Negoziabilità degli effetti legali dell`unione civile e del contratto di

Negoziabilità degli effetti legali dell’unione civile e del contratto di
convivenza
Sommario
Negoziabilità degli effetti legali dell’unione civile e del contratto di convivenza ............................................................... 1
Sommario........................................................................................................................................................................ 1
Premessa: negozialità e famiglia..................................................................................................................................... 1
a)
Derogabilità degli obblighi e delle soggezioni previste dalla legge ....................................................................... 2
1. Unioni civili e matrimonio ....................................................................................................................................... 2
2. La convivenza di fatto e i patti di convivenza ......................................................................................................... 5
3. Diritti che il legislatore pone in capo ai conviventi nei rapporti con i terzi ............................................................ 8
b) Facoltà di introdurre nuovi obblighi e soggezioni, nonché di sanzionare in modo rafforzato gli obblighi previsti
dalla legge ....................................................................................................................................................................... 9
1. Pregiudiziale patrimonialiastica e negoziabilità dei diritti della persona ............................................................... 9
2. Singoli diritti ed obblighi che possono essere aggiunti pattiziamente: matrimoni, unioni civili e contratti di
convivenza ................................................................................................................................................................ 12
c)
Facoltà di predeterminare gli esiti dello scioglimento. Il c.d. contratto prematrimoniale .................................. 16
d)
Invalidità .............................................................................................................................................................. 18
1. Nullità.................................................................................................................................................................... 18
2. Annullabilità .......................................................................................................................................................... 19
3. Collegamento negoziale con il negozio fondamentale e presupposizione ........................................................... 19
Premessa: negozialità e famiglia
Quale ruolo ha l’autonomia privata nella disciplina del rapporto matrimoniale e dell’unione civile e nel loro
scioglimento?
Tradizionalmente l’ambito familiare si atteggia ad incompatibile con quello contrattuale o pattizio. Ciò in virtù della
diffidenza della dottrina tradizionale a giustapporre le relazioni familiari a quelle economiche: il matrimonio è lo
strumento che il legislatore confeziona e pone a disposizione dei coniugi, sta poi a loro riempirlo con la loro relazione,
ma gli aspetti esistenziali che caratterizzano il rapporto rimangono estranei all’ambito della giuridicità, guardati con
pudicizia dal legislatore.
Nell’odierno ordinamento, che sempre maggiori aperture lascia all’ingresso di elementi esistenziali nel mondo
giuridico, sembra, tuttavia, possibile accostare con minore riluttanza l’ambito familiare e quello economicocontrattuale.
Più che di un generico self restraint dell’ordinamento nei confronti della sfera familiare, si devono perciò considerare
alcuni ostacoli di diritto positivo alla regolamentazione giuridica dei rapporti personali tra coniugi, uniti civili,
conviventi di fatto.
I “paletti” entro cui l’autonomia privata deve muoversi sono i seguenti:
-
il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), specificato nel matrimonio dall’art. 143 c.c. e nelle unioni civili
dall’art. 1 comma 11 della c.d. legge Cirinnà.
la norma che stabilisce l’inderogabilità dei diritti e dei doveri previsti della legge tra coniugi e uniti civilmente
(art. 160 c.c.)
il dogma dell’indisponibilità dei diritti della personalità e la conseguente natura necessariamente
patrimoniale della prestazione dedotta in un’obbligazione (art. 1174 c.c.)
il diritto di azione a difesa dei propri diritti e interessi legittimi (24 cost)
il principio di irrinunciabilità al diritto prima del suo conseguimento (che si evince dalla disciplina dei patti
successori)
il principio del rebus sic stantibus
il miglior interesse dei minori
la tutela del coniuge debole, e in qualche misura la tutela della “razionalità limitata” di chi, innamorato,
difficilmente è in grado di considerare pienamente tutte le conseguenze dei vincoli giuridici; si tratta dello
“stato di beato ottimismo e accentuato narcisismo tipico della fase prematrimoniale”(1)
Questi sono gli ostacoli che si frappongono ancora, tra negozialità e famiglia (intesa in senso lato) e che dunque
rappresentano il limite esterno entro cui quest’indagine può articolarsi.
Quanto invece alla struttura interna della tematica, si pone sin da ora in evidenza che questo può essere scomposto in
tre problemi, che da un lato riguardano la regolamentazione del rapporto e dell’altro lo scioglimento dello stesso.
Quanto alla regolamentazione del rapporto ci si può chiedere a) quali obblighi e conseguenti diritti, soggezioni e
conseguenti posizioni di diritto potestativo, costituiscano il nucleo inderogabile della relazione coniugale o dell’unione
civile e b) in che misura le parti possano prevedere obblighi e soggezioni nuove o possano rafforzare le sanzioni legali
all’inadempimento di quelli previsti dalla legge.
Quanto allo scioglimento ci si può domandare, in terzo luogo, c) se le parti possano predeterminare gli esiti dello
scioglimento, con effetti vincolanti, prima dell’istaurazione stessa del vincolo.
a) Derogabilità degli obblighi e delle soggezioni previste dalla legge
1. Unioni civili e matrimonio
All’interno della disciplina del matrimonio e delle unioni civili rispettivamente gli art. 160 c.c. e l’art. 1 co. 13 l.
76/2016 sembrano imporre un espresso divieto alla derogabilità dei diritti e dei doveri derivanti dal matrimonio e
dall’unione civile. Parte della dottrina, infatti, dando una interpretazione letterale alla norma, esclude in toto qualsiasi
pattuizione volta a modificare il fascio di posizioni soggettive reciproche nascenti dal matrimonio o dall’unione civile.
Secondo questa interpretazione, quindi, non solo alcuni dei diritti e degli obblighi previsti della legge rappresentano il
nucleo fondante e inderogabile di questi negozi, bensì il loro insieme indivisibile.
Parte autorevole della dottrina2, tuttavia, privilegiando la sedes materiae della norma, propende per ritenere che l’art.
160 c.c. ponga una inderogabilità ai soli diritti e obblighi di natura patrimoniale. Un primo argomento sollevato a
favore di questa tesi, almeno in relazione alla disciplina del matrimonio, è, infatti, la collocazione sistematica della
norma all’interno del capo IV del libro I del codice, dedicato al regime patrimoniale della famiglia. In secondo luogo si
sottolinea come, diversamente opinando, si priverebbe di cogenza e attuabilità le disposizioni di cui all’art. 144 c.c. per la disciplina del matrimonio - e all’art.1 co. 12 - per la disciplina delle unioni civili-, in base alle quali i coniugi, così
come gli uniti civilmente, concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia
secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa.
L’art. 144 c.c. e la riferibilità dell’art. 160 c.c. ai soli rapporti patrimoniali tra i coniugi sembrano quindi ammettere la
possibilità di stipulare dei patti in specificazione, ma, eventualmente, anche in deroga degli obblighi personali imposti
1
Così GAZZONI, Manuale di diritto privato, XVII edizione, Milano 2015, 368.
In tal senso cfr. SACCO, Sub. art. 160, in Commentario al diritto italiano della famiglia, vol. 3, Padova 1992, 15 ss; nello
stesso senso v. anche GAZZONI, Manuale di diritto privato, XVII ed., Milano 2015, 370.
2
dalla legge, se, tale deroga risulti comunque idonea a venire incontro alle esigenze della coppia e, in generale, della
famiglia.
Da quanto sino ad ora affermato deriverà quindi sicuramente l’inderogabilità dell’obbligo di contribuzione e di
assistenza materiale della famiglia. Tale obbligo ha infatti natura patrimoniale (3).
L’obbligo di reciproca fedeltà nel matrimonio
Sembra quindi possibile derogare pattiziamente al dovere reciproco di fedeltà. All’interno di un patto attuativo
dell’art. 144 c.c., definitorio dell’indirizzo della vita familiare che essi intendono perseguire, è possibile che due
soggetti, in base alla loro sensibilità, indichino il modo in cui in base alla loro cultura, sensibilità e individualità
intendano concepire la portata del concetto di fedeltà, che può scindersi dalla sfera della mera sessualità.
Ad oggi, forse, anche a seguito dell’equiparazione, nell’unitaria disciplina della filiazione, della disciplina dei figli
naturali a quella dei figli nati nel matrimonio potrebbe apparire più non del tutto attuale agganciare il concetto di
fedeltà alla sola sfera “sessuale”. L’obbligo di fedeltà, infatti, oggi non sembra essere più norma ancillare al corretto
funzionamento della disciplina della presunzione di paternità, dal momento che la madre può essere più incentivata
rispetto al passato a far riconoscere il figlio al “vero padre”, dal momento che, anche a fronte di tale riconoscimento il
bambino non sarà ritenuto soggetto ad una disciplina deteriore rispetto a quella applicabile a bambini nati nel
matrimonio.
Intendendo quindi più in senso lato il dovere di fedeltà, in una accezione che tenda quasi a sovrapporlo all’obbligo di
reciproca assistenza morale, sarebbe quindi possibile che una coppia si accordi per derogare a tale obbligo inteso
come divieto di avere rapporti sessuali o anche affettivi con soggetti estranei al matrimonio. Potrebbe ad esempio
avere interesse alla stipulazione di un accordo di tal fatta un soggetto che versi in situazione di impotenza coeundi, ma
non voglia negare al coniuge di avere una sessualità completa (che potrà avere con soggetti estranei al matrimonio).
Dalla ammissibilità di patti derogatori dell’obbligo di fedeltà, inteso come obbligo di astenersi da porre in essere
rapporti sessuali con soggetti estranei al matrimonio, derivano tre corollari.
1.
2.
3.
3
Non addebitabilità della separazione al soggetto che abbia tradito. Infatti l’art. 151 c.c. prevede
l’addebitabilità della separazione al coniuge che abbia tenuto un comportamento contrario ai doveri del
matrimonio. Essendo venuto meno in forza dell’accordo l’obbligo di fedeltà, tale obbligo non può essere
soggetto ad una reviviscenza nella fase patologica del rapporto.
Non configurabilità del danno endofamiliare derivante dalla violazione dell’obbligo di fedeltà. Il coniuge che
ha infatti violato l’obbligo di reciproca fedeltà avrà infatti posto in essere un comportamento scriminato
dall’esercizio di un diritto, la libertà sessuale, non più compresso dalla disciplina legale degli obblighi
derivanti dal matrimonio, in quanto pattiziamente derogato.
Impossibilità di sciogliere unilateralmente dal patto di deroga all’obbligo. Trattandosi infatti di un valido
negozio giuridico ne deriverebbe l’impossibilità per il coniuge che, in corso di matrimonio, non condivida più
le scelte dedotte nel patto, di liberarsi unilateralmente dal vincolo. Nel caso in cui quindi un coniuge non sia
più d’accordo con le pattuizioni che deroghino all’obbligo di fedeltà, dovrà rinegoziarle. Se tale
rinegoziazione risultasse impossibile, in quanto la controparte non intenda rinunciare ai benefici del patto,
probabilmente si potrebbe supporre che sia venuta meno quella comunione di vita e quella volontà di
condividere un orientamento comune che sta alla base del rapporto matrimoniale. In tali ipotesi l’unica
soluzione sarebbe, ove la convivenza sia divenuta improseguibile a causa di tale dissidio, addivenire alla
separazione e successivamente allo scioglimento del matrimonio. Va infatti precisato che, in caso di
scioglimento del matrimonio verrebbe meno anche tale patto: infatti il matrimonio e tale “patto di infedeltà”
Sulla possibilità di precisare e non di derogare quest’obbligo v. infra.
sono tra loro legati da un collegamento negoziale (per una più approfondita analisi v. infra punto d. della
presente trattazione).
Al contrario, si potrebbe ritenere – secondo una visione più tradizionale ed in linea con l’impostazione
certamente assunta dal legislatore storico – che l’obbligo di fedeltà abbia fondamento di ordine pubblico. Si
potrebbe infatti pensare che l’obbligo di fedeltà, in un’ottica di analisi economica del diritto, serva a mantenere
le risorse della famiglia all’interno della stessa, senza che gravi su uno dei coniugi l’obbligo di mantenere figli che
ne siano estranei, con conseguente diminuzione delle risorse di cui la stessa possa disporre. Da queste
impostazione deriverebbe quindi che tutti i patti contrari siano quindi nulli, appunto, per contrarietà all’ordine
pubblico. Da tale impostazione deriverebbero quindi tre corollari, tuttavia non del tutto speculari a quelli
analizzati alla luce della prima impostazione:
1.
2.
3.
Ogni parte contraente è libera di sottrarsi liberamente e unilateralmente all’accordo in quanto privo di
natura giuridica (perché nullo).
Ciò non significa che i comportamenti fedifraghi posti in essere nella ritenuta validità dell’accordo
possano essere posti a fondamento di una pronuncia di responsabilità ex art. 2043 c.c. per danno
endofamiliare, trattandosi di comportamenti scriminati dal consenso dell’avente diritto, che dispiega
la sua efficacia fin quando permane ed è unilateralmente revocabile in ogni momento.
Anche in tale ipotesi si reputa che la condotta fedifraga non possa essere posta a fondamento di una
pronuncia di addebito della eventuale separazione. Infatti, l’accordo, per quanto invalido sotto il profilo
giuridico, fa presumere che la violazione dell’obbligo di fedeltà non possa essere la ragione che causa la
deteriorabilità del rapporto, almeno sin quando permanga il consenso.
L’obbligo di coabitazione
Altro obbligo esplicitamente imposto dal legislatore sia nella disciplina del matrimonio sia in quella delle unioni civili
della cui derogabilità è possibile discutere è quello di coabitazione.
La portata di tale obbligo va raccordata con la disciplina dell’allontanamento dal tetto familiare prevista all’art. 146
c.c., che prevede che venga meno il diritto all’assistenza morale e materiale del coniuge che si sia allontanato senza
giusta causa dalla casa familiare e rinuncia di tornarvi.
Le ratio della previsione dell’obbligo in parola è probabilmente quella di garantire la gestione comune della famiglia.
Alla base di questa previsione vige l’idea di fondo per cui solo una famiglia riunita sotto lo stesso tetto, possa condurre
una vita sotto un indirizzo comune nel rispetto della reciproca assistenza morale e materiale.
La ratio della norma non sembra quindi quella di tutelare un diritto inalienabile, né tantomeno è posta a tutela
dell’ordine pubblico e del buon costume. Appare quindi derogabile tale obbligo ogni qualvolta le parti ritengano di
poter ricevere contribuzione morale e materiale da parte di un compagno che abbia la residenza in un luogo diverso.
In vero la possibilità di stipulare questi patti sembra del tutto in linea con una realtà lavorativa odierna che richiede
grande flessibilità da parte dei lavoratori anche dal punto di vista della mobilità.
Questa impostazione risulta inoltre non contrastante con la previsione dell’art. 146 co. 1, che troverà comunque
applicazione. La norma fa infatti venir meno l’obbligo di assistenza morale e materiale verso il partner che si sia
allontanato dal tetto coniugale senza giusta causa. Ove tuttavia le parti si accordino per ammettere, e probabilmente
anche regolare, l’allontanamento di un coniuge dal tetto familiare non si potrebbe mai affermare che
l’allontanamento avvenuto secondo le modalità dedotte nell’accordo (il quale può astrattamente prevedere anche di
non convivere mai stabilmente) sia ingiustificato. Si potrebbe tuttavia ammettere la possibilità di un allontanamento
ingiustificato ove il coniuge smetta di seguire le modalità di vita separata dedotta in contratto, almeno per le ipotesi in
cui i coniugi non optino per un patto che escluda in toto la convivenza.
Si pensi ad esempio ad una coppia sposata che per motivi di lavoro viva in città lontane durante la settimana, ma
abbia fatto un patto per ammettere la non coabitazione infrasettimanale, ma che preveda la coabitazione nel
weekend. In tale esempio si potrebbe ipotizzare la giustificazione dell’allontanamento e della vita separata solo
durante il periodo infrasettimanale con la conseguenza che una violazione dell’obbligo di coabitazione pattuito per il
fine settimana, non sarebbe giustificato dai patto di non coabitazione stipulato. In queste ultima ipotesi sarebbe
quindi da un lato ammissibile l’applicazione nel caso di specie dell’art. 146 co. 1 c.c. (solo per il matrimonio) e,
dall’altro, sarebbe astrattamente ipotizzabile addebitare la separazione solo per tale forma di violazione dell’obbligo
di coabitazione.
Anche per quanto riguarda la deroga all’obbligo di coabitazione, quindi, il patto di non convivenza è idoneo ad
escludere l’addebito della separazione fondato sull’abbandono del tetto coniugale tout court (anche se tale esclusione
vale solo per l’allontanamento riconducibile alle modalità dedotte nel patto), come anche non sembrerebbe
ammissibile far derivare dalle condotte dedotte nel patto una pronuncia di responsabilità per danno endofamiliare.
Infine, come detto per i patti derogatori del dovere di fedeltà, ove si aderisse alla tesi che li intenda validi, anche
l’accordo di non convivenza risulta quindi non derogabile unilateralmente.
2. Convivenza di fatto e i patti di convivenza
Come si evince dall’art. 1 co. 56 della l. 76/2016, che esclude la possibilità di apporvi termine o condizione, anche i
contratti di convivenza hanno natura di actus legitimi. Ciò tuttavia non sembra impedire di indagare la derogabilità
degli obblighi che dalla legge derivano. Il comma 56 infatti ha portata ben diversa rispetto all’art. 160 nella disciplina
del matrimonio e al co 13 nella disciplina delle unioni civili. Siccome inoltre la disciplina delle convivenze di fatto pone
a carico dei contraenti un fascio davvero molto ristretto di obblighi, soprattutto se confrontato con quello previsto nel
matrimonio e delle unioni civili, appare opportuna e fattibile una analisi che prenda in considerazione obbligo per
obbligo.
2.1. Definizione di “convivenza di fatto” e presupposti per l’applicazione della disciplina del
contratto di convivenza
È preliminarmente necessaria una precisazione. La legge 76/2016 disciplina da un lato una serie di diritti pervisti in
capo a soggetti conviventi di fatto, definiti all’art. 1 commi 36 e 37 e, dall’altro, prevede, tra i diritti spettanti a tali
soggetti, la possibilità di stipulare dei “contratti di convivenza”, disciplinati ai commi 50 e segg. E’ quindi possibile che
una coppia scelga di registrarsi presso l’anagrafe come conviventi di fatto per giovarsi dei diritti verso i terzi che la
legge garantisce ai soggetti che scelgano questo status, ma scelga di non sottoscrivere un contratto di convivenza.
Mentre tuttavia la convivenza di fatto non implica necessariamente che la coppia debba stipulare un contratto di
convivenza, viceversa, per stipulare un contratto di convivenza è necessario essere conviventi di fatto ai sensi del
comma 36.
Sono conviventi di fatto ai sensi dell’art. 1 co. 36 l. 76/2016 “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami
affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o
adozione, da matrimonio o da un'unione civile”. Il comma 37 prevede altresì che “ferma restando la sussistenza dei
presupposti di cui al comma 36, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione
anagrafica di cui all'articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 13 del regolamento di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”.
Sono quindi requisiti minimi della convivenza di fatto:
-
Essere una coppia: sono quindi escluse unioni di più di due persone
Che vi sia un legame affettivo: con esclusione quindi di ogni tipo di convivenza che si fonda su legami di altro
tipo, come potrebbe essere una convivenza giustificata da un legame di assistenza (si pensi al badante con il
suo assistito) o di convenienza economica (si pensi a due studenti che condividono l’affitto)
-
-
-
Che sussista una stabile convivenza, che sembra imposta, oltre che dal nomen iuris dell’istituto, anche
dall’art. 1 comma 37 l. Cirinnà laddove afferma che "per l'accertamento della stabile convivenza si fa
riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 13 del
regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223”
Reciproca assistenza morale e materiale: non è quindi sufficiente una convivenza non assistita dallo stato
soggettivo di volontà di condividere, seppur latamente, un indirizzo di vita comune. Questo presupposto è
paradossale in quanto tende ad inserire come presupposto del patto di convivenza quello che è un obbligo
del matrimonio e dell’unione civile. Con l’introduzione di questo presupposto il legislatore sembra “far
entrare dalla finestra ciò che aveva fatto uscire dalla porta”.
Requisito negativo di assenza di un legame di parentela, affinità o adozione, di coniugio o di unione civile.
A tali requisiti negativi si aggiunge, a contrario, la non applicabilità della disciplina in parola a soggetti
minorenni.
Per poter far valere i diritti previsti dalla legge nei confronti dei terzi la legge impone altresì la registrazione
della coppia ai sensi dell’art. 1 co. 37.
Per quanto concerne solo i contratti di convivenza, invece, la legge prevede la nullità del patto, non solo in tutte le
ipotesi in cui vi sia violazione del co. 36, ma anche ove il contratto sia stato stipulato da un soggetto interdetto
giudizialmente, nelle ipotesi in cui una parte sia stata condannata per omicidio volontario, anche tentato, sul
coniuge dell’altra.
Da questa prima analisi dei requisiti necessari per poter beneficiare della disciplina delle convivenza di fatto
disciplinata ai commi 36 e segg. l. 76/2016, si nota come il legislatore abbia delineato una legittimazione attiva più
ampia del matrimonio e dell’unione civile (si può avere una convivenza di fatto che ove una parte sia interdetta o
abbia compiuto un reato di quelli previsti all’art. 88 cc). Tuttavia è pur vero che una coppia di fatto che si trovi in una
delle ipotesi in cui non sarebbe possibile contrarre matrimonio non può stipulare un valido contratto di convivenza a
norma di quanto previsto al co. 57 lettere d) ed e). Si nota inoltre come comunque le esclusioni dai legittimati a porre
in essere una convivenza di fatto ai sensi del co. 36 ricalchino in ogni caso le esclusioni più rilevanti previste per
matrimonio e unione civile. Da queste considerazioni si nota come il campo di applicazione soggettivo dell’istituto in
parola sia quasi coincidente con quello dei soggetti che potrebbero contrarre matrimonio o alternativamente stipulare
una unione civile.
Va inoltre precisato che il fatto che l’art. 36 preveda la non applicabilità della disciplina delle convivenze di fatto a
soggetti coniugati o uniti civilmente, impone un requisito di natura non meramente fattuale, ma giuridica. Ne deriva
ad esempio che un coniuge separato non potrà usufruire della disciplina delle convivenze di fatto, anche in presenza di
tutti gli altri presupposti del co. 36 (cosa che, tra l’altro, contrasta con il consolidato orientamento giurisprudenziale
alla luce del quale il coniuge separato che inizi una nuova stabile convivenza non possa più beneficiare dell’assegno di
mantenimento).
Già da questa preliminare analisi del capo di applicazione e del contenuto minimo della convivenza di fatto si nota
come non possa affermarsi che l’istituto in parola sia un istituto del tutto diverso e scisso da unioni civili e
matrimonio, ma come rappresenti una forma minore dello stesso genus. Se così fosse non si spiegherebbe, da un lato
la ratio dell’esclusione dei soggetti legati da vincolo di parentela e dall’altro l’esclusione di soggetti coniugati o legati
da un’unione civile. Esattamente come il matrimonio e l’unione civile si tratta di un mezzo per garantire diritti verso
l’esterno ad un rapporto che è comunque caratterizzato nei rapporti interni da un impegno reciproco. Tale identità di
natura è altresì confermata dal fatto che presupposto per porre in essere una convivenza di fatto sia la sussistenza di
un legame affettivo tale da spingere le parti da una assistenza morale e materiale reciproca. L’istituto della convivenza
di fatto e la disciplina dei contratti di convivenza infatti non tutelano quindi genericamente ogni tipo convivenza di
fatto, ma disciplinano situazioni di fatto che molto hanno in comune con il rapporto intercorrente tra due soggetti
sposati, situazioni che si potrebbe dire che siano potenzialmente prodromiche al matrimonio e all’unione di fatto.
2.2. Derogabilità degli obblighi che il legislatore pone in capo ai conviventi
La convivenza si distingue dal matrimonio perché, in ossequio all’opzione che le parti esercitano nei confronti di un
regime più libero, non si vuole istituire un fascio di diritti ed obblighi reciproci, bensì unicamente diritti nei confronti
terzi. Malgrado ciò il legislatore ha sfumato una tale impostazione prevedendo degli obblighi, seppur minimi, tra le
parti.
Obblighi previsti implicitamente dalla l. 76/2016: obbligo di assistenza morale e materiale
Vista quindi l’assimilabilità del novero dei legittimati attivi a porre in essere una convivenza di fatto ex art. 1 co 36 l.
76/2016 ai legittimati a contrarre matrimonio o unione civile, e visto il fatto che presupposto per poter parlare di
conviventi di fatto è la sussistenza di una forma di assistenza morale e materiale reciproca, ci si chiede se la legge
ponga, anche implicitamente obblighi reciproci in capo ai conviventi. È infatti innegabile, alla luce dei rilievi svolti, che
la normativa in parola presupponga, per poter parlare di convivenza di fatto ai sensi del comma 36, un rapporto che in
realtà non è di mero fatto, ma che implica un coinvolgimento dei soggetti in una relazione che, se non si vuole dire
“sentimentale” sia perlomeno connotata da una comunione non solo degli spazi fisici in cui si convive. Dalla scelta dei
legittimati attivi e dalla previsione di un rapporto che preveda assistenza morale e materiale è chiaro che il legislatore
non prenda in considerazione la solo materialità esteriore di una condivisione dello spazio abitativo, ma presuppone
che ci sia in capo alle parti un elemento soggettivo consistente nel voler condividere con il partner almeno alcune
scelte e indirizzi di vita.
Tuttavia non vi è alcuna previsione circa il fatto che l’assistenza morale debba permanere per tutto il corso della
convivenza. Né è altresì prevista alcuna sanzione in caso di violazione di tali obblighi, cosa che invece è presente per il
matrimonio con l’istituto dell’addebito della separazione. Queste considerazioni spingono piuttosto a ritenere che vi
sia in capo ai conviventi un dovere meramente morale e non giuridico. La dicitura quindi “unite stabilmente da legami
affettivi di coppia e di reciproca assistenza” sembra avere valenza meramente descrittiva e non prescrittiva.
Per quanto concerne gli altri obblighi previsti dal legislatore nella disciplina del matrimonio e delle unioni civili
(l’obbligo di convivenza, l’obbligo di fedeltà, l’obbligo di contribuzioni in misura delle proprie sostanze) si ritiene che
non possano essere imposti dalla legge per la sola registrazione della convivenza di fatto. Da un lato, infatti, manca un
chiaro indice normativo che preveda tali obblighi per le unioni di fatto e dall’altro, se si prevedessero nei rapporti
interni tra i conviventi gli stessi obblighi reciproci previsti per il matrimonio o per le unioni civili verrebbe meno la ratio
della norma di creare una disciplina in grado di tutelare i conviventi in alcuni rapporti con i terzi, senza tuttavia
imporre un vincolo impegnativo quanto al fronte dei rapporti interni, e forse anche pregno si significati simbolici,
come il matrimonio.
Derogabilità dell’obbligo di assistenza morale e materiale
Parlare di derogabilità del dovere di mutua assistenza morale e materiale nelle unioni civili ha senso solo ove si
accolga una concezione alla luce della quale il co. 36 imponga tale obbligo in via implicita anche in capo ai conviventi
di fatto. Avendo tuttavia escluso che tale obbligo abbia natura giuridica, avendo ribadito la sua funzione meramente
descrittiva e, al più, morale, ne deriva che le parti possano tranquillamente derogarvi. La mancata assunzione in
concreto di tali obblighi reciproci non avrebbe infatti alcuna conseguenza sul piano giuridico. Bisogna inoltre precisare
che anche se il comma 36 precisa che siano conviventi di fatto soggetti uniti stabilmente da legami affettivi di coppia e
di reciproca assistenza morale e materiale, la norma non prevede alcuna forma di controllo di tale elemento
soggettivo prima di consentire la trascrizione della convivenza. Va precisato che in vero appare difficile anche solo
immaginare uno strumento per controllare tale intento e forse la legge dovrebbe desumerlo dalla stessa volontà di
registrarsi come convivenza di fatto.
Obblighi previsti esplicitamente dalla l. 76/2016: obbligo al versamento degli alimenti e
obbligo di garantire la partecipazione nell’impresa familiare
Nella disciplina delle convivenze di fatto il legislatore prevede poi:
-
obbligo di versamento degli alimenti all’ex convivente in stato di bisogno in misura proporzionale alla durata
della convivenza (co. 65);
-
in caso di impresa familiare l’obbligo in capo al convivente che si veda prestata nella sua impresa opera
lavorativa dal compagno senza che tra i due intercorra contratto di società o rapporto di lavoro subordinato
di garantirgli una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli
incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. (art. 46)
Derogabilità dell’obbligo di versamento degli alimenti
La previsione dell’obbligo di versamento degli alimenti è una forma di concretizzazione del dovere di solidarietà
umana davanti allo stato di bisogno di un’altra persona con la quale si è trascorso un tratto significativo della vita in
una condizione di intimità affettiva reciproca. Si tratta di un obbligo posto nell’interesse del convivente di fatto.
L’unica differenza tra la previsione del dovere di versamento dell’obbligazione alimentare nelle convivenze di fatto e
quelle previste negli altri casi disciplinati dalla legge è che il comma 65 prevede un termine finale per tale versamento,
che andrebbe determinato nel momento in cui lo stesso debito sorga. La norma prevede infatti che il giudice debba
tener conto della durata della convivenza ai fini della determinazione di tale obbligazione.
Data la natura personale e patrimoniale speciale dell’obbligazione alimentare, la quale è un diritto indisponibile,
irripetibile e incedibile che non può formare oggetto di pignoramento, rinunzia o transazione e non è soggetto a
prescrizione, si ritiene in questa sede che l’obbligo di versamento degli alimenti non sia negoziabile o rinunciabile dalle
parti.
Derogabilità dell’obbligo di garantire la partecipazione nell’impresa familiare
Non si può derogare la disciplina dettata in materia di impresa familiare per i conviventi di fatto: la ratio è la stessa del
matrimonio e dell’unione civili (dove ex lege non è derogabile), cioè offrire un’adeguata tutela al lavoro familiare,
perché il più delle volte il coniuge debole non riceve un’adeguata retribuzione e non partecipa alle decisioni più
rilevanti sull’andamento dell’impresa.
E’ una norma che può essere derogata solo con lo strumento contrattuale del contratto d’opera o di lavoro
subordinato, ovvero con il contratto di società, non con altri strumenti negoziali a pena di contrasto con il l’art. 36
Cost. (diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata) nonché del principio di tutela del coniuge debole.
3. Diritti che il legislatore pone in capo ai conviventi nei rapporti con i terzi
La disciplina delle convivenze di fatto nasce appositamente per tutelare i conviventi nei rapporti con i terzi, in modo
da poter opporre uno stabile legame con la persona del proprio compagno in situazioni analoghe a quelle che
spettano ai coniugi e ai soggetti legati da unione civile.
Casistica dei diritti previsti a tutela dei conviventi di fatto dalla lege 76/2016:
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I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento
penitenziario (co. 38);
In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza e di
accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di
assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari (co. 39);
Ciascun convivente di fatto può designare l'altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in
caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) in
caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le
celebrazioni funerarie (co. 40);
in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di
continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni
e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente
superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non
inferiore a tre anni (co. 42); e nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della
casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facoltà di succedergli nel contratto (co. 44);
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Nel caso in cui l'appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle
graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono
godere, a parità di condizioni, i conviventi di fatto (co. 45);
In caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno
risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al
coniuge superstite (co. 49);
b) Facoltà di introdurre nuovi obblighi e soggezioni, nonché di sanzionare in modo rafforzato
gli obblighi previsti dalla legge
1. Pregiudiziale patrimonialiastica e negoziabilità dei diritti della persona
Può un coniuge obbligarsi a non rifiutare un numero minimo di rapporti sessuali in una settimana? L’altro ad
andare a giocare a calcetto con gli amici un numero limitato di volte in un mese?
Possono i conviventi di fatto o gli uniti civilmente, alla luce anche della nuova disciplina, obbligarsi alla fedeltà
reciproca?
E’ cioè possibile che l’autonomia privata ricolleghi effetti giuridici a quei comportamenti che ne sono stati lasciati
sprovvisti dalla legge? Se sì, con quale strumento negoziale? E quid iuris in caso di inadempimento?
Il tema è quello del grado di negoziabilità ammesso, anche al di fuori delle relazioni familiari, per i diritti della
personalità: il diritto alla riservatezza, quello alla libertà personale, all’integrità fisica). In che misura di questi diritti si
può disporre dando luogo a relazioni propriamente giuridiche e non ad impegni a carattere morale?
Contratti esistenziali
Un primo caso da analizzare è quello in cui una parte assuma nei confronti dell’altra un obbligo a carattere personale
contro una controprestazione di carattere economico. Si tratta di contratti? E se sì, quali sono i limiti della loro
validità?
In senso contrario sembra porsi l’art. 1174 c.c., che richiede che, pur potendo risponde ad un interesse non
patrimoniale del creditore, la prestazione sia suscettibile di valutazione economica. Secondo la dottrina largamente
prevalente questa pregiudiziale patrimonialistica deve intendersi in senso oggettivo, la prestazione deve avere, cioè,
un mercato di riferimento, in cui il gioco della domanda e dell’offerta le assegna un prezzo. Non potrebbe invece darsi
luogo ad una interpretazione in senso soggettivo, dando rilievo al valore che la prestazione assume per il creditore,
testimoniato dal prezzo o dalla previsione di una penale, pena il surrettizio superamento del divieto.
Nel moderno diritto privato si è da qualche tempo innescato un fenomeno di antropologizzazione, che conduce a
porre al centro del sistema non più il soggetto come referente di relazioni giuridiche, bensì la persona umana.
L’uomo reca con sé una sfera emozionale e personale oltre la cui soglia il diritto si spinge con sempre maggiore
convinzione, attribuendo rilievo a fatti interiori che prima si riteneva insuscettibili di assumere il predicato della
“giuridicità”, in virtù della barriera epistemologica che separa il giudice dalle menti, ma che pure è suscettibile di
essere colta.
E’ il caso dell’enucleazione della categoria, interna a quella di danno non patrimoniale e priva di una sostanziale
autonomia da esso, del danno c.d. esistenziale.
Ma anche al di fuori della tutela dal danno derivante dal torto, dove il giudice ha da sempre avvertito il maggiore
impulso a forzare le categorie, è possibile rinvenire nella realtà sociale una crescente esigenza di giuridicizzare
relazioni che non appartengono al piano patrimoniale, bensì a quello esistenziale, personale. Si pensi al contratto con
cui un soggetto si obbliga a partecipare ad un reality show, disponendo della propria sfera di riservatezza, nonché in
parte della propria libertà di muoversi nello spazio (nel senso che il suo pieno esercizio tramite l’uscita dagli studi
comporta inadempimento contrattuale).
Secondo la tesi tradizionale i diritti della persona hanno un contenuto meramente difensivo, sicché alla loro
assolutezza si accompagnerebbe come attributo speculare quello dell’indisponibilità.
Ma in questo mondo è ancora possibile escludere ogni rilievo dell’autonomia privata con riferimento agli attributi
della personalità? E’ ancora possibile affermare che l’ordinamento si disinteressi integralmente di un accordo che si
pone al margine esterno della patrimonialità se da questo può dipendere il pieno sviluppo della persona umana?
La stessa Costituzione all’art. 3 co. 2 prevede che la Repubblica rimuove gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo
della persona umana, compresi gli ostacoli all’autonomia privata. Ciò è ancora più evidente nei consorzi familiari che
senza dubbio sono formazioni sociali dove si “svolge la personalità” dell’individuo, a mente dell’art. 2 della Carta
fondamentale.
Lo stesso codice civile sembra recare indici di apertura al fenomeno negoziale con riferimento agli attributi della
personalità. L’art. 5 c.c. recita: “Gli atti di disposizione del corpo sono vietati quando cagionano una diminuzione
permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”.
La norma sembrerebbe potersi fare portatrice di un principio generale in base al quale gli atti di disposizione dei diritti
della personalità, quale è l’integrità fisica, sono possibili nella misura in cui non implicano 1) un’abdicazione
permanente degli stessi, traducendosi in una sostanziale capitis deminutio di stampo romanistico; 2) non sono
comunque contrari alla legge, comprensiva dei principi generali dell’ordinamento, all’ordine pubblico o al buon
costume.
Nel contesto sociale e Costituzionale descritto sembra difficile negare l’opportunità di far luogo ad una interpretazione
in senso soggettivistico del requisito della patrimonialità di cui all’art. 1174 c.c., tale per cui la previsione di una
penale darebbe una consistenza patrimoniale inter partes ai una determinata prestazione personale.
Si aprirebbe così la strada a veri e proprie contratti (4), che fondano la propria causa in concreto sulla soddisfazione di
un interesse esistenziale del creditore, come quello alla pienezza della vita sessuale o al desiderio di aver con sé il
coniuge anche quando i suoi amici organizzano una partita di calcetto.
A ciò deve aggiungersi che, a prescindere dalla soluzione che si vuol dare a circa la deducibilità in obbligazione di
queste prestazioni, esiste un altro meccanismo giuridico idoneo a dare rilevanza ai comportamenti, strutturalmente
diverso da quello dell’obbligazione: dedurli quali condizioni di un contratto con obbligazioni del solo proponente.
In particolare sarà comunque sempre possibile che l’agire insuscettibile di valutazione economica sul piano obiettivo
rappresenti non l’oggetto di una obbligazione, bensì un mero fatto giuridico alla cui mancanza le parti ricollegano non
una conseguenza negativa come il risarcimento del danno, bensì il venir meno di un vantaggio dato o promesso.
Ad esempio è valida la seguente pattuizione: ti darò 30.000 euro, a condizione che tu mi sia fedele per 10 anni.
Negozi giuridici di diritto familiare
Ciò detto il discorso cambia quando le parti vogliano prevedere obbligazioni speculari in capo ad entrambi, come nel
caso della coppia unita civilmente che voglia introdurre l’obbligo di fedeltà che la legge non prevede, almeno
esplicitamente. In questo caso non vi è patrimonialità alcuna e non deve parlarsi di contratti, bensì di negozi giuridici
di diritto familiare.
4
Nel senso natura contrattuale degli accordi che prevedano prestazioni a carattere sia personale sia patrimoniale trai
coniugi cfr. ZOPPINI, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. div. civ., 2002, I, 53 ss. Supera
l’antagonismo tra contratto e famiglia anche E. ROPPO, Il contratto, in Tratt. dir. priv., a cura di Iudica e Zatti, Milano
2001, 60ss.
“I negozi giuridici familiari, quali negozi che costituiscono, modificano o estinguono rapporti familiari, rappresentano
una categoria a sé sul piano funzionale. (…) Anche quando consistono in atti bilaterali non possono essere inquadrati
nella categoria dei contratti in quanto hanno ad oggetto rapporti giuridici non patrimoniali”
Così si esprime dottrina autorevole ( 5), che li considera però tipici: il matrimonio, l’accordo che esclude la comunione
dei beni e pochi altri. Dello stesso avviso è il maggiore teorico del negozio giuridico di diritto familiare secondo il quale
“manca nel diritto di famiglia uno strumento dell’autonomia privata buono per qualunque funzione, purché meritevole
di tutela dal punto di vista sociale, come il contratto (art. 1321)” ( 6).
Tuttavia proprio in base alla crescente apertura dell’ordinamento nei confronti della dimensione esistenziale sembra
intravedersi una loro idoneità ad arricchire, conformandole, le formazioni sociali del matrimonio, dell’unione civile, del
contratto di convivenza con pattuizione a carattere atipico e contenuto non patrimoniale (7). Infatti “col richiedere il
requisito della patrimonialità della prestazione il codice non ha (…) sancito un divieto ma ha delimitato la figura
dell’obbligazione” (8).
Un appiglio normativo alla possibilità per le parti di prevedere accordi atipici conformativi del loro vincolo può forse
riposare nel comma 11 della c.d. legge Cirinnà “Le parti concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare”, che
riproduce l’art. 144 c.c., previsto per i coniugi. Si può infatti argomentare che nella programmazione della vita
familiare le parti assumono di comune accordo anche vincoli ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge, con
decisioni che hanno carattere negoziale, ma non patrimoniale, come quella, tipica, della fissazione della residenza
comune, prevista nelle stesse norme.
Questi accordi, dunque, si vanno ad aggiungere ai negozi di diritto familiare tipici e a quelli che la legge richiede
implicitamente, mettendo in capo agli uniti civili degli obblighi che implicano un accordo (come appunto la previsione
per cui le parti “fissano la residenza comune”), riconducibile al potere delle parti di strutturare liberamente il proprio
programma di vita insieme.
Quanto alle conseguenze dell’inadempimento di tali negozi, in assenza dell’istituto dell’addebito della separazione,
nelle unioni civili quanto nelle coppie di fatto le conseguenze dell’inadempimento degli accordi di diritto familiare è
verosimilmente da ricondurre alla tematica del c.d. danno endofamiliare.
In particolare, alla luce dell’impostazione pretoria pacificamente fondata sull’art. 2043 c.c., “l’inosservanza di tali
specifici doveri funge da criterio di connotazione della condotta, facendole assumere un valore negativo (come
condotta riprovata dall’ordinamento, e non già posta in essere iure) che altrimenti essa non potrebbe ricevere, di per
sé, per il semplice fatto di essere stata produttiva di un pregiudizio nella sfera altrui”(9).
5
BIANCA, La famiglia. Le successioni, Milano 1989, 17ss.
Oltre a C. M. Bianca (cfr. nt. precedente), ritiene che i negozi di diritto familiare siano “nominati” Santoro-Passarelli,
L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Saggi di diritto civile, 1961, 383 (il saggio è quello che ha fondato la
successiva analisi dogmatica della materia del negozio giuridico familiare, già pubblicato in Diritto e giurisprudenza,
1945, 3 ss. In senso contrario, in occasione di uno scritto che rivaluta specificamente il testo citato di SantoroPassarelli, ZOPPINI, L’autonomia cit., 53 ss definisce “superata la tipicità del negozio giuridico familiare, esemplarmente
scolpita dalla pagina santoriana”.
7
In tal senso v. DELLE MONACHE, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, in Riv. dir. civ, 2015, 949: “la
patrimonialità, in generale rappresent[a] un requisito (che definisce la figura e con valore dunque) costitutivo
dell’obbligazione, ma non un limite all’autonomia privata, il cui esercizio può condurre, quindi all’assunzione di doveri
non patrimoniali di fonte negoziale, sempre che l’interesse perseguito possa dirsi meritevole di tutela ai sensi dell’art.
1322, comma 2°, c.c.”, con specifico riferimento all’idoneità di un contratto di convivenza a rappresentare la fonte di
doveri di natura non patrimoniale.
8
BIANCA, L’obbligazione, Milano 1990, 77ss.
9
Così DELLE MONACHE, Convivenza cit., 953.
6
2. Singoli diritti ed obblighi che possono essere aggiunti pattiziamente: matrimoni, unioni civili
e contratti di convivenza
Unioni civili e matrimonio
Obbligo di fedeltà
Com’è noto, nella disciplina delle unioni civili, come in quella dei contratti di convivenza non si prevede un obbligo di
reciproca fedeltà trai coniugi. Mentre questa mancanza sembra coerente con lo spirito dell’istituto dei contratti di
convivenza, non lo è con la disciplina dell’unione civile. Infatti, così come il matrimonio, che l’obbligo di fedeltà
prevede, l’unione civile si manifesta in una situazione dotata di stabilità, sotto il profilo relazionale ancor prima che
giuridico. Per questa ragione parte della dottrina ritiene che lo stesso obbligo di fedeltà sia in realtà intrinsecamente
legato all’obbligo di assistenza morale e debba quindi ritenersi presente anche nelle unioni civili.
Si può tuttavia sostenere che l’interesse dell’ordinamento al rispetto di dell’obbligo di fedeltà nel matrimonio non
derivi dalla volontà di preservare il “candore” della relazione (10), che è affare delle parti, bensì dall’interesse ad una
filiazione ordinata. La filiazione fuori del matrimonio da parte di un coniuge pone a rischio la persistenza del vincolo,
dunque la stabilità degli status di coniuge, nonché importa problemi di carattere economico nella misura in cui il
coniuge fedifrago è costretto a distrarre risorse economiche destinate al nucleo familiare per destinarle ad un nucleo
familiare separato e nuovo. Questo comporta una maggiore complessità dei rapporti patrimoniali che è, questa sì,
nell’interesse del legislatore evitare.
Inoltre nel matrimonio opera la presunzione di paternità, che potrebbe condurre, nel caso del tradimento da parte
della donna, ad addossare a carico di un soggetto estraneo il mantenimento di un figlio non suo, il che è contrario a
basilari esigenze di equità.
In quest’ottica si può comprendere allora la ragione per cui non è stato previsto quest’obbligo nell’unione civile:
l’ipotesi che l’unito civile, che ha un orientamento sessuale omossessuale, intrattenga relazioni sessuali fedifraghe con
un soggetto del sesso opposto e ne nasca un figlio naturale, pur non impossibile, è talmente remota da non
giustificare l’apposizione di vincoli sulle parti. Inoltre non ha cittadinanza la presunzione di paternità, sicché il partner
sarebbe in ogni caso tutelato.
Se allora manca una ragione per ritenere già presente in via interpretativa l’obbligo di fedeltà nell’unione civile, resta
da indagare se questo possa essere introdotta dalle parti attraverso un accordo.
Sembra difficilmente ammissibile un accordo che subordini al tradimento il pagamento di una consistente penale a
titolo di risarcimento del danno. Se un tale patto fosse valido ci si troverebbe in uno scenario in cui il sottoscrittore
dovrebbe scegliere tra la fedeltà e la rovina economica, sicché l’accordo si rivolverebbe di certo in una riduzione di
una componente irrinunciabile della persona: il suo diritto ad una libera estrinsecazione della sfera sessuale.
Lo stesso non vale nel caso in cui l’infedeltà sia dedotta come fatto condizionante, in senso risolutivo, di un contratto
ad obbligazioni del solo proponente, in cui una parte promette un “premio” in denaro per la fedeltà dell’altra. In
questo caso il tradimento non si risolve nella conseguenza negativa della responsabilità, bensì nella perdita di un
beneficio, non siamo cioè davanti all’inadempimento di una obbligazione, bensì al mancato rispetto di un onere che è
lecito prevedere quando si dà luogo ad attribuzioni gratuite. In tal senso patti dispositivi della fedeltà dovrebbero
essere ammissibili.
10
In origine l’obbligo di fedeltà rappresentava il “il baluardo del decoro e del prestigio dell’un coniuge nei confronti
dell’altro, in termini di stima pubblica”, tanto che l’adulterio della moglie e il concubinato del marito erano previsti alla
legge come reati (GAZZONI, Manuale cit., 370); oggi però questo profilo pubblicistico è venuto meno per essere
sostituito da un profilo analogamente pubblicistico, ma legato a ragioni di carattere economico.
Infine altrettanto ammissibili sembrano gli accordi di diritto familiare con cui le parti si promettono reciproca fedeltà
(come si è detto mancando completamente di patrimonialità non sono contratti). In questo caso non si è assiste ad
una capitis deminutio delle parti, bensì ad un meccanismo di estrinsecazione della loro personalità tramite la
formazione sociale cui ricorrono (si essa unione civile o contratto di convivenza).
Precisazione degli obblighi di contribuzione in senso attuativo della legge
Può chiedersi se sia legittimo da parte dei coniugi concordare l’indirizzo della vita comune (art. 144 c.c.) anche
attraverso una specificazione dell’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia ognuno in relazione alle proprie
sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 143 co. 3 c.c.). Ciò potrebbe avvenire ad
esempio accordandosi di versare un certo importo in una “cassa comune” con cadenza mensile, oppure con l’obbligo
di uno dei due coniugi di destinare una parte delle sue risorse al mantenimento di un tenore di vita elevato (che si
esplica in vacanze costose, abbonamenti a stagioni teatrali, etc…).
Autorevole dottrina afferma che “ogni coniuge (…) è tenuto a contribuire nei limiti del bisogno di volta in volta
mutevole della famiglia (art. 143), cosicché non è ipotizzabile una valutazione preventiva né sull’an (essendo appunto
l’obbligo a carico di entrambi) né sul quantum (non potendosi prefigurare l’entità del bisogno” (11).
Si tratta di una posizione condivisibile nel senso che all’obbligo di contribuzione, si affianca l’obbligo di assistenza
materiale (art. 143 co. 2 c.c.) che ne rappresenta il fondamento. Questi obblighi afferiscono al nucleo inderogabile del
matrimonio (art. 160 c.c.), sicché specificarli può significare, nella circostanza in cui sopravvengano gravi bisogni per la
famiglia, derogarli in parte contra legem.
Si tratta infatti di obblighi per definizione elastici, che mutano al mutare dei bisogni familiari, sicché
predeterminarne il contenuto implicherebbe che possano ritenersi assolti dalla previsione del forfait anche in
situazione in cui i bisogni della famiglia non sono coperti da tali somme, sicché l’accordo si scontrerebbe frontalmente
con la previsione di cui all’art. 143 c.c. che ricollega la contribuzione ai “bisogni della famiglia”, una clausola
volutamente elastica, che non si presta ad essere irrigidita e conseguentemente aggirata.
Obblighi che reprimono parzialmente la personalità
Per quanto concerne la possibilità di introdurre pattiziamente singoli diritti e obblighi è opportuno operare una
distinzione tra gli obblighi che reprimono parzialmente la personalità umana e obblighi di natura comportamentale,
che pur limitando i soggetti appaiono sicuramente meno invadenti della spera privata degli individui.
Gli accordi possibili sono potenzialmente infiniti.
In ordine alla prima ipotesi, relativa agli obblighi che intaccano la personalità di ciascun individuo, a titolo
esemplificativo, e non certamente esaustivo:
Possono le parti prevedere l’obbligo di portare un determinato abbigliamento, come ad esempio il burqa? di
mantenere un certo peso forma per la durata del matrimonio e/o di seguire una determinata alimentazione, ad
esempio vegana? di praticare un certo culto? di non fumare e/o non bere alcolici?
Valutare la legittimità dei suddetti accordi non è affare semplice, poiché se da un lato essi possano giustificarsi in virtù
dell’autonomia negoziale, è bene valutare se sussista un contrasto con principi e valori cardine cui il nostro
ordinamento garantisce tutela.
È bene rammentare che per tutti gli accordi di seguito ipotizzati, entra comunque in gioco la necessità di tutelare la
razionalità limitata del soggetto che, nel periodo dell’innamoramento che contraddistingue la fase pre-matrimoniale,
può essere disposto ad accettare accordi limitativi della propria personalità e esporsi conseguentemente a vincoli
giuridici che non è pienamente in grado di valutate. Più in generale, emerge la necessità di tutelare il soggetto debole
11
Così GAZZONI, Manuale cit., 373.
del rapporto che, pur di contrarre matrimonio, potrebbe essere disposto ad accettare qualsivoglia accordo impostogli
dal futuro coniuge.
Obbligo di portare un determinato abbigliamento
In ordine all’obbligo di portare determinati abbigliamenti va innanzitutto valutato se tale accordo sia contrario a
norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.
Un primo esempio può essere il patto avente ad oggetto l’obbligo di portare il velo islamico integrale.
Sul punto può dirsi che in Italia non c’è una legge che vieta esplicitamente l’utilizzo del burqa. L’unica norma che
viene in rilievo è l’art. 5 della L. 152/1975 c.d. “legge Reale” sull’ordine pubblico, poi modificato restrittivamente nel
1977 e che oggi recita: “È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il
riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”.
Difficile, pertanto, concludere se il burqa sia contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume,
essendo oggetto di dibattito, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, se nella clausola “giustificato motivo”
prevista dalla norma rientrino le convinzioni religiose e le tradizioni culturali.
Sul punto, può farsi cenno alla Corte Europea dei Diritti Umani che, chiamata a pronunciarsi sulla legge francese
introdotta nel 2010 che vieta, pur senza un chiaro riferimento, il velo islamico integrale nei luoghi pubblici, ha
condiviso la tesi del governo francese che ha ritenuto che il volto sia elemento importante nelle interazioni sociali e
nasconderlo viola i diritti altrui di vivere in uno spazio in cui lo stare insieme è agevolato.
In tale ottica, un accordo tra i coniugi avente ad oggetto l’obbligo di indossare il burqa sarebbe contrario all’ordine
pubblico.
Specularmente al problema del burqa, può riflettersi sull’ipotesi paradossale di un accordo avente ad oggetto
l’obbligo di non indossare vestiti in pubblico o di indossare vestiti eccessivamente succinti.
In tali ipotesi la validità dell’accordo è indubbiamente da escludersi, trattandosi di pattuizioni contrarie al buon
costume, inteso quale principio generale che riassume i canoni fondamentali di onestà, pudore e onore espressi dalla
società in una data epoca, e che costituisce pacificamente un limite all'autonomia privata.
Al di fuori dei suddetti casi limite, il patto avente ad oggetto l’obbligo di tenere un determinato abbigliamento (es. non
indossare gonne), non può dirsi contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume. Esso costituisce
semplicemente una limitazione al diritto all’autodeterminazione del soggetto che deve pertanto ritenersi valida
laddove non pregiudichi in toto lo sviluppo della personalità umana.
Obbligo di mantenere un certo peso forma o di seguire una determinata alimentazione (es. vegana)
L’accordo tra le parti avente ad oggetto l’obbligo di mantenere un peso forma o di seguire una determinata
alimentazione non risulta contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume.
Esso coinvolge il diritto all’autodeterminazione del soggetto che, come si è detto, può trovare delle restrizioni purchè
non si traduca in una capitis deminutio, e quindi laddove non pregiudichi in toto lo sviluppo della personalità
dell’essere umano.
La valutazione circa l’ammissibilità di un patto sull’alimentazione necessita di richiamare altresì il diritto alla salute,
inteso non solo come assenza di malattie o di infermità, fisiche e psichiche, ma in senso ampio come "stato di
completo benessere fisico, mentale e sociale”. Trattasi, peraltro di un interesse di carattere collettivo e non
meramente individuale.
Non dovrebbe considerarsi valido, poiché contrario all’ordine pubblico, l’obbligo di mantenere un determinato
regime alimentare che possa arrecare a lungo andare danni alla salute dell’individuo.
Obbligo di praticare un certo culto religioso
Il patto di obbligarsi a praticare un certo culto religioso merita un’attenzione particolare. Non appare contrario a
norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Esso verte sulla sfera più intima del soggetto e anch’esso si
configura come una limitazione al diritto all’autodeterminazione del soggetto che può costituire validamente
l’oggetto di un accordo tra le parti, con il solo limite che non si traduca in una capitis deminutio.
Tuttavia, in un’ottica più ampia, si può muovere una riflessione: il cambiamento è elemento caratterizzante la vita di
ciascun individuo e la cristallizzazione di un credo religioso in un contratto è sicuramente discutibile sul piano morale.
Invero, se un soggetto può promettere di praticare sempre un credo religioso, non potrà promettere di avere
realmente sempre quella fede nel cuore, essendo la religione qualcosa che appartiene alla sfera intima di ciascun
soggetto e suscettibile di mutamenti nel corso della vita. Un accordo avente ad oggetto il credo religioso andrebbe a
vincolare fortemente il soggetto che porterebbe essere costretto a soffocare la libera espressione alla propria
personalità per non incorrere nelle conseguenze giuridiche derivanti dalla violazione dell’accordo pattuito.
Obbligo di non fumare e non bere alcolici
Anche nell’accordo avente ad oggetto l’obbligo di non fumare e non bere alcolici si riscontra una riduzione del diritto
all’autodeterminazione del soggetto che, ove non comporti una capitis deminutio, deve ritenersi pienamente valido.
Neppure si ravvisa un contrasto alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume.
A sostegno dell’ammissibilità dell’accordo in esame può osservarsi che tale pattuizione non rischia di pregiudicare il
diritto alla salute del soggetto interessato, trattandosi di rinunce, quella al fumo e all’alcol, che non possono avere
effetti negativi sull’organismo umano, ma piuttosto effetti benefici.
Obblighi comportamentali
Possono le parti prevedere l’obbligo di prestarsi ad un numero minimo mensile di rapporti sessuali? A non usare
contraccettivi? A frequentare solo certe compagnie o rinunciare ad un hobby? Ad esercitare lo ius escludendi dalla
casa coniugale nei confronti del proprio genitore ai fini di evitare difficili rapporti suocera-genero? A non cercare
lavoro per badare alla casa?
Possono, cioè, le parti regolare la vita familiare del menage, le abitudini, l’intimità con negozi di varia natura a
carattere giuridicamente vincolante?
Ogni possibile patto merita di essere singolarmente considerato, per analizzare se giunga ad eliminare pattiziamente
diritti fondamentali e sia per questo nullo, ovvero se rientri nei limiti di disponibilità dei diritti della personalità.
Patto di assicurare un numero minimo di rapporti sessuali
La libertà sessuale rappresenta un diritto fondamentale della personalità. La possibilità di disporne dietro corrispettivo
è esclusa dalle norme che vietano la prostituzione, tuttavia una rivalutazione di questo assetto di interessi potrebbe
imporsi nel momento in cui contratto si consuma nel contesto di un legame matrimoniale.
Tradizionalmente il patto con la prostituta è nullo in quanto contrario al buon costume. La ragione sta, con tutta
evidenza, nel fatto che questa clausola generale ancora di certo non accetta il “mercimonio” del corpo, cioè lo
scambio tra prestazione sessuale e denaro. Il dato che gli amanti si conoscano bene e nutrano affetto l’uno per l’altra
non sembra poter modificare questo dato di base, tanto ciò vero che nel patto con la prostituta l’estraneità non è
affatto un dato scontato, giacché ben possono verificarsi ipotesi di “fidelizzazione”, e non per questo verrà meno la
nullità del negozio.
Sicché anche tra coniugi o uniti civilmente non sembra potersi ammettere un contratto di questo genere, in quanto
contrario al buon costume, senza che possa assumere rilievo il rapporto fondamentale in cui questo patto si
incardinerebbe.
Patto di rinuncia al gioco del calcetto
La rinuncia a praticare un hobby o un’attività sportiva rappresenta senza dubbio una compressione accettabile del
diritto all’autodeterminazione (coessenziale al sistema liberale, dove ciò che non è vietato è concesso), diritto di cui lo
stesso patto rappresenta un atto di esercizio. Detta rinuncia deve ritenersi valida, anche dietro corrispettivo, nella
misura in cui non esclude integralmente ogni attività idonea a favorire lo sviluppo della personalità, traducendosi
altresì in una capitis deminutio. Non pare inoltre un contratto altrimenti contrario alla legge, né all’ordine pubblico
(non v’è interesse collettivo a che ciascuno si diverta nel modo che preferisce), né al buon costume.
Patto dell’“angelo del focolare”
Resta da chiedersi se uno dei coniugi o degli uniti civilmente possa impegnarsi, sul piano giuridico, a non cercare
un’attività lavorativa e a dedicarsi alla cura della casa.
La rinuncia dietro corrispettivo ad un’occupazione non rappresenta un’ipotesi aberrata dall’ordinamento: è il caso del
c.d. accordo di buonuscita in cui il dipendete offre le sue dimissioni su richiesta del suo datore di lavoro pur in assenza
dei presupposti per il licenziamento, incentivato all’esodo dalla previsione di un corrispettivo.
Nel caso in oggetto tuttavia l’obbligazione assunta perdura nel tempo tuttavia nulla esclude che tra coniugi o uniti
civili intercorra un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, in base al quale uno si prenda cura della casa e
l’altro gli renda un’equa retribuzione (art. 36 Cost.). Non sembra allora da escludere che una clausola di questo
rapporto contrattuale di lavoro subordinato preveda la necessaria prevalenza del lavoro casalingo, con il conseguente
obbligo di buone fede di astenersi dal ricercare una diversa occupazione.
Contratti di convivenza
Per i contratti di convivenza possono in buona parte valere le considerazioni sin qui svolte per l’unione civile quanto
alla possibilità di introdurre con essi obblighi per i coniugi aventi carattere personale. Tuttavia pare opportuna una
precisazione.
Questo istituto, che sembra strutturalmente ricollegato ad un contenuto più liberale rispetto alle unioni più
strutturate e complesse, fa sorgere un interrogativo in ordine alla possibilità di arricchirlo con obblighi nuovi, in
particolare quello di fedeltà. Infatti prevedere solo alcuni degli obblighi che la legge prevede per il matrimonio o per
l’unione di fatto, ritagliando una sorta di modello di unione cucito su misura, sembra andare contro lo spirito delle
norme che vietano di derogare agli obblighi previsti dalla legge per il matrimonio e la coppia di fatto.
Ci si troverebbe, insomma, innanzi ad un fenomeno di frode alla legge, nel senso che ciò che l’art. 160 c.c. e 1 comma
11 l. Cirinnà vorrebbero evitare - costruzione di vincoli a carattere matrimoniale mutilati di obblighi fondamentali -,
potrebbe venir raggiunto dalle parti attraverso una massiccia conformazione del contratto di convivenza, che come
“guscio vuoto” si presta facilmente a poter essere riempito dai soli obblighi coniugali desiderabili per la coppia di fatto.
Ciò sembra richiedere un particolare rigore nell’indagine sull’ammissibilità di obblighi nuovi attraverso questi
strumenti negoziali, verificando, caso per caso, che non siano obblighi che ricalcano quelli coniugali allo scopo di
aggirare le disposizioni che non consentono di creare un vincolo coniugale connotato solo da alcuni doveri coniugali
fondamentali, che invece dovrebbero essere assunti in blocco tramite il matrimonio, ovvero l’unione civile.
c) Facoltà di predeterminare gli esiti dello scioglimento. Il c.d. contratto prematrimoniale
Con l’espressione “contratto prematrimoniale” si intende la possibilità per i coniugi di gestire anticipatamente e
consensualmente i loro rapporti patrimoniali, in modo tale da evitare che la negoziazione di essi sia rinviata ad un
momento successivo, in cui il matrimonio è entrato già in crisi ed è difficile raggiungere un accordo.
I c.d. “pionieri delle nozze personalizzate” furono Aristotele Onassis e Jacqueline Kennedy che nei loro patti
prematrimoniali fecero redigere al loro avvocato ben 170 clausole concernenti l’appannaggio annuale, la liquidazione
in caso di rottura, il testamento, le modalità del regime di non convivenza e persino la frequenza degli incontri
sessuali.
In un’ottica comparatistica, il nostro ordinamento fatica a stare al passo degli altri ordinamenti, soprattutto di
common law, come gli Stati Uniti e la
Gran Bretagna, in cui tali accordi prematrimoniali sono
ormai pienamente riconosciuti.
Ad oggi, in Italia non vi è ancora una disciplina normativa in materia di accordi prematrimoniali, anche se sul tema
un’importante proposta di legge è stata avanzata, la n. 2669/2014, tutt’ora in attesa di approvazione, che prevede la
possibilità per i futuri sposi di stipulare accordi prematrimoniali al fine di disciplinare i rapporti dipendenti da una
eventuale separazione o divorzio.
Nello specifico, l’oggetto del disegno di legge è l’ampliamento del contenuto dell’art. 162 del codice civile, che
attualmente riconosce in capo ai coniugi la possibilità di regolamentare il loro regime patrimoniale optando per la
separazione dei beni in luogo della comunione legale dei beni. L’obiettivo è realizzabile mediante l’introduzione
dell’art. 162- bis al codice civile («i futuri coniugi, prima di contrarre matrimonio, possono stipulare accordi
prematrimoniali volti a disciplinare i rapporti dipendenti dall’eventuale separazione personale e dall’eventuale
scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio») che riconosca la possibilità per i coniugi di concordare, in
vista di una futura rottura del rapporto matrimoniale, la gestione anticipata e consensuale dei loro rapporti
patrimoniali, mediante atto pubblico redatto dal notaio in presenza di due testimoni, forma altresì richiesta per
l’introduzione di modifiche o lo scioglimento della convenzione stessa.
A titolo esemplificativo si qualifica come valido accordo prematrimoniale l’attribuzione, in caso di divorzio, ad un
coniuge di una somma di denaro, periodica o una tantum, ovvero il trasferimento di diritti reali su beni immobili con il
vincolo di destinare i proventi al mantenimento dell’altro coniuge o al mantenimento della prole sino
all’autosufficienza economica. Altrettanto valido è il patto che ha ad oggetto la rinuncia di un coniuge al
mantenimento dell’altro, fatto salvo il diritto agli alimenti. Si precisa che, a fini di tutela dei figli minori o non
economicamente autosufficienti, le convenzioni riguardanti gli stessi devono essere necessariamente
preventivamente autorizzate dal giudice. È bene puntualizzare che, in ogni caso, la regolamentazione di tali rapporti
non incide su quelli che sono i diritti e gli obblighi inderogabili derivanti dal matrimonio.
La mancata approvazione, ad oggi, della proposta di legge in esame è da ricondursi al legislatore italiano,
particolarmente restio nel riconoscere la disposizione di diritti che sorgono successivamente, con la eventuale
richiesta di separazione e/o divorzio, considerando per lo più nulli gli accordi prematrimoniali. La nullità dei patti
prematrimoniali nel nostro ordinamento trova la sua giustificazione nell’affermazione che essi siano da considerarsi
contrari all’ordine pubblico. Invero, consentire ai coniugi di disporre preventivamente dei diritti patrimoniali
conseguenti allo scioglimento del matrimonio si tradurrebbe in una limitazione del diritto di difesa. L’art. 24 della
Costituzione recita: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è un
diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi
per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli
errori giudiziari”.
In altre parole, un accordo di siffatta natura avrebbe causa illecita, andando a condizionare il comportamento dei
coniugi nel giudizio concernente uno status, la cui facoltà di scelta ed il diritto di difesa devono essere pienamente
garantiti. Si tratterebbe, invero, di accordi che si pongono in contrasto con i principi di indisponibilità di alcuni diritti,
si pensi al diritto al mantenimento del coniuge e dei figli, che, per sua natura è indisponibile. Ne consegue che solo gli
accordi prematrimoniali che non concernono diritti indisponibili posso essere ritenuti validi.
La ratio di una siffatta impostazione è quella di evitare che il coniuge economicamente più debole, pur di contrarre
matrimonio, rinunci a diritti legittimi riconosciutigli per legge.
Nell’ottica del legislatore, dunque, le attribuzioni che prevedono il riconoscimento di un assegno mensile o la
liquidazione in un’unica soluzione possono avere validità solo se stipulate in sede di separazione e divorzio, trattandosi
di diritti a cui non si può rinunciare e di cui non si può disporre in via preventiva, così come sancito, peraltro, agli Artt.
5 e 9, l. n. 898 del 01.12.1970. Una diversa impostazione pregiudicherebbe l’ordine pubblico, inficiando la tutela
dell’istituto della famiglia, come evidenziato dalla stessa Suprema Corte con la sent. n. 3777/1981.
L’assenza di una disciplina normativa che riconosca piena validità agli accordi prematrimoniali, non è, tuttavia indice di
una totale chiusura al loro riconoscimento: seppur nella maggior parte delle ipotesi le intese in esame siano da
considerarsi nulle, vi sono ipotesi in cui la giurisprudenza ha constatato la validità di un accordo prematrimoniale.
Emblematica in tal senso, la sentenza n. 23713/2012 della Corte di Cassazione, concernente la validità di un accordo
prematrimoniale avente ad oggetto il trasferimento di un immobile a titolo di corrispettivo per le spese sostenute da
uno dei coniugi per la ristrutturazione di un immobile di proprietà dell’altro, nell’ipotesi di rottura del vincolo
matrimoniale.
La Corte, pur rammentando la non validità di qualsiasi accordo prematrimoniale, ha riconosciuto nell’accordo in
questione un contratto atipico con condizione sospensiva e, pertanto, valido sul piano giuridico. Al di fuori del limite
dei diritti indisponibili che pregiudicano la validità degli accordi prematrimoniali, possono dunque considerarsi di
piena validità gli altri accordi prematrimoniali, che vertano su diritti non ritenuti indisponibili.
In relazione a tale sentenza è bene precisare che il principio di diritto che se ne può trarre non è tanto quello della
riconoscibilità tout court dei contratti prematrimoniali, bensì la possibilità per i coniugi di stipulare contratti aventi
quale condizione sospensiva contratti atipici aventi ad oggetto diritti pienamente disponibili e di carattere
patrimoniale. Risultano, infatti pienamente validi giuridicamente gli accordi aventi ad oggetto diritti non dipendenti
dalla qualità di coniuge e non riguardanti il regime di separazione, ovverosia i c.d. patti aggiunti, che sono finalizzati a
definire tutti gli altri rapporti economici esistenti fra coniugi.
Ad ogni modo, gli ostacoli al riconoscimento dei contratti prematrimoniali sono oggi facilmente aggirabili in virtù
dell’art. 30 L. 215/95, che riconosce la piena efficacia anche in Italia degli accodi prematrimoniali stipulati all’estero
da parte di due coniugi italiani residenti nello Stato straniero.
Una ulteriore critica mossa nei confronti dei contratti prematrimoniali verte sul fatto che in essi si ravvisa un possibile
incentivo alle separazioni e ai divorzi, oggi già estremamente diffusi: si pensi all’ipotesi in cui in caso di separazione ad
uno dei coniugi venga attribuito un immobile di proprietà dell’altro o una cospicua somma di denaro. Una tale
pattuizione porterebbe con sé il rischio che il beneficiario dell’accordo valuti con maggiore leggerezza l’ipotesi di
giungere ad una separazione, in ragione del ritorno economico che la fine del vincolo matrimoniale comporterebbe.
In conclusione può dirsi che, salvo qualche timida apertura da parte della dottrina e della giurisprudenza al tema dei
contratti prematrimoniali, si è ancora ben lontani da un loro riconoscimento pieno da parte del legislatore, il cui
intervento normativo è certamente auspicabile al fine di dirimere ogni questione controversa in tema di autonomia
contrattuale dei coniugi nella fase prematrimoniale.
d) Invalidità
1. Nullità
Sin qui si è fatto riferimento ai requisiti di validità di quegli accordi e di quei contratti con cui gli uniti civili o le parti di
un contratto di convivenza – ma anche gli sposi –, giuridicizzano alcuni frangenti del rapporto di coppia, prevedendo
prestazioni a carattere non patrimoniale o comunque non oggettivamente valutabile sotto il profilo economico.
Requisiti di validità, si è detto, sono il fatto che l’intesa non abbia ad oggetto una diminuzione permanente o una
completa rinuncia ad un diritto della personalità e che non contrasti altrimenti con la legge, l’ordine pubblico, il buon
costume, nei termini che sin qui si è tentato di evidenziare. La mancanza di questi requisiti dà luogo ad accordi
radicalmente nulli, come il contratto con cui uno dei soggetti uniti civilmente si obblighi a far ascoltare in viva voce e
per intero le sue telefonate private.
2. Annullabilità
Resta ora da chiedersi in che misura queste pattuizioni possano invece sopportare la presenza di vizi genetici senza
per questo risultare nulli. In altre parole: in che misura e per quali evenienze questi accordi sono annullabili?
E’ opportuno distinguere tra gli accordi aventi un contenuto patrimoniale, dove, come si è detto, le parti pongono in
essere un vero e proprio contratto a causa esistenziale, e gli accordi che invece prevedono l’istituzione di obblighi
reciproci, privi di ogni componente patrimonialistica, che vanno invece ricondotti alla categoria dei negozi giuridici di
diritto familiare.
Contratti esistenziali
Trattandosi di veri e propri contratti, non può che applicarsi in questo caso la disciplina del contratto in generale.
Sicché l’annullabilità del contratto deriva dai vizi della volontà (artt. 1427 ss), dall’incapacità d’agire del minore salvo
raggiri (artt. 2, 1425 co. 1 e 1426 c.c.), dall’incapacità naturale in caso di grave pregiudizio (artt. 428 e 1425 co. 2 c.c.).
Quanto all’applicabilità del rimedio dell’annullabilità in caso di contratto sottoscritto dal rappresentante in conflitto di
interessi (art. 1394 c.c.), questa è subordinata alla possibilità di applicare le regole sulla rappresentanza in caso di
contratti a causa esistenziale, attraverso cui si dispone in una certa misura dei diritti della personalità del
rappresentato.
Negozi giuridici di diritto familiare
E’ dubbio in che misura l’annullabilità prevista per il contratto e i negozi giuridici unilaterali sia applicabile ai negozi di
diritto familiare.
La dottrina tradizionale tende a ricostruire una disciplina peculiare del negozio giuridico familiare; tuttavia questa
specificità è ricollegata al fatto che i negozi giuridici tipici di diritto familiare esplicano i loro effetti sugli status
(adozione, matrimonio, unione civile, separazione, etc…) e la necessità di tutela del consenso si intreccia con
l’interesse pubblico alla stabilità degli status.
Queste esigenze di certezza non si rinvengono invece per gli accordi a carattere atipico di cui si è detto, con cui le parti
prevedono reciprocamente prestazioni a carattere meramente personale (ad es. il divieto di dire parolacce). In questi
casi sembra dunque assai più appropriato applicare in toto la disciplina del contratto in generale.
3. Collegamento negoziale con il negozio fondamentale e presupposizione
E’ di tutta evidenza come i patti che conformano il rapporto fondamentale non possano persistere al suo scioglimento;
le conseguenze sarebbero evidentemente parossistiche. In particolare non sembra che sia necessario un loro
scioglimento attivo da parte dei soggetti che l’hanno posto in essere: il loro venir meno non può che essere
automatico.
La ragione tecnico giuridica per cui questi accordi non resistono al venir meno del rapporto fondamentale sta in ciò: le
parti pongono in essere un vero e proprio collegamento negoziale, sicché il rapporto fondamentale e gli accordi
accessori simul stabunt vel simul cadent.
In particolare, il collegamento ha carattere necessario, cioè insito nella stessa funzione assolta dal negozio, che in
questo caso ha carattere conformativo del vincolo, e non semplicemente instaurato dai privati tra negozi di per sé
perfettamente autonomi.
Potrebbe altrimenti farsi riferimento all’istituto della presupposizione, in base a cui, pur in mancanza di un esplicito
riferimento al vincolo fondamentale, quello accessorio dovrebbe ritenersi subordinato al suo persistere.
Davide Bellia
Giulia Castiglioni
Santina Cucco
Mario Scarabelli