Affascinante Revillagigedo
Mondo sommerso: quattro isole messicane di origine vulcanica in pieno oceano
Pacifico tra squali martello e mante giganti
/ 17.10.2016
di Sabrina Belloni, foto di Franco Banfi
Le peculiarità e le funzionalità ambientali, in relazione con le conseguenti urgenze ed esigenze del
rafforzamento della loro tutela, talvolta vengono individuate in luoghi lontani dalle attività umane,
lontani dai centri abitati, laddove si pensa non siano necessari nostri interventi per preservarne la
funzione vitale. Talvolta, non solamente si ignora il valore ambientale di questi luoghi fisicamente
lontani, ma non si conosce nemmeno la loro l’esistenza. Giungervi significa anche intraprendere
viaggi interminabili.
Il nostro, di viaggio, è partito da un porto all’estremo meridionale della Baja California, in Messico.
Qui siamo saliti a bordo di una delle uniche tre imbarcazioni autorizzate a intraprendere una
traversata oceanica di 25 ore e a navigare nelle acque di una Riserva Marina della Biosfera
(riconosciuta dall’Unesco nel 2008) grande 636’685 ettari, da cui emerge l’arcipelago di
Revillagigedo, due sbuffi di nera lava vulcanica e due isole di candida pomice che il 16 luglio 2016
sono stati inseriti nei Patrimoni Naturali dell’umanità dalla commissione mondiale Unesco riunita a
Istanbul.
Un finis terrae dal fascino particolare che si erge minuscolo dall’immensità oceanica. Scogli di roccia
vulcanica dove non esiste alcuna pista di atterraggio, dove è proibito attraccare e scendere a terra,
dove tutto potremmo immaginare tranne che necessitino di una maggiore tutela, considerato che il
loro isolamento dovrebbe già essere una garanzia sufficiente di salubrità e di mancanza di
sfruttamento umano.
Scoperti nel 1533 dal conquistatore Fernando de Grijalva, restarono isolati dal resto del mondo e
privi di interesse sino al 1957, quando il governo messicano decise di insediare pochi militari della
Marina messicana sull’isola di Socorro. Una decina di uomini pressoché abbandonati a loro stessi nel
bel mezzo dell’Oceano Pacifico, per presidiare e tutelare l’unicità di una vasta area marina che già
nel 1994 fu riconosciuta Area Naturale Protetta.
I due scogli e le due isole costituiscono i quattro apici emersi di un arco insulare sommerso, parte di
una conformazione vulcanica denominata Las Montañas de los Matematicos, che insieme all’isola di
Malpelo, alle isole Cocos e alle Galapagos, delimitano un’area oceanica nota come Triangolo del
Pacifico Orientale. Grazie alle correnti che vengono rimbalzate e deviate dalle catene montuose
sommerse e alla massa di nutrienti che vi convergono, sono un cosiddetto hot-spot dell’ecosistema
subacqueo: dall’organismo più piccolo (il plancton), ai pesci più grandi (squali e mante), compresi gli
immensi mammiferi marini (megattere e delfini) si riuniscono in questi luoghi, dove i fianchi delle
montagne sommerse sono gli unici corpi solidi nell’immensità liquida dell’oceano.
L’isolamento in cui è rimasta quest’area sino nella seconda metà del Novecento ha favorito lo
sviluppo di condizioni ideali affinché l’arcipelago divenisse un paradiso tranquillo e, nominalmente,
inviolabile. Anni orsono, però, l’industria ittica si accorse dell’immensa ricchezza nascosta in queste
acque e alcuni pescherecci furono scoperti a effettuare illegalmente una pesca intensiva. Un video
girato da un subacqueo americano mostrò le agonie delle mante oceaniche intrappolate nelle reti
derivanti e le centinaia di squali issati a bordo dei pescherecci. Questo documento fu presentato alle
autorità messicane e mostrato al pubblico americano. Fu l’inizio di una campagna ambientalista che
portò all’inasprimento delle pene e delle sanzioni per chiunque procuri un danno o la morte delle
specie a rischio nelle acque messicane. Questa campagna sfociò nell’istituzione dell’area naturale
protetta, ora Riserva della Biosfera.
Le azioni di tutela profuse dal modesto insediamento della marina militare sono rafforzate dalla
stretta cooperazione con le sole tre imbarcazioni dedite al turismo subacqueo che sono autorizzate a
entrare nelle acque della riserva. Questa cooperazione tacita ed efficace è uno dei cardini su cui si
basa la tutela di un ecosistema che – seppur violato ripetutamente – è ancora uno dei più salubri e
completi.
Il materiale fotografico e video che continua ad essere realizzato dai subacquei è ampiamente
diffuso dai media del settore, e ogni settimana i social network pubblicano nuova documentazione:
tutto ciò ha diffuso nel pubblico interessato l’urgenza della tutela di questo splendido ecosistema.
Sono trascorse venti ore da quando abbiamo mollato gli ormeggi e lo sciabordio delle onde
oceaniche contro lo scafo ricorda che la navigazione non è ancora terminata. Il volo dei gabbiani e
delle sule sopra il ponte dell’imbarcazione si fa sempre più insistente, segno inequivocabile che ci
stiamo avvicinando alla nostra meta: l’isola di San Benedicto che con l’Isola Socorro, lo scoglio di
Roca Partida e Clarion (la più lontana e irraggiungibile) compongono le uniche terre emerse, distanti
400 chilometri da Cabo San Lucas (all’estrema punta sud della Baja California) e da 720 a 970
chilometri da Manzanillo (sulla costa occidentale messicana). Ancora poche ore e poi ci
immergeremo in questo ecosistema cruciale per la sopravvivenza di predatori al vertice della catena
alimentare (molte specie di squali) e che ospita la più grande aggregazione di mante oceaniche,
inclusa la variante più rara, di colore completamente nero.
Le mante oceaniche di Socorro sono una colonia residente di oltre cento unità. È una delle colonie
più numerose dell’Oceano Pacifico, insieme a quelle delle Hawaii e dell’isola di Yap, in Micronesia.
Gli studi su questa popolazione furono iniziati dal Dr. Robert Rubin e da Karey Kumli del Pacific
Mexico Research Group, il cui lavoro ha portato poi all’inserimento dell’arcipelago di Revillagigedo
nell’elenco dei luoghi meritevoli della tutela UNESCO. Il lavoro condotto dal Pacific Mexico research
Group include il programma di foto-identificazione e studio delle mante oceaniche più completo al
mondo, che si basa su un archivio fotografico iniziato 38 anni orsono, di oltre 30mila immagini
inerenti più di 600 individui.
Le mante giganti sono considerate una specie vulnerabile, presenti nella Lista Rossa dello IUCN, sia
perché sono vittima di sistemi di pesca inappropriati e quindi vengono pescate accidentalmente dai
pescherecci intenti a pescare intensivamente altre specie ittiche (il cosiddetto bycatch), sia perché
sono cacciate dalle popolazioni asiatiche e africane per prelevare le branchie, un ingrediente
popolare nella medicina tradizionale cinese.
Contrariamente al pensiero comune, sino a pochi anni orsono, quando si riteneva che anche le mante
oceaniche fossero creature pelagiche, capaci di traversate epiche nell’immensità oceanica,
recentemente i ricercatori hanno chiarito che esse si raggruppano invece in determinate aree,
costituendo delle sub-popolazioni, da cui non si allontanano sensibilmente. Queste popolazioni locali,
isolate, se prese di mira da una pesca intensiva rischiano il collasso, poiché le mante oceaniche
hanno un tasso riproduttivo molto basso e una lunga gestazione, che ne fa una specie a rischio
estinzione. Paradossalmente, questa caratteristica può anche tramutarsi in un vantaggio, poiché è
più agevole circoscrivere aree piccole densamente popolate di mante e assoggettarle a una stretta
tutela.