally e Sechehaye (cf. Keller 1990:130s.).
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Giustamente il Cours non fa riferimento diretto al concetto di transmission,
poiché i segni, nella loro appartenenza al sistema lingua, preesistono al «processo
di trasmissione». È vero, anche, che il processo di trasmissione, inteso come qualsiasi atto linguistico di comunicazione, può avere – ma non è detto che lo abbia –
insieme al suo carattere sincronico anche un carattere diacronico, vale a dire può
costituire un fattore di trasformazione della lingua. Ma tutto ciò è, se non esplicito, certamente implicito nel Cours.
Ma ritorniamo al tema della continua trasformazione della lingua, un tema che,
mi permetto di osservare, risulta essere valido se con esso non si giunga ad oscurare un aspetto altrettanto importante, quello della sincronia, che è dominante per
il compimento dei nostri atti linguistici, e per il realizzarsi del nostro comune intenderci e comunicare.
È perciò vera solo entro certi limiti – limiti determinati dal necessario e ineliminabile aspetto sincronico della lingua, di ogni lingua – l’affermazione seguente: «Nella comunicazione, vale a dire nel corso delle infinite singole iterazioni le
combinazioni delle forme ed il significato del segno [Zeichengestalt] si determinano sempre nuovamente nel tempo e nello spazio e si trasformano passo per
passo» (Burkhardt 1998:218). Io e il mio amico X parliamo e comunichiamo
oggi adoperando esattamente la stessa lingua che avevamo a disposizione un
mese fa.
Si può invece condividere pienamente questa tesi di Saussure, che troviamo negli appunti per la prolusione di Ginevra: « . . . ogni individuo ‹adopera› il giorno
successivo lo stesso <idioma> che aveva usato il giorno prima <e ciò è avvenuto
sempre in questo modo>. Non c’è stato di conseguenza nessun giorno nel quale sia
stato emesso il certificato di morte della lingua latina [langue] e non c’è mai stato
un giorno nel quale si sia potuto certificare la nascita della lingua francese
[langue]» (cit. da Fehr 1997:252s.).
Nessuno può negare che ci sia una continuità nella trasformazione di una lingua. Ma questo riguarda solo un aspetto della lingua, il suo carattere necessariamente diacronico; in questo caso diacronico nella continuità.
«Ricorrendo espressamente al principio dell’inevitabile non-interruzione della
trasmissione linguistica del parlare, Saussure rifiuta expressis verbis addirittura la
tesi che il francese venga dal latino e che dunque essa sia lingua-figlia del latino»,
dice il Burkhardt e cita il Saussure da Fehr: «Il francese non viene dal latino ma è
latino, il latino che si parla in una certa data ed entro determinati confini geografici» (Burkhardt 1998:218s.).
Dice il Burkhardt: Saussure dà perciò per assoluto il principio dell’incessante
mutamento delle lingue (cf. Fehr 1997:259) e si avvicina a Paul 1910:369 il quale
ha detto che la lingua è «compresa in un continuo mutamento», che «non si può
separare dalla sua essenza».
La «langue» risulterebbe essere una identità diacronica. La motivazione della
possibilità del cambiamento – carattere essenziale di ogni lingua – deriva, come afferma Saussure, dalla bilateralità e arbitrarietà del segno linguistico e dall’essere
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la lingua un fatto sociale. «L’individuo organizzato per parlare [organisé pour parler] può arrivare a farlo solo tramite la comunità circostante che gli permette di
utilizzare <il suo apparato> – a prescindere completamente dal fatto che egli provi la necessità di usarlo unicamente <nei suoi> rapporti con la comunità» (cit. da
Fehr 1997:283).
È da aggiungere la affermazione che la lingua «circolando» fra i parlanti soggiace veritieramente alla «trasformazione nel tempo» e alla «divergenza dialettale e spaziale».
Entrambe le affermazioni sono veritiere: per parlare e comunicare, l’individuo
deve utilizzare uno strumento (la langue) che gli viene offerto dalla comunità, uno
strumento che deve avere una sua stabilità, un suo carattere sincronico, altrimenti la comunicazione non si verifica o si verifica imperfettamente. Mi rendo conto
che è difficile stabilire il tempo di questa necessaria stabilità. Ed è poi altrettanto
vero che tale strumento è soggetto ad una lenta e quasi inavvertibile trasformazione, e, perciò, la lingua ha anche un carattere diacronico. E, oltre alla trasformazione nel tempo, la lingua subisce anche, ovviamente, una differenziazione nello
spazio (divisione in dialetti) legata alla trasformazione nel tempo.
Fehr osserva, a tal proposito, che, come è impossibile che una lingua nella sua
dimensione temporale non sia mai «in uno stato di equilibrio» (Zustand des
Gleichgewichts), così è anche impossibile, secondo Saussure, trovare una lingua che
ci appaia geograficamente una e identica (cf. Fehr 1997:259, 275s.).
La conseguenza di questa osservazione è qualcosa che non può non essere
accolto come veritiero: « . . . che non c’è confine fra quelle che vengono chiamate
due lingue [langues] in contrapposizione a due dialetti, se queste due lingue hanno
la stessa origine e vengono parlate da popolazioni vicine . . . » (Fehr 1997:275s.).
Ma intendiamo rivolgere la nostra attenzione alla affermazione, già citata, «che
è impossibile che una lingua nella sua dimensione temporale non sia mai in uno
stato di equilibrio». Come dobbiamo interpretare tale espressione «stato di equilibrio»? Se si intende, come in realtà si deve, come uno stato in cui la lingua rimane complessivamente ferma, non soggetta a movimento o mutamento, riappare
con ineliminabile necessità il carattere sincronico della lingua. È stato già affermato che non ci è facile determinare il tempo in cui la lingua permane in uno stato di equilibrio. Ma, collocandoci su tale posizione, non ci si allontana, così mi sembra, dalle tesi saussuriane presenti nel Cours. In esso Saussure, come si avverte
esaminando attentamente l’Édition critique, non può spiegare l’atto di parole, senza ricorrere ad un sistema-lingua, presente contemporaneamente nel parlante e
nell’ascoltatore: un sistema-lingua al quale si rivolgono il parlante e l’ascoltatore,
per realizzare in due sensi distinti, l’atto di comunicazione. È ovvio, e lo stesso
Saussure delle lezioni ginevrine lo sapeva benissimo, che la lingua (langue) può e
deve essere intesa anche in un senso dinamico. Muovendosi in questa direzione, la
lingua non può essere considerata «come sistema relativamente statistico e sincronico». Ma l’errore di chi considera la lingua esclusivamente come «sistema dinamico in senso storico e geografico» è proprio quello di voler ignorare assoluta-
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mente che è soltanto la lingua intesa come sistema sincronico che può e deve spiegare l’atto linguistico come atto che ha, in Saussure, la possibilità della comunicazione.
Dobbiamo, perciò, respingere risolutamente questa affermazione:
È vero che Saussure non usa di sovente nel suo Cours il concetto di «sistema», ma definisce
la lingua addirittura ed espressamente «un sistema che permette solo il proprio ordine», tuttavia dobbiamo ammettere che uno che sia arrivato a concepire la lingua come un sistema dinamico in senso storico e geografico non sarebbe mai potuto ricadere in una rappresentazione della lingua come sistema astratto e sincronico. (Burkhardt 1998:221)
È qui che Burkhardt cade in errore: concepire la lingua come un sistema dinamico in senso storico e geografico non esclude che la lingua, come strumento di cui
fanno uso i parlanti per comprendersi e comunicare, sia anche, per un tempo che
è difficile determinare, in uno «stato di equilibrio», inteso come uno stato in cui la
lingua rimane ferma, non soggetta a sostanziale mutamento. La diacronia non può
escludere o annullare la sincronia. Senza la sincronia, senza uno stato in cui la lingua è ferma in un tempo e in uno spazio determinato, viene assolutamente meno
la possibilità di comprendere il carattere dell’atto linguistico, che permette ai parlanti di comunicare, con il contemporaneo riferirsi ad un ben determinato sistemalingua.
Dal punto di vista del Burkhardt, a questo proposito, risulterebbe ingannevole
«il noto confronto con il giocatore di scacchi» e non verrebbe letta in maniera sufficiente la formulazione di Saussure (vale a dire quella diretta ai suoi studenti).
Essa dice:
In secondo luogo il sistema è solo quello di un momento; si trasforma da una posizione all’altra . . .
a) Ogni mossa mette in moto solo una pedina; in modo analogo le trasformazioni della lingua
si riferiscono solo ad elementi isolati.
b) Tuttavia la singola mossa si ripercuote su tutto il sistema; il giocatore non può prevedere
in anticipo l’effetto di questa mossa. (Burkhardt 1998:221)
La conclusione è che il gioco degli scacchi non viene considerato come un «sistema» sincronico, ma come entità diacronica.
La citazione dimostra solo una cosa, che Saussure poteva considerare il gioco
degli scacchi da un punto di vista diacronico. Ma poteva anche considerarlo da un
punto di vista sincronico in relazione al quale le singole mosse dei giocatori, corrispondenti a singoli atti linguistici, di un parlante e di un ascoltatore, pur rivelandosi anche originali, non mutano neppure minimamente il sistema-gioco degli
scacchi, che rimane identico colle sue regole di posizione e di movimento. E certamente Saussure poteva assumere il gioco degli scacchi anche come esempio di
sistema sincronico. Ed allora, in questa conclusione di Burkhardt, c’è molto di
vero, ma non tutto è vero:
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Renzo Raggiunti
La lingua non è un sistema statico e sincronico ma dinamico e collettivo, proprio come l’essere vivente non è né statico né sincronico, ma determinato dalle trasformazioni lente e parziali dovute al tempo, da un lato, e, dall’altro in modo sostanziale attraverso la sua integrazione
nella collettività, cioè come essenza sociale collettiva e diacronica. (Burkhardt 1998:221)
C’è molto di vero in questa conclusione, se si considera la lingua come una totalità soggetta inevitabilmente ai lenti mutamenti che si verificano nel tempo, ai quali partecipa necessariamente non il singolo individuo ma una collettività. Ma c’è
anche qualcosa di falso se si tiene conto – inevitabilmente – del fatto che i singoli
individui possono intendersi e comunicare solo in relazione e in connessione con
una lingua sincronicamente ferma, non soggetta a mutamenti. In altri termini, la
tesi diacronica prende in considerazione tempi più lunghi, la sincronica tempi più
brevi, la cui lunghezza non è facilmente determinabile. E in relazione all’aspetto
sincronico di una lingua entra in gioco anche la collettività, la cui estensione è, geograficamente, in pari misura difficilmente determinabile.
Se un torto si può attribuire ai redattori del Cours, è quello di aver posto nella
massima evidenza l’aspetto sincronico di una lingua, e di aver preso in minore considerazione l’aspetto diacronico, di cui essi, insieme a Saussure, erano tuttavia perfettamente consapevoli.
Ed è giusto porre in evidenza il fatto che nel Cours, come nelle lezioni ginevrine del Maestro, assume una notevole importanza la distinzione di langue e parole4.
È questo un problema filosofico-linguistico che il Fehr sembra avere in parte trascurato.
Il Fehr fa un’osservazione molto interessante sulla posizione di Saussure «al
quale il movimento della lingua apparve nella sua teoria non meno sostanziale del
suo stesso sistema» (Fehr 1997:93).
Saussure, nella sua prolusione, dice Fehr, parla di un «panta rhei» linguistico, assumendo una posizione in certo senso eraclitea della linguistica, nella quale, a suo
parere, vengono accentuati gli aspetti dinamici della lingua, a scapito ovviamente
degli aspetti sincronici di essa.
Egli giunge così a questa conclusione, per molti aspetti discutibile: « . . . la sua
‹forzata scrupolosità› [di Saussure] e la convinzione della insolubilità di questo
conflitto debbono averlo trattenuto dalla pubblicazione della sua concezione linguistica» (Fehr 1997:93).
Ulteriori tesi «dell’altro» Saussure, che risultano sia dal libro di Fehr sia dagli
appunti di Saussure vengono riportate da Burkhardt, e contrassegnate dai rispettivi numeri:
9. Il soggetto parlante non viene escluso dall’osservazione della lingua.
10. Il linguaggio [langage] è lo strumento più esclusivo sia nella formazione «individuale» sia
«dell’agire collettivo».
4 Sui problemi concernenti la parole e l’eventuale originalità dell’atto linguistico, si possono
consultare gli scritti dell’autore di questo articolo: Raggiunti 1990 und 1982.
Una nuova interpretazione di Saussure
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11. La linguistica è una scienza storica e non sincronica.
12. Il suo oggetto sono le lingue [langues]; il linguaggio [langage] diviene accessibile solo attraverso le lingue [langues].
(Burkhardt 1998:223)
Segue questo commento, che per alcuni aspetti appare assai ovvio, per altri un po’
discutibile. Il soggetto non può essere escluso dal sapere linguistico, poiché solo attraverso l’attività di esso esiste la «langue» dinamica, si mantiene, si trasforma. A
questo punto possiamo e dobbiamo chiederci se la sincronia assume un significato, un significato valido. Il Burkhardt dice: «Poiché la sincronia è un costrutto metodico (certamente necessario), la linguistica può essere una scienza storica in senso stretto» (Burkhardt 1998:223). Ma che cosa esattamente significa l’espressione «costrutto metodico» (methodisches Konstrukt)? È un costrutto metodico necessario per comprendere il «circolo del parlare», la comunicazione fra due o più
individui? – qui si manifesta l’aspetto filosofico della linguistica, un aspetto assolutamente necessario per comprendere il linguaggio.
L’osservazione che segue è in contrasto con questa tesi: «E poiché il linguaggio
come tale [langage] si manifesta solo attraverso le lingue [langues], si possono ottenere delle considerazioni su di esso solo attraverso lo studio delle singole lingue
e non attraverso una osservazione linguistica astratta e filosofica» (Burkhardt
1998:223).
Saussure però sembra pensare in modo diverso, tanto più che lui stesso ha designato le sue lezioni universitarie espressamente come «un cours philosophique de
linguistique» (cf. Fehr 1997:53 N85); lezioni, perciò che debbono essere associate
alla linguistica filosofica (cf. Fehr 1997:209).
Rimane aperto il problema del come la linguistica, se essa si chiude entro il criterio strettamente ed esclusivamente diacronico, possa spiegare il significato dell’atto linguistico, come atto di comunicazione. Per spiegare tale atto la linguistica
deve ricorrere ad una spiegazione filosofica.
Burkhardt osserva, molto giustamente, che anche se Fehr « . . . non abbandona
la domanda sul valore del singolo segno nel quadro dell’intreccio di associazioni
semantiche, colpisce il fatto che insieme agli aspetti sintattici, non trattati estensivamente nemmeno negli scritti di Saussure, vengano trascurati ampiamente anche
quelli semantici. In questo modo vengono appena trattati i due aspetti del segno
bilaterale – signifiant e signifié – e anche i ‹rapporti associativi› nel quadro della
riflessione sul segno» (Burkhardt 1998:223).
Qui Burkhardt allude ad una distinzione, da me proposta e teorizzata, quella di
signifié (langue) e signification (parole)5.
È ora il momento di controllare quanto viene affermato nello breve Fazit dell’articolo di Burkhardt. Egli afferma, anzitutto, che il Saussure canonico (o
5
Cf. N4.
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Renzo Raggiunti
canonizzato) è il prodotto di un certo modo di riceverlo. È evidente che qui Burkhardt si riferisce alla maniera in cui è stato ricevuto o appreso attraverso l’opera
di Bally e Sechehaye, vale a dire dal Cours, o da coloro che sostennero la sua teoria
linguistica sulla base di certi dogmi strutturalistici.
Burkhardt afferma, decisamente, che il Saussure appreso nel modo descritto
non è il Saussure autentico, il vero Saussure, quello che egli definisce con una singolare espressione il «Saussure saussuriano». Io mi permetto di dissentire dalla
tesi che egli, fortemente influenzato dall’opera di Fehr, afferma con tanta sicurezza. Posso sbagliarmi, ma debbo ripetere qui un’osservazione che ho già espresso;
l’accentuazione dell’aspetto diacronico di una lingua e del suo differenziarsi in
zone geografiche diverse non può annullare il momento sincronico, che è a fondamento della spiegazione dell’atto linguistico come atto di comunicazione. Perciò io ritengo che il «Saussure saussuriano», quello posto in evidenza da Fehr, non
è in netto contrasto con il Saussure canonico, quello del Cours. Fehr ha posto in
maggiore evidenza, anche sulla base di manoscritti di Saussure, l’aspetto diacronico delle lingue: aspetto che è già presente nel Cours, anche se posto in minore
evidenza.
Debbo riconoscere di avere qualche dubbio sulla interpretazione che si deve
dare di ciò che viene affermato, subito dopo, che « . . . per la distinzione tra ‹illocuzione di base› e ‹illocuzione effettiva›, quale ci è nota dalla teoria dell’atto linguistico indiretto, si potrebbe distinguere fra un ‹Saussure di base› (quello delle lezioni universitarie pubblicate) e un ‹Saussure effettivo› (quello dei manoscritti
non pubblicati e degli scritti che non si riferiscono alla lingua)» (Burkhardt
1998:223s.). Forse vi è qui un’allusione al fatto che il Saussure delle lezioni ginevrine è un Saussure che non ha trattato estesamente e con impegno il problema
delle regole sintattiche. E su questo punto dovremmo dar ragione a Burkhardt e
accogliere favorevolmente la sua osservazione.
Qualche critica dobbiamo fare, invece, a quanto viene affermato nelle ultime
righe dell’articolo: «E mentre il ‹Saussure di base›, quello ridotto o accorciato, ha
influenzato di fatto ed efficacemente lo sviluppo della linguistica del xx secolo,
l’‹effettivo Saussure› offre una concezione della lingua dalla quale devono attingere la linguistica del futuro ed anche ogni filosofia del linguaggio» (Burkhardt
1998:224). Mi pare di dover dissentire, in parte, sia dalla lode dell’opera, certamente considerevole, di Johannes Fehr, sia dalla contrapposizione di «un Saussure
di base» e di un «Saussure effettivo».
Debbo risolutamente affermare che ogni linguistica del futuro ed ogni filosofia
del linguaggio, in modo particolare ogni filosofia del linguaggio, debbono, in primo luogo attingere a quello che viene definito un «Saussure di base». Fehr non
potrà mai ragionevolmente negare il valore filosofico-linguistico del concetto di
sincronia, che spiega la caratteristica più importante dell’atto linguistico, quella caratteristica per cui l’atto linguistico è atto di comunicazione. Sono certo che Burkhardt, pur nella sua lodevole e acuta interpretazione dell’ampio, e altrettanto lodevole lavoro di Fehr, non potrà disconoscere il valore filosofico del concetto di
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lingua come sistema sincronico, sincronico entro limiti di spazio e di tempo, assai
difficilmente determinabili.
Viareggio
Renzo Raggiunti
Bibliografia
Burkhardt, A. 1998: «Der andere Saussure. Zu: Ferdinand de Saussure, Linguistik und Semiologie. Notizen aus dem Nachlaß.Texte, Briefe und Dokumente. Gesammelt, übersetzt und eingeleitet von Johannes Fehr», Zeitschrift für germanistische Linguistik 26:195-208
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