STORIA DELLA FISICA DELLE
PARTICELLE ELEMENTARI
I. I raggi cosmici
Prof. Attilio Maccari
Via Alfredo Casella 3
00013 Mentana RM
E-mail: [email protected]
1. Introduzione
La fisica delle particelle elementari nasce nei primi anni del XX secolo dallo studio dei raggi
cosmici e della loro interazione con la materia [1]. Seguiremo l’avventura dei raggi cosmici a
partire dalla loro scoperta (§ 2) e, attraverso una rapida carrellata, affronteremo la controversia scientifica, degli Anni Venti del secolo scorso, sulla natura della radiazione (fotoni o particelle cariche) (§ 3), la scoperta del mesone (§ 4), la teoria di Yukawa che prevedeva
l’esistenza di una nuova particella associata alla forza nucleare (§ 5), la determinazione della
vita media del mesone, soprattutto attraverso l’esperimento di Conversi, Pancini, Piccioni, che
ha definitivamente escluso che il mesone scoperto potesse essere la particella di Yukawa (§
6), la scoperta del pione, una particella con caratteristiche identiche a quelle richieste da Yukawa, (§ 7) ed infine la scoperta delle particelle strane, l’ultimo grande contributo dei raggi
cosmici alla fisica delle particelle elementari (§ 8). La storia dei raggi cosmici fornirà
l’occasione per alcune considerazioni sul ruolo che l’utilizzazione di un modello teorico,
l’introduzione di nuovi strumenti o, più semplicemente, il caso svolgono nella scoperta scientifica.
Prima di iniziare, è utile ricordare che, in base alla celebre relazione di Einstein, E=mc2,
sull’equivalenza fra massa e energia, per creare una particella di data massa m, occorre almeno una energia data da mc2, dove c è la velocità della luce. Inoltre, risulta utile misurare la
massa di una particella direttamente in termini dell’energia ad essa equivalente, secondo la relazione di Einstein. Per esempio, occorre un fotone di energia maggiore di un MeV (= un milione di elettronvolt, essendo l’elettronvolt, circa 1.6 .10 −19 joule, l’energia acquistata da un
elettrone accelerato dalla differenza di potenziale di un volt) per produrre una coppia elettrone-positone, la cui massa totale equivale appunto a circa un MeV, mentre per la fotoproduzione di un pione occorre almeno un fotone di 140 MeV, pari alla massa del pione stesso.
2
2. La scoperta dei raggi cosmici
Alla fine dell’Ottocento, H. Becquerel aveva scoperto che l’uranio radioattivo ionizza
l’atmosfera, rendendola, quindi, conduttrice di elettricità. Un elettroscopio carico situato nelle
vicinanze di un materiale radioattivo si scarica rapidamente, proprio a causa della conduttività
dell’aria, causata dalla radioattività [2].
Ben presto, J. Elster, H. Geitel ed altri sperimentatori scoprirono che gli elettroscopi si scaricano anche lontano dalle sorgenti radioattive e che un elettroscopio presenta sempre una scarica residua, anche se più piccola, quando viene schermato con delle lastre metalliche [3]. E.
Rutherford e H. L. Cooke non riuscirono ad eliminare la scarica residua, neanche utilizzando
una schermatura di cinque tonnellate di piombo [4]. Inizialmente, si pensò che la causa fosse
lo sfondo della radioattività naturale terrestre, per cui, eseguendo gli esperimenti ad altezze
sempre più elevate, il fenomeno sarebbe diminuito fino a scomparire [5].
Una svolta decisiva si ebbe con l’invenzione, da parte del padre gesuita Theodor Wulf, di un
elettroscopio particolarmente sensibile, l’elettrometro bifilare, che permise una misura più
precisa della scarica residua di un elettroscopio. Il dispositivo consiste in una scatola, collegata a massa, all’interno della quale sono posti due fili di platino estremamente sottili, fissati ad
un cerchietto isolante di vetro di silice. I due restanti capi del filo sono saldati ad una bacchetta metallica, mentre una vite consente di regolare la tensione dei due fili. Se si applica una differenza di potenziale elettrico fra scatola e fili, si osserva una repulsione fra i fili,
proporzionale alla carica presente sui fili stessi. La misura della distanza fra i fili permette di
risalire alla carica. Infine, mediante una curva di taratura, la distanza viene collegata alla ddp
(sono possibili misure fino a circa 200 volt) [6].
3
Per verificare l’ipotesi della radioattività terrestre come causa della scarica residua, a partire
dal 30 marzo 1910, T. Wulf eseguì degli esperimenti, a Parigi, sulla cima della Torre Eiffel, a
300 metri di altezza, per misurare l’elettricità atmosferica con i suoi sensibili strumenti. Poiché a terra si misuravano circa 6 .10 6 ioni/m3, a 300 metri di altezza la densità di ioni doveva
essere praticamente zero, ovviamente se la scarica residua fosse dovuta alla sola radioattività
terrestre.
Il risultato fu inatteso e sorprendente: gli elettroscopi continuavano a scaricarsi rapidamente,
la densità di ioni misurata era di 3.5 .10 6 ioni/m3, l’ipotesi della radioattività terrestre doveva
considerarsi invalidata e quindi doveva esistere, come affermò subito Wulf, “un’altra sorgente nelle parte più esterna dell’atmosfera”[7].
Nel giro di pochi anni vennero realizzati esperimenti simili in varie parti del mondo, utilizzando per lo più l’elettrometro bifilare di Wulf, allo scopo di verificare come la scarica residua dipendesse dalla latitudine e dall’altezza rispetto al livello al del mare. Per esempio, durante la tragica spedizione polare dell’esploratore Robert F. Scott (1911-1912), vennero effettuate misure di scarica residua nel continente antartico [8].
L’unico mezzo disponibile per effettuare esperimenti ad alte quote era il pallone aerostatico,
ma esisteva il grave pericolo di esplosioni dell’idrogeno, il gas che serviva per gonfiare il pallone, ed infatti i primi tentativi fallirono [9]. L’impresa riuscì a Victor Hess che, nel 1911-13,
realizzò una decina di ascensioni con palloni aerostatici, che lo portarono a delle importanti e
sorprendenti conclusioni: la scarica residua diminuisce fino ad un’altezza di 600 m, per poi
aumentare nuovamente, fino a un fattore 3-4 a 5000 m.
I raggi penetranti, come allora venivano chiamati, devono provenire dall’alto. Inoltre, il fenomeno non è influenzato dal Sole, perché non dipende dall’alternanza giorno-notte o dalle
eclissi, quindi deve avere origine al di fuori del sistema solare [10].
4
Le reazioni iniziali di buona parte della comunità scientifica non furono però entusiaste e molti critici cercarono di spiegare i suoi risultati con malfunzionamenti degli strumenti, con effetti
della bassa pressione atmosferica oppure con effetti elettrici propri delle alte quote [11].
Il 28 giugno 1914 (lo stesso giorno dell’assassinio dell’Arciduca d’Austria, che avrebbe scatenato la Prima Guerra Mondiale), Werner Kolhorster confermava definitivamente i risultati
di Hess, con una ascensione fino a 9000 metri, dove la ionizzazione atmosferica si rivelò dodici volte più grande rispetto al livello del mare [12].
L’esistenza di una radiazione penetrante proveniente dallo spazio era ormai accertata al di là
di ogni ragionevole dubbio e si poneva il problema dell’esatta natura di tale radiazione, in particolare bisognava stabilire se la radiazione fosse costittuita da fotoni oppure da particelle cariche.
5
3. I raggi cosmici: fotoni o particelle cariche?
Dopo la Prima Guerra Mondiale, la ricerca sulla natura dei raggi cosmici riprese in Europa,
ma anche in USA, dove ancora non si era convinti dell’esistenza stessa dei raggi cosmici. Robert A. Millikan (Premio Nobel 1923 per la determinazione della carica dell’elettrone) decise
di usare dei palloni aerostatici, con una strumentazione molto leggera e senza equipaggio, in
modo da poter raggiungere alte quote senza pericolo.
Nel 1922 i suoi palloni raggiunsero l’altezza di 15000 m, dove venne registrato un ritmo di
scarica talmente basso che Millikan, confortato anche dai risultati di un altro esperimento effettuato in montagna a 4300 metri di altezza, arrivò alla conclusione che la radiazione cosmica
in realtà non esiste [13].
Nacque allora una disputa fra i ricercatori europei, con in prima fila ovviamente Hess e Kolhorster, che continuavano a sostenere la validità dei loro esperimenti. Lo stesso Kolhorster realizzò un altro esperimento a supporto delle sue idee [14].
Si era quindi giunti ad un punto di stallo, apparentemente insuperabile, quando, nel 1925, Millikan allestì una nuova tornata di esperimenti. Convinto che, se esistono, i raggi cosmici devono essere raggi gamma provenienti dalle stelle, Millikan scelse per le misure due laghi nella
catena di San Bernardino nella California meridionale: il lago Muir, 3600 metri s.l.m., e il lago Arrowhead, 1600 metri s.l.m.. Secondo Millikan, la differenza in altezza corrisponde ad
1,8 metri d’acqua, perché l’acqua è 116 volte più densa dell’aria e l’assorbimento dei fotoni è
proporzionale alla densità del mezzo attraversato. Se quindi si effettuano misure sulle rive del
lago Arrowhead e 1,8 metri sotto il livello dell’acqua del lago Muir, si dovrebbero riscontrare
gli stessi livelli di elettricità. Le misure confermarono questa ipotesi e Millikan, rovesciando
la sua precedente posizione, ne trasse la convinzione che i raggi cosmici esistessero effettiva6
mente e fossero fotoni provenienti dallo spazio interstellare, creati da processi di fusione nucleare (l’appellativo “raggi cosmici” è dovuto proprio a Millikan) [15].
Millikan fu in grado di integrare i suoi esperimenti all’interno di un quadro teorico coerente e
ampio, tanto che ad un certo punto sembrò che i raggi cosmici fossero stati completamente
spiegati e non ci fosse bisogno di ulteriori indagini.
Questo esperimento di Millikan si presta ad interessanti considerazioni, se si premettono le
seguenti osservazioni: i) i suoi strumenti non erano molto sensibili, altrimenti avrebbero registrato un diverso livello di elettricità nei due laghi; ii) non è esatta la proporzionalità fra densità e assorbimento dei raggi gamma; iii) i raggi cosmici non sono raggi gamma.
L’interpretazione data da Millikan al suo esperimento era condizionata da una teoria errata,
ma ciò nonostante le sue conclusioni sono logicamente corrette, una volta assunta la validità
della teoria. D’altra parte, per poter essere in grado di trarre conclusioni significative da un
esperimento, e a maggior ragione per i complicati esperimenti tipici della fisica delle alte energie, bisogna sempre disporre di un una teoria, altrimenti si rischia di non capire nulla.
A dimostrazione di quest’ultima affermazione, vedremo come, in occasione della scoperta del
mesone da parte di C. D. Anderson e S. H. Neddermeyer, nel 1937, molti sperimentatori avessero già osservato il mesone nei raggi cosmici, senza dargli la minima importanza, considerandolo semplicemente un fenomeno spurio. Bisogna quindi sapere ciò che si vuole scoprire,
prima ancora di scoprirlo effettivamente. Una rimozione ancora più eclatante ed imponente si
è verificato nella scoperta del caos nella fisica classica, dove per decenni generatori di ricercatori hanno semplicemente ignorato i loro dati, nel momento in cui suggerivano un comportamento caotico, perché tutti sapevano che la fisica classica è determinista e quindi il caos è impossibile.
Dopo l’esperimento dei due laghi, Millikan, con l’aiuto della stampa americana, si impelagò
in una polemica su chi fosse stato il primo a provare l’esistenza dei raggi cosmici, ma nel
7
1936 il Premio Nobel a Victor Hess mise definitivamente fine alla disputa [16-17]. Evidentemente prima della Seconda Guerra Mondiale, il Comitato per l’Assegnazione dei Premi Nobel
non aveva ancora quella preferenza verso i ricercatori americani, che lo ha contraddistinto in
seguito (e che ha portato per esempio alla non assegnazione del Nobel a personaggi come
Bruno Rossi o Marcello Conversi, che pure, come vedremo, hanno realizzato esperimenti decisivi proprio nel campo dei raggi cosmici).
L’invenzione di un nuovo strumento, il contatore Geiger-Muller, permise un ulteriore salto di
qualità agli esperimenti e portò ben presto a sollevare seri dubbi sull’ipotesi di Millikan. Il dispositivo è costituito da un tubo attraversato al suo interno da un sottile filo. Fra il tubo (negativo) e il filo (positivo) esiste una forte tensione, così che se una particella carica attraversa il
tubo, grazie alla sua energia, riesce a espellere elettroni dagli atomi del gas presente nel tubo.
Questi elettroni a loro volta ionizzano altri atomi, provocando la fuoriuscita di ulteriori elettroni, che vengono raccolti sul filo, dove creano un aumento di corrente facilmente registrabile.
Nel 1929 W. Kolhorster e W. Bothe impiegarono due contatori Geiger, uno sopra l’altro, e
registrarono le coincidenze dei due contatori, cioè quegli eventi nei quali i due contatori segnalano contemporaneamente il passaggio di una particella carica (naturalmente entro una
certa risoluzione temporale dipendente dall’elettronica impiegata nell’esperimento).
In una prima fase, attribuirono la coincidenza a un elettrone colpito da un raggio gamma con
energia sufficiente a passare in tutte e due i contatori. Per verificare definitivamente questa
ipotesi, inserirono fra i due contatori una lastra d’oro di cinque centimetri che, assorbendo gli
elettroni, avrebbe dovuto far sparire la coincidenza.
Contrariamente alle previsioni, la schermatura non riuscì ad eliminare il segnale, ma solamente ad attenuarlo del 25%. I due ricercatori ipotizzarono allora che i contatori stessero regi-
8
strando il passaggio del raggio cosmico vero e proprio, che doveva quindi essere una particella carica ad alta energia [18].
Millikan avanzò essenzialmente due obiezioni contro le conclusioni di Bothe e Kolhorster: un
raggio gamma poteva espellere un elettrone da un atomo sia nel primo che nel secondo contatore oppure, più probabilmente, erano stati rivelati degli elettroni secondari, molto energetici,
che passavano contemporaneamente per ambedue i contatori [19].
Era evidente che l’unico modo per risolvere definitivamente la questione era impiegare un
campo magnetico, per curvare la traiettoria delle particelle. Essendo la Terra stessa un grande
magnete, si doveva osservare, in base a calcoli dovuti a F. Stormer, un effetto latitudine, perché i raggi cosmici, se carichi, dovevano essere molto deviati all’equatore e assai poco in vicinanza dei Poli.
In particolare, Stormer aveva dimostrato che le particelle emesse nei brillamenti solari vengono deviate dal campo magnetico terrestre e portate ai poli, dando origine alle ben note aurore
boreali [20]. Lo stesso fenomeno dovrebbe osservarsi per i raggi cosmici, ovviamente solo se
sono particelle cariche.
Per capire meglio l’effetto latitudine dei raggi cosmici, occorrono alcune osservazioni. Come
è stato appurato successivamente, la radiazione cosmica primaria è formata da protoni (85%),
nuclei di elio (12%), elettroni (2%) e nuclei pesanti. Il loro spettro energetico ha la forma
N ( E ) = ( A + E ) −n
(3.1)
dove le costanti A e n variano nelle diverse regioni (n è vicino a 2 e A vale circa 2-3 se E è misurata in GeV). La Terra possiede un campo magnetico simile a quello di un dipolo magnetico
di 8 .1015 T.m3, che si estende fino a decine di raggi terrestri e quindi, a causa della forza di
Lorentz, anche particelle di bassa energia possono raggiungere i poli magnetici (dove se la velocità e il campo magnetico sono paralleli, la forza di Lorentz è nulla).
9
All’equatore, o nelle sue vicinanze, la forza di Lorentz è massima e la particella viene deviata
e può anche non raggiungere la Terra (ciò dipende dalla sua energia e latitudine geomagnetica). Si può ricavare l’impulso di taglio, pT ( λ ) , tale che per impulsi minori nessuna particella
che arriva perpendicolare riesce a raggiungere la Terra alla latitudine λ :
PT = 300(
Mz
) cos 4 λ ≈ 15z cos 4 λGeV / c .
2
4R
(3.2)
Da questa premessa, si capisce come fosse complicato trovare una risposta definitiva sulla natura dei raggi cosmici. I risultati degli esperimenti, svolti nelle varie parti del mondo, erano
pesantemente influenzate da fattori locali: Millikan nel 1926 non aveva trovato alcun effetto
latitudine nel suo viaggio in Bolivia, così come lo stesso Bothe alle isole Spitzbergen [21].
Intanto, lo sviluppo di cabine pressurizzate aveva reso possibile il volo umano e quindi la misura dell’intensità dei raggi cosmici ad alte quote: il 27 maggio 1931, Auguste Piccard e Charles Kipfer raggiunsero i 16 Km di altezza, ma il surriscaldamento della cabina rischiò di farli
morire [22]. Poco tempo dopo, tre ricercatori russi morirono in volo dopo aver raggiunto
l’altezza di 21 Km [23].
Nel frattempo, Arthur Compton, Premio Nobel nel 1927 per la verifica sperimentale
dell’ipotesi dei fotoni di Einstein, ed ex-allievo di Millikan, grazie ad un cospicuo finanziamento del Carnegie Institute di Washington, stava organizzando un esperimento più sistematico e particolareggiato sulla natura dei raggi cosmici. Suddiviso il mondo in 9 regioni, inviò
nel 1932 una spedizione di circa sessanta fisici per raccogliere dati sulla possibile esistenza
dell’effetto latitudine. Anche in questo caso si ebbero risvolti tragici: il fisico Allen Carpé,
dopo aver scalato le pendici del monte McKinley in Alaska, cadde in un crepaccio e morì, anche se a quanto pare le sue apparecchiature, con i dati registrati, vennero recuperate. Nel
complesso, i dati accumulati da Compton segnalavano senza ombra di dubbio la presenza
dell’effetto latitudine.
10
Nel frattempo, Millikan aveva ideato un nuovo tipo di elettroscopio, caratterizzato dalla robustezza di funzionamento (anche se, durante le prove, Millikan si procurò una cicatrice permanente).
Fu così che, nel settembre 1932, il suo assistente Henry V. Neher si imbarca da Los Angeles
verso il Perù, ma sia per malfunzionamenti degli strumenti sia per la presenza in Atlantico di
una zona particolare, una “piattaforma” dove la densità della radiazione è costante, non si accorge durante il viaggio di andata dell’effetto latitudine.
Il 14 settembre 1932, Compton annuncia i risultati dei suoi esperimenti: la radiazione cosmica
varia fortemente dal Polo all’equatore e, quindi, deve essere ritenuta formata da particelle cariche: “Se il Polo Nord magnetico esercita un’influenza sui raggi cosmici, allora devono avere una natura elettrica e non ondulatoria, come sostiene il Dr. Millikan. La differenza scoperta dai miei esperimenti sarà un duro colpo per il Dr. Millikan.” (Dal New York Times del 15
settembre 1932).
Millikan intanto, forte dei risultati negativi trasmessi da Neher, stava preparando il suo intervento al congresso annuale dell’American Association for the Advancement of Science, allo
scopo di attaccare duramente le idee di Compton. Tre giorni prima del suo intervento, però,
riceve un telegramma da Neher: VARIAZIONE SETTE PER CENTO VIAGGIO DI RITORNO STOP RIMASTA OCCULTA PRIMA PER SISTEMA GUASTO ET NAVI DIVERSE STOP NEHER [24].
Questa volta Neher non era passato per la “piattaforma” e gli elettroscopi avevano funzionato!
Millikan è costretto a rivedere completamente il suo intervento: critica ancora duramente
Compton, anche se finisce per riconoscere la natura corpuscolare della radiazione.
Resosi conto del suo sbaglio, Millikan invia una smentita al New York Times, che aveva riferito correttamente il suo intervento al congresso, e riscrive completamente il suo discorso per
la pubblicazione degli Atti del Congresso, nel tentativo di far sparire i pesanti attacchi a Com11
pton [25]. I risultati di Compton saranno confermati successivamente anche da Luis Alvarez,
che scoprirà inoltre la che la radiazione cosmica possiede una carica prevalentemente positiva.
Nello stesso periodo, anche in Italia, ad opera di Bruno Benedetto Rossi, Gilberto Bernardini
e Giuseppe Occhialini, presso il laboratorio di Arcetri, era iniziato lo studio della radiazione
cosmica [26].
Indipendentemente da Millikan, Compton e Alvarez, anche Rossi, qualche tempo dopo, aveva
organizzato una serie di esperimenti (uno fra l’altro ad Asmara in Eritrea) sulla radiazione cosmica, che dimostravano la presenza di un effetto globale del campo magnetico terrestre sulla
radiazione cosmica e quindi implicavano che quest’ultima fosse costituita almeno in parte di
particelle cariche.
12
4. La teoria di Yukawa delle forze nucleari
Nel 1935 Hidei Yukawa postula l’esistenza di una particella, di massa intermedia fra quelle
dell’elettrone e del protone, nel tentativo di spiegare, mediante una teoria quantistica di campo, la forza fra i nucleoni che li tiene legati all’interno del nucleo, nonostante la forza repulsiva che si esercita fra i protoni.
Già si conoscevano alcune proprietà fondamentali dell’interazione nucleare: il corto raggio
d’azione (circa 1 fm = un fermi = 10-15 metri), l’intensità circa cento volte maggiore rispetto a
quella elettromagnetica e la saturazione (l’energia di legame è proporzionale al numero dei
nucleoni e non al suo quadrato, perché i nucleoni risentono solo dell’attrazione dei nucleoni
più vicini).
Per ricostruire la storia della nascita della teoria di Yukawa, va notato che, poco tempo prima,
erano apparsi tre articoli di W. Heisenberg, nei quali si ipotizzava che l’interazione fra i nucleoni avvenisse mediante lo scambio di una sorta di strano elettrone senza spin. Heisenberg
interpretava il protone ed il neutrone come differenti stati energetici di una stessa particella,
detta appunto nucleone, che interagivano fra di loro scambiando una particella di carica negativa senza spin (protone e neutrone hanno infatti lo stesso spin) [27].
Yukawa, dopo aver tradotto in giapponese i lavori di Heisenberg, passò circa due anni a studiare il problema, perché da una parte non poteva usare l’immaginario elettrone senza spin e
dall’altra non voleva introdurre una nuova particella che nessuno conosceva:
“Dovevo seguire una strada sbagliata prima di poter giungere alla mia destinazione. Quelli
che esplorano un mondo sconosciuto sono come viaggiatori senza una mappa topografica; la
mappa è il risultato dell’esplorazione. Non sanno dove sia la loro destinazione e la strada diretta che lì arriva non è ancora stata tracciata” [28, pag. 194].
13
Finalmente, nell’estate del 1934 viene a conoscenza dell’articolo di E. Fermi sul decadimento
β [29] (con una vita media di circa un quarto d’ora, un neutrone decade trasformandosi in
protone, elettrone ed antineutrino),
n → p + e − +ν e .
(4.1)
Fermi, nel tentativo di arrivare ad una modellizzazione teorica dell’interazione debole, aveva
ripreso un’idea di tre anni prima di W. Pauli sull’esistenza di una particella neutra, chiamata
in seguito neutrino proprio su suggerimento di Fermi. L’introduzione del neutrino è dovuta al
fatto che l’elettrone non possiede una energia fissa, come sarebbe nel caso di un decadimento
a due corpi, ma variabile con continuità in un determinato intervallo.
Meditando sull’articolo di Fermi, nell’ottobre del 1934, Yukawa si rende conto di poter calcolare facilmente la massa della nuova particella, responsabile dell’interazione nucleare, e pubblica un articolo nei primi mesi del 1935 [30]. Introduce un nuovo campo (denominato U), al
quale deve evidentemente essere associato una nuova particella, il quanto U, così come al
campo elettromagnetico è associato il fotone. Il fatto che questa particella non sia ancora stata
scoperta viene spiegato da Yukawa con l’ipotesi che il quanto U sia instabile e decada in un
elettrone e un neutrino.
In questo modo Yukawa spiega anche il decadimento β , interpretandolo come l’emissione di
un quanto U da parte del neutrone che, successivamente, grazie all’interazione debole, decade
in elettrone e neutrino. Nell’articolo si trova anche un esplicito invito a cercare la nuova particella nei raggi cosmici.
In base al principio di indeterminazione di Heisenberg, in meccanica quantistica, è permessa
la non conservazione dell’energia e della quantità di moto, di una quantità rispettivamente
∆E e ∆p , purché la durata temporale e la dimensione spaziale del fenomeno soddisfino le relazioni
14
∆t ≈
∆E
, ∆x ≈
∆p
.
(4.2)
Si postula quindi l’esistenza di processi virtuali,
n → p +U − , p → n +U + , n → n +U 0 , p → p +U 0 ,
(4.3)
dove una forza di scambio (idea già usata in fisica atomica) provoca la trasformazione reciproca di protone in neutrone con scambio di quanti U, di energia ∆E ed impulso ∆p . Queste
particelle però in qualche caso possono sfuggire (la probabilità di fuga è proporzionale alla
costante di accoppiamento), decadendo in elettrone e neutrino e provocando quindi il decadimento β .
Secondo Yukawa, il nucleone deve essere pensato come circondato da una nube, dell’ordine
di grandezza del fermi, di particelle virtuali (i quanti U, denominati poi come vedremo mesoni
o mesotroni).
Assumiamo ora che un quanto U, di massa m, venga emesso da un determinato nucleone e
percorra una distanza L ≈ c∆t , raggio d’azione tipico della forza nucleare, prima di essere assorbito da un altro nucleone. In base alla (4.2), risulta che
mc
≈ 2 fm
(4.4)
ed un rapido calcolo mostra che la massa del quanto U deve essere circa 300 masse elettroniche.
Un altro modo, più formale, per arrivare allo stesso risultato è di partire dalla relazione relativistica fra energia E, quantità di moto p e massa a riposo m,
E 2 = ( pc ) + (mc 2 ) .
2
2
(4.5)
Con la sostituzione quantistica,
E →i
∂
∂
, p → −i
,
∂t
∂x
Yukawa arriva alla seguente equazione di campo
15
(4.6)
∆U −
1 ∂ 2U
= K 2U ,
c 2 ∂t 2
K=
mc
,
(4.7)
dove ∆ è l’operatore laplaciano. Nel caso statico, la soluzione è
U=
g
exp( − KR) ,
R
(4.8)
dove g è una costante collegata all’intensità della forza nucleare e K, il cui valore coincide con
la (4.4), è un parametro che misura il raggio d’azione dell’interazione e che deve essere uguale a circa un fermi (si noti infatti che se K=0 si ritrova la nota legge di Coulomb, che corrisponde al raggio d’azione infinito dell’interazione elettromagnetica).
L’articolo, pubblicato in una poco diffusa rivista giapponese, non suscitò particolare interesse.
Lo stesso Bohr, in visita in Giappone, a Yukawa che gli illustrava la sua nuova teoria, gli rispose se si divertisse tanto a creare nuove particelle.
Molti furono probabilmente i motivi che determinarono il disinteresse della comunità scientifica, e fra questi sicuramente non ci fu la non conoscenza dell’articolo, come talvolta si afferma, perché Yukawa si era premurato di inviarlo nei più importanti centri di ricerca. Va sottolineato invece che, a quel tempo, i fisici non avevano ancora imparato a prendere sul serio la
meccanica quantistica relativistica, cioè a indagare tutte le conseguenze del suo formalismo
matematico. Molti credevano che, alle alte energie, la meccanica quantistica non fosse più valida (adducendo a giustificazione gli infiniti che si presentano nello sviluppo perturbativo
dell’elettrodinamica quantistica) e dovesse essere sostituita da una nuova teoria, per esempio
procedendo alla quantizzazione anche dello spazio e del tempo, come credeva Heisenberg.
Ben presto però, proprio grazie agli sforzi degli sperimentatori della radiazione cosmica, la situazione sarebbe cambiata radicalmente e Yukawa avrebbe conosciuto un meritato successo.
16
5. Il mesone dei raggi cosmici
Per poter permettere al lettore di orientarsi nel vivace dibattito che negli Anni Trenta del XX
secolo si svolge intorno alla natura dei raggi cosmici, occorre estendere le considerazioni già
fatte nel § 3.
I raggi cosmici primari (che come abbiamo già detto sono formati essenzialmente da protoni e
nuclei di elio) urtano le molecole dell’aria e creano la cosiddetta componente secondaria, essenzialmente pioni di massa circa 270 masse elettroniche, particelle soggette all’interazione
nucleare e quindi assimilabili al quanto U previsto da Yukawa. I pioni esistono in tre tipi, positivo, π + , negativo, π − , e neutro, π 0 .
I pioni hanno una velocità vicina a quella della luce (la radiazione primaria ha energie medie
intorno al GeV) e decadono rapidamente, senza praticamente raggiungere il livello del mare.
Il pione neutro decade in due fotoni,
π 0 → 2γ , (vita media circa 10-16 secondi),
(5.1)
i pioni carichi in un muone (una sorta di elettrone pesante non soggetto quindi all’interazione
forte) e in un neutrino (detto muonico, perché diverso da quello del decadimento β ),
π + → µ + + ν µ , π − → µ − + ν µ , (vita media circa 2.6 10-8 secondi).
(5.2)
A sua volta il muone (massa circa 207 volte la massa elettronica) decade in un elettrone e in
due neutrini, ma con una vita media molto più lunga di quella del pione,
µ − → e − + ν µ + ν e , µ + → e + + ν µ + ν e , (vita media circa 2.2 10-6secondi).
(5.3)
I muoni riescono a raggiungere il livello del mare senza decadere, perdendo energia solo per
ionizzazione degli atomi che incontrano nel loro cammino, essendo trascurabile la perdita di
energia per irraggiamento fino ad energie del muone dell’ordine di centinaia di GeV.
Arrivati al livello del mare, i muoni formano la cosiddetta componente dura della radiazione,
perché possono penetrare notevoli spessori di materia prima di decadere secondo la (5.3).
17
Invece, i fotoni provenienti dal decadimento del π 0 formano, mediante la creazione di coppie
elettrone-positone, una cascata elettrofotonica che raggiunge il massimo a circa 15 km di quota e al livello mare rappresenta il 25% della radiazione cosmica totale, dando origine alla cosiddetta componente molle (assorbita da alcuni centimetri di piombo). Si noti che, a differenza dei muoni, gli elettroni perdono energia soprattutto per irraggiamento.
In conclusione, al livello del mare la radiazione cosmica è formata da elettroni, muoni, neutrini e fotoni, mentre ad alta quota ci sono pioni, protoni, neutroni più varie altre particelle esotiche di cui ci occuperemo in seguito.
Ovviamente di tutto questo non si sapeva nulla all’inizio degli Anni Trenta, visto che era appena stato appurato che la radiazione cosmica non era formata da fotoni ma da particelle cariche (§ 3) e le considerazioni di Yukawa non aveva incontrato praticamente alcun interesse (§
4).
Proprio in quegli anni, tuttavia, grazie all’impiego di contatori Geiger-Muller accoppiati ad
una elettronica che permetteva di misurare le coincidenze entro brevi intervalli temporali,
Rossi, insieme con i suoi collaboratori, aveva determinato, nel laboratorio di Arcetri, la distinzione fra componente molle e dura della radiazione, anche se naturalmente ancora nulla di
certo si poteva dire sulla loro costituzione. In una vivace e attenta ricostruzione storica [31],
Rossi racconta lo stupore nell’osservare per la prima volta un mondo completamente nuovo,
fatto di particelle cariche dotate di altissima energia e capaci di penetrare, con debole attenuazione, un metro di piombo e di creare nell’interazione con la materia moltissime altre particelle ignote (questo stupore o meglio incredulità deve aver colpito anche i referee di una prestigiosa rivista di fisica che respinsero un articolo di Rossi relativo a queste scoperte!).
Nel frattempo, il 2 agosto 1932, C. D. Anderson, utilizzando una camera a nebbia in cui era
inserita una lastra di piombo di 0,6 centimetri ed era presente un campo magnetico per incurvare le traiettorie delle particelle, aveva sperimentalmente confermato l’ipotesi di P. A. M. Di18
rac sull’esistenza del positone, l’antiparticella dell’elettrone [32]. Dalla misura del raggio di
curvatura e della perdita di energia nell’attraversare il piombo, si poteva risalire alla massa
(Anderson trovò un limite superiore di addirittura venti masse elettroniche, ma le misure successive hanno confermato l’uguaglianza fra la massa dell’elettrone e del positone).
Contemporaneamente, P. M. S. Blackett e G. Occhialini, sempre con una camera nebbia immersa in un campo magnetico, ma comandata dalla coincidenza di tre contatori GeigerMuller, avevano osservato i primi esempi di produzione di coppie elettrone-positone [33],
γ + N → e+ + e− + N ,
(5.4)
dove N indica un nucleo generico, indispensabile per assicurare la conservazione dell’energia
e della quantità di moto.
Alla Conferenza Internazionale di Fisica, tenuta a Londra nel 1934, venne fatto il punto della
situazione. Ormai era chiara sia l’esistenza delle due componenti, dura e molle, che la grande
quantità di energia delle radiazioni, ma ancora non si capiva chiaramente la natura della componente dura.
C’era chi ipotizzava che la componente dura fosse costituita da elettroni molto energetici e
che quindi alle alte energie l’elettrodinamica quantistica non fosse più valida (secondo questa
teoria infatti anche elettroni molto energetici non potrebbero avere un grande potere penetrante, come invece è il caso per la componente dura). Si riteneva che, quando l’energia
dell’elettrone raggiunge il valore
E = (1 / α )me c 2 ≈ 137me c 2 ,
(5.5)
dove me è la massa dell’elettrone, l’elettrodinamica quantistica non fornisse più previsioni affidabili. (Si ricordi che, all’epoca, esisteva il problema degli infiniti nello sviluppo perturbativo della teoria e la maggior parte dei fisici era convinta che, ad alte energie, fosse necessaria
una teoria nuova che sostituisse la meccanica quantistica [34]).
19
Anderson e Neddermeyer dal 1934 al 1936 condussero una serie di esperimenti con una camera a nebbia, comandata da contatori Geiger-Muller in coincidenza, posta in un campo magnetico e con la solita lastra metallica al centro. Misurando la perdita di impulso attraverso la
lastra, scoprono due distinte componenti: gli elettroni, con perdite di impulso proporzionali
all’impulso stesso, perché perdono energia soprattutto per irraggiamento, data la loro alta velocità, e un’altra componente formata da particelle di energia circa un GeV, che presenta perdite costanti al variare dell’impulso. Questa seconda componente aveva tutta l’apparenza di
essere costituita da particelle di massa pari a circa trecento masse elettroniche, perché solo in
questo modo si poteva spiegare la loro caratteristica perdita di energia,
Tuttavia, J. R. Oppenheimer sconsigliò i due ricercatori, affermando che probabilmente si
trattava solo elettroni veloci, che, a causa della loro grande energia, non seguivano le predizioni dell’elettrodinamica quantistica. Fu così che, nell’agosto 1936, Anderson e Neddermeyer pubblicano la loro ricerca, senza avanzare alcuna nuova ipotesi interpretativa, perché, cedendo alle idee allora prevalenti fra i fisici teorici, si riteneva che mancasse ancora una teoria
adeguata per le alte energie [35].
L’importanza dell’articolo non sfuggì comunque a Yukawa, che interpretò quei risultati come
una possibile prova dell’esistenza del suo quanto U, spronando i gruppi sperimentali giapponesi a ripetere l’esperimento, per arrivare ad una prova più chiara e definitiva. Fu in questo
modo che il Laboratorio Riken, guidato da Y. Nishina, si mise all’opera, ricorrendo anche
all’aiuto della Marina Imperiale Giapponese. Il Laboratorio Riken era una istituzione privata,
che si reggeva essenzialmente con i brevetti ottenuti dai suoi ingegneri per la distillazione del
saké, la bevanda nazionale giapponese. Nell’estate del 1937, si riuscì ad ottenere una singola
fotografia utile, grazie alla quale fu stimata una massa per la nuova particella fra 180 e 300
masse elettroniche.
20
Intanto Anderson, recatosi al MIT ad Harvard, aveva incontrato due fisici (J. C. Street e E. C.
Stevenson) che avevano ottenuto risultati simili ai suoi e, temendo di essere anticipato, decise
di rompere gli indugi e di pubblicare la nuova scoperta: “Esistono particelle di carica unitaria ma di massa (che potrebbe non possedere un valore unico) maggiore rispetto a quella di
un elettrone libero e molto minore di quella di un protone” [36]. Si noti che questa affermazione equivale a postulare la validità dell’elettrodinamica quantistica anche alle alte energie,
dove per molti teorici, come abbiamo già detto, la sua applicazione era molto dubbia. I dati
sperimentali di Anderson e Neddermeyer costituivano una scoperta solo all’interno di un quadro teorico ben preciso, perché in mancanza di una teoria i dati sperimentali non avevano una
interpretazione univoca.
Poco dopo apparve anche l’articolo del gruppo di Harvard: Street e Stevenson avevano usato
una camera di Wilson, comandata da contatori Geiger-Muller in anticoincidenza, posta in un
campo magnetico, ed espansa con ritardo di circa un secondo, per permettere la formazione
ottimale delle goccioline e quindi poter misurare la perdita per ionizzazione. Anche i giapponesi avevano inviato un articolo alla Physical Review, che però venne respinto con la motivazione che era troppo lungo e andava riscritto. In questo modo i tempi della pubblicazione si
allungarono ed il loro articolo apparve dopo quelli dei due gruppi americani [37].
La notizia della scoperta fece ovviamente grande scalpore nella comunità scientifica e si venne ben presto a scoprire che altri gruppi avevano osservato la nuova particella negli anni precedenti, ma non erano stati in grado di interpretare i loro dati sperimentali [38].
Inoltre, si capì ben presto che la particella è instabile, perché se ne trovavano di meno al livello del mare (N(0)) che non ad alta quota (N(h)). Se infatti l’esperimento veniva eseguito ad
una quota h inserendo uno strato di piombo equivalente, in termini di perdita di energia per
ionizzazione, alla colonna d’aria presente fino al livello del mare, si otteneva un numero N’(h)
superiore a N(0).
21
Nel frattempo alcuni lavori teorici avevano chiarificato le caratteristiche della forza nucleare
[39]. Neutroni e protoni potevano essere visti come stati energetici diversi di una stessa particella, il nucleone, perché la forza nucleare risulta identica per le coppie protone–protone, neutrone–neutrone e protone–neutrone. Questa proprietà fisica veniva tradotta nel formalismo
dello spin isotopico o isospin. Si suppone l’esistenza di una nuova grandezza fisica vettoriale,
l’isospin, I , che rimane costante durante le interazioni nucleari. Al protone venivano associati i numeri quantici I = 1 / 2, I z = 1 / 2, (componente lungo l’asse z dell’isospin), ed al neutro-
ne i numeri quantici I = 1 / 2, I z = −1 / 2 .
Il concetto di isospin verrà subito usato per inquadrare teoricamente la nuova scoperta, perché
proprio a questo punto avviene l’incontro fra una teoria della forza nucleare in cerca di una
particella di massa intermedia ed una scoperta sperimentale, in attesa di chiarificazione teorica. Mentre H. Kulenkampff propone esplicitamente l’identificazione con la particella di Yukawa, N. Kemmer si spinge oltre e ipotizza che la nuova particella debba avere uno spin isotopico I=1, con I z = 0,±1 , ognuno dei quali corrispondente ai tre tipi di particella necessari
(neutro, positivo e negativo). Ben presto tale ipotesi veniva accettata ed anche Neddermeyer e
Anderson, ma con una certa prudenza, propendevano per questa identificazione. Lo stesso
Oppenheimer accettava la proposta, rovesciando quindi la posizione tenuta soltanto due anni
prima [40]. La particella, se positiva, appariva decadere in un positone ed un neutrino, altrimenti, se negativa, in un elettrone ed un neutrino (ricordiamo che non era ancora stata stabilita
la distinzione fra neutrino ed antineutrino) [41].
Va notato che il fisico svizzero E. C. G. Stuckelberg aveva sviluppato delle idee simili a quelle di Yukawa, ma era stato dissuaso da Pauli dal pubblicarle, per poi cambiare ovviamente idea dopo la scoperta di Anderson e Neddermeyer [42].
Per quanto riguarda il nome della nuova particella, Neddermeyer e Anderson avevano in un
primo tempo pensato a mesotone, ma su suggerimento di Millikan decisero di mutarlo in me22
sotrone [43]. Al Congresso di Chicago nel 1939 viene messo ai voti il nome più adatto per il
quanto U e mesotrone e mesone risultarono vincenti, anche se dopo la Seconda Guerra Mondiale il nome mesone finirà per imporsi.
Nel 1938 W. Heisenberg e H. Euler cercarono di giungere a una teoria soddisfacente dei mesoni, ipotizzando che venissero creati ad alta quota, dagli urti della radiazione primaria. Successivamente, arrivavano a livello del mare e, colpendo le molecole dell’aria, espellevano gli
elettroni che formavano la componente molle [44]. Nel giro di pochi anni, però, si scoprirà
che la situazione non era così semplice e che l’identificazione del quanto U di Yukawa con il
mesone di Anderson e Neddermeyer era errata.
23
6. La vita media del mesone
La prima misura diretta della vita media del mesone viene realizzata da P. Rasetti, nel 1941
[45]. Se il mesone possiede una vita media τ , allora il numero di mesoni ad un generico istante t sarà
t
N (t ) = N (0) exp( − ) ,
τ
(6.1)
dove N(0) è il numero di mesoni nell’istante iniziale. Ma nel tempo t, il mesone avrà percorso
una distanza, nell’approssimazione non relativistica,
l=
pt
,
m
(6.2)
per cui la (6.1) diventa
N (l ) = N (0) exp −
ml
.
pτ
(6.3)
Si deve comunque anche tener conto di un fattore correttivo, dovuto alla perdita di energia per
ionizzazione. Misurando l’attenuazione N(l)/N(0) e conoscendo la velocità del mesone si può
risalire alla vita media, ma Rasetti elabora un metodo di misura più elegante, che ora descriveremo nelle linee essenziali.
Utilizzando come assorbitore l’alluminio o il ferro, con una opportuna disposizione di contatori tutto intorno all’assorbitore, in modo da segnalare l’arrivo del mesone e l’emissione di elettroni del decadimento, Rasetti si avvale di una elettronica che gli permette di scegliere tre
diversi intervalli temporali θ 1 , θ 2 , θ 3 , entro i quali accettare i segnali dei contatori. In base
alla (6.3) si ottiene facilmente, se θ 3 >> θ 1 ,θ 2 ,
e
R=
e
−
−
θ1
τ
θ2
τ
−e
−e
−
θ3
τ
−
θ3
τ
24
∆θ
≈eτ ,
(6.4)
da cui
τ=
∆θ
.
log(R )
(6.5)
Rasetti sceglie θ 1 = 0,95µs , θ 2 = 1,95µs , θ 3 = 15µs e, dalle sue misure, ricava, per la vita
media del mesone, τ = (1,5 ± 0,3)µ s .
Un altro importante contributo alla determinazione della vita media del mesone viene da Rossi che, nel frattempo, nel 1938, a seguito delle leggi razziali, aveva deciso di abbandonare
l’Italia e nel luglio si era trasferito a Chicago, su invito di Compton.
25
In collaborazione con N. Nereson, Rossi, che già nel 1939 aveva eseguito una prima stima
sperimentale della vita media del mesone, escogita un metodo per misurare il tempo fra
l’arresto nell’assorbitore e l’emissione dell’elettrone del decadimento, utilizzando un
convertitore tempo-ampiezza, che fornisce un segnale proporzionale al tempo di ritardo
dell’emissione. In questo modo ottiene una vita media τ = (2,15 ± 0,10)µ s , dove l’errore statistico è dovuto al numero limitato di eventi [46].
Se, però, si voleva veramente dimostrare che il mesone fosse il quanto U di Yukawa, bisognava dimostrare la differenza di comportamento fra il mesone positivo e quello negativo. Il
mesone positivo, infatti, dopo essersi termalizzato, viene respinto dai nuclei atomici e ha tutto
il tempo di decadere emettendo un positone. Il mesone negativo, al contrario, dovrebbe essere
attratto dal nucleo e formare un atomo mesico, in cui cioè il mesone occupa il posto di un
elettrone. Il mesone si porta, quindi, al livello energetico più basso, di raggio
R=
2
Zme 2
,
(6.6)
dove Z è il numero atomico dell’atomo ed m la massa del mesone. Utilizzando la meccanica
quantistica, si vede che il mesone ha una certa probabilità di trovarsi nel nucleo e quindi di essere catturato dal nucleo stesso. S. Tomonaga e G. Araki nel 1940 mostrarono che il mesone
negativo dovrebbe essere assorbito dal nucleo prima di decadere [47].
Nel frattempo era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, isolando i vari gruppi di ricerca
sparsi nel mondo. In particolare, in Italia, ignorando i risultati di Rossi e Nereson, Marcello
Conversi ed Oreste Piccioni iniziano a Roma un nuovo esperimento sulla vita media del mesone. I due fisici italiani riescono a costruire una elettronica con una sensibilità di 10-7 secondi
e, dopo il luglio del 1943, si trasferiscono, per poter realizzare l’esperimento, dall’Università
in un liceo vicino al Vaticano, ritenuto meno esposto ai bombardamenti degli Alleati. Nel
giugno del 1944, mentre gli americani entrano trionfalmente a Roma, sono in grado di stabilire per il mesone una vita media di 2,2 microsecondi [48].
26
A questo punto, venuti a conoscenza dell’esperimento di Rossi e Nereson, decidono, insieme
a Ettore Pancini, di misurare separatamente la vita media dei mesoni positivi e negativi.
Per poter meglio capire l’esperimento, ricordiamo che nella vita di un mesone negativo possiamo distinguere tre fasi: a) creazione negli urti della radiazione cosmica primaria e frenamento; b) cattura atomica del mesone; c) cattura nucleare, che dipende dall’interazione forte,
se il mesone è il quanto U di Yukawa, oppure dall’interazione debole
M − + p → n +ν ,
(6.7)
dove M − indica il mesone negativo. Si tenga presente che, salvo il caso di atomi molto pesanti, l’orbita è abbastanza esterna per poter considerare il nucleo come puntiforme e tuttavia
il valore della funzione d’onda del mesone al centro, anche per l’atomo di idrogeno, provoca
la cattura nucleare in un tempo molto piccolo rispetto al tempo medio di decadimento. Ovviamente il tempo complessivo delle tre fasi, deve risultare piccolo rispetto alla vita media.
Un sistema di lenti magnetiche [49] consente di separare i mesoni di carica opposta che penetrano nel ferro delle lenti: in questo modo, si può studiare separatamente il decadimento dei
mesoni positivi e negativi. Le lenti sono progettate, inoltre, in modo da permettere il passaggio solo ai mesoni che possiedono una energia tale da rimanere frenati nel sottostante assorbitore. La lente è realizzata da due pezzi di ferro con magnetizzazione opposta (campo magnetico circa 1,5 Tesla). Il sistema è quindi formato dalle lenti, dall’assorbitore e da contatori Geiger-Muller, che hanno il compito di segnalare il passaggio dell’elettrone del decadimento e
hanno una risoluzione temporale fra 1 e 4,5 microsecondi.
I tre fisici scoprono che nel ferro solo i mesoni positivi decadono, ma, ripetuto l’esperimento
nel carbonio, si accorgono che anche i mesoni negativi sono in questo caso soggetti al decadimento [50]. Si può calcolare, infatti, che il muone, quando si trova all’interno dell’atomo
nello stato energetico fondamentale, passa circa un millesimo del suo tempo ( ≈ 10-3 X 10-6 =
10-12 secondi) all’interno del nucleo di carbonio. In questo periodo di tempo, percorre circa un
27
centimetro, ovvero 1013 volte il diametro nucleare, senza avere alcuna interazione con i nucleoni, visto che ha tutto il tempo per decadere spontaneamente. L’ovvia conclusione è che il
mesone non è soggetto all’interazione nucleare e non può essere il quanto di Yukawa, mentre
la scomparsa nel ferro e non nel carbonio è dovuta al processo debole (6.7), con una
probabilità di cattura che dipende dal numero atomico Z.
Il mesone non è dunque il quanto U ipotizzato da Yukawa, proprio perché non è soggetto
all’interazione nucleare. Cerchiamo ora di capire in dettaglio le implicazioni dell’esperimento,
ricordando che una esauriente spiegazione è stata fornita nel 1947 da E. Fermi, E. Teller e V.
Weisskopf [51]. Tenuto conto che per la maggior parte degli atomi A ≈ 2 Z , il raggio del nucleo è circa RN ≈ 1,76 Z1/3 fermi, mentre il raggio di Bohr dell’orbita del mesone intorno al nucleo è circa R0 ≈ 250/Z fermi, la funzione d’onda del mesone, calcolata in corrispondenza del
centro del nucleo, è
(1 / π )( Z / R )
0
3
2
≈ Ψ ( 0) .
(6.8)
Moltiplicando per il volume nucleare, si ottiene la probabilità di trovare il mesone dentro il
nucleo,
P ≈ 5 .10 −7 Z 4 .
(6.9)
Si deve ora tener conto della forza dell’interazione, che però non dipende da Z, per cui la probabilità di cattura si può scrivere come
Λ=
1
τ
=
Z
Z0
4
1
τµ
,
(6.10)
dove τ µ è la vita media del mesone e Z0 è il valore di Z per cui la cattura nucleare ed il decadimento sono ugualmente probabili. I dati sperimentali suggeriscono Z0=11.
Il decadimento e la cattura nucleare sono in realtà processi in competizione, perché entrambi
dovuti all’interazione debole. La probabilità totale che il mesone scompaia è la somma,
28
1
τ
=
1
τµ
+
1
τ0
,
(6.11)
della probabilità di decadimento e di quella di cattura, per cui dalla (6.10) si ottiene
τ=
τµ
Z
1+
Z0
4
.
(6.12)
La formula funziona per valori di Z non troppo elevati, se si usa un valore efficace di Z dato
da
Z eff
Z
= Z 1+
42
1, 47
−
1
1, 47
.
(6.13)
La vita media totale τ è 0.06 τ µ in ferro (cioè solo il 6% dei mesoni negativi decadono spontaneamente) e 0.92 τ µ in carbonio (il 92% decadono spontaneamente).
In questo modo, si spiega anche uno strano risultato dell’esperimento di Rossi e Nereson, che
avevano trovato la stessa vita media negli assorbitori pesanti, ma non nell’alluminio. Tenuto
conto che i mesoni sono metà positivi e metà negativi (c’è una leggera preponderanza di quelli positivi), si capisce subito che negli assorbitori pesanti solo i mesoni positivi decadono
spontaneamente, mentre i negativi sono tutti catturati. Al contrario nell’alluminio solo il 40%
dei mesoni negativi decadono, portando ad una diversa vita media apparente per i mesoni.
Proprio alla fine della guerra, L. Leprince-Ringuet riassumerà lo stato dell’arte nella ricerca
sui raggi cosmici, nell’opera Les rayons cosmiques: les mesotrons, dedicando la maggior parte della sua attenzione al problema dei mesoni [52].
29
7. La scoperta del mesone π
Durante la Seconda Guerra Mondiale, i fisici giapponesi furono isolati dal resto del mondo. A
Nishina fu addirittura affidato l’incarico di progettare la bomba atomica, mentre Tomonaga fu
impegnato nello studio delle microonde per conto della marina giapponese. Yukawa invece
aveva continuato i suoi studi e, a questo scopo, aveva costituito un Club del Mesone a Osaka.
Si capiva che il mesone aveva una vita media troppo lunga per essere soggetto all’interazione
nucleare e, nel giugno 1942, Shoichi Sakata ebbe l’idea di supporre l’esistenza di due mesotroni, uno più pesante (quello di Yukawa) che decadeva in un altro più leggero (quello osservato nella radiazione cosmica) [53]. La proposta, pubblicata in una rivista giapponese, diventerà nota nel resto del mondo solo nel dicembre 1947, quando ormai si era già arrivati indipendentemente alla stessa idea, da parte di R. Marshak, H. Bethe e C. Moller [54].
Nello stesso anno, C. M. G. Lattes, C. F. Powell, H. Muirhead, G. Occhialini, utilizzando delle emulsioni fotografiche esposte ai raggi cosmici avevano osservato degli eventi in cui una
particella penetra nell’emulsione e si propaga fino ad un certo punto, dove sparisce per essere
sostituita da un’altra traccia che a sua volta sparisce in un altro punto. Il senso di propagazione è dato dalla crescente dimensione dei grani anneriti dell’emulsione, perché la perdita di energia per ionizzazione, a basse velocità, aumenta al diminuire della velocità. Confrontando le
tracce con quelle dei protoni, si vide che queste nuove particelle hanno una massa intermedia
fra quella dell’elettrone e del protone. Misurando la densità dei grani in funzione del percorso
residuo, si riuscì a calcolare la massa di questa nuova particella, denominata pione o π , che
risultava leggermente più grande di quella del mesone scoperto da Anderson e Neddermeyer,
che verrà in seguito denominato muone o µ [55]. Il decadimento osservato è quindi
π → µ +ν ,
(7.1)
30
dove si deve considerare che il neutrino non lascia alcuna traccia nella emulsione. Illustriamo
brevemente il metodo di misura, partendo dalla constatazione che in questo decadimento a
due corpi si calcola facilmente l’energia cinetica del muone,
mµ
1
Eµ = 1 −
2
mπ
2
mπ c 2 ,
(7.2)
dove mπ è la massa del pione e m µ la massa del muone, applicando la legge di conservazione
dell’energia e della quantità di moto.
Confrontando con particelle di massa nota, che vengono fatte propagare nella stessa emulsione, e misurando il percorso del pione (circa 615 micron) si scopre che E µ ≈ 4,2 MeV (sulla
base di una relazione energia –percorso) e si può determinare la massa del pione.
Le emulsioni usate non erano sensibili agli elettroni del decadimento, perché perdono relativamente poca energia con la ionizzazione, poi, con il miglioramento della qualità
dell’emulsione, ottenuta aumentando la percentuale di argento, si evidenziò anche la presenza
dell’elettrone proveniente dal decadimento del muone.
D. H. Perkins, C. F. Powell e G. Occhialini osservarono anche la cattura nucleare di pioni negativi, che si fermavano nelle emulsioni, rilasciando la massa sotto forma di energia dei
frammenti nucleari [56].
Nel frattempo, era stata scoperta l’esistenza di pioni neutri sia nelle emulsioni che con il nuovo sincrociclotrone da 184 pollici a Berkeley [57] ed era stato dimostrato che pioni neutri e
carichi avevano masse simili ed erano creati con sezioni d’urto (probabilità) simili. Il decadimento avveniva in due fotoni, come già previsto teoricamente [58]. In questo modo si aveva
la sicurezza, come già anticipato da N. Kemmer [40], che le forze nucleari che si esercitano
fra i nucleoni, secondo i processi (4.3), fossero uguali.
31
8. Le particelle strane
All’Università di Manchester, già durante la guerra, George Rochester e Charles Butler avevano eseguito degli esperimenti sui raggi cosmici con una camera a nebbia, ma non potendo
utilizzare il magnete da undici tonnellate collegato con il dispositivo, perché assorbiva troppa
corrente, avevano osservato sciami prodotti da urti di radiazione cosmica ad alta energia, senza poterli interpretare.
Dopo la fine della guerra, utilizzando una lastra di piombo di 3 centimetri al centro della camera, ottennero nell’ottobre 1946 una fotografia in cui compariva una caratteristica traccia a
forma di V. La V rappresentava due particelle, una positiva e una negativa, che nascevano dal
decadimento di una particella neutra che, dopo aver attraversato la lastra, si disintegrava. La
particella, successivamente denominata kaone o mesone K0, decadeva nel seguente modo
K0 →π + +π − .
(8.1)
Nel maggio 1947 ottennero una seconda interessante fotografia di una particella positiva che
decadeva in volo. Dal punto di decadimento, partiva un’altra traccia, sempre di una particella
positiva, che attraversava la lastra di piombo con una piccola deviazione (l’evento sarà poi identificato con il decadimento del mesone K+, K + → µ + + ν ) [59]. In una conferenza
dell’estate 1948, la maggior parte dei fisici si mostrò scettica verso questi due risultati, anche
perché due fotografie non potevano essere considerate una statistica significativa.
Subito dopo, però, Anderson con una camera a nebbia, situata sulla cima della White Mountain, ottenne una trentina di particelle V. Anche in questo caso, come per la scoperta del
mesone dieci anni prima, ci si rese conto ben presto che molti ricercatori le avevano già ottenute nelle loro fotografie, che però non erano stati in grado di interpretare.
32
Sulla spinta di tutte queste scoperte, nei primi Anni Cinquanta, sorsero laboratori sulla cime di
montagne, in giro per il mondo, che ottennero una mole imponente di risultati, molto spesso
di difficile interpretazione, finendo per creare una situazione generale abbastanza confusa.
Si conoscevano varie particelle più pesanti del protone, chiamate iperoni: la particella Λ , con
decadimenti tipici,
Λ → p +π − ,
Λ → n +π 0 ;
(8.2)
le tre particelle Σ , ( Σ + , Σ − , Σ 0 ), con decadimenti tipici,
Σ − → n + π − , Σ + → p + π 0 , Σ + → n + π + , Σ0 → Λ + γ ;
(8.3)
le due particelle Ξ , ( Ξ − , Ξ 0 ), che davano un evento a doppia V,
Ξ − → Λ + π − , Ξ0 → Λ + π 0 ,
(8.4)
poiché alla prima V del loro decadimento si aggiungeva quella creata dal decadimento della
Λ . Inoltre, erano stati determinati un gran numero di decadimenti per i mesoni K, sia carichi
che neutri. Per completare il quadro, possiamo aggiungere che furono scoperti, da M. Danysz
e J. Pniewski nel 1953, gli iperframmenti o ipernuclei, che nascono quando un frammento nucleare, con un neutrone sostituito da una particella Λ urta un nucleo e si disintegra, a seconda
dei casi, in frammenti nucleari, nucleoni e pioni. [60].
Il grande problema di queste nuove particelle era la loro copiosa produzione, circa il 10% della produzione di pioni, che faceva pensare ad una produzione regolata dall’interazione nucleare (detta anche forte per sottolineare la sua preponderanza rispetto a quella elettromagnetica),
e la loro vita media, da 10-8 a 10-10 secondi, troppo lunga per essere dovuta all’interazione forte (con eccezione dell’iperone Σ 0 che, come si vede dalla (8.3), è soggetto ad un decadimento
elettromagnetico e quindi ha una vita media intorno a 10-20 secondi). Se, per esempio, consideriamo la reazione ipotetica
π − + p → Λ +π 0,
(8.5)
per il principio di reversibilità temporale, dovrebbe essere permesso anche il decadimento
33
Λ → π 0 +π − + p → π − + p .
(8.6)
Si noti che il primo stadio della (8.6) viola la conservazione dell’energia, ma può essere considerato un processo virtuale che si svolge su una scala di tempo tipica,
T=
E
,
(8.7)
dove E è la quantità di energia coinvolta nella violazione ed il tempo tipico T è dell’ordine di
grandezza di quello che la luce impiega per percorrere un nucleo, circa 10-23 secondi. Ci si
dovrebbe quindi aspettare che la particella decada con questa vita media, mentre si trova invece il valore enormemente più piccolo di 10-10 secondi. Se ne conclude, quindi, che la reazione
(8.5) è impossibile nell’ambito dell’interazione forte.
Un primo tentativo per superare il problema venne dal concetto di produzione associata, formulato da Abraham Pais, un fisico olandese, che durante la guerra era sopravvissuto a varie
peripezie (era stato catturato e gettato in prigione della Gestapo). L’ipotesi della produzione
associata è stata comunque formulata indipendentemente anche da alcuni ricercatori giapponesi [61]. Si suppone che le particelle V debbano sempre essere create in coppie. Per esempio,
la produzione può avvenire attraverso il processo
n +π + → Λ + K + .
(8.8)
Il processo inverso di decadimento regolato dall’interazione forte dovrebbe essere
Λ → n +π + + K − → p + K − ,
(8.9)
ma esso è proibito dalla conservazione dell’energia, poiché m Λ < m K + m p . L’unica possibilità quindi per la particella Λ è il decadimento regolato dall’interazione debole ed in questo
modo si spiega perché è così facile la produzione e relativamente poco probabile il decadimento. La creazione e il decadimento delle particelle V non sono dunque dovute alla stessa
forza, perché nella produzione, dovuta all’interazione forte, se ne devono produrre due contemporaneamente, mentre solo l’interazione debole può provocare il loro decadimento.
34
Pais, comunque, credeva che, per rendere conto pienamente delle proprietà delle nuove particelle, bisognasse cercare altre simmetrie e numeri quantici, sulla falsariga dello spin isotopico
che con successo aveva interpretato la forza nucleare.
Poco dopo, Kazuhiko Nishijima e Murray Gell-Mann formalizzarono ulteriormente le caratteristiche della produzione associata, introducendo un nuovo numero quantico, s, denominato
strangeness, stranezza [62]. Alle particelle Λ , Σ + , Σ − , Σ 0 e K- viene assegnato il valore s=1, al mesone K+ il valore s=1 e agli iperoni Ξ − , Ξ 0 il valore s=-2. La conservazione della
stranezza in una interazione forte conduce ovviamente alla produzione associata, mentre,
d’altra parte, la violazione della conservazione della stranezza, implica che il processo si può
svolgere solo secondo i tempi lunghi caratteristici dell’interazione debole.
Sempre in quel periodo, venivano stabilite le leggi della conservazione del numero barionico
[63] e del numero leptonico [64]. In qualunque interazione il numero barionico totale e quello
leptonico totale si mantengono costanti. Il numero barionico viene ottenuto assegnando 1 ai
barioni, -1 agli antibarioni e zero a tutte le altre particelle. Il numero leptonico viene ottenuto
assegnando 1 ai leptoni, -1 agli antileptoni e zero a tutte le altre particelle. Fu chiaro in seguito, comunque, che esistono tre numeri leptonici, denominati elettronico, muonico e tauonico,
che si conservano separatamente. Per esempio, il numero leptonico elettronico si ottiene assegnando 1 all’elettrone e al neutrino elettronico, -1 alle corrispondenti antiparticelle e 0 a tutte
le altre particelle. Se consideriamo la reazione,
Λ →π + +π −,
(8.10)
vediamo subito che è vietata perché non conserva il numero barionico (che vale 0 a destra e 1
a sinistra della (8.10)), mentre la reazione,
µ − → e− + γ ,
(8.11)
è vietata perché non conserva sia il numero leptonico elettronico (1 a destra e 0 a sinistra della
(8.11)) che quello muonico (0 a destra e 1 a sinistra). Una importante conseguenza della legge
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di conservazione del numero barionico è che il protone, il barione più leggero, deve essere
stabile. Tuttavia, per motivi teorici collegati alla teoria quantistica dei campi, ad ogni legge di
conservazione, e quindi anche a quella del numero barionico, deve essere associata una interazione, della quale attualmente non vi è traccia, che provocherebbe una apparente differente
forza gravitazionale fra corpi di massa inerziale uguale ma diverso numero barionico [65].
La validità assoluta di tali leggi di conservazione rimane, quindi, un problema aperto, tanto
che alcune moderne teorie di grande unificazione prevedono che il protone sia instabile, anche
se, fino ad oggi, non sono stati sperimentalmente rivelati decadimenti del protone.
Al Convegno di Bagneres de Bigorre, cittadina sui Pirenei, nel 1953 vennero stabilite le regole per la classificazione delle nuove particelle, utilizzando lettere greche minuscole per le particelle leggere (con massa fra quella dell’elettrone e del protone) e lettere greche maiuscole
per le particelle più pesanti del protone [66].
La fisica dei raggi cosmici aveva ormai esaurito la sua funzione d’avanguardia nella scoperta
di nuovi fenomeni. Gli acceleratori di particelle che, sempre più numerosi entravano in funzione, permettevano di ottenere un numero enormemente superiore di eventi utili, in situazioni controllate e scelte dallo sperimentatore. Era l’inizio della Big Science, della fisica degli
enormi investimenti e delle grandi collaborazioni internazionali, che si sostituiva alla fisica
povera dei raggi cosmici, che poteva essere realizzata anche da piccoli gruppi sparsi nelle varie parti del mondo, senza eccessive spese, e praticamente alla pari con i gruppi delle nazioni
economicamente più ricche.
Ancora nel 1955, Enrico Amaldi e collaboratori riuscirono ad ottenere delle fotografie che
rappresentavano il primo esempio di annichilazione di antiprotoni e protoni, poco prima che
la prova conclusiva dell’esistenza dell’antiprotone venisse dall’acceleratore Bevatron di Berkeley [67].
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