Luciano Buggio
LE SFERE CELESTI
MORFOLOGIA E DINAMICA DELLE GALASSIE
SCUOLA DI FISICA “GIORDANO BRUNO”
Venezia – S. Polo 2423
Estate 2009
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Ci sono più cose in cielo ed in terra
che nella mente di voi filosofi.
(W. Shakespeare)
PREFAZIONE
Con l’avvento dell’era moderna, soprattutto dall’Illuminismo in poi, la Scienza ha preso il posto
delle Religione nell’assolvere il compito dell’organizzazione della conoscenza del Mondo, ed aspira
a surrogarla anche per quanto riguarda domande (sull’origine, per esempio, sulla vita e sulla
coscienza) rispetto alle quali è dubbia la sua competenza.
Ma vi sono certamente ambiti in cui a buon diritto essa rivendica tale competenza.
Uno di questi è l’Universo delle Stelle, le cui aggregazioni principali sono le galassie, una
fantasmagoria di forme che da quasi un secolo viene sistematicamente osservata e descritta, con
strumenti sempre più sofisticati e sempre maggiore risoluzione.
Certamente, quindi, penserà l’uomo della strada, anche per la fiducia (la “fede”, si potrebbe dire)
che il nuovo paradigma gli induce, le galassie (perché sono a forma di spirale, o hanno una barra, o
sono schiacciate a lenticchia, o affusolate, o ellittiche con due o tre assi di simmetria, o addirittura
“quadrate”), sono oggi spiegate, nel senso che è stata accertala la dinamica che conduce a quelle
forme.
Può parer incredibile, ma non è così.
A tutt’oggi la morfologia galattica è sostanzialmente un mistero.
Questo lavoro si propone di colmare questo vuoto di conoscenza, fornendo inoltre anche una chiave
(la stessa utilizzata per aprire lo scrigno in oggetto) per reinterpretare altri ambiti di competenza
della Fisica, in cui le risposte paiono invece esserci, anche se non universalmente accettate.
Si tratta nientemeno che di riformulare la legge di Newton, la quale, così com’è, da più di tre secoli
rappresenta un paradigma intoccabile, e, secondo il mio avviso, ha bloccato il progresso della
conoscenza in Fisica.
La forza del paradigma in questione è tale che nemmeno le recenti teorie MOND, che per risolvere
il problema delle discrepanti velocità radiali delle galassie evitano il ricorso all’ipotesi della Materia
Oscura correggendo la teoria, come suggerito dallo Statuto delle Scienze, a ben guardare, lo
mettono in discussione: infatti tale paradigma è più forte delle leggi più generali della dinamica
elementare, rispetto alle quali la gravità è un caso particolare di Forza.
Sta di fatto che è una legge fondamentale della dinamica, la seconda, che MOND modifica, quella
che recita F=ma.
Come dire che il potenziale newtoniano non si tocca, rimane anche per MOND rappresentato
dall’iperbole rovesciata y=-|a/x|, né si tocca la Forza di gravità, che è la sua derivata, e la cui
espressine resta quindi comunque y’=a/x^2.
Ciò che cambia sensibilmente, per MOND, è l’accelerazione indotta da tale forza alle grandissime
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distanze (dalla scala delle galassie in su), ove la variazione del potenziale è dello stesso
piccolissimo ordine di grandezza della correzione operata col termine aggiunto in F=ma.
L’indiscutibilità del paradigma newtoniano si conferma anche con altri, pur altrettanto coraggiosi e
disattesi, tentativi di metter mano alle fondamenta della fisica per risolvere altre discrepanze della
gravità osservate, ad ordini di distanza molto minori (centinaia di metri e decine di Unità
Astronomiche). Come si vedrà nell’introduzione, anche qui non si tocca il tabù della legge di
Newton, e si ipotizza una nuova forza (la “quinta forza”) affiancandola alla Gravità.
Noi avremo il coraggio di prendere il toro per le corna, ipotizzando, con questo lavoro, delle
variazioni della forza di gravità stessa, a determinate distanze, senza cercare alibi di sorta.
Nel corso della trattazione vera e propria del tema (la morfologia e la dinamica dei grandi aggregati
di stelle) si utilizzerà infatti un’ipotesi diversa dell’andamento del potenziale gravitazionale che sta
intorno agli oggetti dotati di massa, e potrà apparire che, pur sulla scorta di recenti misurazioni di
anomalie del campo, rilevate nell’introduzione, si tratti di un procedimento di comodo, che cioè le
modifiche ipotizzate siano state adottate, come si dice, “ad hoc”, e senza una giustificazione teorica
di fondo.
Il fatto fondamentale è che in qualche modo, paradossalmente, ad onta di quanto si è vantato poco
sopra, nemmeno noi toccheremo il campo gravitazionale di Newton: solo che esso risulterà essere
un “caso particolare” previsto da una definizione più generale e fondante della Gravità.
Ciò che non corrisponde, secondo la nostra ipotesi, all’andamento canonico della gravità è il campo
del “costituente ultimo” del corpo dotato di massa, che ha una legge completamente diversa.
Secondo la visione corrente, nonché quella che appare una logica inoppugnabile, frantumando un
corpo in parti sempre più piccole, ciascuna continuerà ad avere intorno, per quanto più debole, un
campo gravitazionale con la stessa legge dell’inverso del quadrato della distanza, vale a dire, in
termini di potenziale, un suo “imbutino” sempre più piccolo.
E questo fino ad un ipotetico frammento ultimo, elementare e fondamentale, non ulteriormente
divisibile: ricomponendo poi i pezzi si riotterrà il vasto e profondo imbuto di partenza.
Ma è questo il solo modo di ottenere tale imbuto finale?
Noi ipotizzeremo (e proporremo per questo una legge nell’appendice conclusiva) un altro modo di
arrivare a questo risultato: il campo dei costituenti ultimo ha un’altra legge, assai più complessa,
ove figura un solo parametro libero al variare del quale ciascun costituente individuale si
differenzia, nel continuo, da tutti gli altri, così come ha una sua identità ciascun numero reale.
Se nel ricomporre il corpo dotato di massa si utilizzerà una distribuzione casuale dei valori di tale
parametro si costruirà esattamente il campo di Newton.
Ma, in natura, non è obbligatorio che tale distribuzione sia casuale: con una qualsivoglia
anisotropia di tale distribuzione si avranno andamenti diversi del potenziale macroscopico.
Luciano Buggio
[email protected]
S.Polo 2423 – VENEZIA
Estate 2009
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INTRODUZIONE
Nel 1922 Eötvös pubblicò i risultati di una sua ricerca tesa a provare che la costante di gravitazione
universale è indipendente dalla natura dei corpi che attraggono. In sostanza misurò la forza
gravitazionale tra corpi costituiti da materiali diversi intendendo verificare che tale forza è
indipendente dai materiali usati. Nei risultati ottenuti v'erano dei piccoli scarti rispetto all'esatta
previsione teorica, ma tali deviazioni erano state interpretate come del tutto casuali e dovute ad
inevitabili errori di misurazione imputabili all'imperfezione degli strumenti.
Nel 1986 però un gruppo di scienziati americani diretti da Ephraim Fishbach riprese in esame
questo lavoro. Nel frattempo le tecniche di analisi, in particolare statistiche, s'erano fatte più
raffinate, ed il gruppo di Fishbach applicava i più sofisticati sistemi di elaborazione per rivedere ed
interpretare quei vecchi dati.
Il risultato di questo lavoro fu un articolo in cui i ricercatori sostenevano che le deviazioni dalla
legge di Newton (i "piccoli scarti") registrate in quei classici esperimenti non sono casuali, ma
paiono strettamente correlate con la natura del materiale e più precisamente col suo contenuto
barionico. Il contenuto barionico ha a che fare con il rapporto tra protoni e neutroni presenti nel
nucleo atomico di una determinata sostanza, e risulta quindi diverso per atomi diversi.
Vi sarebbe quindi, secondo le conclusioni di questa verifica, una forza legata al numero barionico
che, aggiungendosi alla forza di gravità, modifica l'andamento della legge di Newton. Nelle
condizioni dell'esperimento del '22, si tratterebbe di una forza con un raggio d'azione di circa 200
metri che associa alla forza di attrazione gravitazionale un debole effetto repulsivo.
Tale forza verrebbe a collocarsi come una "quinta forza" accanto alle quattro già note, la
gravitazionale, l'elettromagnetica, la nucleare forte e debole.
Nel 1996 un gruppo di ricercatori italiani guidati da Ignazio Ciufolini del CNR ha misurato un
piccolissimo spostamento, un paio di metri all'anno rispetto alle previsioni della legge di Newton,
dei satelliti artificiali Lageos I e Lageos II, orbitanti a seimila chilometri circa intorno alla Terra.
Dell'anomalia gli studiosi ritennero responsabile una forza "gravitomagnetica" determinata dalla
rotazione della Terra e, così si dice, prevista dalla Relatività Generale di Einstein. Si tratterebbe,
conclusero, di una "quinta forza", che andrebbe ad aggiungersi alle quattro che già abbiamo.
I fisici del Cnr l'hanno misurata ed all’epoca la stampa ne riferiva nei termini della scoperta di una
“sorella minore della Gravità”.
Trattandosi di anomalia del campo gravitazionale newtoniano riscontrata ad una certa distanza dal
centro di massa, essa dovrebbe essere assimilata a quella inconsapevolmente rilevata da Eötvös, e
quindi imputata al contenuto barionico del corpo attraente, in questo caso il Pianeta Terra, e non a
rotazioni determinanti curvature dello spazio-tempo.
Nell' '86 la notizia della scoperta della "quinta forza" fece scalpore sulla stampa, ma poco, che si
sappia, si occuparono della faccenda gli addetti ai lavori, che ritenevano incompleto il lavoro
dell'équipe americana.
All'uomo della strada parrebbe doveroso e ovvio, come ritiene E. Novati, che gli esperimenti del
l922 vengano ripetuti con tutta la raffinatezza che le attuali tecniche permettono rispetto a quelle di
quasi novant’anni fa, mettendosi così nelle condizioni di poter evidenziare meglio l'effetto cercato.
Ma non finisce qui.
Il n° 206 di “L’astronomia “ (feb. 2000) riportava un articolo a firma di E.Novati dal titolo
“Inspiegata accelerazione dei Pioneer”.
Le sonde spaziali Pioneer 10 ed 11, inviate verso i confini del sistema solare ed oltre, risultava
avessero decelerato più del previsto dopo aver raggiunto una certa distanza dal sole, come se
venissero attratte da esso più del dovuto.
Si legge nell’articolo:
“Una proposta originale e che sembra funzionare è stata avanzata di recente da due ricercatori del
Service d'Astrophysique di Saclay in Francia (J.P.Mbelek e M.Lachièze-Rey, gr-qc/9910105), che
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ipotizzano l'esistenza di un nuovo campo scalare che agirebbe affiancandosi al campo
gravitazionale classico. La sua azione sarebbe la stessa su tutti i corpi, a prescindere dalla loro
composizione, dipenderebbe solo dalla loro massa, ma si manifesterebbe in modo ben diverso a
seconda della distanza.
Nel Sistema Solare, per esempio, immaginando che l'origine di questo campo sia il Sole, i suoi
effetti risultano trascurabili fino all'incirca alla distanza della fascia degli Asteroidi (tra Marte e
Giove), producono un'accelerazione diretta verso il Sole da qui fino a circa 90 U.A e tendono poi a
scomparire di nuovo producendo oscillazioni smorzate nell'accelerazione. (...) Tutto ciò sarebbe in
accordo con quanto osservato sulle sonde Galileo ed Ulysses (…) che sembrano mostrare anch'esse
un "effetto Pioneer”, anche se non confermato con assoluta certezza.
A conclusione del loro articolo i due ricercatori aggiungono anche che, secondo calcoli preliminari,
il campo da loro ipotizzato sarebbe in grado di spiegare la curva di rotazione della Galassia DDO
154, una delle poche galassie di cui si conosce con buona precisione la distribuzione di massa,
senza bisogno di invocare la presenza di un alone di materia oscura. Inoltre questo campo
contribuirebbe all'energia del vuoto e quindi al valore della costante cosmologica; anche qui,
secondo gli autori, il valore calcolato sarebbe in buon accordo con quanto previsto dalle più recenti
valutazioni di tale costante.
Viene da pensare che sistemare tante cose in un sol colpo sia troppo bello per essere vero, ed è
meglio attendere prudentemente (...) I ricercatori del JPL (Jet Propulsion Laboratoy - l'Agenzia
Ufficiale NASA) - continuano a sostenere che l'effetto Pioneer molto probabilmente è solo un
errore sistematico di cui non si riesce a trovare la natura."
Sono passati dieci anni da allora e probabilmente quelli della Nasa l’hanno spuntata, visto che non
se ne parla più.
Nella vana attesa che gli scienziati di oggi si decidano a rifare gli esperimenti del l922 ed a
verificare i dati emersi, e che indubbiamente continuano ad emergere, dall’osservazione della
velocità delle sonde e dei satelliti artificiali, ci trastulleremo un poco con l'ipotesi che effettivamente
quelle deviazioni dalla legge di Newton non siano dovute ad errori strumentali sistematici.
Proviamo, cioè, ad immaginare un Universo in deroga alla legge di Newton.
Newton ci dice che la forza di attrazione diminuisce, se ci allontaniamo dal centro di massa di un
corpo, con la legge dell'inverso del quadrato della distanza.
Tutto fa pensare, dando credito alle osservazioni sopra riferite, che queste deviazioni, se ci sono,
siano locali, circoscritte ad intervalli di limita estensione, e si registrino a determinate distanze dalla
sorgente del campo.
Ed a quelle distanza succedono cose diverse da quelle previste da Newton.
O comunque succedono cose.
Per esempio, alla stessa distanza a cui sono in orbita i due satelliti di Ciufolini, 6000 chilometri
dalla superficie terrestre, è stato rilevato, già negli anni sessanta (Vedi Paolo Maffei,” I mostri del
cielo”, ed. Mondadori 1976, pag. 79) un anello di polveri che circonda la terra, ad indicare che forse
lì esiste un'anomalia del campo, circoscritta ad una fascia limitata, la stessa in cui sono stati fatti
girare i due oggetti artificiali.
Quantomeno si tratta di una incredibile coincidenza, che nessuno, che io sappia, ha rilevato.
Ammetteremo quindi che a certe distanze la legge di Newton possa non valere, che cioè, più
vistosamente entro certi intervalli relativamente piccoli, valga una legge diversa, per esempio che la
forza, con l'allontanamento, diminuisce più lentamente di quanto previsto da Newton, per poi,
sempre entro quell'intervallo, diminuire più rapidamente fino a riassumere (e siamo fuori del nostro
intervallo di deroga) prima o poi i valori previsti classicamente.
O, addirittura, che in un intervallo la forza diventi addirittura "repulsiva".
Ce lo suggerisce l’esperienza, da cui, da Galileo in poi, deve scaturire la legge.
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1 - IL CAMPO GRAVITAZIONALE DI NEWTON
L'Universo che racconteremo è molto diverso da quello che si deduce dalla legge di Newton:
diverso perché diversa, almeno in parte, è la legge di gravità che lo fonda.
Fig. 1
F=k/(d^2)
La legge di Newton si esprime graficamente
con una semplice curva (fig.1). Sull'asse
orizzontale, procedendo verso destra o verso
sinistra, leggiamo i valori delle distanze d
nello spazio da un centro di massa, 0, un corpo
celeste, per esempio, immaginato in quel punto
concentrato.
Sull'asse verticale leggiamo invece i valori che
corrispondentemente si riferiscono alla forza
di attrazione, F, i quali sono tanto più grandi
quanto più ci si avvicina a O.
La legge che lega la forza alla distanza è quella
dell'inverso del quadrato. La sua espressione
più semplice è.
d>0
ove F è la forza, k, un numero positivo, un parametro legato alla capacità di attrazione del corpo, in
pratica alla sua massa, e d la distanza dal corpo attraente del punto dello spazio nel quale vogliamo
saggiare la forza.
Lo spazio che circonda un corpo in grado di produrre questi effetti si chiama "campo
gravitazionale". Esso può essere rappresentato da un modello plastico, consistente in un imbuto
esteso all'infinito ed anche profondo all'infinito
Fig.FIG2 1
se si assume che la sorgente sia puntiforme.
Nel fondo dell'imbuto (in fig.2 la sua sezione
verticale) va immaginato collocato il corpo
responsabile del campo, come se la sua presenza
creasse l'imbuto stesso che ci fa da modello.
La reale distanza di un punto dal centro di massa
è nel modello rappresentata dalla distanza del
punto corrispondente della curva
dall'asse
verticale passante per il fondo puntiforme
dell'imbuto.
Una pallina collocata in un punto del piano
variamente inclinato si metterà in moto verso il
centro con una accelerazione iniziale tanto
maggiore quanto più tale punto è vicino al
centro. Il modello plastico è del tipo di quello
usato da Galileo nel '600 per far scendere le palline lungo un piano inclinato rettilineo per
dimostrare l'invarianza della velocità in rapporto alla massa degli oggetti in caduta: si ipotizza cioè
che a tutte le quote la gravità del laboratorio sia costante, cosa che naturalmente non corrisponde
alla realtà del campo gravitazionale terrestre. Infatti quando la pallina scende lungo il pendio perde
quota, ed a quote più basse il valore della gravità è più alto: aumenta non solo la velocità, ma anche
l'accelerazione, che nell'esperimento ideale dovrebbe essere costante. Di fatto però le variazioni
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della forza sono così piccole, per quelle differenze di quota, da essere ritenute trascurabili dallo
sperimentatore.
Questo plastico rappresenta inoltre solo alcuni aspetti della realtà che vuole descrivere.
Riproduce l'accelerazione istantanea iniziale di un oggetto collocato nel campo reale, ma non la sua
traiettoria, né la sua velocità ed accelerazione nel tempo successivo. Non la traiettoria: nel modello
è curvilinea (piegata verso il fondo). Né la velocità: essa va valutata rispetto all'avvicinamento
all'asse verticale del modello, ed in tal senso avremmo l'assurdità, da un certo punto in poi, di una
velocità "utile" persino in diminuzione, anziché in aumento vertiginoso, come avviene nella realtà
con l'avvicinamento.
Le prestazioni di questo modello sono piuttosto limitate, ma ci forniscono il dato essenziale: ci
danno il valore della forza di gravità in ogni punto del campo.
Se ci è difficile concepire un'accelerazione iniziale in mancanza di una storia successiva che il
modello non ci può raccontare (dovremmo valutare l'incremento della velocità in un infinitesimo
istante a partire dallo stato di quiete - è quanto avviene quando si parte da fermi), possiamo ricorrere
ad un espediente, esplorando il campo in termini di "peso" della pallina in ogni punto, collocando
cioè delle "bilance" nei punti in cui vogliamo misurare la forza.
La molla fissata più a valle sul piano del modello, viene compressa dalla pallina più di quanto
venga compressa una molla uguale collocata più a monte.
Lo schiacciamento della molla, secondo la relazione P=ma (P è il peso, cioè la forza, m la massa
della pallina, a l'accelerazione) è proporzionale all'accelerazione iniziale con cui la pallina si
sarebbe messa in moto se non fosse stata ostacolata dal congegno che abbiamo predisposto per
pesarla.
Si disegna il profilo della sezione dell'imbuto in modo che per ogni punto di esso i valori dello
schiacciamento della molla diminuiscano all’aumentare della distanza d dall’asse dell’imbuto
secondo la legge dell’inverso del quadrato, ed il modello andrà bene per ciò che deve rappresentare
al nostro intuito.
In matematica si dice che la curva dello schiacciamento della molla (cioè dell'accelerazione alla
quale è correlata linearmente) è la derivata della curva data dal profilo della sezione dell'imbuto così
determinata.
In termini più volgari si dice che l'accelerazione, cioè la forza, è proporzionale all'inclinazione, in
ogni punto, della curva dello scivolo, più precisamente della tangente ad essa in quel punto. E'
intuitivo infatti che maggiore è l'inclinazione in un punto, inclinazione che si evidenzia tracciando
in quel punto la tangente, maggiore è la velocità con la quale una pallina lì collocata si mette in
moto giù per la discesa.
L'inclinazione è la metafora della forza: come nel campo alla distanza maggiore la forza è minore, e
quindi l'oggetto attratto si mette in moto ad una minore velocità, così nel modello plastico la minore
inclinazione, registrata a maggiore distanza, induce una minore velocità iniziale.
Per avere l'equazione del profilo del piano inclinato ricurvo dell'imbuto occorre trovare la funzione
di cui la gravità newtoniana è, come dicono i matematici, derivata, cioè il suo integrale indefinito.
integrale indefinito di F = Int. ind. di k/(d^2) = -|k/d|+C
(d>0)
E' l'iperbole, qui funzionante come "equazione potenziale del campo".
Si sarà notato che mentre la curva che rappresenta la forza di gravità del campo è riferita ad un asse
orizzontale, rispetto al quale misurare la distanza verticale dei punti della curva, la curva che
rappresenta la forma dell'imbuto non è riferita ad alcun livello orizzontale (quello verticale, l'asse
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delle y, è presente invece, per la determinazione della distanze spaziali d dal centro) e questo per il
semplice motivo che ciò che conta è solo la sua pendenza: infatti le proprietà di un piano inclinato
sono invarianti rispetto a qualunque traslazione spaziale che gli faccia conservare l'assetto.
In parole povere, un piano inclinato trasportato così com’è dalla riva del mare in alta montagna
non cambia la sua inclinazione.
Potremmo, volendo, stabilire anche per la funzione potenziale un riferimento orizzontale, ma non ci
servirebbe, perché sarebbe appunto indifferente la quota alla quale collocare tale riferimento: questo
è tra l'altro il significato di quel +C che appare nell'espressione dell'integrale (proprio per questo
chiamato "indefinito"). C è un numero qualsiasi da meno infinito a più infinito e la scelta di un
numero anziché di un altro non cambia il valore della derivata, cioè della pendenza della curva.
Della funzione potenziale, cioè del profilo del nostro imbuto, non ci interessa sapere, punto per
punto, quanto vale, cioè qual è la distanza da un qualsiasi riferimento orizzontale: quel +C ci
impedisce di averne uno assoluto. Ci interessa invece molto sapere quanto più in basso o in alto sia
collocato un altro punto molto vicino al nostro punto considerato, per capire quale sia nei paraggi
l'inclinazione della curva. Se un punto quantosivoglia vicinissimo, a sinistra (siamo sul versante
destro) di un punto dato, è molto più in basso, ciò significa che lì c'è una notevole inclinazione. Se
al buio mi hanno messo in piedi in un punto di un pendio, stando fermo lì (su un unico piede "a
spillo") non sarò mai in grado di dire qual è la pendenza in quel punto. Per stabilirlo devo saggiare
il terreno nei dintorni: allungo un piede per scoprire a quale quota, più alta o più bassa, e di quanto
più alta o più bassa, sta un altro punto vicino.
In tal modo avrò informazioni sulla pendenza locale, ma, se non avrò altri ragguagli, non saprò dire
se sono sul versante di una vallata in alta montagna o sull'argine di un fiume in prossimità della
foce.
Il concetto di pendenza prescinde dalla quota assoluta alla quale il pendio è collocato, vale a dire
dalle quote assolute dei suoi punti
2 – LA DENSITA’ DELLO SPAZIO E LA LEGGE DEL MOTO
Abbiamo insistito sul fatto che della curva del potenziale, quella che ci dà il profilo dell'imbuto, ci
interessano i punti in quanto solo messi in relazione spaziale coi punti adiacenti, in modo che
attraverso il confronto tra quote si possa rilevare l'inclinazione della curva, che ci dà l'accelerazione,
cioè la forza, che è ciò di cui ci stiamo occupando: non ci interessa quanto in alto sta un punto, ma
se è più in alto o più in basso di un altro, e di quanto.
A rischio di contraddirci, possiamo però anche attribuire un significato assoluto alla posizione dei
singoli punti, dicendo che la quota a cui sono collocati, indipendentemente dal fatto di poterla
riferire ad un asse orizzontale di origine, rappresenta quella che definiremo "densità dello spazio", o
"densità del campo" in quei singoli punti. E' un linguaggio totalmente arbitrario, che però ci verrà in
soccorso nel passaggio dalla finzione del modello plastico, con tutti i limiti che gli abbiamo trovato,
all'intuizione della consistenza reale dello spazio tridimensionale occupato da un campo.
Quindi diciamo che in ogni punto di un campo originato da un centro di massa lo spazio ha una
determinata densità, e chiameremo curva della densità quella che finora abbiamo trattato come il
profilo dell'imbuto.
Applichiamo allora a questo nuovo quadro quanto già formalizzato.
Siamo nello spazio tridimensionale: tracciamo una semiretta che parte dal centro di massa,
ottenendo così una delle infinite direzione radiali che si dipartono da quel punto. Lungo quella,
come lungo tutte le altre, incontreremo, procedendo verso l'esterno, cioè allontanandoci, valori
crescenti della densità, secondo la legge dell'iperbole rovesciata.
Ribadiamo che non siamo in grado di dare un valore alla densità in ogni singolo punto: ciò
nonostante parliamo di una densità in ciascun punto, e diciamo, come diremmo che nel nostro
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imbuto un punto è più in alto di un altro, che nel nostro spazio in un punto c'è una densità maggiore
che in un altro.
Lungo la direzione rettilinea che si diparte dal centro, quella radiale, i valori della densità incontrati
sono quelli che variano, aumentando, più rapidamente rispetto a quelli che incontreremmo
scegliendo qualsiasi altra direzione retta di spostamento nel campo, non passante per il centro.
Se si ammettono poi percorsi non rettilinei, ci sono traiettorie lungo le quali le pendenze che si
incontrano sono sempre costanti, i percorsi circolari intorno al centro, per esempio, che si compiono
infatti lungo linee "equipotenziali", che sono fatte di punti in cui il potenziale, cioè la nostra densità,
è sempre la stessa.
L'esperimento fatto con la pallina lasciata libera in un punto del versante dell'imbuto ci fa vedere la
pallina stessa cadere verso il centro, seguendo il percorso che le fa incontrare strada facendo le
densità che variano più rapidamente.
La pallina fatta partire da ferma si muove sempre guadagnando la quota più bassa tra quelle che le
stanno intorno.
Tenuto presente che nello spazio reale del campo "quote più basse" significa punti a più bassa
densità, siamo ora in grado di formulare la legge del moto nel campo.
Un corpo collocato fermo nel campo si mette in moto nella direzione della più rapida diminuzione
della densità e con accelerazione tanto maggiore quanto maggiore e' la variazione della densità
stessa in quel punto, vale a dire la sua derivata.
Questa legge vale per qualsiasi universo fondato sull'esistenza del campo, quindi vale per quello
newtoniano ed anche per il nostro, quello che ci accingiamo a dedurre da premesse diverse, cioè da
una curva della densità diversa, seppur localmente, dall'iperbole negativa.
Ogni problema ontologico, riguardante cioè la natura e l'essenza di ciò che sta a fondamento
"materiale", nonché dell'azione che determina il moto, di un universo qualsiasi che si possa
costruire a partire dalla legge formulata è stato semplicemente risolto, ovvero delegato, con
l'adozione del concetto di "densità" di un qualcosa che non osiamo definire, e di un comportamento
del quale non ci si chiede la causa, ma che viene solo correlato a dei valori locali, quelli appunto
della densità, o meglio della sua variazione locale.
Questo per obbedire alla raccomandazione del Padre della Gravitazione, che paradossalmente
dichiarava che un fisico autentico, che cioè non voglia fare anche metafisica, non può parlare di
forze, tantomeno di attrazione.
"Hypotheses non fingo: errato è il dire che due corpi si attraggono. Tutto ciò che possiamo
certamente affermare è che si avvicinano 'sicut ut', come se, si attraessero, perché la forza non la
vediamo".
Queste sono parole del Newton più maturo, normalmente ignorato.
E, continuerei, sempre riferendo una riflessione non troppo divulgata dello stesso Newton, per quel
che ne sappiamo, anziché di un'attrazione potrebbe trattarsi di una spinta.
Ci resta però parecchio su cui lavorare, nientemeno che il moto: avvicinamenti, allontanamenti,
traiettorie, velocità, accelerazioni. Questi sono gli autentici osservabili, tutto ciò di cui possiamo
avere certezza.
Se anche nelle formule dei matematici che descrivono il mondo fisico compare la lettera F che sta
ad indicare la forza, loro sanno molto bene che in ultima analisi si sta parlando solo di spostamenti
nello spazio, o di "mancati spostamenti" per via di ostacoli opposti al moto, per cui le formule
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potrebbero essere scritte anche eliminando F.
Lo stesso vale per m, lettera che non denota metafisicamente alcunché se indica solo la "capacità"
di un corpo di determinare intorno a sé un campo, o semplicemente la resistenza che oppone
all'invito a muoversi se è fermo o a fermarsi se è in moto. L'"inerzia", come il "campo", sono solo
descrizioni, in termini quantitativi e mai qualitativi, fenomenici e mai ontologici.
In ogni caso lo scienziato non si interroga sulle loro cause, come non si interroga sul significato
dello scenario più generale in cui gli attori esistono e l'azione si svolge, lo Spazio ed il Tempo.
3 – PIANO DI LAVORO
Definiti i concetti basilari e la legge generale del moto, passiamo ora a connotare la deviazione
locale, rispetto alla legge dell'Universo Newtoniano, da noi postulata per l'andamento della forza.
Prima di partire è opportuno illustrare il nostro piano di lavoro.
Descriveremo “l’anomalia” del campo, che sarà situata in una corona sferica di un certo spessore,
corona centrata nell’origine del campo newtoniano, e che chiameremo “sfera celeste”.
In un primo momento, poi, per allenarci a considerare le cose da questo nuovo punto di vista,
doteremo ogni stella di una sola siffatta corona sferica, uguale per tutte, e immagineremo un primo
provvisorio quadro dinamico, con molte stelle che si aggregano in uno spazio a gradiente nullo
(vuoto di campo), cioè con potenziale (o densità) costante.
Successivamente amplieremo il quadro collocando intorno ad ogni stella, dall'origine all'infinito,
una successione di siffatte locali anomalie, secondo una determinata legge, cui per intanto solo
accenneremo.
Con questo modello potremo, dopo aver accennato alla genesi di aggregati di stelle idealmente
sferici (ed alla contemporanea genesi degli ammassi di tali aggregati), predire la maggior parte delle
morfologie galattiche, a partire dalle galassie lenticolari per arrivare, passando attraverso le
ellittiche e le barrate, alle spirali.
La parte conclusiva di questo lavoro consisterà in un'appendice in cui giustificheremo gli assunti
qui esposti, nel corso di questa prima parte semplicemente postulati, ma per farlo dovremo partire
dalla struttura del “costituente ultimo”, che tratteremo per la parte che ci riguarda.
Naturalmente avremo fornito così anche un nuovo modello nell'ambito microfisico, sia per quanto
riguarda la struttura della materia che per quanto riguarda quella della radiazione, ma questi sono
altri lavori, cui rinvieremo.
4 - LE DEVIAZIONI POSTULATE
Postuliamo quindi che:
a) - La deviazione dai valori normali della forza interessi uno o più intervalli (A-B) di ampiezza
limitata, relativamente piccola rispetto all'estensione del campo esplorato.
b) - All'esterno dell'intervallo AB in questione i valori del campo restano quelli previsti da Newton.
A sinistra di A ed a destra di B il campo è "normale”: l'anomalia è circoscritta tra A e B.
Va precisato peraltro che l’inserimento di una deviazione locale nel potenziale comporta a rigore la
sua modificazione dall’origine ad infinito: si intende però che all’esterno dell’intervallo considerato
tale deviazione sia trascurabile.
11
Ciò si chiarirà meglio nel seguito, quando daremo consistenza matematica alla nostra ipotesi.
Data la difficoltà della rappresentazione grafica delle deviazioni che ipotizzeremo (le quali invero,
per l’argomento trattato, sono minime rispetto al potenziale di fondo, essendo in generale dello
stesso ordine di grandezza della variazione di quest’ultimo), esagereremo nelle figure sia il loro
rilievo che l’estensione dell’intervallo AB.
Iniziamo quindi a deformare il potenziale newtoniano.
Fissati sulla curva del potenziale newtoniano gli estremi A e B dell'intervallo, li congiungiamo con
un segmento (fig.3).
Fig. 3
La curva del potenziale di Newton ha sempre la concavità rivolta verso il basso, e quindi si
evidenzierà, con la nostra operazione, sempre un'area compresa tra segmento e tratto curvo,
collocata al di sopra del segmento stesso.
Inoltre, essendo la curva sempre decrescente verso sinistra, la pendenza del segmento di retta sarà
sempre rivolta anch'essa verso sinistra, essendo l'estremo destro B sempre collocato a una quota più
alta rispetto all'estremo sinistro A.
Ci sarà sicuramente un punto F della curva, interno al tratto compreso tra A e B, in cui la tangente t
è parallela al segmento stesso, e sarà certamente possibile tracciare, passante per F, una retta r con
inclinazione positiva minore di quella della tangente (fig.4).
Fig. 4
Quindi sarà possibile raccordare i due
tratti esterni ad A e B, nei punti A e B,
con un tratto curvilineo a forma di esse
tangente al punto F (fig.5), tratto che
attraversa in quel punto la curva del
potenziale di partenza, reso in puntini
nella figura (figura che include, sotto,
il tracciato
della forza, che
analizzeremo dopo).
Sarà anche possibile fare in modo che l’area dello spicchio sopra tale curva, quello con la gobba in
su, sia uguale a quella dello spicchio che sta sotto, con la gobba in giù.
Questo lo dobbiamo ipotizzare perché vogliamo che la quantità totale del potenziale resti immutata
nel corso della nostra operazione di modifica: nella lingua che parlano matematici si direbbe che
l’integrale definito del nostro potenziale (in qualsiasi intervallo che comprenda AB) è uguale a
quello di Newton.
12
Non gli abbiamo infatti
rubato
nulla,
abbiamo
chiesto solo un prestito:
perché se è vero che un po’
di potenziale gli abbiamo
sottratto (a monte), vero
anche è che glielo abbiamo
poi restituito (a valle).
Stiamo solo modellando,
come se fosse creta, il
materiale
fornitoci
dall’illustre scienziato, e non
buttiamo via niente: non
siamo scultori in pietra, né
intagliatori in legno.
Tra l’altro in questo primo
approccio con la densità
dello spazio non abbiamo
prodotto molti danni, poiché
il campo è rimasto attrattivo:
una pallina collocata sul
nuovo più divertente scivolo
se ne andrà giù sempre verso
sinistra.
Il grafico della forza (il
secondo di fig.5), che ad
ogni punto di quello del
Fig.5
potenziale
associa
la
derivata, cioè la pendenza
della tangente, ci fa vedere
una curva disegnata tutta
sopra l’asse delle x: valori
positivi della forza significano che la tangente in ogni punto della curva del potenziale è sempre, più
o meno, inclinata verso sinistra (“alto destra - basso sinistra”).
In tratteggio figura anche l’andamento della forza di Newton.
Per un primo tratto, provenendo da sinistra, la nostra, comunque attraente, sta sopra quella di
Newton, e l’attrazione è maggiore, per il successivo sta sotto, dove è minore, ed infine, per il terzo
tratto, sta di nuovo sopra, con attrazione di nuovo maggiore.
Come si vede, c’è n’è per mettere d’accordo Eotvos che (almeno secondo Fishbach) aveva
misurato una più veloce diminuzione della gravità, e quelli di Saclay (per i quali i Pioneer venivano
attratti verso il Sole più del dovuto) che invece avevano misurato una meno veloce diminuzione
della gravità.
Il tutto, beninteso, a determinate distanze.
Se quelli di Saclay, poi, parlavano di “fluttuazioni” della gravità oltre le distanza a cui si trovavano
13
Fig.
Fig.6
le due sonde spaziali, probabilmente non è
perché le avessero misurate personalmente e
contestualmente. Semplicemente le hanno
dedotte (per la verità potevano dedurne anche
solo una), dal momento che se a qualche
distanza, e per un certo intervallo, la gravità è
più alta di quel che dovrebbe essere, e si
riscontra d’altra parte che prima o poi, più in là,
torna ad essere normale, ci deve essere per forza
almeno un altro intervallo in cui la gravità è più
bassa di quel che dovrebbe essere, quindi almeno
un punto in cui l’anomala curva della gravità
attraversa quella giusta: e questo anche se non si
volesse conservare la quantità di potenziale, cioè
anche se non si volesse restituire a Newton il
maltolto, scavando solo la buca (fig.6) senza
lasciare ad essa accanto la montagnola di terra
rimossa, dal momento che la nuova curva della
gravità deve comunque intersecare quella
“normale”, in tal caso solo una volta.
Da qui in poi non dovremo fare altro che variare l’inclinazione della retta passante per F a cui il
nostro tratto curvilineo a forma di esse deve risultare tangente nel suo punto di flesso.
Facciamo quindi ruotare (sempre in senso
orario) la tangente intorno ad F,
diminuendone ancora l’inclinazione, per
intanto fino a farla divenire orizzontale, e
disegniamo il corrispondente andamento
della nostra nuova curva, con annessa
derivata (fig.7).
Fig.7
Fig.
14
Di nuovo c’è che ora c’è un punto di
equilibrio, per quanto instabile; la pallina
continuerà, come prima, a scendere verso
sinistra, a meno che non la collochiamo in
F, dove se ne starebbe ferma.
F è ora un punto ove la forza è nulla, un
punto di “massimo sinistro - minimo
destro”.
Infatti in F la curva della derivata tocca
l‘asse delle x: per il resto è ancora sempre
positiva.
L’ultimo passo è, continuando a far ruotare la nostra tangente, il passaggio all’inclinazione negativa
(fig.8)
Ora abbiamo scavato la vera e propria
buca: la pallina resta in quiete, in
equilibrio stabile, in S, il fondo della
buca, punto di minimo relativo cui, nella
curva della forza, corrisponde un
attraversamento dell’asse delle x e quindi
il valore nullo.
Accanto alla buca, alla sua sinistra, si è
ora determinato anche un dosso, con il
suo massimo relativo M in cima, punto
in cui pure la forza si annulla, ma punto
di equilibrio instabile.
Un minimo spostamento intorno ad M fa
cadere la pallina dall’una o dall’altra
parte, mentre lo spostamento della
pallina intorno ad S, almeno fino alla
distanza del massimo M, la fa cadere di
nuovo verso S, il fondo della buca, punto
di minimo potenziale (relativo).
La grande novità è quindi il tratto M-S in
cui il campo è diventato “repulsivo”.
Si è creato un versante inclinato verso
destra, da ogni punto del quale la pallina
si metterebbe in moto allontanandosi
dall’origine “sicut ut”, direbbe Newton,
ne fosse respinta.
Fig.8
Nel grafico della derivata ad S e M
corrispondono due flessi (F” e F’) in due
punti in cui la curva attraversa l’asse delle x, annullandosi, e tra questi due punti il valore negativo
della forza, rappresentata da un tratto di curva disegnato sotto l’asse, ci dice che essa non è più
attrattiva. Il massimo di questa “repulsione” è registrato nel punto di minimo relativo m,
corrispondente, nella curva del potenziale, al nostro flesso F, in cui la pendenza del versante sinistro
della buca è massima.
Abbiamo già visto che se collochiamo la pallina tra M ed S essa si metterà in moto verso destra:
avendo acquistato energia cinetica, superato il fondovalle S risalirà lungo il versante opposto della
buca fino a fermarsi ad una quota uguale a quella da cui l’avevamo fatta partire, per tornare poi
indietro e raggiungere il punto di partenza, per poi ripartire verso destra... e così di seguito per
sempre (se, ovviamente non vi sono attriti e/o resistenze, come è di fatto nel cosiddetto “spazio
vuoto”).
La pallina collocata a destra di S, in un punto del versante destro della buca, si metterà in moto
verso sinistra, supererà sicuramente il fondo della buca, ma il suo destino successivo (oscillazione o
meno nella buca) sarà determinato dall'altezza del potenziale del punto da cui l'abbiamo lasciata
andare.
Se tale punto è a quota inferiore rispetto alla sommità del dosso M, tornerà indietro dopo essersi
fermata prima della sommità dell'argine; se è a quota superiore, scavalcherà la cima del dosso e
proseguirà verso il centro dell'imbuto newtoniano.
15
5 - DOSSO E BUCA IDEALI?
Vediamo ora di formalizzare matematicamente l’andamento del nostro potenziale: finora lo
abbiamo descritto solo qualitativamente.
Arriveremo ad una equazione che potrà anche sembrare soddisfacente, perché risponderà a tutti i
requisiti della nostra ricostruzione intuitiva, ma si vedrà nell’appendice come l’equazione del nuovo
potenziale nasca da una sommatoria, ed allora bisognerà dimostrare che il limite di quella
sommatoria (al tendere all’infinito del numero degli addendi) coincide con essa.
Partiremo dall’equazione della “buca ideale”.
Secondo me il profilo della buca ideale è quello, capovolto, del dosso ideale
E, sempre secondo me. la curva del
dosso ideale è la gaussiana (fig.9).
Fig.9
E’ una curva di dispersione: come
oggetto statistico, per la misura degli
errori o delle deviazioni dalla media,
ogni suo punto indica, con la sua
ordinata verticale y, quanto è frequente
un valore in rapporto alla sua distanza x
dal valore medio, “corretto” o “normale”. La distanza orizzontale x d'altra parte indica il grado di
deviazione: se lo si suppone grandissimo lo si troverà anche meno frequentemente, tanto che
l'"errore infinito" è impossibile, poiché la curva si schiaccia asintoticamente sull'asse delle x, sia
verso destra che verso sinistra.
Volgarmente, c'è un limite tanto al gigantismo quanto al nanismo.
Capovolgiamo momentaneamente il dosso per ottenere la buca: basta mettere il meno davanti
all’espressione della funzione (fig.10).
A suo tempo s’è detto che l’”anomalia”
da noi introdotta nel campo newtoniano
lo coinvolge fino all’infinito, essendo
però
trascurabile
la
deviazione
all’esterno di un intervallo (che quindi
Fig.10
a rigore è indefinito, e proprio per la
relatività
del
concetto
di
“trascurabilità”). Questo requisito è soddisfatto dalla nostra gaussiana capovolta, la cui derivata non
è mai nulla (tende a zero al tendere di x all’infinito).
L’intervento di rimodellazione del potenziale newtoniano, se non è un intervento di sola
asportazione o di sola aggiunta locale di materia prima, non è nemmeno un intervento solo locale:
ovvero, operativamente parlando può anche essere locale, ma i suoi effetti coinvolgono tutto il
materiale di cui disponiamo.
Si pensi al risultato della pressione di un dito sulla superficie piana di un ideale blocco di gomma,
pressione che determina una depressione in teoria estesa a tutta la superficie.
Quel che ne risulta in termini di deformazione è la curva della precedente figura, con la depressione
che va idealmente da meno infinito a pìù infinito.
Se l’”anomalia” che vogliamo innestare nel tessuto del potenziale newtoniano fosse semplicemente
una buca, sommeremmo l’equazione di questa “vasta” depressione, accentuata al centro, a quella
16
iperbolica rovesciata, e la funzione somma sarà diversa in tutto il dominio da zero a infinito, non
solo nella regione visibilmente perturbata.
Ma noi vogliamo, a sinistra della cunetta, anche il dosso, ed allora dobbiamo, prima di effettuare la
somma, trovare l’equazione dell’andamento ad esse della successione dosso-cunetta.
A questo scopo rimetteremo piedi la gaussiana.
Prima di procedere vediamo come si costruiscono dossi più estesi e/o più rilevati.
Scriviamo allora l’equazione più generale.
Y = b[a^-x^2] (a>1, b>0)
Per averli più estesi (fissato un valore di b) basta diminuire il valore di a nell’equazione: fermandoci
prima di arrivare ad 1, però, perché sennò il dosso sparisce e riabbiamo il piano (rialzato)
In fig.11 alcuni dossi di uguale altezza ma crescente ampiezza, tendenti all’altopiano esteso
all’infinito, che si avrà con a=1, alto b.
Fig.11
Per averli più rilevati (fissato un valore per a) basta aumentare b.
In fig.12 alcuni dossi di uguale ampiezza ma altezza in aumento al crescere di b.
Fig.12
Disegniamo finalmente la nostra sequenza dosso-cunetta scegliendo a piacere uno dei dossi delle
figure precedenti e calcolandone la derivata (fig.13)
Fig.13
17
Adotteremo questa curva (la seconda nella
figura) nel senso che dobbiamo dimenticare
che è la derivata di qualcos’altro - anche se
sarebbe interessante, in sede di indagine
sulla genesi vedi appendice), considerarla
proprio una derivata, e precisamente di (da)
un impulso avente la forma del dosso - e
vederla semplicemente come una funzione
di potenziale: dosso e cunetta qui prodotti nel piano, naturalmente, vale a dire nel potenziale
costante a gradiente nullo dello spazio piatto, in attesa di essere sommata al potenziale iperbolico di
Newton.
Si traccia la curva della sua derivata per avere punto per punto l’andamento della forza (fig.14).
Fig.14
A parte il fatto di non essere ancora sommata alla curva della forza di Newton, si vede subito come
essa somiglia all’andamento che abbiamo finora intuitivamente costruito e disegnato ad occhio,
come somiglia all’andamento del potenziale disegnato approssimativamente a mano quello della
curva da cui l’abbiamo fatta derivare.
In fig.15 le due curve di fig.14 sommate rispettivamente al potenziale ed alla forza newtoniani.
Fig.15
Siamo ora attrezzati per cominciare a costruire il nostro universo alle grandi scale.
18
6 - UN’ANTICIPAZIONE: “PUNTI
SERIALE
DI LAGRANGE” E TRAZIONE GRAVITAZIONALE
Oggetto del presente studio sono le aggregazioni delle stelle in grande scala.
Si intende che alla scala della singola stella possiamo far corrispondere un sistema più complesso,
che non è oggetto del nostro studio, per esempio un sistema doppio o multiplo, di cui peraltro ci
occuperemo en-passant, o un sistema planetario, laddove la stella sia anche dotata di una corte di
pianeti e satelliti.
Tutto ciò è oggetto di un altro studio, ma non resistiamo alla tentazione di accennare almeno a due
aspetti delle dinamiche concernenti questo reparto, per dare un saggio anticipato della capacità di
predizione del nostro modello delle sfere celesti.
Le due esemplificazioni che seguiranno utilizzeranno una stella, un pianeta orbitante intorno ad
essa e la seconda anche un satellite del pianeta, ma nulla impedisce di utilizzare invece due o tre
stelle legate in un sistema multiplo (binario e ternario), col che saremmo anche in tema con il nostro
studio, trattandosi ovviamente in questa seconda configurazione comunque di aggregati di stelle.
Adottiamo la prima per una ragione molto pratica: il riscontro osservativo, dato che i moti dei
pianeti e dei satelliti sono meglio osservati, sia per la loro vicinanza a noi che per le maggiori
velocità, che implicano la possibilità di misurare le variazioni del sistema nel tempo.
Prima applicazione (fig.16).
La stella A ha una corona di raggio r lungo la quale, guidato dal canale, orbita (ma anche no) un
pianeta P che ha intorno una corona di raggio uguale, la quale quindi passa per A.
La figura rappresenta il piano orbitale.
Nel punti B e C, a 60° da A, le due corone si
intersecano, dando luogo per somma ai due
minimi relativi del potenziale di due buche
in corrispondenza dell’incrocio tra i due
canali.
In ciascuna delle due buche c’è stabilita: se
il pianeta P sta orbitando intorno alla stella,
altri due pianeti potranno coorbitare
mantenendosi sempre alla stessa distanza.
B e C sono noti dal ‘700 come punti di
Lagrange, e vengono contrassegnati con le
sigle L4 ed L5.
Fig.16
Sono, per Lagrange, punti di instabilità,
essendo, vista la teoria newtoniana del campo solo attrattivo, le cime di due dossi. Ragion per cui
Lagrange non prediceva che si sarebbero realmente osservati degli oggetti in quei punti, la sua era
poco più di un’esercitazione didattica: quando successivamente sono invece effettivamente stati
osservati nei suoi punti dei corpi in assetto stabile oppure oscillanti intorno ad essi (come farebbero
delle palline nel fondo di una scodella), ci si è scervellati alla ricerca di una spiegazione per tale non
prevista stabilità, ricorrendo alla fine alle forze di Coriolis, che convincono solo chi vuol esser
convinto.
Seconda applicazione (fig.17).
19
Abbiamo la stella A ed il pianeta P come prima, il quale si trova nella corona sferica della stella: qui
il pianeta potrebbe anche non avere la corona.
C’è poi un satellite S che orbita intorno al pianeta, non necessariamente guidato quindi da una sua
corona.
Il satellite, ad ogni orbita, attraversa due volte la
corona sferica della stella, in B ed in C, avendo
quindi a che fare con la nostra anomalia del
campo: visto il verso della rivoluzione (qui
antioraria) ed il punto di partenza S in cui in figura
l’abbiamo collocato, deve superare un dosso
seguito da una cunetta in B, ed una cunetta seguita
da un dosso in C.
Naturalmente ne risentirà localmente la sua
velocità, che comunque riacquisterà, all’uscita da
ciascuno dei due pantani, per la simmetria invertita
“dosso cunetta”, il suo valore iniziale: ma qui
Fig.17
questo non ci interessa (anche se si tratta
comunque di un’altra interessante predizione).
Noi ipotizzeremo che il satellite, sferico nel potenziale costante, sia deformabile a seguito di azione
mareale, cioè che quando è compresso si schiacci visibilmente e quando è stirato si allunghi.
Poco sopra abbiamo dato l’andamento della forza gravitazionale, derivata del potenziale, all’interno
dell’intervallo dell’anomalia.
Ora diamo (fig.18) l’andamento della forza mareale, che è la sua derivata (vale a dire la derivata
seconda del potenziale)
Fig.18
I tre grafici sono stati messi uno sopra l’altro, per facilitarne attraverso il confronto la
20
comprensione.
L’azione mareale è massima ove massimamente varia la forza gravitazionale: per esempio in
corrispondenza dei flessi della curva del potenziale la gravità (mentre raggiunge un massimo o un
minimo relativi) tende ad essere costante, e conseguentemente l’effetto mareale nullo.
Dove invece l’andamento del potenziale si incurva (intorno ai punti di massimo e minimo relativo,
ma anche in prossimità dei punti di “raccordo”), la forza gravitazionale varia, registrando lì dei
flessi, cui nella curva della marea corrispondono massimi e minimi relativi.
In tutto quattro, due massimi e due minimi.
Vedremo quindi il nostro satellite, durante l’attraversamento della corona in B, prima schiacciarsi,
fino a M1, poi tornare sferico in S1, poi stirarsi fino ad M2, ritornare sferico in S2, tornare a
schiacciarsi fino ad M3, ritornare sferico in S3 ed infine stirarsi di nuovo in M4, per riassumere
definitivamente la forma sferica una volta guadagnato il relativamente piatto gradiente newtoniano,
fino all’altro pantano, dopo mezza orbita circa, attraversando il quale l’alternarsi “schiacciamentostiramento” si inverte.
L’hanno chiamata “trazione gravitazionale seriale”: è stata osservata in Io, satellite di Giove, ma la
cosa non si trova facilmente in rete o altrove, poiché lo strano fenomeno non è stato spiegato, e di
cose che non si spiegano è meglio non parlare.
Chiusa la parentesi, si dia inizio alle danze secondo il programma.
7 - PRIMA IPOTESI PROVVISORIA: UNA CORONA PER OGNI STELLA
Dando per ora per scontato un oggetto chiamato “stella”, lo dotiamo di una “corona sferica”,
collocata ad una distanza fissa, attraversando radialmente il cui spessore in una direzione qualsiasi
si incontrino i valori del potenziale trovato.
Cominciamo con un ossimoro:
“Ciò che rileva è la depressione”.
Accanto alla depressione della cunetta c’è il rilievo del dosso, ma quest’ultimo per intanto possiamo
ignorarlo, sia per semplificare la rappresentazione grafica, che qui di seguito sarebbe comunque
approssimativa, sia soprattutto perché nell’immediato ci occuperemo soprattutto di stabilità.
Fig.19
Disegniamo quindi nel potenziale iperbolico la sola buca
(fig.19)
Come si vede, essendo la buca scavata nel versante pendente.,
a sinistra di essa si determina un dosso (qui spropositamente
rilevato), anche se assai più esteso e meno rilevato del nostro,
col suo massimo.
Adottare la curva completa con andamento ad esse includente
anche il nostro dosso non farebbe qualitativamente cambiare
l’orografia: innalzerebbe l’argine sinistro di contenimento del
canale, oltre a produrre altre interessanti variazioni sul
versante sinistro del dosso, certo, ma per intanto ciò che ci
interessa è che il canale ci sia.
Il nostro diagramma di base sia quindi questo, riferito al potenziale della stella A (fig.20).
21
Fig.20
Nella buca di destra collochiamo una stella uguale B (fig.21).
Fig.21
Sommiamo i due potenziali.
Fig.22
Il tracciato di fig.22 riproduce l'andamento del potenziale in una direzione che attraversa le stelle A
e B: A giace nella buca a sinistra di B e B nella buca a destra di A.
22
Le buche più esterne determinate rispettivamente da A e B sono disponibili ad accogliere altre
stelle che lì saranno anch'esse in equilibrio stabile. Queste a loro volta, se è il caso, determineranno
le condizioni per la stabilità di altre stelle intorno, se avranno cioè a loro volta intorno a sé altre
buche.
E così via.
Il risultato è che l'aggregato di stelle può ben essere composto da un numero finito di esse (con
buche quindi libere alla periferia, se le stelle periferiche ne producono) senza che l'ammasso
imploda verso il suo centro.
Per semplicità abbiamo ipotizzato che le nostre stelle siano tutte uguali in quanto a massa e che
ciascuna presenti intorno a sé una perturbazione sferica uguale per tutte, collocata alla stessa
distanza. Ebbene, in queste condizioni deduciamo un "ammasso stellare cristallino", in cui ciascuna
stella è collocata agli incroci di un reticolo regolare.
Naturalmente questa ipotesi produrrebbe la struttura cristallina più semplice. Come succede nelle
strutture della materia, però, regolarità di tutti i tipi nella disposizione spaziale del modulo (o anche
di moduli diversi) possono darsi anche nell'ipotesi di distanze diverse, purché assumenti un limitato
numero di valori che si ripetono.
In qualche recesso angolo del nostro Universo possono esistere ammassi di stelle così strutturati,
tali che chi vi abita, osservando il cielo, vede quello che vedrebbe un essere di dimensioni
subatomiche che vivesse, per esempio, dentro il corpo di un diamante, e guardandosi intorno,
scrutasse il suo cielo costellato di nuclei atomici disposti ai vertici di tetraedri. La condizione è,
come detto, che la genesi delle singole stelle preveda la formazione di oggetti tutti uguali e dotati
della stessa corona, ed inoltre che si determini un'opportuna dinamica a partire da determinate
condizioni iniziali, in modo che i difetti cristallini non siano la regola.
Normalmente però, se da un parte le stelle hanno le masse più diverse, e quindi diversamente
accentuato è il loro imbuto gravitazionale, vi sarà anche ampia libertà di variazione, in numero,
distanza dal centro ed andamento dei potenziali, delle corone sferiche che le circondano,
dall'assenza totale alla più variegata abbondanza: la disposizione d'equilibrio delle stelle nel corpo
di una galassia o di una qualsiasi aggregazione apparirà normalmente disordinata e casuale.
Dato però un grande ammasso di stelle, si potranno osservare variazioni della loro concentrazione:
potranno essere più addensate in una certa zona che in altre e, in particolare, se si tratta di
aggregazioni con almeno un asse di simmetria, facilmente si osserverà addensamento centrale. Nel
caso più semplice, la formazione sferica, e nei suoi derivati, che analizzeremo, vi sarà un nucleo più
denso.
Per ora però, come annunciato, ci limitiamo alla considerazione di stelle con una sola corona situata
sempre alla stessa distanza.
Nella nostra provvisoria ipotesi, se un nucleo si può formare, esso avrà la densità massima, quella
delle stelle che si sono stipate a contatto l'una con l'altra.
Per studiare la dinamica che porta a questo risultato, rappresenteremo solo la stella A con la sua
corona, ignorando quella di B (fig.23).
23
Fig.23
Supponiamo che B superi M, e vada a cadere su A. Su A, in generale, ipotizziamo che possa andare
a cadere qualsiasi altra stella vagante, o comunque materiale che vada ad ingrossarla.
Supponiamo che B, come tutto questo materiale, non abbia sempre una corona sferica alla distanza
d, che anche non ne abbia alcuna, o, avendone una o più, il loro raggio sia non sempre lo stesso.
Verrà incrementato quindi il gradiente circostante del campo newtoniano più di quanto venga
incrementata la profondità della buca per somma dei contributi di altre buche collocate alla stessa
distanza.
Il risultato si otterrà sommando alla nostra, dotata delle due "buche", una curva newtoniana (quella
del materiale aggiunto), che ne aumenterà l'inclinazione globale verso il centro A.
Fig.24
La figura 24 illustra l’evoluzione verso il"travaso" a sinistra di una stella B collocata in una buca il
cui versante sinistro si inclina al punto da non servire più da contenimento.
Ciò è avvenuto per incremento (per aggiunta delle nuove masse lì addensatesi) della massa della
stella A responsabile del campo, per cui il suo "versante newtoniano" si è maggiormente inclinato.
Si è supposto qui che le caratteristiche della buca originaria non siano mutate nel corso
dell'evoluzione che ha portato all'aumento dell'inclinazione del suo asse fino al “punto di rottura”:
in altra ipotesi l'incremento della massa di A, se avviene ad opera di materiali anch'essi dotati di una
corona alla stessa distanza, può determinare il contemporaneo approfondimento anche della buca,
con conseguente compensazione dell'effetto e quindi permanente stabilità di B.
24
Nella prima ipotesi il canale da A prodotto si inclina verso A, il versante esterno diventa più ripido,
mentre quello interno più dolce, per cui diventa più facile superarlo. In ragione della quantità di
densità newtoniana sottratta in direzione di A, il versante interno potrà anche scomparire,
diventando pianeggiante, o addirittura inclinandosi dall'altra parte.
Una stella che era collocata nel canale ora cade in A, esasperando ulteriormente le condizioni per il
travaso, con l'aggiunta della propria massa a quella di A, che farà inclinare ancora di più il bacino e
con esso i versanti interni dei canali che lo attraversano circolarmente. In questo modo, alla lunga,
tutte le stelle di una vasta area, inizialmente collegate da una rete "piana" di canalizzazioni,
potranno cadere in A, formando un grosso nucleo, senza vuoti all'interno, con la stessa compattezza,
vale a dire con la stessa densità, se non maggiore, della singola stella.
Naturalmente noi abbiamo semplificato parecchio la dinamica del nostro teorico collasso,
generalizzando alla realtà le condizioni iniziali del nostro schema e l'esito della “fusione” delle due
stelle in rotta di collisione, senza tener conto dell'eventualità, che appare normale, di una diversa
interazione, che fa conservare la quantità di moto di entrambe nel caso che non avvenga lo scontro.
Teoricamente un'intera galassia può implodere in un'unica "grossa stella", come accadrebbe
normalmente, date certe condizioni iniziali, nell'universo di Newton, e proprio perché l'incremento
della massa del centro fa perdere efficacia alle condizione, le fa mancare, per cui le stelle nel nostro
rimangono distanti, l'esistenza cioè delle corone sferiche, ovvero della loro efficacia in tal senso.
Le singole stelle confluiscono progressivamente verso il centro "per travaso". L'acqua scende lungo
lo spiovente del tetto perché non incontra argini: esce da un bicchiere, dove è normalmente arginata,
per travaso, se il bicchiere viene inclinato. Ma l'esempio viene meglio con una pallina, o con
l'ultima goccia: bisogna inclinare il bicchiere fino a rendere almeno piano l'argine, affinché il
travaso avvenga.
Può essere che non tutte le stelle della galassia vadano a cadere nel centro, cioè che il travaso dai
canali delle stelle via via periferiche non avvenga, per loro insufficiente inclinazione, che avvenga
solo per una parte centrale dell'ammasso, soprattutto se esso è molto grande.
Si potrebbe pensare altresì che sia solo questione di tempo, che il destino di tutti gli ammassi, nella
nostra provvisoria ipotesi, sia alla lunga quello di ridursi ad un grumo di materia compatta: il
coinvolgimento progressivo delle stelle via via meno vicine al centro, che non si arresti mai, anche
se avvenisse a velocità che decresce via via che chiama in gioco stelle più periferiche, alimentando
comunque il processo di inclinazione dei canali, potrebbe durare quei miliardi di anni nel corso dei
quali si osserva un oggetto esteso apparentemente stabile, con un nucleo centrale ed intorno stelle
normalmente distanziate tra loro perché ancora nei loro canali.
In questa ipotesi, quella del nucleo compatto che occupa un piccolissimo spazio, non si
osserveranno differenze di addensamento delle stelle nell'ammasso, a parte il luminosissimo punto
centrale. Bisogna infatti sottolineare che in questo modello la stabilità di una stella è data o per il
fatto di trovarsi in un suo canale, o per il fatto di essere precipitata nel centro del sistema: distanze
intermedie che separino stabilmente le stelle, data una distanza standard media tra di esse, non sono
ammesse, e le stelle che si trovassero a quelle distanze sarebbero semplicemente in viaggio verso il
centro del sistema dopo aver scavalcato l'argine inclinatosi del proprio canale.
Il "travaso" è l'effetto di una sorta di "rottura".
Se la stella travasata è dotata di corona, spostandosi verso il centro se la porta appresso,
eventualmente occupata da una o più altre stelle: le dinamiche del lungo processo di implosione
sono complesse, poiché avvengono da un lato "per eventi discreti" (le "rotture degli argini"),
dall'altro per processi continui (le "lente migrazioni").
25
Configura peraltro stabilità anche una distanza minore di quella del fondovalle del canale (fig.25):
quando il canale viene inclinato, ma non tanto da determinare ancora il travaso, la stella che lo
occupa si sposta nella direzione del centro, sul nuovo fondovalle a derivata zero.
Fig.25
Ma tale accorciamento delle distanze è poca cosa, anche in considerazione del fatto che l'ampiezza
della buca è piccola rispetto alla distanza d, e non può spiegare altre strutture che pure nel nostro
universo si osservano: galassie con la parte centrale più addensata, occupante un'estesa area ove le
stelle stanno tra loro molto più vicine di quanto lo siano tra loro quelle appartenenti alla fascia
esterna.
Lo stacco tra le due regioni concentriche non è però così netto come si deduce dalla nostra
provvisoria ipotesi di una sola corona intorno ad ogni stella, a distanza fissa.
Ci sono inoltre aggregati (per esempio gli ammassi stellari sferici che spesso stanno intorno alle
galassie) in cui la densità di stelle sfuma, digradando, dal centro alla periferia in modo tale che è
problematico parlare di nucleo esteso.
Per dar conto di questa situazione, occorre uscire dalla semplificazione che finora abbiamo adottato,
ipotizzando più sfere celesti intorno ad ogni stella.
8 - PLURALITA' DI SFERE CONCENTRICHE INTORNO AD OGNI STELLA
Ogni stella abbia normalmente allora più canali circolari, sempre più stretti e profondi, e sempre più
vicini tra loro, mano a mano che ci si avvicina ad essa. Nella parte conclusiva, in appendice, come
annunciato, giustificheremo anche tale assunto.
Ipotizziamo che in condizioni normali i canali occupati siano piuttosto esterni (preciseremo e
giustificheremo nel seguito tale assunto).
Ciò dà conto della distribuzione che si osserva finché non intervengono altre dinamiche.
Diventa subito chiaro allora il significato che hanno diverse minori distanze tra le stelle:
semplicemente vengono occupati anche canali interni. Quando si osserva un maggior
addensamento, come nei nuclei estesi, è avvenuto il travaso tra canali, da quelli esterni a quelli
interni.
Maggiore è l'addensamento, più interno è il canale occupato.
Nella fascia intorno ad un eventuale nucleo densissimo in cui si sia verificata la fusione tra stelle, “a
sfumare” troviamo regioni concentriche di stelle ove via via, dall'esterno verso l'interno, le stelle
occupano corone sempre più vicine alle altre stelle, con l'effetto di dar luogo a densità diverse,
decrescenti verso la periferia.
26
Considerando un dato livello di densità, si potrebbe dire, mutuando il linguaggio che descrive ad
una inferiore scala la struttura della materia, che ad una certa distanza è mutata la configurazione
"cristallina" dell'ammasso: così come, per esempio, la compressione della grafite fino ad ottenere il
diamante, più denso, consiste nel far occupare ai nuclei di carbonio intercapedini sferiche più
interne, in modo da dar luogo ad un reticolo tetraedrico, più compatto, anziché esagonale a strati.
Non è a questo punto più necessario ipotizzare, in generale, che il nucleo galattico consista di stelle
a contatto, in una loro poltiglia senza soluzione di continuità.
Le stelle del nucleo possono essere semplicemente molto (enormemente) più addensate perché
occupano "canali" molto più interni, e cambia quindi anche la configurazione dell'insieme, che tra
l'altro potrebbe presentare maggiori somiglianze con una vera e propria struttura cristallina, più
regolare di quella delle parti più esterne, ove la densità è molto minore.
Si può supporre che il canale più interno (che è anche quello più profondo, e quindi il più difficile
da inclinare al punto da determinare il travaso anche da esso per dar luogo alla fusione delle stelle),
sia vicino parecchi ordini di grandezza più di quello in cui in condizioni normali una stella si trova,
tanto che l’osservazione dalla grande distanza non risolve i due oggetti, tanto sono vicini.
Naturalmente non è proibito occupare le corsie più interne se non si appartiene al nucleo della
galassia: anche stelle appartenenti alla fascia esterna, normalmente molto distanti tra loro, possono
occupare un canale molto prossimo ad un'altra stella.
9 – UNA PARENTESI: LE STELLE BINARIE
Queste stelle "binarie", o anche ternarie ecc., sono anzi molto probabili, vista la gran quantità di
moti locali che danno luogo ad un continuo girovagare, creando spesso le condizioni di velocità, e
di incidenza rispetto alle corone, per l'immissione nell'alveo di un canale sferico.
Naturalmente esistono anche sistemi binari (esclusivamente binari, o in cui una delle due
componenti è costituita da un altro sistema binario in cui una delle due stelle ha massa
“trascurabile” o le orbita molto vicino) di stelle che semplicemente orbitano una attorno all'altra
seguendo la legge di Newton, senza bisogno di essere guidate dalle rotaie del cielo.
Per noi però la stabilità è garantita anche solo per il fatto di occupare il fondovalle del canale, senza
aver bisogno di muoversi.
Il canale può sì far da guida ed essere percorso (naturalmente non sulla linea del fondovalle, ma
lungo una traiettoria disegnata sul suo versante esterno, come in certi stretti circuiti sportivi, e con
un'eccentricità entro i limiti della larghezza della carreggiata), ma si possono dare tutti i
comportamenti compatibili con la presenza del doppio versante, dall'oscillazione trasversale al
percorso a serpentina.
Comportamenti più complessi si danno in generale, con incidenze le più diverse e la presenza di
altri corpi capaci di variare, in particolare di far perdere, per es. per urto, energia cinetica al nostro:
l'immissione nel canale da una adeguata incidenza trasforma il moto oscillatorio trasversale al
canale in cattura nel canale stesso, con messa in orbita, e lo scontro con oggetti che già occupano il
canale può alla fine far occupare stabilmente al nostro un punto della linea di fondovalle,
facendone cessare sia l'oscillazione che il moto orbitale.
Chiamando A e B le due stelle, individuiamo diverse situazioni.
a) - B descrive un'orbita newtoniana ellittica (fig.26), di eccentricità anche molto alta,
relativamente ravvicinata intorno ad A, orbita che interseca o meno il canale di A: è inteso che in
ragione della raffrontabilità tra le due masse entrambe le stelle ruotano una intorno all'altra, o
meglio entrambe intorno ad un comune baricentro.
27
Fig.26
Se l'orbita newtoniana interseca (due volte nel corso di ogni periodo) il canale è intuitivo che verrà
disturbata e succederanno cose del tipo precessione del perielio, e tanto più, in ragione del maggiore
“sobbalzo” a causa del più accentuato gradiente, quanto più la stella (ed il canale di A) è vicina.
b) - B si immette nel canale di A e lo percorre stabilmente in orbita quasi perfettamente circolare
(con eccentricità in ogni caso molto ridotta, quella consentita probabilmente dalla larghezza della
parte concava del versante esterno del canale): anche qui, se le masse sono confrontabili, il risultato
è che anche A ruota intorno a B.
c) - B staziona in un punto del canale di A, sul fondovalle, senza orbitarle intorno, e le due stelle
sono relativamente immobili nello spazio.
d - B oscilla trasversalmente al canale, avvicinandosi ed allontanandosi di un po', periodicamente,
da A.
e) - (composizione di b e d) B procede a serpentina lungo il canale.
Tornando al problema delle densità dei grandi aggregati di stelle, si può prospettare il seguente
quadro tipo: in linea di massima le stelle che compongono il nucleo sono collocate tra loro tutte,
ciascuna rispetto alla più vicina, alla distanza a cui sono collocate mediamente le stelle binarie più
strette della parte più rarefatta della galassia, quella periferica: infatti alla grande distanza nemmeno
le stelle binarie sono visualmente distinguibili, così come quelle interne al nucleo.
10 - UNA LEGGE PER LA DISTRIBUZIONE E LA VARIAZIONE DELL’ANOMALIA
Ci occupiamo ora della la legge della distribuzione e della variazione della nostra anomalia nel
campo newtoniano.
L'”anomalia” del campo, intesa come sequenza dosso-buca, si registra, a partire dal centro del
28
campo, a distanze sempre crescenti, secondo una successione di tipo esponenziale, per esempio le
successive potenze intere di 2.
2^N (N= 1,2,3,4,5,6...)
Avremo in tal caso:
2 4 8 16 32 64....
Per il nostro studio assumeremo la stella come corpo centrale di riferimento, e questo, per ragioni
che si capiranno nel seguito, ci esime qui dal considerare eventuali altre corone sferiche all'interno,
diciamo, della prima indicata dalla sequenza, più vicine alla stella stessa.
Questo per quanto concerne la collocazione nel campo dell'anomalia.
Per quanto riguarda invece la sua rilevanza, diremo che dosso e cunetta affiancati sono tanto più
estesi e proporzionalmente meno accentuati (accentuati nel senso della profondità della depressione
e dell'altezza del rilievo) quanto più sono distanti dall'origine del campo (fig.27).
Diciamo che, rispetto alla distanza, l'ingombro orizzontale è proporzionale e l'ingombro verticale è
inversamente proporzionale.
Fig.27
11 - VARIABILITA’ DELL’ANOMALIA PER INTERFERENZA
Quella che abbiamo appena qualitativamente descritto è la distribuzione tipo.
C'è però ben poco di obbligatorio, nelle distribuzioni reali, è ciò verrà giustificato in seguito.
Una stella può non avere intorno a sé alcuna corona sferica, o può avere più di una successione
come quella che abbiamo indicato per esemplificare, per esempio con diversi valori della base della
potenza.
Se le successioni sono più d'una, può crearsi interferenza distruttiva tra le i dossi dell'una e le
cunette dell'altra, ricostituendo quindi, localmente, la relativa “piattezza” del potenziale newtoniano
anche in tratti in cui la presenza di una sola serie avrebbe determinato l'anomalia.
Il meccanismo della distruzione per interferenza è chiaro.
Se due serie di sequenze sono diverse (o anche uguali, ma sovrapposte non perfettamente
all'origine) potrà esserci una distanza alla quale la sovrapposizione delle due rispettive sequenze
dosso-cunetta sarà sfasata di mezza larghezza totale in modo che il dosso di una singola sequenza
copra la cunetta dell'altra (la buca viene di nuovo riempita con la terra che era risultata dallo scavo
di un'altra buca uguale, che le era stata depositata accanto a formare il dosso).
Il risultato sarà una sequenza dossoFig.28
cunetta con però un tratto pianeggiante
tra loro (fig.28).
Questo tratto si potrà estendere a
piacere
sommando
altre
serie,
opportunamente diverse e/o sfasate
all'origine, senza che aumenti il rilievo
delle due anomalie all'estremità del
tratto in cui è stato ricostituito il campo
newtoniano (fig.29).
In tal modo, come si vede, una cunetta
29
o un dosso possono trovarsi isolati nel potenziale newtoniano.
Fig.29
In questo modo possono anche venire a
mancare
alcuni
termini
della
successione, e, in generale, anche per
altri motivi, potremo avere stelle con
intorno non la successione completa,
ma solo pochi (magari per una
grandissima estensione spaziale anche
uno solo) elementi.
Insomma c'è una grande libertà.
Un'ultima importante osservazione, prima di passare alla genesi delle stelle e dei loro aggregati.
In fig.27 le “oscillazioni” (immaginate innestate nel gradiente newtoniano, cosa che non è in figura)
si smorzano via via che ci si allontana dalla stella: ci sarà un punto dal quale in poi l'ingombro
verticale dell'anomalia si sarà così ridotto che l'inclinazione del versante di contenimento sinistro si
sarà annullata e/o sarà diventata addirittura positiva, e di buca non si potrà quindi più parlare.
Questo, come si è precisato in parentesi, essendo le cunette scavata in un campo dotato di pendenza.
Naturalmente, perché questo accada, bisogna che, con la distanza, l'oscillazione si smorzi più
rapidamente della diminuzione dell'inclinazione del campo, e questo, per la verità, è un problema
che resta per noi aperto.
A parità di dotazione di corone, questo punto, per ogni stella, sarà tanto più lontano quanto più
rilevate saranno le buche (ed i dossi), cioè quanto più massiccia sarà la stella, come si vedrà.
Passiamo quindi a trattare la formazione delle stelle e dei loro aggregati principali, cioè i grandi
ammassi di stelle (le galassie) e gli ammassi di galassie.
12 - UNA SCALA GERARCHICA DI ANISOTROPIE
Immaginiamo che in origine tutto lo spazio sia occupato dal materiale, di cui poi le stelle saranno
costituite, allo stato gassoso, con un alto grado di rarefazione.
Si intende che ogni “atomo” di questo gas è, anche qui in senso ancora relativo, l'origine di un
campo gravitazionale newtoniano dotato delle nostre corone: la loro sequenza è estesa all'infinito,
ma ovviamente, per quanto si è detto poco sopra, il punto dal quale in poi non si può parlare di
buche e di dossi veri e propri, o comunque significativi, è molto vicino al centro dell'atomo.
L'ordine di grandezza della dimensione dello spazio da noi considerato sia quella che viene
osservata per l'ammasso di galassie (o, se vogliamo includere il grado superiore della gerarchia,
all'ammasso di ammassi, ma la cosa va da sé).
30
A noi basterà per intanto assumere la dimensione dello spazio cui sono interessate due o tre
galassie, con cui si configurerà idealmente l’ammasso.
La distribuzione nello spazio della nube non è assolutamente omogenea: la perfetta isotropia è
compromessa da ristrette regioni di maggior addensamento (anche leggermente maggiore).
Vi sono tre gradi gerarchici di anisotropia (quattro se volessimo considerare anche gli ammassi di
ammassi), come schematizzato nella figura 30.
Fig.30
Il fondo grigio rappresenta il gas che in origine occupa tutto lo spazio considerato.
I puntini indicano le anisotropie locali che daranno luogo alle stelle: sono il centro di piccole
regioni in cui il gas è più denso.
Con tre cerchietti sono evidenziate tre regioni, più estese, in cui i puntini sono maggiormente
addensati: sono le zone intorno alle quali verrà rastrellato il materiale di cui saranno composte le
galassie.
Un cerchio più grande segnala il grado superiore di anisotropia che darà luogo all'ammasso di
galassie (qui tre).
Ciascuno dei punti (o cerchi) segnati funzionerà da catalizzatore, da centro di rastrellamento, per
gravità, del gas circostante, ed ognuno per la sua competenza.
I puntini, mentre attireranno a sé il gas circostante fino alla loro distanza di azione (che finisce là
dove comincia quella di un punto vicino) per formare le stelle, verranno attirati a loro volta verso le
rispettive aree segnate dai cerchi più piccoli, per formare le galassie. Queste verranno per parte loro
attratte verso il centro del cerchio più grande, a formare l’ ammasso.
Osserviamo che, per come sono messe le cose all'inizio, non vi sono sfere celesti “attive” (se non
quelle in prossimità dei singoli costituenti del gas, che hanno rilievo solo per i legami tra le sue
“molecole”, e sono oggetto di un altro studio).
Bisogna, con l'evoluzione del sistema, con il procedere del rastrellamento, che si creino regioni di
maggior addensamento del gas affinché, per somma dei potenziali che stanno fino ad infinito
intorno a ciascun atomo, si comincino a costruire buche e dossi anche alle distanze astronomiche
che ci interessano qui.
31
13 - LA FORMAZIONE DI UNA STELLA E DELLE SUE CORONE SFERICHE
Poiché, come si diceva, l'evoluzione è alquanto complessa, anche prescindendo dall'ampio grado di
libertà che abbiamo concesso alla dotazione delle corone sferiche (libertà che, naturalmente, va
estesa ora al “costituente ultimo” dello schema), cominceremo isolando dal contesto il dominio di
un puntino per seguire la formazione di una stella e della sua corte di corone.
In un momento successivo il gas del dominio s’è addensato intorno al centro in una nube
idealmente sferica, creando il vuoto intorno, fino al dominio della nube sferica vicina che
contemporaneamente si sta addensando
Fig.31
anch'essa.
Il fondo grigio è scomparso lasciando il vuoto:
nella figura 31 ogni puntino dei due aggregati
sferici sta per un “atomo” del gas.
Diciamo che le future due stelle avranno
esattamente la massa di queste nubi, che non
faranno altro, da questo momento in poi, che
continuare ad addensarsi fino ad arrivare alle
dimensioni della stella, che saranno tanto piccole da risultare trascurabili rispetto al diametro di
ciascuna delle due sfere.
Ora che abbiamo circoscritto il materiale in una regione limitata si può cominciare a parlare di
costruzione delle corone sferiche.
Sappiamo che ogni costituente del gas ha intorno a se (anche se “efficaci” solo nel microfisico)
corone sferiche fino ad infinito, che aumentano di spessore con la distanza: avrà quindi in
particolare, ad una certa distanza, una “potenziale” corona sferica in cui la larghezza l della
potenziale buca (uguale a quella del potenziale dosso) è uguale al diametro attuale della nostra
nube.
Fig.32
La buca (rappresentata in fig.32 reale anziché virtuale per comprensibili difficoltà grafiche), con
accanto il dosso, è determinata da uno dei costituenti molecolari della nube disegnata a sinistra, per
la precisione collocato suo bordo destro.
L'uso del termine “virtuale”, riferito a buca e dosso, per ribadire che il rilievo dell'anomalia dovuta
al singolo costituente è trascurabile a quella distanza.
Si dovrà ottenere la depressione avvertibile per somma dei singoli in sé trascurabili contributi (che
capiterà di chiamare anche buche, o dossi, “potenziali”).
Tale somma non è detto che sia costruttiva, proprio perché accanto ad ogni virtuale buca c'è un
(virtuale) dosso di pari “rilievo”.
32
Per esempio, essendo la buca ed il dosso disegnati in fig.32 prodotti da un atomo collocato al
bordo destro della nube sferica, considerando quelli prodotti da un atomo collocato sul bordo
diametralmente opposto, avremo somma zero nella fascia centrale (come anticipato in fig.28): il
dosso avrà riempito la buca (fig.33).
Fig.33
Questa interferenza distruttiva vale tanto meno quanto più centrale è la coppia
contrapposti al centro della nube sferica (fig.34).
di atomi
Fig.34
ed è completamente costruttiva quando i due atomo sono sovrapposti al centro del diametro sferico
(fig.35).
33
Fig.35
Quindi l’interferenza distruttiva è complessivamente tanto minore quanto minore è il raggio della
nube sferica.
Se idealmente concentriamo in un punto tutta la massa della nube, la somma dei singoli contributi
atomici sarà perfettamente costruttiva.
Ma non occorrerà arrivare a tanto: il diametro della stella definitivamente formata sarà comunque
trascurabile rispetto allo spessore della corona sferica (2l) da noi considerato, a quella enorme
distanza (enorme, appunto, in rapporto alla dimensione della stella).
Ciò che interessa far rilevare è che è da un certo momento in poi, nel corso dell'addensamento del
gas, che si cominciano ad formare intorno le buche sferiche coi loro dossi sferici affiancati.
Quella che abbiamo visto formarsi non è detto però che sia una buca veramente “attiva”: può essere
anch'essa “virtuale”, cioè non avere un versante sinistro di contenimento, se la distanza alla quale
l'abbiamo vista nascere (la quale dipendeva dal diametro della sfera di gas) è al di là di quel punto
dal quale in poi, anche a stella formata, l'anomalia del campo non è tale da determinare anche il
tratto “repulsivo”.
Supporremo qui che sia al di qua di quel limite. Quindi avremo lì una vera buca, ed un vero dosso,
anche se l'andamento complessivo sarà modificato: l'ingombro laterale di dosso e buca risultanti
dalla somma di tutti i contributi sarà aumentato, essendosi dosso e buca allargati, rispettivamente a
destra ed a sinistra, col mantenimento della posizione del flesso che li raccorda.
Questo risulta sommando tutti i grafici esemplificativi delle figure 33, 34 e 35: l’ingombro laterale
dell’anomalia in questa fase dell’addensamento della nube è dilatato di un terzo rispetto a quello del
singolo contributo (fig.36).
Fig.36
34
Osserviamo che questa è la prima buca (con relativo dosso) a formarsi (una volta, naturalmente
supposto che quella successiva, più esterna, sia collocata al di là del limite di cui abbiamo appena
parlato): per le buche a valle di essa, infatti, la somma dei contributi sarà tendenzialmente nulla,
distruttiva, in ragione del fatto che l'ampiezza del canale sarà minore (non più della metà, almeno in
base alla sequenza esponenziale tipo che abbiamo indicato) del diametro attuale della sfera di gas.
Col rimpicciolirsi, diventando sempre più densa, della sfera di gas, si formeranno le buche via via
più interne, e si definirà anche meglio la prima che abbiamo visto formarsi, la quale, quando
l'evoluzione della stella si sarà completata ed il suo ingombro diverrà trascurabile, riacquisterà
l'ingombro laterale 2l del singolo contributo. Quella maggior larghezza di cui s'è parlato poco
sopra ha accompagnato tutta la fase precedente (a partire dal momento in cui la larghezza
dell’anomalia era massima e pari a 3l) ed è andata via via attenuandosi con la diminuzione del
diametro della nube, mentre si accentuavano il massimo ed il minimo relativi del potenziale.
14 - LA FORMAZIONE DELL’AMMASSO GALATTICO
Al formarsi della prima corona sferica, si saranno create le condizioni per la cattura di un'altra stella
in formazione, che potrà andare a depositarsi più o meno stabilmente nell'accogliente alveo appena
scavato.
Occorre quindi ora allargare il campo, includendo nel quadro un'altra vicina sfera di gas che
contemporaneamente alla nostra si sia intanto formata.
Naturalmente anche questo secondo aggregato di gas avrà intorno la sua sfera celeste, che, per
semplicità, come qui andiamo facendo, sarà collocato alla stessa distanza dell'altra.
Nel frattempo quello che era il puntino nella distribuzione iniziale dell'anisotropia (e che ora ha
rastrellato intorno il gas fino a formare l'agglomerato sferico delle attuali dimensioni) si è
avvicinato al primo, come si sono avvicinati tra loro tutti gli altri del dominio di superiore gerarchia
(galattico), tanto o poco, a seconda della loro distanza dal centro di quella che sarà la regione
occupata dalla galassia.
Le sfere di gas stanno convergendo verso il centro del piccolo cerchio di competenza dello schema
di fig.30, e quelle più vicine al centro saranno, allo stato attuale, via via più addensate tra loro
rispetto a quelle periferiche.
15 - UN MINIMO DI QUANTIFICAZIONE DI DISTANZE E DIMENSIONI
Occorre un minimo di quantificazione delle distanze relative, per capire in quale fase avviene la
cattura delle stelle in formazione da parte delle corone delle altre stelle.
Il raggio della prima sfera celeste che si forma è molto piccolo rispetto alla distanza media che
avevamo in origine, nello schema di fig.30, tra i puntini.
A questo punto fissiamo degli ordini di grandezza per le dimensioni in gioco.
Questi ordini di grandezza, tratti dalla realtà osservata, sono assai approssimativi, e potrebbero
anche essere precisati meglio, ma per il livello della nostra trattazione sono sufficientemente
indicativi.
La distanza a cui si evidenzia la prima corona sferica intorno alla stella in via di formazione sia
dell'ordine dell'anno luce (dieci alla zero).
Come s'è detto, questo valore (come gli altri che seguono) è tratto dall'osservazione, stabilendo di
tale ordine di grandezza la distanza media tra due stelle in una regione medio-periferica di una
galassia tipo (per esempio quella in cui nella nostra è collocato il sistema solare).
Il diametro della galassia sia dell'ordine del centinaio di migliaia di anni luce (dieci alla quinta).
35
Ciò vuol dire (prescindiamo qui dal maggiore addensamento nel nucleo) che, percorrendo il
diametro della galassia da un estremo all'altro, incontreremo un numero di stelle che è dello stesso
ordine, centomila.
La distanza tra due galassie vicine sia dell'ordine del milione di anni luce (dieci alla sesta).
Quindi il rapporto tra il diametro di una galassia e la distanza da un'altra galassia vicina è
relativamente grande, centomila rispetto ad un milione, vale a dire un decimo.
Relativamente grande, anzi grandissimo, rispetto al rapporto tra il diametro di un stella e la distanza
da una stella vicina.
L'ordine di grandezza del diametro stellare sia un milione di km (il nostro sole ha un diametro di
circa un milione e mezzo di Km), cioè la decimilionesima parte di un anno luce.
Uno su dieci milioni (dieci alla meno sette) è quindi l'ordine di grandezza in questione, quello del
rapporto tra il diametro stellare e la distanza rispetto alla stella più vicina.
Tutti questi numeri ci servono per visualizzare la collocazione della prima corona sferica che si
forma intorno alla stella nel contesto delle relazioni spaziali tra gli aggregati che si vanno formando.
In particolare a noi interessa, ai fini della cattura, vedere come sono distribuite le stelle (o meglio, le
loro crisalidi) rispetto a queste prime sfere, nel momento della loro creazione.
Vediamo intanto qual è, nel fotogramma in oggetto, l'ordine di grandezza della nube sferica.
Per farlo dobbiamo richiamare la legge fissata per l’andamento delle distanze e della rilevanza delle
nostre anomalie, anticipando anche un aspetto che considereremo meglio nel seguito.
Abbiamo detto che l’ingombro orizzontale dell’anomalia è direttamente proporzionale alla distanza
dal centro. Anticipiamo che il diametro medio di una galassia è pari all’ampiezza del “primo letto”
preparatole da una galassia vicina, che si forma ed in cui si troverà a giacere.
Poiché è un decimo il rapporto del diametro della galassia con la distanza dalla sua vicina ospite, un
decimo sarà anche il rapporto del diametro della “nube crisalide” con la distanza dalla sua vicina
crisalide ospite: lo stesso, con le rispettive rispettose rispettate (e rispettabili) distanze, dei propri
giacigli.
Quindi un decimo di anno luce.
In fig.37 alcune nubi sferiche
Fig.37
(“protostelle”) nel momento in cui
cominciano a dotarsi di una corona
“attiva”.
I loro centri, a parte il moto (ved.
freccetta) di questi in corso verso il
catalizzatore di gerarchia superiore, cioè
verso i cerchi piccoli di fig.30,
corrispondono ad altrettanti puntini
della figura stessa.
Ma quel moto centripeto va considerato,
e quindi ci manca solo un numero
importante; la distanza media tra i
puntini, cioè dei punti di catalizzazione
per la formazione delle stelle, così come
si trovavano distribuiti quando la
nebulosità riempiva senza discontinuità
tutto lo spazio.
Schematicamente, le centomila stelle che troviamo allineate lungo il diametro della galassia già
formata dobbiamo diluirle nello spazio lineare che separa in quel primitivo schema i centri di due
cerchi vicini (come detto prescindiamo da un ordine gerarchico superiore che implicherebbe
36
l'avvicinamento di quei due cerchi, a compattare l'ammasso di galassie, nel tempo in cui i puntini si
sono avvicinati per formare la galassia).
Un milione di anni luce, la distanza tra due galassie, diviso per centomila puntini disseminati in tale
tratto, fa dieci anni luce, la distanza cercata tra i puntini in grassetto dello schema originario
Possiamo dire di quanto, ora - dopo che è da tempo iniziato il compattamento, nel momento in cui
si è formato il primo canale - quei puntini, diventati sfere di gas più addensato, si siano
mediamente avvicinati tra loro.
Essendo stata di dieci anni luce la distanza media originaria tra le “stelle” ed essendo un anno luce
l'attuale distanza da una stella-crisalide della prima corona formatasi, cioè dieci volte minore, per
giungere puntuale all'appuntamento col giaciglio le due “stelle” nel frattempo dovrebbero aver
coperto mediamente il 90% della distanza che le separava.
Diciamo “mediamente” perchè in effetti nel tempo intercorso le stelle si sono avvicinate tra loro
tanto più quanto più in prossimità dei centro di rastrellamento erano collocate in origine.
Ragioniamo, per semplicità, nei termini di coppie di stelle vicine, in origine distanti tra loro come
due puntini vicini di fig.30.
Assumiamo che trascorso il nostro tempo t (quello necessario per dar luogo alla prima corona), le
due stelle della coppia collocata ad una distanza media dal centro dell'ammasso si siano avvicinate
esattamente del 90%, ed allora ciascuna delle due sarà arrivata puntuale ad occupare il letto
preparato dall'altra.
Le componenti delle coppie più esterne si saranno avvicinate tra loro meno del 90% della distanza
che le separava, e quindi non finiranno nei rispettivi alvei, ma dovranno avvicinarsi ancora, oltre il
tempo t, per raggiungerli.
Due stelle della coppia più interna saranno nell'istante t tra loro meno separate della distanza del
letto da ciascuna stella: nel momento in cui si trovavano alla distanza del letto, il letto non era
ancora fatto, ed hanno quindi continuato indisturbate ad avvicinarsi, andando successivamente ad
occupare letti più interni.
In questo modo si raggiungerà la stabilità con le stelle via via più addensate, perché occupanti
corone sempre più interne, via via che ci si avvicina al centro della galassia sferica.
Naturalmente la situazione è assai più complessa, poiché l'occupazione di “orbite” più vicine, a dar
luogo ai sistemi stellari multipli a qualsiasi distanza, anche periferica, nonché a contribuire alla
maggior densità del nucleo, avviene anche in forza di altre dinamiche: scavalcamento degli argini
di buche esterne già formate, o inclinazione degli stessi fino alla loro scomparsa, questo in
particolare in prossimità del centro del sistema, col gradiente newtoniano che si accentua via via che
procede l'addensamento.
Accontentiamoci di questo livello di approfondimento, piuttosto basso in verità, confidando in ben
altre capacità di calcolo, di cui non disponiamo, e magari di adeguati simulatori, di cui disponiamo
ancor meno, per una predizione più puntuale.
16 - L’AGGREGATO STABILE SFERICO NEL POTENZIALE COSTANTE
Alla fine abbiamo ottenuto un aggregato relativamente stabile.
La migrazione delle stelle in direzione del centro ad un certo punto si arresterà, quando ogni stella
avrà raggiunto lo stato di quiete (o di moto locale) nell'alveo di una corona sferica, e l'ingombro
dell'ammasso non diminuirà più.
Come detto saranno occupate sfere sempre più interne quanto più si sarà vicini al centro
dell'ammasso, concedendo naturalmente anche a stelle delle zone più periferiche l'occupazione di
canali più vicini (sistemi multipli ed aggregati locali a maggior densità).
37
La stabilità di questo oggetto, che per ora ha idealmente la forma di una grande sfera, dato che lo
stiamo immaginando collocato in uno spazio piatto a potenziale costante, significa anche che
l'oggetto, essendo i suoi costituenti, le stelle, “coesi” tra loro attraverso il legame del confinamento
in buche di potenziale, è dotato di una sua rigidità, viscosità ed elasticità che pongono un limite alla
sua malleabilità in presenza di variazioni del potenziale sottostante.
Ciò significa, come vedremo meglio, che da una parte la sfera, se compressa, non si schiaccerà
completamente, fino a diventare un disco piatto dello spessore di una stella, ma raggiungerà una
nuova stabilità, viste le forze in gioco, col mantenimento di un ingombro lungo la direzione della
compressione; dall'altra che alla trazione potrà rispondere anche con una rottura.
17 - L’AMMASSO GALATTICO NELLA BUCA DI POTENZIALE
Ma collochiamo la nostra sfera di stelle dentro l'avvallamento di un’ampia corona, e per farlo
torniamo al nostro schema iniziale.
Ragionando in modo perfettamente analogo a quanto abbiamo fatto per le crisalidi sferiche delle
singole stelle, concluderemo che, dal momento che la nostra sfera di stelle ha un certo ingombro, il
quale viene qui mantenuto, ha rilievo solo una buca ampia come la sfera stessa, collocata ad una
distanza commensurabile con tale ampiezza (dieci volte maggiore, all'incirca), ed in quella buca
metteremo quindi a giacere la galassia vicina.
Abbiamo stabilito che la distanza media osservata tra galassie è dell'ordine della decina di volte
l'ingombro delle galassie stesse (mentre il diametro medio delle stelle è trascurabile rispetto
all'ordine della distanza tra loro).
Ciò significa, come abbiamo già considerato per la formazione delle stelle, che normalmente le
corone più interne non si formano perché i contributi delle singole stelle per la costruzione di canali
che sarebbero più stretti dell'ingombro della galassia di cui fanno parte interferiscono
distruttivamente.
Possiamo rinviare alle stesse figure (33, 34, 35 e 37) che abbiamo proposto per la formazione della
prima corona di una stella in formazione (in particolare, in fig.37, i puntini ora non sono molecole
del gas, ma stelle).
La differenza, oltre a questo, tra le due situazioni, è che mentre nella prima si trattava di un
fotogramma di un film in evoluzione (la sfera a sinistra sta diventando sempre più piccola), nella
seconda, adesso, siamo alla fine di un film, ove la sfera ha raggiunto la minima dimensione.
Negli ammassi di galassie, a differenza degli ammassi di stelle, non esiste un nucleo più denso
anche perché normalmente ogni galassia ha intorno a se una sola sfera “attiva”.
Due galassie possono bensì essere più vicine tra loro, ma in tal caso, specie se sono molto vicine,
probabilmente una delle due si sta muovendo nel potenziale newtoniano, e può anche entrare in
collisione con l'altra.
Naturalmente nulla è obbligatorio: una galassia può avere un nucleo così denso che la misura
dell'ampiezza efficace ai fini della costruzione dei canali non va fatta sul suo totale ingombro,
includendo anche le stelle più rarefatte della periferia, ma sostanzialmente sull'ingombro del solo
nucleo, col risultato che si potrà dar luogo anche a corone sferiche più interne, una o più, in cui
potranno andare a coricarsi le altre galassie.
E, naturalmente, ci sono anche galassie piccole, con sfere celesti attive, non distrutte
dall’interferenza dovuta ad una grande ingombro, più vicine.
Questa possibilità, che per un verso assimila il quadro dell'ammasso di galassie a quello
dell'ammasso di stelle, non porta però alla formazione di un nucleo, le cui dinamiche sono
principalmente legare alla quantità di costituenti, che è ben misera nel caso dell'ammasso di
38
galassie, rispetto a quello delle stelle aggregate a formare la galassia.
Siamo ora pronti per studiare le deformazioni del corpo galattico stravaccato nel letto del gradiente
prima decrescente e poi crescente della buca della sfera celeste.
Per semplicità, per intanto, continueremo a ignorare l'adiacente dosso, e, sempre per semplicità,
daremo simmetria alla buca.
Non sarà però, quest’ultima, solo un'ipotesi di comodo.
18 - LA SIMMETRIA DELLA BUCA.
Per chiarirlo, dobbiamo momentaneamente tornare al modello della sequenza dosso-buca, fermo
restando che considereremo, in questo contesto, solo la buca.
Fig.38
Avevamo adottato per tale sequenza la
derivata della gaussiana che qui
riproduciamo (fig.38).
La gaussiana ha un asse di simmetria
verticale, ma lo stesso non si può dire
della buca della sua derivata, che ha il
versante sinistro più ripido del destro
Il problema è però che questa buca non
ha, a rigore, nemmeno una asse di simmetria tout-court.
Fig.39
Possiamo però individuarne
uno approssimativamente
(s, in tratteggio nella figura
39), il quale sarà inclinato
verso destra, in senso
orario.
Se facciamo ruotare un po’
la buca in senso antiorario,
verso sinistra, in modo da
rendere verticale l’asse s
della figura, i suoi due
versanti
diventeranno
ugualmente pendenti, certamente potremo fare in modo che lo siano le tangenti ai loro due flessi F’
ed F” (fig.40).
Ma questo è precisamente quello che
Fig.40
succede se innestiamo la nostra sequenza
dosso-buca nel potenziale newtoniano, che
è inclinato verso sinistra, anche a
prescindere dal fatto che verso sinistra la
sua inclinazione aumenta, il che tende,
intuitivamente, a rendere la simmetria della
buca ancor meno approssimativa.
39
Ma procediamo con ordine.
Prendiamo la buca e seguiamo la sua genesi, a partire da un momento in cui la somma dei contributi
(vista l'ampiezza della galassia responsabile in via di addensamento) era tale da non configurare
ancora un versante a pendenza negativa.
In fig.41, come nelle succesive, viene,
al solito, per consentirne la leggibilità,
Fig.41
esagerata la pendenza del declivio
newtoniano.
La pendenza del tratto è sempre
positiva (il campo è sempre solo
attrattivo).
Possiamo parlare però di una buca
“virtuale”, compresa tra il punto di
tangenza A e di intersezione B di una
opportuna retta r, inclinata in modo
che, nel suo riferimento, la buca
sottostante sia (per quanto approssimativamente) simmetrica rispetto ad un'asse s perpendicolare ad
r e condotto per il punto della curva più distante da essa (m), che sarà, sempre in tale riferimento,
quello di minimo potenziale (“virtuale”).
Questo continua a valere anche in seguito, con l'approfondimento del canale virtuale, passando
attraverso la configurazione in cui in un punto F la tangente t al versante sinistro della virtuale buca
diventa orizzontale (configurazione dalla quale in poi si comincia a formare il versante “repulsivo”).
In fig.42 la buca con il punto in cui la
pallina, come si è già visto, è in
Fig.42
equilibrio instabile verso sinistra e
stabile verso destra, sul versante
sinistro della buca virtuale riferita ad
r.
Osserviamo la diminuita inclinazione
della retta r di riferimento, per cui
basta farla ruotare ancora un po’ per
ottenere il suo l'assetto orizzontale e
di conseguenza la buca vera e propria (fig.43).
Fig.43
La retta r di riferimento è qui di suo
orizzontale, e quindi la simmetria
(approssimativa) si configura nel
riferimento del gradiente newtoniano,
senza che ci sia bisogno di far ruotare
ulteriormente il sistema.
Qui, infatti, l'asse della buca è già di
suo
verticale,
e
l'andamento
dell'inclinazione del versante sinistro è molto simile a quello del versante destro.
Vedremo nel seguito come la sopravissuta non perfetta simmetria del canale trovi riscontro nella
morfologia galattica che si osserva.
40
Con l'aumento del contributi, cioè con l'approfondimento dello scavo e dell'adiacente deposito,
l'asse
verticale,
nel
riferimento reale, si inclina
dall'altra parte, in senso
Fig.44
orario (linea s in tratteggio
in fig.44), rompendo via via
la simmetria della buca nel
riferimento verticale.
Per dedurre a tavolino la
morfologia
galattica,
useremo la buca di fig. 43.
Vista la realtà, pare che
l'affluenza dei contributi
alla formazione del canale
reale cessi assestandosi intorno ad un valore che corrisponde a quell'assetto dell'asse di simmetria.
O comunque è preferibilmente in canali così sagomati che il materiale galattico pare insediarsi.
La simmetria della morfologia galattica è tanto più violata quanto più ci si discosta, a partire dallo
schema di fig.43, verso quello della precedente (fig.42) o della successiva (fig.44).
19 - LA SFERA SI SCHIACCIA IN UN’UNICA CORONA: LA GALASSIA LENTICOLARE
Ma veniamo finalmente allo schiacciamento della sfera di stelle coricata nel canale.
La sfera si schiaccia, fino ad un certo punto, come si è detto, e la sua coesione interna fa sì che
l'ingombro longitudinale dell'assetto stabile sia maggiore del diametro iniziale.
Non entreremo nel dettaglio delle dinamiche interne che giustificano ciò, anche per nostra
incapacità.
Intuiamo solo che le stelle tendono a cadere verso il fondovalle, ma entro certi limiti ne sono
impedite dal fatto di trovarsi vincolate nei canali determinati dalle stelle vicine: i canali però si
inclinano, per somma col gradiente del grande versante.
Una stella che stazionava in un punto del canale circolare ora lo percorrerà verso
il basso, senza superare però, normalmente, l'argine di contenimento a valle.
Potrà anche succedere che lo superi, o perché l'inclinazione è così cospicua da fa mancare
quell'argine di contenimento, o semplicemente, in presenza di una nuova solo minore inclinazione
di esso, a causa dell'abbrivio, l'energia cinetica accumulata nel corso della discesa.
Come già considerato, inoltre, la stella è piccolissima rispetto alla larghezza del canale
(determinato dalle stelle vicine) in cui si trova, e quindi anche il solo spostarsi più a valle del punto
di minimo potenziale di tale canale, e quindi in un punto più prossimo al grande fondovalle, con
un'escursione relativamente ampia, contribuisce allo schiacciamento (ved. fig.25).
Più correttamente, data una stella collocata (ipoteticamente in una prima fase in assenza del grande
canale sottostante) in equilibrio stabile nel punto del fondovalle circolare più prossimo al fondovalle
del grande canale, in presenza del detto grande canale, con l'inclinazione indotta dal suo versante, e
quindi con lo spostamento verso il grande fondovalle del piccolo fondovalle in cui riposa, si
sposterà in giù della stessa quantità, e con essa si sposteranno della stessa quantità anche le sue
corone, con le stelle ivi depositate, le quali corone subiranno lo stesso destino per quanto riguarda i
minimi potenziali nei punti corrispondenti, inducendo ulteriori spostamenti, verso la linea del
grande fondovalle, delle stelle lì collocate.
Non dimentichiamo inoltre che ogni stella, spostandosi comunque verso valle, si porta dietro la sua
41
corte di stelle confinate nelle sue corone, circostanza, questa, che se da una parte intralcia il suo
moto, dall'altra, nella misura in cui resta possibile, implica lo spostamento di una maggiore quantità
di materiale, con un ingombro maggiore e quindi un maggiore contributo all'allargamento della
struttura. E' intuitivo che in qualche misura la discesa lungo i versanti, oltre a produrre
appiattimento, con addensamento, in senso trasversale al grande canale, comporta anche, dal
momento che si avrà uno spostamento laterale, l'aumento dell'ingombro in senso longitudinale
(fig.45).
Fig.45
20 - POLVERI E MATERIALI OPACHI
Osserviamo che quest'ultimo non è un problema per le polveri ed i materiali opachi sopravvissuti al
rastrellamento con la formazione della galassia (aspetto finora non considerato, ma che segnaliamo
qui, senza indagarne le cause, accennando solo alla possibilità della rimessa in circolo di materiali
minuti in seguito a disintegrazione di stelle per esplosione).
Dai granelli di polvere agli altri relativamente piccoli aggregati (come pianeti non catturati in orbita
dalle stelle e vaganti tra le sfere), questi piccoli corpi non hanno, per quanto ci riguarda,
significative corone sferiche intorno, le quali, pur avendo anche catturato altri piccoli corpi,
configurino l'”intralcio” di cui si diceva: scenderanno quindi lungo i versanti dell'ampio canale con
meno problemi, raggiungendo col tempo
la linea di fondovalle, e lì stazioneranno.
Se (ma è improbabile, trattandosi più
probabilmente di galassia fusiforme
alloggiata nel vano di due canali
incrociati, come vedremo) la foto di
fig.46 rappresenta, vista di taglio, una
delle galassie lenticolari che stiamo
trattando, pare doversene indurre che i
materiali
opachi
scendono
ortogonalmente lungo i due versanti,
senza deviare lateralmente, come fa il
materiale stellare dotato dell'ingombro
delle corone.
Fig.46
In tal caso potremo ricostruire il diametro
42
originario della galassia sferica, immaginata nel vuoto di gradiente, misurando la lunghezza
dell’anima opaca.
Alle estremità della riga scura si notano due tratti più luminosi, fino alle punte del “fuso”: lì
probabilmente si sono addensate stelle che sono cadute senza problemi sulla linea del fondovalle
perché prive dell’orpello delle corone, come i materiali opachi: è da spiegare però perché esse non
hanno percorso una traiettoria complessivamente perpendicolare al canale.
Senonché altre più frequenti immagini, come quella della galassia “Sombrero” (fig.47), ci fanno
pensare esattamente il contrario.
Qui le “polveri” sono
disposte ad anello intorno
alla cialda, come se la loro
migrazione fosse avvenuta
solo o preferibilmente verso
la periferia della sezione
equatoriale,
all'esterno
dell'originario
ingombro
sferico, seguendo il destino
delle relativamente poche
stelle senza corona,
Fig.47
Si può pensare però che tutta la sezione equatoriale della cialda sia interessata dal deposito di
polveri, ma che questo sia evidente solo in una fascia periferica, avendo prevalenza, sulla rimanente
regione centrale, la luminosità delle stelle che li sono molto più addensate.
In subordine, se realmente le polveri sono molto più addensate, o solo presenti, nell'anello che
vediamo, si può pensare che la galassia abbia un potente e differenziato nucleo che dà luogo, alla
distanza di quell'anello, ad una corona sferica originariamente occupata dalle polveri per tutta la sua
estensione (quando la galassia era sferica), polveri all’epoca così diluite su tutta la superficie sferica
da non oscurare sensibilmente la luminosità della sfera di stelle.
Lo schiacciamento a cialda dell'aggregato di stelle non ha interferito sensibilmente sulla forma e
sulla densità del nucleo, per cui la corona ad esso dovuta si è conservata, con l'emigrazione però
delle polveri, guidate lungo le intercapedini curve, fino alla periferia del piano equatoriale.
La presenza originaria delle polveri solo all'esterno, trattenute dalla nostra ipotetica corona, si può
spiegare col successivo ritardato arrivo, quando il nucleo si era già formato e la galassia aveva
assunto già la forma sferica “definitiva” (con l'avvenuto rastrellamento di tutte le stelle rastrellabili
del proprio dominio), di materiale opaco dall'esterno: questo discende lungo il versante esterno del
detto canale sferico e va a depositarsi all'interno di esso, trattenuto dal versante interno. Quando poi
(è un “poi” non necessariamente cronologico) quella corona è collocata all'interno del grande canale
in cui giace la galassia, avviene la migrazione delle “polveri” (a condizione che il versante interno
di contenimento della corona abbia diminuito sì la sua pendenza, ma senza scomparire) lungo i due
emisferi della corona, con deposito finale in un anello equatoriale.
Tutto ciò al di là dell'ipotesi che viene più spontanea agli occhi ed alla mente dell'astrofisico
contemporaneo, attrezzati della sola dinamica newtoniana: che cioè semplicemente la cialda sia in
rotazione, col che, aggiungeremo noi, i materiali opachi, non vincolati dagli orpelli delle sfere
celesti, migrano più facilmente delle stelle, per forza centrifuga, alla periferia del piano equatoriale.
21 - IL “PIANO” EQUATORIALE DELLE GALASSIE NELLA CORONA SFERICA
La galassia Sombrero è una meraviglia di perfezione (almeno a livello percettivo), a fronte della
43
maggior parte degli oggetti galattici, che sono tutto sommato abbastanza sgangherati: è un miracolo
della natura.
La riserva tra parentesi per rilevare qui che, per
Fig.48
esempio, tutto l'oggetto non è ha a rigore una simmetria
rispetto al piano equatoriale: un vero e proprio “piano”
equatoriale infatti non esiste trattandosi non di un piano,
ma della calotta di una superficie sferica (fig.48).
Ma il raggio della corona sferica in cui la cialda giace,
rispetto al diametro della cialda stessa, è tale che ad
occhio non si percepisce nemmeno di profilo la
curvatura di tale calotta
E' già problematico percepire ad occhio tale curvatura
nell'ipotesi del rapporto dieci ad uno, quello che
avevamo adottato.
Fig.49
In fig.49 un arco lungo un decimo del raggio della circonferenza cui appartiene.
Si dà il caso poi che questo rapporto medio, uno a dieci, che abbiamo adottato per semplicità di
calcolo, sia nella realtà molto più piccolo (i dati non sono chiari: secondo alcune fonti sarebbe
mediamente di un centesimo il rapporto tra il diametro medio delle galassie e la loro distanza
media, cioè dieci volte più piccolo), ed allora dovreste percepire la curvatura di un arco lungo un
centimetro di una circonferenza di un metro di raggio.
22 - SOMBRERO CON TESE RIPIEGATE.
Come detto, al confronto con la galassia Sombrero, tranne poche eccezioni, le galassie che finora
sono state osservate sono piuttosto acciaccate, portano i segni di accidenti, anche sistematici, come
vedremo, ed incidenti di ogni tipo.
La sua perfezione è dovuta al fatto di essere
il risultato di un aggregato sferico di stelle,
solo un po' impolverato, ma con la polvere
che si è depositata in maniera perfettamente
omogenea, il quale è stato schiacciato tra i
versanti di un buca sferica di potenziale
rispetto alla quale, mentre veniva
schiacciato, restava perfettamente allineato
con la linea del fondovalle, Questo in
generale non succede.
Si consideri quest’altro “sombrero” (fig.50),
con la tesa ripiegata, che fa più cowboy,
Fig.50
meno messicano e più yankee.
Qui la cialda50, il suo piano equatoriale, non
44
è allineata col la linea di fondovalle, ma inclinata rispetto ad esso, e così le estremità del disco sono
state ripiegate dal gradiente dei due versanti, come vedremo.
Ma non qui di seguito.
Dobbiamo precedere con ordine, e dopo le galassie lenticolari, dovute allo schiacciamento senza
rotazione tra i due versanti di un solo canale, trattare quelle alloggiate, sempre senza rotazione, nel
cunicolo, nel tunnel, formato da due canali che si intersecano.
23 - LA GALASSIA NELL’INTERSEZIONE TRA DUE CORONE SFERICHE.
L'oggetto galattico (nel senso soggettivo della forma che risulta dalla prospettiva) che più spesso si
osserva, al di là delle classificazioni e delle interpretazioni, è la forma ellittica, o a barra più o meno
affusolata, arrotondata o appuntita alle estremità: in ogni caso una forma più allungata, a partire
dallo schiacciamento nullo, il cerchio.
Basta guardare la foto di gruppo di un qualsiasi ammasso di galassie (fig.51).
Si potrebbe pensare che tale forma corrisponda sempre ad un oggetto di tipo lenticolare, cioè ad
una sfera più o meno
schiacciata
–
molto
schiacciata
se
l'asse
maggiore
è
molto
maggiore del minore –
vista tanto o poco di
taglio.
Ma, al di là di altre
considerazioni di carattere
morfologico, che portano
alla stessa conclusione, si
dimostra con il calcolo
delle probabilità che ciò
non può essere.
Non può essere infatti che
nella foto di gruppo le
galassie, tutte chiatte,
ritenendo
di
venire
meglio di profilo o di tre
quarti,
così
posino
davanti ai nostri telescopi,
pavoneggiandosi.
Fig.51
.
All'interno di questa ampia tipologia di galassie “allungate”, consideriamo quelle che vengono
chiamate “galassie ellittiche”: l'oggetto si definirà, dal nostro punto di vista, nel corso della
trattazione.
45
24 - LE GALASSIE “ELLITTICHE”
Si è stabilito, nel corso della ricerca del secolo scorso, almeno in un primo momento, che la forma,
in generale, di una galassia ellittica è quella di una sfera schiacciata (oblata) o allungata (prolata).
In questo secondo caso si fa riferimento spesso
al pallone da rugby. Questa morfologia implica
un asse di simmetria radiale, in ragione del
quale l'oggetto geometrico è un solido di
rotazione (fig.52).
Circa una trentina di anni fa però ci si accorse
che le cose non stanno così. Le galassie
ellittiche spesso non hanno due, ma tre assi:
Fig.52
somigliano, per esempio, ad un pallone da
rugby schiacciato, o, per meglio dire, alla
borsa di alluminio per l'acqua calda della
nonna.
Vediamo come dal nostro modello del potenziale si deduce questa strana forma, ed anche qualcosa
d'altro.
Le sfere celesti normalmente si
intersecano tra loro.
Fig.53
Intorno alle galassie A e B, alla stessa
distanza d, siano due corone sferiche,
in ciascuna delle quali quindi è
collocata ciascuna galassia (fig.53).
Le corone si intersecano lungo una
circonferenza, nella figura vista di
taglio, di diametro (CD) minore del
diametro
delle
due
corone:
l'intersezione dei piani tangenti in C e
D alle superfici sferiche forma un
angolo di 60°.
Abbiamo considerato l'intersezionetipo, la più elementare, ma ovviamente,
nel
complesso
variegato
e
fantasmagorico quadro reale si possono dare intersezioni tra sfere di diverse dimensioni e con le più
varie divaricazioni dell'angolo, compresa l'ortogonalità.
Considereremo allora, per semplicità di rappresentazione e di calcolo, la risultante della somma dei
potenziali di due buche
disposte
ortogonalmente
adottando non più il “profilo
della buca”, ma la visione di
pianta.
Sempre per semplicità,
adottiamo il profilo della
sinusoide,
in
fig.54
confrontata con la gaussiana
capovolta, per far vedere di
quanto differiscano.
Fig.54
46
Nella figura 55 il canale visto in pianta con, sotto, la sua sezione sinusoidale.
Abbiamo evidenziato alcune
linee
equipotenziali
di
riferimento: oltre alla linea di
fondovalle ( m ), alle due linee
di flesso (f’ ed f”) ed ai due
“argini” (a’ e a”), dove inizia la
pianura ai lati del canale a
sezione sinusoidale, abbiamo
segnato anche due coppie di
linee di equipotenziale a mezza
via tra flesso e fondovalle (b’ e
b”) e flesso e argine (c’ e c”).
Non bisogna dimenticare che in
ogni punto della due figure si
registra un valore del potenziale
(nei termini della metafora una
Fig.55
profondità), che cioè potremmo
tracciare idealmente infinite
linee equipotenziali, tutte parallele tra loro, per coprire tutti i punti della pianta: in tal modo, quando
sovrapporremo, incrociate, due figure uguali a questa, in un punto della figura risultante si saranno
sovrapposti due punti, uno della prima ed uno della seconda: i valori dei potenziali corrispondenti
nell'una e nell'altra ai due punti verranno sommati.
Più avanti daremo il risultato grafico di tale somma, cioè l'andamento delle isoipse (linee di uguale
potenziale o densità) corrispondenti alla sovrapposizione dei due diagrammi.
Prima ci concederemo a delle predizioni di carattere intuitivo, che saranno però smentite dal
calcolo, pur apparendo congruenti con la realtà apparente e con il risultato del calcolo stesso.
La prima forma che abbiamo costruito (la cialda a sombrero, o, se volete, l'ellissoide di rotazione
intorno all'asse minore) era il risultato dello schiacciamento della sfera tra i versanti dell'unica
intercapedine di una corona sferica.
Che ne sarà della forma se la sfera viene schiacciata tra le due coppie di versanti contrapposti
all'incrocio ortogonale tra due corone?
Intuitivamente si otterrà un
oggetto “fusiforme”(fig.56), con
l'asse maggiore non solo lungo
più del diametro dell'originaria
sfera, ma anche del diametro
della cialda risultante dallo
schiacciamento in una sola di
quelle due corone, e questo per
le stesse ragioni dinamiche viste
o intuite nel passaggio dalla
sfera alla sfera schiacciata.
Dalla forma dell'arancia siamo
passati prima a quella del
Fig.56
mandarino ed ora passiamo a
quella del cetriolo.
47
Per quanto riguarda la sua sezione centrale ortogonale all'asse maggiore, essendo i due canali
incrociati uguali, di certo si può dire, affidandosi alla logica, che vi saranno (quantomeno) due assi
di simmetria perpendicolari tra loro, correlati con le due direzioni ortogonali dello schiacciamento.
Ma che forma avrà tale sezione? Supponiamo che sia perfettamente circolare.
In questa ipotesi la forma della sezione non conserva memoria delle due direzioni dello
schiacciamento.
Occorre aprire una breve parentesi, a scanso di equivoci terminologici.
Immaginiamo che la galassia Sombrero di cui abbiamo fatto già la conoscenza venga schiacciata ad
opera di un altra corona che interseca ortogonalmente quella che le ha fatto assumere la forma di
cialda. E' intuitivo che ne risulterà un profilo fusiforme di lunghezza maggiore del diametro della
galassia originaria. Noi qui stiamo mettendo alla prova espressioni come “pollone da rugby” e
“pallone da rugby schiacciato”: evidentemente queste forme non corrispondono a quella
dell'oggetto che abbiamo appena costruito, molto più allungato ed inoltre anche appuntito alle
estremità. Provvisoriamente però ci serve il modello del potenziale tubolare per giustificare le
sezioni dei palloni da rugby, schiacciati o meno, ed allora fingiamo che la compressione entro il
doppio canale non produca un oggetto molto allungato, ma che semplicemente, nel momento in cui
la schiaccia da due direzioni ortogonali, faccia allungare non esageratamente la sfera originaria:
così potremo chiamare tranquillamente “ellittiche” le galassie che stiamo considerando, senza, con
questo termine, includere le fusiformi.
Oltretutto, in ragione di una dimensione contenuta della sfera rispetto alla larghezza dei canali e
della sua opportunamente alta viscosità, può benissimo essere così anche nella realtà.
Affinché si capisca il perché di questo sproloquio, anticiperò che le vere e proprie ellittiche si
formano nell'intercapedine “a parallelepipedo” costruita dall'intersezione non di due, ma di tre
corone.
Riprendendo il filo del discorso, avremo,
secondo questa prima intuitiva ipotesi, il
famoso “pallone da rugby” (figura
precedente, la 56): non si tratterà, per
quanto riguarda la sezione detta, di due
assi, ma di simmetria perfettamente
radiale sul piano della sezione
trasversale.
Va da se che il “pallone da rugby
schiacciato si otterrà in questa ipotesi
Fig.57
con due corone incrociate, sempre a 90°,
non uguali, di spessore diverso (fig. 57 )
o con spessore uguale ma diversamente accentuata variazione del gradiente (fig.58).
E così avremo i due assi di simmetria, in
luogo della simmetria radiale rispetto ad un
solo asse del fuso. Nella nostra ipotesi
intuitiva, permarranno i due assi di simmetria
anche nel caso che l’intersezione tra le due
corone uguali non sia ortogonale.
Ma anche questo tipo di simmetria sparirà con
la considerazione del caso più generale, in cui
l'intersezione tra le due corone non sia
ortogonale e le due corone, per l’uno o per
l’altro dei versi detti più sopra, non siano
uguali.
Fig.58
48
Nel caso più generale si avranno due assi di simmetria con inversione della specularità (fig.59).
.
Fig.59
Con canali di ampiezza diversa, a parità di profondità, si ottiene qualitativamente lo stesso risultato
(fig.60).
Fig.60
Fig.61
Questo è quanto discende dall'ipotesi di partenza che la
sezione del fuso (con corone uguali incrociate a 90°) sia
circolare.
Si può intuire però che la sezione mantenga l'informazione
delle due direzioni di compressione, ed allora probabilmente
verrà da pensare ad una sezione “quadratoide”, un quadrato
con i vertici molto arrotondati (fig.61).
49
E, nelle le altre ipotesi, “rettangoloide”, “romboide”, “parallelogrammoide” (fig.62).
Fig.62
Ma è proprio questa la sezione ortogonale ai due canali che assume in seguito al doppio
schiacciamento il nostro oggetto ellittico?
25 - LE GALASSIE “QUADRATE”
Per vedere se l'intuizione corrisponde al vero, torniamo alla somma di due diagrammi ad isoipse
come quello in pianta di fig.55, sovrapposti ed incrociati ad angolo retto.
Il risultato è questo (fig.63)
Fig.63
Come in ciascuno dei due addendi, le linee di quota (isoipse) del diagramma-somma sono fatte
ciascuna di punti in cui il potenziale è uguale
50
Può sorprendere l'andamento di tali linee: contro l'intuizione, se rimane l'informazione dell'esistenza
di due direzioni ortogonali dello schiacciamento, non corrisponde l'orientamento di tali direzioni,
che sono diagonali rispetto alla quadratura di partenza.
Per le altre ipotesi fatte avremo rispettivamente (fig.64):
Fig.64
In generale la sezione delle isoipse sarà comunque un “parallelogrammoide”, sempre con i vertici
molto smussati ed i lati rientranti tanto più quanto più sono esterne, in ragione della differente
ampiezza e/o profondità delle due buche e del diverso angolo di intersezione tra le rispettive corone
sferiche: ma sarà “ruotato” rispetto all'impianto di base.
Il diagramma di fig.63 è stato ottenuto sommando due canali a sezione uguale sinusoidale.
Sommando due canali a sezione uguale fatta come la gaussiana capovolta (che è migliore
candidata), si avrà un diagramma di isoipse un po’ differente.
Come in fig. 63, in fig.65
sono
state
tracciate
quattro isoipse (in tratto
pieno),
a
partire
dall’esterno a,c,f,b.
L’isoipsa a è estrusa
all’infinito
lungo
i
quattro versi dei due
canali,
poiché
alla
distanza a il nuovo
potenziale non comincia
a diventare piatto, come
nel caso della sinusoide
raccordata col piano, e
non lo è mai, di seguito,
fino ad infinito.
Con
la
puntinatura
abbiamo
evidenziato
un’altra
isoipsa
più
interna, tra a e c,
anch’essa estrusa oltre il
quadrato, ma chiusa
come le più interne.
Fig.65
51
I due diagrammi si somigliano tanto più quanto più si è vicini al centro, il fondo della buca.
Dai flessi in giù si perde quasi completamente l’informazione dell’orientamento dell’incrocio,
risultando le isoipse sempre più circolari (passando per l’ellisse quando i canali sono diversi e/o
non ortogonalmente incrociati).
E sappiamo che le galassie fusiformi, le barre che ruoteranno o meno, sono più sottili della distanza
tra i due piani di flesso, ragion per cui anche viste “di infilata” non risulteranno normalmente avere
una sezione quadrangolare, ma circolare o ellissoidale.
Così come le ellittiche di piccole dimensioni (rispetto all’ampiezza dei tre canali che si intersecano
per dar loro alloggio), come vedremo.
26 - LA GALASSIA NELL’INTERSEZIONE DI TRE CORONE SFERICHE
Non ci resta ora che considerare, per l’appunto, il caso della sfera compressa anche lungo la terza
dimensione, cioè costretta entro i sei versanti a due a due paralleli della regione di intersezione di
tre corone sferiche: le supporremo per intanto uguali e ortogonali.
Ne risulterà per ciascuna superficie isoipsa una struttura “ottaedrica”, tanto più regolare quanto più
“quadratoide” era la sezione semplicemente tubolare (a quattro versanti) corrispondente (cioè
collocata alla stessa distanza dal centro).
Come la “profondità” del punto centrale di minimo potenziale (stiamo sommando canali tra loro
identici) del fuso era doppia di quella della cialda, così la massima profondità di questa terza “buca
sferica” è tripla.
Le isoipse quadrangolari lobate risultavano, nel caso dei due soli canali incrociati, da una
prospettiva “di infilata” del cunicolo risultante: ora, coi tre canali, e con maggiore accentuazione
delle densità, ci appaiono osservando il “cubo” lungo l'asse perpendicolare ad ogni sua faccia
essendo ora quella forma disegnata nella sezione mediana parallela ad ogni coppia di facce opposte,
coi quattro vertici smussati (prescindiamo qui dalle quattro ”estrusioni” delle isoipse più a monte)
messi nei punti medi dei quattro lati della sezione stessa: unendo tra loro con dodici segmenti di
retta i sei centri delle facce del cubo toccati dai vertici arrotondati dei “romboidi ad angolo retto” si
ottiene il detto ottaedro.
Va precisato che mentre il “quadratoide” di due sole corone incrociate risulta tracciato in qualsiasi
sezione del cunicolo risultante dalla sovrapposizione delle corone sferiche, quello che abbiamo
immaginato di vedere osservando una qualsiasi delle sei facce del “loculo” cubico risulta tracciato
solo in ciascuna delle sezioni mediane, risultando in altre sezioni una figura diversa, anch'essa
romboidale retta, ma di dimensioni via via decrescenti e diversa accentuazione di lobature e
rientranze con l'avvicinarsi della sezione considerata all'una o all'altra delle due facce parallele.
Lasciamo all'immaginazione del lettore la visualizzazione delle altre “celle a sei pareti”, a seconda
del diverso spessore e dei diversi angoli di intersezione delle tre corone sferiche: e, ma è assai meno
agevole, dei conseguenti “ottaedroidi” sghembi in cui sono inscatolate le superfici isoipse.
27 - OSSERVAZIONE E RAGIONAMENTO.
Il nostro percorso fin qui seguito passando attraverso varie ipotesi (all'inizio suggerite
dall'intuizione, poi derivanti dai calcoli), pallone da rugby, boulle dell'acqua calda, sezioni
quadrangoloidi, riproduce (naturalmente in maniera più articolata e con il sorprendente ed inedito
finale supplementare approdo all'ottaedro), la storia dell'evoluzione delle osservazioni della
morfologia delle galassie ellittiche, dalla loro scoperta, ai primi del secolo scorso, ai giorni nostri.
Alla fine degli anni settanta del secolo scorso si è scoperto che le galassie ellittiche, a forma di
pallone da rugby, non sono strutture dotate di un asse di simmetria radiale (elissoidi di rotazione),
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come si riteneva fino al allora pensando che la loro sezione trasversale fosse circolare, ma provviste
di tre piani di simmetria speculare
Insomma,
nsomma, la forma a quel punto è stata fissata in quella di un pallone da rugby schiacciato, come le
boulle dell'acqua calda di alluminio di una volta.
Successivamente, come si evince dalle
dalle immagini che seguono (da fig.66 a fig.69d)
fig.69d), diffuse in rete
senza però che nessuno riesca a spiegarle, si è scoperto che
che la vera sezione è spesso un’altra, in
genere quadrangolare,
quadrangolare, con la tendenza, in alcune, all’esagono delle isofote più esterne (Fig.69b).
(Fig.69b)
Fig.66
69a
Fig.67
Fig.68
Fig.69
69b
F
69c
69d
Anche la figura 70,, che segue, è di questa serie:
serie: non è una foto ma riporta in ddettaglio
ettaglio l’andamento
delle isofote di una galassia in prospettiva rettangolare.
Non sono di una galassia invece le isofote della foto accanto (fig.71
(fig
): sono di una stella, per la
precisione di una protostella, una stella in formazione, quella che a suo tempo abbiamo chiamato
“crisalide”. Avevamo sempre immaginato
immaginato come nubi sferiche tali crisalidi, ma è ovvio che,
avendo la dimensione del letto in cui vanno a coricarsi, se questo
uesto è una nicchia cubica, esse sono
soggette
tte alla stessa dinamica che fa diventare
diventare ottaedriche le galassie.
Fig.70
53
Fig.71
La forma in prospettiva quadrangolare di fig. 71suffraga l’unicità dello schema da noi adottato per
raccontare lo scavo del canale attivo, indipendentemente dal fatto che si tratti di galassie o di
singole stelle: anche il fotogramma (fig.71) di questo film, che è in corso di proiezione, come il
gran finale dell’altro, finito da tempo, presenta il quadrangolo (sempre che l’effetto non sia dovuto
alla scarsa risoluzione, vista la dimensione del pixel).
E questa?
Fig.72
Fig.73
Riproduce lo schema di fig.65 con i canali che però si intersecano non ortogonalmente (fig.73).
Nemmeno questa è una galassia, è una nebulosa, frutto dell’esplosione di una stella interna alla
nostra galassia, la HD 44179, detta anche “del rettangolo rosso”, fotografata dal telescopio
spaziale Hubble. Copio dal volume de “La Scienza” pubblicato da “La Repubblica”, da cui questa
immagine, come quella di fig.71, è tratta: “Con la sua forma inusuale (“unica”, trovo rettificato
nell’edizione in rete) e l’acceso colore, questa nebulosa è solo una delle tante manifestazioni della
materia interstellare.” Al di là di questa considerazione da compitino di italiano, esiste uno studio
che cerca di dar conto della straordinaria forma di questo oggetto: si tratterebbe di una “doppia
eiezione conica”, lungo l’asse maggiore della struttura, vista di lato, ipotesi, come ognuno può
vedere, piuttosto artificiosa e discutibile.
Per noi è’ un ottaedro a base rettangolare visto dall’alto, con le quattro “estrusioni” lungo i canali
che risultano dal diagramma di fig. 73, più accreditabile rispetto a quello che deriva dalla sinusoide
(e qui osservativamente verificato), e quindi con anche altre due, una verso l’ignaro osservatore
l’altra nel verso opposto, il consapevole profondo cielo.
Ho preso il goniometro azzurrino di plastica ed ho misurato l’angolo: 60 gradi giusti.
Ma come mai hanno beccato proprio quello messo così rispetto al nostro umano punto di vista?
Che ne abbiano fotografato anche altri, che si sono messi di tre quarti perché venivano meglio?
Esiste, divulgata in rete, che io sappia, solo un’altra immagine di una nebulosa così, il “red square”
(il “quadrato rosso”), anch’esso messo rigorosamente di piatto! La probabilità che i due soli oggetti
di questo tipo che sono stati osservati siano così disposti rispetto all’osservatore terrestre è il
quadrato della probabilità che così sia disposto uno solo di essi (probabilità composta), un numero
da lotteria nazionale.
Secondo la nostra ricostruzione, i materiali eiettati sono stai incanalati lungo le tre direzioni (sei
versi) di più basso potenziale del loculo ottaedrico al centro del quale la stella era collocata.
Le linee, apparentemente di maggior addensamento, che attraversano ortogonalmente le direzioni di
eiezione sono correlate probabilmente ad una “pulsazione” a frequenza fissa dell’eiezione, tutta da
spiegare.
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Vien da chiedersi perché non si osservano (quantomeno non si trovano pubblicate), immagini di
galassie disposte come il Rettangolo Rosso. Lasciando perdere l’ipotesi del “cover up”, potrebbe
essere che l’ingombro delle galassie rispetto allo spessore delle corone sferiche che si intersecano
non sia mai tale, così grande, da evidenziare simili introflessioni dei lati dei parallelogrammoidi.
73c
73a
73b
Ho trovato però la foto di una galassia a forma di bastone bitorzoluto (fig73b), che potrebbe
risultare dall’intersezione di tre corone localmente perpendicolari al piano di una quarta corona (il
piano del foglio): quella di figura 73a è la stessa, con le isofote corrispondenti ad un’altra gamma di
frequenze, per cui si può ritenere che anche la galassia di fig 73c (se non è un ottaedro visto da una
particolare angolazione, che dia la proiezione esagonale del contorno, ma è improbabile),
fotografata con la frequenza della 73b, produrrebbe quelle estrusioni.
Tornando al confronto tra la storia recente delle osservazioni del profondo cielo (per ciò che per
gentile concessione ci è dato di sapere) ed il nostro percorso immaginativo, la differenza tra i due
approcci è che il nostro è fatto di deduzioni a tavolino, senza aver mai visto nulla, il secondo
consiste in una serie di aggiornamenti dell'osservazione, con l'affinarsi delle tecniche di rilevamento
dei dati forniti dalla realtà.
Quando mi sono venute fuori le galassie quadrate mi son detto: “Ma che cos'è questa roba? Le
galassie quadrate non esistono!” Confortato dalla massima Shakespeariana “Ci sono più cose in
cielo ed in terra che nella mente di voi filosofi”, ho navigato un po' e ho trovato che esistono, e che
esistono anche le “stelle quadrate”, in fase di formazione o di disintegrazione, che, assai più grandi
del normale, tradiscono la forma del loro letto.
28 - LA FORMA ED IL CONTENUTO (LO STAMPO E LA COLATA)
Quelle linee chiuse dalla strana forma delle foto sono isofote, cioè linee che uniscono i punti di
uguale luminosità della galassia. Si intende che la luminosità è maggiore laddove la densità delle
stelle è maggiore. Sappiamo che la densità stellare nella galassia aumenta verso il centro; se la
sezione considerata è circolare le isofote sono dei cerchi, se è ellissoidale sono delle ellissi.
Se le linee di uguale densità stellare sono quadrate, evidentemente la galassia (si intende: la sezione
corrispondente) è quadrata. La forma delle isofote nelle immagini che abbiamo riportato (da fig.66 a
fig.70), è correlata a quella delle nostre “isoipse” (che rappresentano non densità della galassia, ma
dello spazio vuoto sottostante, cioè l’andamento del potenziale gravitazionale) attraverso parametri
del corpo galattico come la coesione tra le stelle, la viscosità, l'elasticità ecc.
Il potenziale dello spazio è la forma metallica in cui verserete l'impasto più o meno liquido per fare
la torta. Se l'impasto è sufficientemente liquido esso prenderà la forma del contenitore: le isoipse
della colomba pasquale saranno le stesse dello stampo. Se l'impasto è troppo denso non riuscirà ad
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adattarsi alla forma dei versanti della scodella: resterà “arrampicato”, senza scivolare giù, lungo
quelli rientranti, e non riuscirà a risalire del tutto quelli dei lobi sporgenti verso l'esterno, ed allora la
forma della torta sarà diversa da quella della matrice, l'andamento del suo profilo sarà più
“rettificato” e tanto meno informato quanto maggiore è la coesione del materiale.
Si potrebbe pensare che il brodo stellare sia abbastanza liquido e abbastanza poco coeso, a dispetto
delle sferette celesti, da prendere la forma della buca di potenziale, rotonda verso il fondo e via via
sempre più “quadrata” salendo di quota, fino all'introflessione dei quattro lati, e quindi a seconda
della quantità di minestra versata (metafora, questa, della dimensione della galassia rispetto a quella
della buca in cui giace).
Non va dimenticato però che nella realtà il piatto lobato è veramente “piatto”, nel senso che non è
una fondina e che va considerata la viscosità relativa dell'aggregato di stelle.
Una pozzanghera d'acqua in un'ampia e leggerissima depressione di un piano (fatto di un materiale
in cui l'angolo del bagnato sia il più possibile acuto – questo perché le stelle non si attaccano al
cielo) non assume la forma delle isoipse della concavità, perché diventa non trascurabile la viscosità
del liquido usato.
Ebbene, si faccia conto che è di quell'ordine l'anomalia che, col Canal Grande Galattico, abbiamo
inserito nel campo gravitazionale newtoniano.
Finora ci siamo espressi nei termini metaforici del canale, del dosso, della collina ecc.. quando
sarebbe stato più opportuno parlare di aree non perfettamente pianeggianti o non perfettamente
inclinate con la legge della iperbole rovescia. E' risultato però dalla nostra costruzione di “cunetta e
dosso”, al di là del linguaggio colorito ed iperbolico (!), che la loro deviazione dall'andamento del
gradiente newtoniano è, per il letto delle galassie (ma forse ciò vale in generale), dello stesso ordine
di grandezza della locale deviazione del gradiente stesso dalla piattezza di un potenziale costante:
una miseria. Non a caso occorrono milioni di anni perché un'orografia del genere produca le forme
dei nostri oggetti, essendo che lungo quei pendii ci si muove molto pigramente.
29 - GALASSIE INSCATOLATE (“DISKY” & “BOXY”)
Abbiamo quindi delle galassie “inscatolate”. “Boxy”, non a caso, è il termine oggi adottato in
astronomia per indicare
Fig.74
la forma di alcune delle
strane isofote che hanno
impressionato le lastre.
Per la precisione sono
stati individuati due tipi
di curve chiuse: le
isofote “disky” (in alto in
fig.74) e le isofote
“boxy”(in basso).
Infatti in mancanza di
meglio si è pensato che,
essendo
entrambe
deviazioni dalla forma
Fig.74
Fig.
ellittica, lo sono per
“inscatolamento” nella
detta forma di base, le
prime con fuoriuscita lungo i due assi, le seconde per fuoriuscita lungo le diagonali.
Nei due diagrammi a sinistra in fig. 74 elaborati dal volonteroso ricercatore le introflessioni dei
“lati” rispettivamente del romboide e del rettangoloide non hanno nulla a che fare con lo stesso
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andamento delle nostre isoipse: sono solo immaginarie ed improbabili orbite di stelle che deviano
dall’ellisse, o qualcosa del genere che non si capisce bene.
A ben guardare, se proprio ci si vuole esercitare in considerazioni morfologiche, puramente astratte,
si tratterebbe in entrambi i casi di inscatolamento nell'ellisse, solo che mentre nel primo caso la
scatola è rettangolare, nel secondo è romboidale.
In ogni caso di parellelogrammoidi si tratta, anche se in rete, pur trovandosi immagini di isofote a
forma di parallelogramma (cioè con le coppie dei lati opposti non uguali: vedi fig.66 e 69a), la
trattazione riguarda normalmente le “boxy” e le “disky”: almeno per quanto riguarda lo studio da
cui ho tratto la fig.74, infatti, le isofote propriamente a parallelogramma falsificherebbero quel
tentativo di derivazione morfologica dall’ellisse.
Ho trovato altresì in rete che la forma disky e la forma boxy possono risultare dalla stessa galassia a
seconda della direzione del punto di vista da cui viene osservata, e questo conferma in pieno il
nostro modello dell’ottaedro: un ottaedro a base rettangolare osservato “in pianta” presenta forma
rettangolare (boxy), mentre osservato di lato presenta forma romboidale (disky). Naturalmente, in
ragione dell’inclinazione del “terzo canale” rispetto al piano ortogonale agli altri due, si possono
avere anche di lato proiezioni quadrangolari di tutti i tipi, compresa la rettangolare.
Tornando più nel dettaglio alla tipologia delle “ellittiche”, osserviamo che si deduce dal nostro
modello che continuano ad esistere galassie a forma di pallone da calcio (schiacciato o meno) e di
pallone da rugby (schiacciato o meno) senza che sia evidente la minima tendenza al
parallelogrammoide.
Sono, in generale, ellittiche relativamente più piccole: basta osservare il nostro diagramma delle
isoipse. Naturalmente, e per ciò abbiamo aggiunto la riserva “relativamente”, ciò non vuol dire che
non si osservano in cielo anche galassie quadrate piccole: significa solo che debordano oltre i flessi
dell’incrocio di canali più stretti.
Rispettivamente, per questi quattro casi si avrà simmetria sferica (il primo) simmetria radiale
rispetto ad un asse (il secondo ed il terzo) e infine tre assi di simmetria speculare (il quarto).
Nel caso più semplice della quadratura, cui esso si riferisce, se l'ammasso stellare è contenuto, nella
buca “cubica”, entro la distanza dei flessi dei canali che la costruiscono, ove non resta più traccia
della quadruplice “lobatura” delle linee equipotenziali, avremo una galassia quasi perfettamente
sferica, e tanto più quanto più essa è piccola.
Il pallone da calcio risulterà schiacciato (ellittica “oblata”) se dei tre canali ortogonali tra loro,
essendo due uguali, il terzo sarà più stretto.
Avremo il pallone da rugby normale (ellittica “prolata”) se il terzo sarà più largo
Ed infine il pallone da rugby schiacciato se, sempre con l'intersezione ortogonale, i canali saranno
tutti e tre diversi tra loro.
Seguono tutte le combinazioni dovute alla non ortogonalità degli incroci, con la perdita delle
simmetrie che si individuavano nelle precedenti forme.
La forma delle ellittiche che debordano oltre il flesso è sempre vagamente ottaedrica (più o meno
sghemba ed irregolare in ogni senso, sia nel senso dell'ortogonalità che dell'impianto
quadrangolare), e tanto più quanto più la galassia è grande, come si evince dal nostro diagramma.
Normalmente una galassia ellittica non è così grande da debordare altre la sommità dell'”argine”,
ove la derivata tende a zero.
Se lo facesse, una sua parte scivolerebbe via al di là dell'ampio dosso (risultato della somma dei tre:
il “negativo della buca”) che affianca la buca sferica, cadendo verso il centro di uno degli imbuti
newtoniani delle tre galassie che concorrono con le loro corone sferiche alla costruzione del loculo
in cui il resto del suo corpo resta a giacere in pace.
Si osserverebbero inoltre delle “estrusioni” rettilinee del suo corpo lungo le tre direzioni (sei se se
ne considerano i versi) dei cunicoli che si dipartono dalla tomba, ad accentuarne la struttura
ottaedrica, proprio come si osserva nella nebulosa HD 44179 (fig.72).
57
30 - ABBONDANZA RELATIVA
Riassumendo, le galassie lenticolari giacciono tra due versanti, le fusiformi tra quattro e le
“inscatolate” tra sei.
Naturalmente più sono le buche che vanno sommate (nel primo caso ce n'è solo una, nel secondo
due e nel terzo tre) più profonda è la buca risultante.
Per cui, secondo il principio della ricerca del minimo potenziale per arrivare alla stabilità ed alla
quiete, dovremmo trovare in cielo galassie inscatolate in maggioranza, e via via le altre, ma
ovviamente la situazione non è così semplice, perché va considerata anche l'abbondanza relativa dei
tre tipi di buca, cioè il rapporto tra i rispettivi volumi totali di spazio occupato.
Evidentemente le corone sferiche (buche del primo tipo) occupano molto più volume dei corridoi
(buche del secondo tipo), nel rapporto, pressapoco, che c'è tra la superficie della sfera e quella di
una striscia sottile ritagliata lungo una sezione (non necessariamente meridiana): le scatolette (le
buche del terzo tipo) occupano rispetto a quelle del secondo uno spazio che è con queste ultime
pressapoco nel rapporto di un quadrettino ritagliato da quella striscia.
Da questo criterio si dovrebbe allora dedurre che sono in maggioranza le lenticolari, ma non pare
essere così.
Ovviamente le galassie che sono nelle intercapedini delle corone sferiche raramente stanno ferme a
guardare senza muoversi, e quindi, se si muovono, rigorosamente guidate dalle intercapedini stesse
come da rotaie, prima o poi incapperanno in buche del secondo tipo, i canali circolari più
profondamente scavati dovuti all'incrocio con altre corone sferiche: in essi, dotati di profondità
doppia rispetto a quella delle semplici intercapedini lungo le quali avevano viaggiato, potranno
andare a cadere stabilmente (certo se le condizioni di velocità acquistata non lo vieteranno), in
obbedienza al primo criterio cui si è accennato.
L'ulteriore vagabondare le potrà portare prima o poi a cadere nelle vere e proprie buche con
profondità tripla.
Ma tutto ciò ha l’aria di essere già accaduto.
Infatti il meccanismo di selezione della ricerca del minimo potenziale può avere già operato a suo
tempo, all'epoca della formazione del materiale stellare e degli aggregati di stelle.
E’ probabile infatti che, una volta costituitisi i corpi galattici, scavati stabilmente i canali ed eretti i
dossi, le catture in una condizione di potenziale minore non avvengano normalmente più: se
avvengono, accade per incontri ravvicinati o collisioni che fanno perdere alle galassie vaganti
quell'energia cinetica che normalmente consente loro, se capita di incappare in un canale con
affiancato il dosso, di scavalcare sia l'uno che l'altro, essendo, come si è detto, l'integrale definito
della nostra anomalia uguale a quello del tratto di potenziale newtoniano corrispondente.
31 - LE GALASSIE “FUSIFORMI”
Facciamo ora un passo indietro per studiare le galassie che chiameremo “fusiformi”: un passo
indietro perché ci basterà l'intersezione tra due sole corone sferiche.
La forma del fuso (quanto è lungo rispetto al suo spessore massimo, quanto è schiacciato nei due
sensi, quanto rileva un rigonfiamento a mezza via dovuto alla maggior densità della regione centrale
ecc), dipende, oltre che da come è fatto il potenziale a “tubo quadro”, dalle caratteristiche della
galassia originaria: sostanzialmente da quanto è grande rispetto all'ampiezza del canale, da come è
radialmente distribuita la densità delle stelle che la compongono e dalla coesione interna.
Una galassia può avere o meno un nucleo potente e differenziato per densità: se non ce l'ha la
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densità delle stelle varia con continuità dal centro alla periferia (un po' come gli ammassi globulari
di stelle, relativamente piccoli, che circondano la nostra galassia), se ce l'ha esso può essere grande
o piccolo, rispetto al resto del corpo galattico.
A suo tempo, nel trattare la genesi, fino alla stabilità (sempre relativa, peraltro, come vedremo)
dell'aggregato sferico di stelle, non siamo entrati nel dettaglio delle modalità dell'enuclearsi di una
regione sferica centrale, con un confine relativamente netto, con una densità mediamente maggiore
della parte circostante, quindi con un salto di densità tra le due regioni.
Il nostro modello delle buche sferiche in successione intorno ad ogni stella, a partire da una prima
buca molto vicina ad essa, ci consentirebbe di spiegare quel salto semplicemente ipotizzando che le
stelle del nucleo sono tutte vicinissime tra loro perché tendenzialmente ciascuna occupa una di
quelle buche, mentre dal confine del nucleo in poi vengono occupate buche più distanti.
La densità risulterebbe addirittura “quantizzata” anche nella regione circostante, se applicassimo
questo criterio, individuando via via, nel procedere verso l'esterno, corone sferiche (qui non nel
senso delle nostre) in ciascuna delle quali le stelle sono collocate (per lo più) in buche che stanno
ad una determinata distanza, che salta ad un valore maggiore per la corona adiacente.
Bisognerebbe sapere se nelle immagini che riproducono le isofote a suo tempo riportate l'alternarsi
di fasce chiare a fasce scure, o diversamente colorate, con cui sono state rese le zone di uguale
luminosità sono solo un espediente grafico, o rappresentano reali sezioni concentriche nel passaggio
da ognuna delle quali alla successiva la luminosità salta improvvisamente: se cioè la
“quantizzazione” della luminosità, il suo andamento discreto, sono stati stabiliti per fasce di
sensibilità nel predisporre la lastra fotografica, o se appartengono all’oggetto reale.
Abbiamo chiamato “fusiformi” le galassie costrette tra l'incrocio di due sole corone sferiche poiché
le due estremità dell'aggregato a forma di barra si presentano tanto o poco appuntite, caratteristica,
questa, che non si riscontra in genere nelle ellittiche, che sono alloggiate nella buca quadrangolare
di potenziale determinata dall'intersezione di tre corone.
Le ellittiche più strette ed allungate sono comunque in proporzione molto più corte delle fusiformi:
l'ingombro massimo in lunghezza delle ellittiche è condizionato dal limite superiore cui può
arrivare la larghezza del più ampio dei tre canali sovrapposti a formare la scatola, la cui lunghezza
quindi ha un limite che è inferiore a quello dell'espansione del materiale stellare lungo il corridoio
tubolare che ospita le fusiformi.
Quest'ultimo criterio per distingue le “ellittiche” dalla “fusiformi” (quello della lunghezza) può
addirittura essere più decisivo: è da dire infatti che anche le ellittiche possono risultare
relativamente appuntite alle estremità, e sono quelle denominate “disky”, che presentano, come
abbiamo visto, isofote romboidali, ma la misura del loro asse maggiore è contenuta (e proprio per il
loro essere “contenute” nella scatola, in tal caso rettangolare, dell'incrocio delle corone).
Un ulteriore criterio di attribuzione potrebbe essere la distribuzione delle polveri ed in genere dei
materiali.
Ricordiamo che le polveri (i piccoli corpi, non dotati di ingombranti corone) raggiungono con meno
problemi il basso potenziale del fondovalle, facendosi strada tra “gli interstizi” del materiale stellare
con annessi gli involucri delle corone più o meno popolate, non diversamente da come il sugo di
pomodoro (se abbastanza liquido) versato sui maccheroni raggiunge il fondo del piatto, mentre altri
maccheroni aggiunti per aumentare la porzione no: il sugo si espande di lato fino ad un certo punto,
non come i maccheroni aggiunti, che, non potendo “diffondersi” all'interno di quelli che sono già
nel piatto, possono però anche “rotolare” verso i bordi, aumentando l'ingombro della porzione
anche in larghezza.
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Ebbene, se lungo l’asse di una galassia oblunga si osserva un deposito opaco che la percorre quasi
da parte a parte, è probabile che essa, se non è una lenticolare vista di taglio, sia una fusiforme
compressa tra due, e non tre, canali.
Se infatti un deposito di polveri fosse visibile in una ellittica, per quanto allungata, il suo ingombro
sarebbe piuttosto contenuto entro l’asse maggiore, e la sua sezione tenderebbe anzi ad assumere
una forma circolare, viste le isoipse nei dintorni del fondo della buca a sei pareti.
32 - IL CANALE RUOTA RISPETTO ALLA BARRA.
Fin qui abbiamo considerato immobile (una volta formatosi nella regione di basso potenziale) il
corpo galattico rispetto alla depressione che lo accoglie.
Prenderemo ora in considerazione questa variabile, che consiste nella rotazione della galassia
(intorno al proprio centro di massa), rispetto all'asse del canale.
Considerando, come andiamo facendo, le galassie fusiformi, siamo in presenza del corridoio
tubolare, che nel tratto occupato dalla galassia fusiforme è approssimativamente rettilineo, ma che,
non dimentichiamolo, è complessivamente un corridoio circolare di piccolissima curvatura,
risultante dall'intersezione di due corone sferiche.
La rotazione della barra fusiforme rispetto alla tangente al canale nel centro di massa (il punto
medio del fuso) può avvenire per due ragioni cinematiche, per l'una o per l'altra o per entrambe
contemporaneamente, come è più probabile.
Per semplicità partiremo dalla prima più semplice configurazione, quella della galassia B (che
risulterà così “lenticolare”, a forma di cialda) collocata nell'intercapedine della corona sferica
determinata dalla galassia vicina A.
A sua volta la galassia A (in fig.75 non schiacciata) giaccia nel letto dovuto alla nostra.
Mettendo
tra
parentesi
momentaneamente la reale
dinamica (cui approderemo poi)
supponiamo che la galassia A
giri intorno alla galassia B, con
orbita circolare, in modo che B
sia sempre nel canale.
B vedrà ruotare sotto di sé il suo
letto.
L'inerzia del dormiente farà sì
che la sua rotazione per
continuare a giacere parallelo al
Fig.75 letto verrà ritardata, e quindi la
galassia (la lenticolare qui vista
di taglio) si troverà messa un po' di traverso, e sempre più col procedere della rotazione (fig.76).
60
Fig.76
Fig.
I due versanti del canale tenderanno a raddrizzare il disco, ma dovranno fare i conti con l'inerzia, la
“riluttanza” delle sue due metà che si dipartono dalla linea di fondovalle a discendere lungo i
versanti stessi.
Rinviando il seguito della storia, consideriamo ora l'altra ipotesi cinematica, la quale, come
vedremo, porta allo stesso risultato.
Adesso sia B che orbita intorno ad A, percorrendo il canale circolare in cui si trova.
E' Il suo centro di massa (il centro della sezione fusiforme) a descrivere la traiettoria circolare, ed è
probabile che non percorra il fondovalle, ma che descriva l'orbita circolare ad una quota un po'
maggiore, lungo un'isoipsa più esterna, segnata sul versante a monte del canale circolare.
E' inteso anche che è ammessa una piccola eccentricità della sua orbita, contenuta entro l'ampiezza
della parte concava della sezione di detto versante.
Ma non divaghiamo con questi dettagli, rilevanti sì per la forma che il profilo della lente assumerà,
ma non sostanzialmente, dal momento che nel suo riferimento inerziale il suo centro continuerà ad
occupare un punto (un nuovo punto) di minimo potenziale, con intorno due versanti più o meno,
come prima, simmetricamente disposti.
Considerazioni analoghe a quelle che abbiamo fatto per l'ipotesi che sia A a ruotare intorno a B ci
portano a vedere come l'inerzia, la tendenza cioè a conservare l'assetto (a restare parallela a se stessa
nel corso della rivoluzione) porta il piatto visto di profilo ad inclinarsi rispetto alle tangente al
canale, come prima: come prima i suoi “due bracci”, almeno in una prima fase, “si
arrampicheranno” lungo i due versanti.
Più realistico è il quadro in cui le due dinamiche (quella di A che ruota intorno a B e quella di B che
ruota intorno ad A) operano in contemporanea, facendo sì che A e B ruotano intorno ad un comune
centro, continuando ciascuna a muoversi lungo il canale in cui ciascuna si trova.
Il risultato, con diversi valori delle velocità (che saranno minori), e delle forze in gioco, è comunque
lo stesso: il disco lenticolare ruota intorno ad un suo diametro rispetto al canale, qualsiasi
riferimento si voglia assumere per la rotazione del canale.
Per intuire la dinamica in questione (con eventuali deformazioni del corpo galattico)
schematizziamo all'osso il quadro, dando realtà alla sezione del disco, col massimo della semplicità,
con un semplice modello casalingo.
61
La buca sia rappresentata da un foglio (che dovrà risultare poi rigido) ripiegato come in figura 77,
con la sezione che riproduca l'andamento del potenziale.
Fig.77
Sistemiamo una fila di palline
lungo la linea di fondovalle.
E' inteso che tali palline così si sono
“disposte da sole”, comunque
versate nel
canale, a simulare
l'avvenuto
schiacciamento
dell'originario aggregato sferico di
stelle.
Immaginiamo ora di far ruotare, intorno al centro della fila, il sottostante modellino (fig.78).
La pallina centrale resterà immobile,
ma anche le altre tenderanno, per
inerzia, a restare immobili, e
Fig.78
opporranno perciò resistenza allo
spostamento solidale con il canale,
dovuto alla presenza dei due
versanti inclinati.
Non resteranno così confinate nel
fondovalle, seguendo la rotazione
del canale nel riferimento assoluto,
ma risaliranno lungo i versanti di
competenza, tanto più quanto più
sono distanti dal centro della fila.
La domanda ora è: la fila divaricata
rispetto all'asse del canale resterà
rettilinea (come l'abbiamo disegnata in figura
78), o si curverà in qualche modo?
La risposta ce la dà l'andamento della
derivata della sezione del canale, derivata che
sappiamo essere punto per punto il valore
della pendenza, cioè della “forza” con al
quale una pallina collocata in un punto del
versante viene spinta a scendere.
A suo tempo abbiamo adottato, per la sezione
del canale, la gaussiana rovesciata, cui
dovrebbe somigliare molto anche la buca
della derivata, una volta raddrizzata per
Fig.79
somma del sottostante gradiente newtoniano,
come abbiamo visto.
Per chiarezza prendiamo quindi la gaussiana rovesciata (che assomiglia alla sezione del canale
risultante da figura 43) e disegniamo la curva della sua derivata (fig.79).
Ciò che rileva qui per noi è il fatto che in corrispondenza dei dintorni del fondovalle della curva del
potenziale la derivata è rettilinea: solo nei dintorni dei suoi due flessi s'incurva.
62
33 - BARRE E CIALDE CHE SI INCURVANO.
Si dimostra che quella della seconda curva di fig.79 è approssimativamente la forma che assumerà
la nostra fila di palline: tenderà ad essere ancora rettilinea se le sue estremità non raggiungeranno i
paraggi dei flessi, e si incurverà verso monte se li raggiungerà e deborderà al di là di essi (fig.80).
Per quanto riguarda il mantenimento della
rettilineità al di qua dei flessi, una
controprova intuitiva si può avere
Fig.80
considerando
di
aver
collocato
appositamente, a canale fermo, la (mezza)
fila di palline lungo una
direzione
divaricata rispetto al fondovalle: la fila si
conserverà rettilinea quando le palline
cadranno verso il fondovalle, poiché quelle
esterne
subiranno
un'accelerazione
proporzionalmente maggiore (e quindi si
muoveranno
ad
una
velocità
proporzionalmente maggiore) di quelle
interne. La proporzionalità perfetta (cioè il
rapporto perfettamente lineare) si avrebbe in teoria con un potenziale (fino ai flessi) parabolico.
Infatti la derivata della parabola è la retta (fig.81).
Ma qualsiasi effettivo andamento noi
adottiamo per i dintorni del fondo della
Fig.81
nostra buca, fino ai paraggi dei flessi, sia
quello sinusoidale, sia quello a campana di
Gauss rovesciata, sia quello della derivata
”raddrizzata” della campana stessa, esso sarà
tanto più approssimato a quello parabolico
quanto più ci avvicineremo al fondovalle: in
ogni modo la tendenza alla rettilineità dei
tracciati della derivata della gaussiana
capovolta in corrispondenza della parte più
profonda della buca ci è più che sufficiente
Per quanto riguarda la curvatura della fila di
palline dai paraggi del flesso in poi, è
altrettanto intuitivo che se il versante oppone
resistenza al mantenimento dell'immobilità
della fila rispetto allo spazio assoluto (immobilità contro la quale esso versante nulla può solo nei
confronti della pallina centrale), questa resistenza è tanto maggiore quanto maggiore è l'inclinazione
del versante. Orbene, fino al flesso tale inclinazione è in aumento, e dal flesso in poi diminuisce, col
che le palline prossime a debordare, e tanto più quanto più lo sono e poi effettivamente debordano,
incontrano minor resistenza e restano indietro rispetto allo spazio assoluto.
Ragionando come abbiamo fatto per le palline che restano al di qua dei dintorni del flesso,
immaginiamo di collocare appositamente, a canale fermo, una fila di palline, inclinata come quelle
che non debordano, lungo il versante al di là della linea di flesso.
Ogni pallina si metterà moto verso il fondovalle con un'accelerazione (e quindi una velocità) tanto
minore quanto più essa è a monte: quelle a monte quindi resteranno indietro, e, per ovvie ragioni di
raccordo armonico e graduale (anche intuitivamente non si concepisce che ne risulti un andamento
spezzato della fila, con uno spigolo, dopo il tratto rettilineo della parte rimanente più interna) si
disporranno a formare un arco.
63
Come abbiamo anticipato. la fila ha assunto approssimativamente la forma della curva della
derivata.
Ma lavoriamo, per ora, ripromettendoci naturalmente di tornare poi alla considerazione del
promettente effetto dell'addolcirsi del pendio, a quel che accade al di qua del flesso,
Noi non vediamo, osservando il cielo, le sfere celesti, vediamo solo gli oggetti che debbono fare i
conti con quell'invisibile variegata orografia dello spazio.
Evinciamo quell'orografia dalle deformazioni che i corpi subiscono per sua causa, non diversamente
da come si evince la giornata ventosa, guardando attraverso i vetri di una finestra chiusa, dal moto
delle fronde degli alberi del viale.
Ma se la rotazione di una barra in un canale, essendo che la barra non va a curiosare colle sue
estremità oltre i flessi del canale stesso, non produce variazioni nella sua forma, mantenendosi essa
rettilinea, nulla possiamo dire sulla sua attuale giacitura rispetto all'asse dell'avvallamento, se è cioè
divaricata o meno (e, a parte il ricorso ad analisi spettroscopiche, se sta ruotando o è ferma, questo
vista la lentezza dei moti a questa cosmica scala).
Questo per riparlare del nostro sombrero.
La perfezione della forma, la giacitura perfettamente piana della sezione equatoriale ci inducevano a
pensare che il corpo lenticolare fosse perfettamente allineato con l'intercapedine della corona sferica
in cui è stata compressa l'originaria sfera.
Ma potrebbe essere invece
Fig.82
che il piano della cialda sia
inclinato rispetto al canale,
se è vero che la fila di
palline che si tenga lontana
dai flessi conserva la sua
rettilineità anche quando è
per
metà
arrampicata
lungo un versante e per
l'altra metà lungo il
versante opposto.
Bisogna
però,
per
l'appunto, che le tese del
sombrero siano anch'esse
contenute entro la fascia delimitata dai piani di flesso, altrimenti esse si incurverebbero, senza
peraltro che venga sgualcito il resto del cappello. E’ da dire, però, che una leggera piegatura
potrebbe comunque osservarsi anche con le estremità della barra che non superano i flessi (fig.82),
come si vedrà in seguito.
In questa prospettiva si spiega la curvatura ad esse delle tese del sombrero di fig.50.
Lasciamoci ora alle spalle l'unico canale e la cialda per occuparci di ciò che accade col corridoio
tubolare determinato dall'intersezione di due sfere celesti.
Costretto tra le sue pareti, un lungo fuso più o meno ingrossato a mezza via, a seconda della
rilevanza del nucleo dell'originario aggregato sferico, della sua viscosità ecc., subirà lo stesso
destino della sezione di taglio della cialda, con una maggiore probabilità per la curvatura delle sue
estremità proprio in ragione della sua maggiore lunghezza, come s'è già visto, e quindi della
possibilità di debordare oltre i flessi.
64
Cominciamo da questa immagine (fig.83).
Può essere la foto di una galassia fusiforme
ripiegata solo ad un'estremità, a testimonianza del
fatto (già abbondantemente appurato) che la
sezione del canale non è perfettamente simmetrica:
qui uno dei due flessi è più distante dal fondovalle,
e l'altra estremità, quella non ripiegata, non l'ha
(ancora) raggiunto.
Può essere anche che non lo raggiunga nemmeno
in futuro.
Ma su questo torneremo quando tratteremo
dell'oscillazione della barra.
Fig.83
Osserviamo qui che in linea di principio non possiamo dire se la piegatura sia stata prodotta dal
versante della buca raccordato col dosso che affianca la cunetta, in direzione del centro dell'imbuto,
o dall'altro versante, che si raccorda direttamente col gradiente newtoniano, nella direzione opposta.
Nel vuoto di campo newtoniano, naturalmente, varrebbe la seconda ipotesi, essendo che il flesso
dalla parte del dosso è più lontano dal fondovalle dell’altro ed è inoltre più pendente il versante
corrispondente poiché la buca non ha un'asse di simmetria verticale.
Nel gradiente di Newton l'asse tende a raddrizzarsi, come abbiamo visto a suo tempo, con
spostamento del punto di fondovalle verso sinistra, e questo non è escluso che possa avvenire fino a
far si che il flesso più vicino diventi l'altro, quello a valle dell'imbuto, dalla parte del dosso,
avvalorando così la prima ipotesi.
Fig.84
65
Va da sé, come già abbiamo visto, che il
raddrizzamento dell'asse della buca
prevede anche il caso in cui la distanza tra
i due flessi è identica, ed allora le
piegature cominceranno a formarsi
contemporaneamente alle due metà della
barra: è quello che abbiamo visto accadere
alle tese del sombrero da cowboy.
Vedremo comunque che generalmente il
profondo cielo è popolato di oggetti che
non hanno una buona simmetria.
Non sempre le due ripiegature, quando si
osservano, iniziano alla stessa distanza dal
centro e comunque diverse appaiono la
lunghezza e la curvatura delle due parti
distali ripiegate ad arco (fig.84): infatti
anche quando le distanze dei due flessi dal
fondovalle è uguale, diverso è però, tanto
o poco, l'andamento dei gradienti dei due
versanti.
Il raddrizzamento di cui si parlava non può
ovviare più di tanto al fatto che il versante
dalla parte del dosso è inevitabilmente più
lungo e meno arcuato dell'altro, come risulta
da tutti i relativi grafici: più lungo e meno
arcuato come più lungo e meno arcuato
appare spesso uno dei due bracci ritorti della
barra rispetto all'altro.
In fig.85 probabilmente il braccio più lungo e
meno arcuato si è spezzato in due: forse si è
disteso a cavallo dell’adiacente dosso.
Fig.85
O forse si tratta semplicemente di due
galassie diverse, prospetticamente o meno
vicine.
34 – OSCILLAZIONE DELLA BARRA INTERA.
Dobbiamo ora dedicarci ad un esame più dettagliato della dinamica della rotazione della barra
rispetto al canale, per occuparci in particolare delle velocità con cui le varie parti del sistema si
muovono.
La nostra sarà ovviamente un'analisi solo qualitativa, ma sarà sufficiente a dare una esaustiva idea
se non altro del problema.
La nostra barra rettilinea è immaginata originariamente ferma, coricata lungo il fondovalle del
corridoio tubolare che bisogna visualizzare lungo l'intersezione localmente rettilinea di due
intercapedini localmente piane (ben sapendo, d'altronde, che si tratta rispettivamente un arco di
cerchio e di una porzione di superficie sferica).
Quando essa ruota rispetto al vano tubolare, potrebbe farlo su un qualsiasi piano, anche non su uno
dei due piani rappresentati da dette intercapedini, cioè non necessariamente incanalandosi lungo una
di esse.
La figura 86 fa vedere la sezione dell'intersezione tra le
due corone (e la sezione trasversale centrale della barra)
e la linea tratteggiata la sezione di un possibile piano
lungo il quale la barra può mettersi in rotazione rispetto
al corridoio.
Omettiamo di considerare questa complicazione, che
darebbe luogo a deformazioni diverse, le quali
probabilmente troverebbero riscontro nella variegata
morfologia che si osserva: può essere peraltro, ma non
indaghiamo qui, che la rotazione della barra non possa
avvenire in realtà lungo un piano come quello del
Fig.86
tratteggio, ma solo su quello di uno dei due canali.
Riduciamo con ciò il problema allo schema dell'unico canale, come finora abbiamo fatto per
rappresentare le curvature distali del fuso, ignorando il contorno, che non è per ora influente: infatti
66
in questa ipotesi la barra ha a che fare, ruotando, coi versanti di una sola delle due intercapedini,
non anche con quelli dell'altra che la interseca, entro la quale resta incanalata e “guidata”.
Procediamo quindi assumendo che il canale ruoti (potremmo assumere che la barra si muova
percorrendolo, con lo stesso risultato, come abbiamo visto) facendo perno nel centro della struttura
fusiforme.
Da subito la barra comincerà a ruotare con esso, nello stesso verso, ma la sua inerzia al moto farà sì
che la velocità angolare della rotazione della barra, rispetto al riferimento assoluto, risulterà minore
di quella del canale.
Cosi le due metà della barra, mantenendosi allineate e rettilinee (finché naturalmente le sue
estremità non saranno vicine ai flessi) risaliranno ciascuna il proprio versante.
Lo faranno ad una velocità angolare che diminuisce col tempo, perché l'inerzia sarà via via vinta, ed
ad un certo punto, in una prima ipotesi, si fermeranno rispetto al canale ed ai suoi versanti.
Supponiamo che ciò avvenga prima che le due estremità raggiungano la quota alla quale comincia
ad aver luogo la piegatura.
In quell'istante, quando si sarà raggiunta la massima divaricazione tra barra e canale, barra e canale
ruoteranno alla stessa velocità angolare: saremo ad un quarto dell’oscillazione.
Poi le due metà della barra cominceranno a discendere ciascuna lungo il proprio versante, e dal
momento in cui incominceranno a farlo la velocità angolare della barra sarà maggiore di quella del
canale (la cui velocità di rotazione, è, non dimentichiamolo, costante nel tempo): ed aumenterà
sempre più, fino al momento in cui la barra sarà di nuovo allineata con la linea di fondovalle.
Sarà questo l'istante in cui la divaricazione dei valori delle due velocità angolari sarà massima:
siamo a metà dell’oscillazione.
Da questo momento in poi, quando le due metà cominceranno a risalire i rispettivi versanti opposti,
la velocità angolare di rotazione della barra comincerà di nuovo a diminuire, conservandosi
purtuttavia superiore a quella del canale, fino al momento in cui cesserà di salire lungo i versanti e
si fermerà, con le due metà arrampicate immobili ciascuna sul suo pendio.
In quell'istante le due velocità angolari saranno di nuovo uguali, e la barra starà ruotando alla stessa
velocità del canale, dopo aver compiuto tre quarti di oscillazione.
E' inteso che di quanto le estremità della barra sono rimaste distanti all'andata dalle linee di flesso,
di tanto sono rimaste al ritorno, per cui essa è rimasta uguale a se stessa, sempre rettilinea (a parte
altre considerazioni, che vedremo oltre).
Ora le due metà riprendono a discendere lungo i rispettivi versanti, ad una velocità sempre
crescente, rispetto ad essi, fino al fondovalle, ove essa diviene massima, ed ove si completa
un’oscillazione,
Da qui in poi si riproduce esattamente la situazione da cui eravamo partiti: la risalita dal fondovalle
in questa fase finale del ciclo avviene con le stesse modalità cinematiche viste prima, all'inizio,
quando era l'inerzia al moto a determinare la diminuzione della velocità relativa della barra rispetto
al versante, fino all'arresto ad una certa quota. Ora si tratta di inerzia alla quiete, anziché al moto,
ma il decorso ed il risultato sono gli stessi.
Ne consegue che il ciclo (l'oscillazione), come è logico, si può ritenere completato quando la barra è
di nuovo allineata col fondovalle, com'era al nastro di partenza.
Consideriamo ora le cose nel riferimento assoluto, e per farlo dobbiamo tener conto del valore,
rispetto ad esso, della velocità angolare costante di rotazione del canale, e non solo delle due
velocità, quella del canale e quella della barra, riferite semplicemente l'una all'altra.
Diciamo che se la velocità angolare massima della barra rispetto al canale non supera la velocità
angolare (che è costante) del canale rispetto al riferimento assoluto, vedremo, nello spazio vuoto, la
barra ruotare sempre nello stesso verso, con velocità che nella peggiore delle ipotesi si annulla in un
istante ad ogni ciclo, precisamente quando è coricata nel fondovalle alla fine dell’oscillazione di
ritorno, quando le due velocità sono uguali e discordi. Il massimo della velocità angolare della
rotazione della barra si registrerà invece alla fine dell'oscillazione di andata, quando le due velocità
67
sono uguali e concordi: si intendono qui, visto il punto di partenza, rispettivamente la fine ed il
punto medio dell’oscillazione.
35 - BARRE CONTROROTANTI
Se invece la velocità angolare massima della barra rispetto al canale supera la velocità angolare del
canale rispetto al riferimento assoluto, allora vedremo la barra periodicamente controrotare per un
certo angolo, tanto maggiore quanto maggiore è la differenza tra il massimo raggiunto dalla velocità
angolare della barra e la velocità costante del canale.
A ben vedere, c'è un'incongruenza nel nostro ragionamento.
Per come avevamo messo le cose, con la barra originariamente allineata col fondovalle, la quale
“resiste” alla rotazione solidale con esso e che nell'infinitesimo intervallo temporale della partenza,
essendo per inerzia immobile rispetto al riferimento assoluto, ruota alla stessa velocità del canale,
vengono a mancare le condizioni affinché la velocità di rotazione della barra raggiunga un massimo
che supera la velocità costante del canale, in modo da configurare per un intervallo di tempo
l'inversione della rotazione nel riferimento assoluto. Vista la nostra assunzione, la velocità massima
della barra coinciderà sempre col valore costante della velocità del canale: al massimo si fermerà
per un istante.
Tutto nasce dall'aver immaginato che istantaneamente, dopo che la barra si è formata a canale
immobile, il canale stesso si metta a ruotare: è stata un'assunzione di comodo, che può non avere
riscontro nella realtà.
Nella realtà infatti la formazione del fuso per schiacciamento entro il corridoio tubolare è
contemporanea alla rotazione del corridoio tubolare stesso, che ruota “da sempre”: la barra
comincia a formarsi e continua ad allungarsi e nello stesso tempo le sue due metà risalgono i due
versanti. Si intuisce che in queste più realistiche condizioni, a seconda in particolare dell'andamento
dei versanti, il massimo della velocità raggiunta dalla barra quando attraversa l'assetto
d'allineamento col fondovalle può variare intorno al valore della velocità costante di rotazione del
canale.
Le galassie fusiformi sono state osservate (attraverso la tecnica del redshift) ruotare alle velocità più
diverse, inclusa quella nulla, nel senso che molte risultano anche non ruotare.
Purtroppo, essendo quella del redshift l'unica indagine osservativa possibile sulle velocità, vista la
lentezza del moto, non é possibile seguire, osservando il cielo, la variazione di velocità di rotazione
intorno al proprio baricentro di un dato oggetto fusiforme (per non parlare della controrotazione),
tanto che, ovviamente, oggi si pensa che quelle velocità misurate (e lo stato di immobilità) siano
costanti nel tempo.
Tra parentesi l'osservazione della non rotazione vanifica, agli occhi dei contemporanei ricercatori,
ogni residua speranza di interpretare la struttura allungata come il risultato, se pensabile, di
dinamiche centrifughe, dal momento che la stessa forma è assunta anche dalle fusiformi che non
vengono viste ruotare.
Vedremo però nel seguito come nel contesto di morfologie più complesse di quella fusiforme la
controrotazione della barra si possa desumere anche dall’osservazione della forma.
36 - FUSI NON DEBORDANTI MA ASIMMETRICI
Prima di passare ad analizzare più nel dettaglio anche la curvatura delle estremità della barra
aggiungiamo una ulteriore complicazione, cui peraltro abbiamo già accennato di sfuggita, per
quanto riguarda il preteso mantenimento della propria forma, nel corso di risalita e discesa, lungo i
versanti al di qua dei flessi, delle due metà della barra.
68
Finché si ragiona in termini di una fila di palline è indubbiamente vero che la morfologia non
cambia, ma la nostra barra ha anche un certo spessore.
A proposito di questo, dobbiamo precisare che perché si possa parlare di un oggetto affusolato che
risale un versante, bisogna che il suo spessore sia contenuto rispetto all'ampiezza del versante.
In soldoni, nelle galassie fusiformi di cui ora ci stiamo occupando, avessero anche un nucleo
rilevante, quando sono distese lungo la linea di fondovalle, l'ingombro laterale delle due braccia ora
distese e rettilinee è tale da lasciare scoperta la maggior parte dell'estensione dei due versanti.
Più le braccia sono sottili, essendo più approssimate al modello della fila di palline, più vale che si
conserva la loro forma durante al rotazione e la loro risalita lungo i due versanti contrapposti.
Si osservi questa galassia fusiforme fig.87).
Non ha una simmetria perfetta: il profilo in alto a sinistra
e quello in basso a destra sono più arcuati, meno
rettificati rispetto a quelli corrispondenti opposti.
Essendo improbabile che si tratti di una delle morfologie
a parallelogramma che abbiamo passato in rassegna,
vista la lunghezza dell'oggetto, che non pare
“inscatolato”, può essere che la deformazione sia dovuta
al fatto che la galassia sta ruotando rispetto al suo
canale, le sue due braccia fusiformi si stanno
arrampicando lungo i due versanti, e, avendo essi un
notevole spessore,
il comportamento delle stelle
allineate lungo il confine superiore di ogni braccio, e
via via a decrescere quelle interne, seguano la regola
della tendenza alla rettilineità meglio, peggio, o
comunque in modo diverso, rispetto a quelle allineate in
Fig.87
prossimità del confine inferiore, parte delle quali è
collocata addirittura sull'altro versante e sulla linea di
fondovalle: a parità di distanza dal centro del fuso le prime hanno a che fare con un gradiente
maggiore (vedere fig.82).
Non sappiamo dire qui, su due piedi, se la galassia della foto sta scendendo o salendo (o in che
verso sta ruotando rispetto al canale, se quello della parte più concava o quello della più
convessa): ma forse lo si può stabilire con un'analisi più accurata, partendo proprio
dall'osservazione della forma dei due diversamente arcuati profili di ciascuna delle sue due metà.
37 - SPIRALI BARRATE
Possiamo passare ora alle piegature dai paraggi dei flessi in poi, continuando ad adottare, per
semplicità e maggior chiarezza (e tenendo presenti le riserve che questa arbitraria assunzione
comporta) il modello della barra già formata, non in corso di allungamento durante la rotazione del
canale.
La risalita delle due metà del fuso non si arresti quindi prima che le sue estremità si siano avvicinate
troppo ai paraggi dei flessi, laddove il gradiente dei versanti comincia a diminuire in modo
significativo. Il materiale stellare delle estremità “rallenterà meno”, come abbiamo visto: le braccia
si incurveranno, e, continuando la barra a ruotare, la curvatura si “mangerà” via via la barra,
essendo che, con l'aumento dell'angolo di divaricazione rispetto al canale, di essa sarà intercettato
tra i flessi un tratto sempre minore.
In fig.88 l’evoluzione, (nel corso di una rotazione completa del canale) viene schematizzata con
mezza fila delle nostre palline.
69
Fig.88
Il massimo della divaricazione si ha con l'ortogonalità (fig.89):
Fig.89
70
Nel frattempo (nel tempo cioè in cui la barra ha ruotato di
90° rispetto al canale), il canale ha compiuto una
rotazione di un angolo assai maggiore, come risulta dalla
sequenza di fotogrammi della figura, può aver compiuto
anzi, se la risalita è lentissima, più rotazioni complete.
Il numero di tali rotazioni non si determina
semplicemente contando gli avvolgimenti a spirale delle
braccia formate dalle stelle che sono rimaste indietro,
poiché queste stelle stanno ruotando intorno al centro del
sistema: le prime a sottrarsi all'alto gradiente intorno al
flesso, quelle delle punte delle due code (dalle quali si
sarebbe tentati di iniziare a contare i giri) se anche fossero
state depositate nella quiete di un altopiano al di là dei flessi, avrebbero continuato a muoversi, pur
in linea retta, nel verso della rotazione: di fatto continuano a ruotare intorno al centro della galassia,
vedremo più avanti perché.
Quindi il numero delle rotazioni complete del canale, che sappiamo già essere maggiore di quelle
della barra (che nel nostro esempio fa un terzo di giro rispetto al canale), è maggiore del numero
degli avvolgimenti.
38 - VELOCITA’ DI ROTAZIONE DEI BRACCI SPIRALEGGIANTI.
Prima di occuparci del destino della barra dispostasi ora ortogonalmente al canale, indaghiamo un
po' sulle velocità del materiale stellare aggregato a formare le braccia spirali.
Nello schema di fig.90 sono
state
confrontate
due
configurazioni a distanza di
tempo,
corrispondenti
al
“deposito in orbita” di
materiale stellare a due
distanze diverse dal centro.
La barra (mezza) qui è
raffigurata dalla fila di palline,
senza spessore.
Abbiamo,
per
chiarezza,
ridotto il canale al suo tratto al
Fig.90
di qua del flesso, immaginando
il canale stesso a sezione parabolica (disegnata a sinstra): il contorno, anziché dal seguito del
versante che si addolcisce, è costituito dalla piattezza del potenziale.
Ci rendiamo perfettamente conto dei limiti di questa semplificazione
La stella di turno (prima B e poi A), debordando oltre il ciglio dell'altipiano, si muove su di esso (in
linea retta) con la velocità e nella direzione che aveva nel momento in cui si affacciava al ciglio.
Noi considereremo (in modulo) questa velocità, chiedendoci come essa varia a seconda della
lunghezza dell'intercetta operata tra i due cigli sulla barra (vale a dire, in figura, della sua metà, OB
oppure OA).
Sappiamo che nel tempo la velocità angolare della barra diminuisce rispetto a quella del canale, il
che significa che aumenta rispetto al riferimento assoluto: infatti, fin che essa si arrampica a fatica
lungo i versanti, ignorando il canale (che peraltro è invisibile), vedremmo nel cielo la barra partire
da ferma e mettersi a ruotare sempre più velocemente
Per un po' le sue estremità non lasceranno alcuna scia.
Poi, quando le sue estremità cominceranno ad avvicinarsi pericolosamente alle due linee di flesso,
esse cominceranno ad incurvarsi.
Il canale ruota in senso orario rispetto allo spazio assoluto (la nostra pagina) mentre la barra ruota in
senso antiorario rispetto al canale, poiché ruota rispetto allo spazio assoluto anch’essa in senso
orario ma ad una velocità angolare minore di quella a cui nello stesso riferimento ruota il canale.
Qui provvisoriamente ipotizzeremo che anche la velocità angolare di rotazione della barra (w)’ sia
costante, come lo è quella del canale (w).
La stella B collocata sul ciglio a distanza d=OB dal centro del sistema si sta muovendo, nel
momento di affacciarsi al piano, ad una velocità (v) diversa da quella della stella A che più tardi si
71
appresterà a uscire dalla buca, affacciandosi al piano in un punto distante OA’ dal centro.
Le velocità di uscita di A e B sono funzioni dell'angolo di divaricazione x dalla direzione del
canale: ma sono funzioni lineari di tale angolo?
Vale a chiedere: la velocità di uscita è direttamente proporzionale all'aumentare dell'angolo x con la
rotazione della barra rispetto al canale? E' anche intuitivo che non lo è.
Essa è' invece proporzionale alla distanza d dal centro, la quale non è funzione lineare dell'angolo,
ma trigonometrica.
Per gli addetti, è funzione dell'inverso del seno.
d=OF/senx
Fig.90
In fig.90 il suo andamento.
Sarà quindi
v=a*OF/senx
dove a è il coefficiente di proporzionalità legato alla velocità
angolare w’ della barra (supposta qui costante) rispetto al
canale: tanto più lentamente la barra ruota, tanto più piccolo è
a.
Per avere la velocità istantanea (v’) di superamento del flesso
rispetto allo spazio assoluto bisogna sottrarre questa velocità
v a quella V con cui in quell'istante sta ruotando il punto A del
flesso del canale, con tutto il canale.
Tale velocità è diretta nel verso opposto a v e vale
V=b*OF/senx
dove la costante di proporzionalità b è maggiore di a poiché la velocità angolare (w) di rotazione
del canale è sempre maggiore di quella contraria (w’) della barra.
Avremo quindi
v'=V-v=(b-a)OF/senx
Il cui andamento ha ancora la forma, non essendo cambiato che il coefficiente di proporzionalità,
dell'inverso del seno.
Usciamo ora dall’ipotesi della costanza di w’.
Poiché w’ diminuisce col tempo nel riferimento del canale, diminuisce a, e quindi, diminuendo la
parte sottratta nell’espressione di v’ che abbiamo sopra scritto, tale velocità v’ rispetto allo spazio
assoluto aumenta.
La scia risultate sarà più arcuata.
In parole povere, essendo che col tempo la barra “è sempre più ferma” rispetto alla rotazione a
velocità costante del canale, la stella A scavalcherà l'argine ad una velocità (nel riferimento
assoluto) sempre maggiore di quella prevista in quel punto dal semplice andamento della funzione
sinusoidale inversa.
72
In ogni modo le velocità radiali sembrano aumentare sempre con l'allontanamento dal centro,
seppur con velocità in diminuzione, e questo corrisponde all'andamento dei più bassi tracciati del
diagramma che segue (fig.92: la didascalia evidentemente non è nostra), tratto dalle osservazioni
delle velocità radiali di rotazione delle galassie spirali, tracciati riferiti a quelle di minori
dimensioni.
Fig.92
Ma possiamo anche dedurre una velocità radiale pressochè costante, cioè il “distacco” del materiale
stellare, all'estremità della barra, ad una velocità (periferica) nel riferimento assoluto che è sempre
pressochè uguale indipendentemente dal tempo che trascorre con l'accorciamento della barra, cioè
dalla distanza dal centro.
Sappiamo che tale velocità è la differenza tra la velocità di rotazione in ogni punto del canale
(velocità che aumenta secondo la legge dell'inverso del seno a partire dal centro) e la velocità di
rotazione della barra in quello stesso punto del bordo.
Quello che vogliamo è che questa differenza sia costante in ogni punto, e perché succeda bisogna
che la parte sottratta (la velocità della barra in quel punto ) diminuisca secondo quella stessa legge.
Non approfondiremo, ma è evidente che in ogni caso si potrà però avere un andamento “quasi
costante”, e soprattutto tanto più quanto più siamo distanti dal centro, in considerazione della forma
del versante lungo il quale la barra si sta arrampicando o in ragione dell’ampiezza del canale.
Una legge che non abbiamo formalizzato, e di cui qui sentiamo in effetti la mancanza, è quella
della variazione (della diminuzione) della velocità angolare di “risalita” del versante da parte della
barra, in rapporto al suo gradiente, e lasceremo agli addetti questo compitino (probabilmente è la
legge del moto armonico semplice).
La diminuzione della velocità relativa dipende dall'andamento del gradiente, e tanto meno veloce è
la sua variazione, tanto più lineare tende ad essere la diminuzione.
I diagrammi composti di fig.92 che abbiamo richiamato ce lo confermano: se assumiamo che le
spirali piccole abbiano a che fare con canali più stretti (che sappiamo avere argini più ripidi) e
quelle grandi con canali più ampi (quindi con versanti più dolci) si spiega perché in queste ultime le
velocità radiali tendono ad essere costanti.
73
Il fatto, risultante dallo stesso diagramma, che tendano addirittura a diminuire va forse messo in
relazione ad altre variabili (per esempio lo spiraleggiare delle stelle ben al di là del nostro, lungo i
versanti assai dolci di quello di Newton, e quindi sotto la giurisdizione delle leggi di Keplero).
Questa soluzione appare però discutibile, perché pare che le nostre galassie debbano essere
necessariamente contenute entro i versanti del nostro canale: il loro raggio non deve superare la
distanza della cima del dosso a valle dell'imbuto newtoniano, altrimenti pezzi di bracci
deborderebbero oltre il versante a valle del dosso stesso, precipitando verso il centro dell'imbuto
(fig.85). Quindi delle due l'una, per quanto riguarda le galassie grandissime:
o hanno un nucleo (o complessivamente una massa) così potente che l'imbuto newtoniano
appiattisce il dosso vanificando il suo versante interno, o sono collocate in canali così ampi, senza
superarne gli argini, che, con la somma dei gradiente newtoniano, il più addolcito pendio delle parti
più periferiche comincia ad essere assimilabile a quello in cui vige la legislazione di Keplero.
E' chiaro che bisogna lavoraci sopra.
Ma noi delle galassie spirali vere e proprie, senza barra, cui si riferiscono quei grafici, non ci stiamo
ancora occupando, per cui abbandoniamo momentaneamente questo tema per seguire il nostro
percorso, imperniato ancora sulla barra.
39 - GALASSIE A “THETA” ED AD ANELLO.
Ci siamo chiesti che fine fa la barra dopo aver ruotato per 90°.
Evidentemente, se è giunta a disporsi ortogonalmente rispetto al canale, in un certo senso ha finito
di salire, più di così non si può: ma allora scenderà dall'altra parte, continuando a ruotare?
E perché non invece dalla stessa parte da cui è salita, per un'oscillazione di ritorno, come l’abbiamo
vista fare nel caso in cui s'era fermata prima di arrivare a quel punto? Pare che il seguito più
plausibile sia la rotazione solidale col canale alla sua stessa velocità angolare.
Bisogna qui fare un passo indietro, perché il problema non è ovviamente di questa situazione limite,
ma più generale.
Torniamo alla nostra barra che raggiunge il massimo della sua divaricazione rispetto al canale (un
angolo che può essere anche piccolo; i due estremi siano per esempio ancora lontani dai flessi):
sappiamo che ricade giù, in opposizione di fase, secondo il noto proclama, rispetto agli austriaci
invasori, lungo gli stessi
versanti che avea risalito.
Ma le singole stelle
cadenti (fig.93) vanno
perpendicolarmente
al
fondovalle verso A, o
descrivendo un arco di
cerchio, verso B?
In altri termini, la metà
Fig.93
della barra (e quindi tutta
la barra) si accorcia
quando ritorna verso il fondovalle (prima ipotesi) o mantiene la stessa lunghezza (seconda ipotesi)?
Sembrerebbe valere ad occhio la prima, se non si considerano due altre dinamiche: la “rigidità” del
corpo galattico, cioè, almeno per quanto qui ci riguarda, la sua resistenza alla compressione dovuta
al legame cristallino delle sfere celesti, e la forza centrifuga dovuta alla rotazione (quella nel
riferimento assoluto, naturalmente), tanto maggiore quanto più distali sono le stelle della barra.
Il problema è abbastanza aperto.
Ci troviamo più a nostro agio passando al caso limite da cui abbiamo tratto spunto, anzi, più
74
precisamente, tanto più quanto più ci avviciniamo a quella situazione (la barra ortogonale al canale).
Supponiamo che la barra cessi di arrampicarsi quando è molto divaricata rispetto al fondovalle,
diciamo quasi perpendicolare ad esso.
E' difficile pensare che per il film della sua successiva discesa si possa utilizzare, proiettandola dalla
fine all'inizio, la pellicola della sua recente salita: è più probabile che il materiale stellare tenda a
cadere lungo la perpendicolare al canale, scartando solo un po' di lato.
Questo esito appare indiscutibile con la barra che si arresta disponendosi ortogonalmente rispetto al
canale: le sue stelle hanno cessato di arrampicarsi lungo il versante, essendo venuta a mancare la
componente ortogonale al canale stesso della loro inerzia.
Fig.94
Fig.95
Fig.96
La barra continuerà a ruotare solidalmente col canale,
alla stessa sua velocità, mentre le stelle da una parte,
verso il fondovalle, saranno tirate a scendere
ortogonalmente (qui non c'è scampo, non esiste
l'alternativa della discesa con percorso arcuato) lungo i
due versanti, andando a ingrossare il nucleo, dall'altra,
poiché tranquillamente stanno ora ruotando a velocità
costante nel riferimento assoluto, la forza centrifuga le
farà allontanare dal centro della barra verso i due argini
del fossato ed al di là di essi, per andare a rimpolpare la
schiera di quelle che stanno spiraleggiando. La barra così
si dissolverà per migrazione delle sue stelle, sia
centripeta che centrifuga.
Nelle galassie di fig.94 e 95 la migrazione è in corso, e
sta già producendo la strozzatura al centro di ciascuno dei
due bracci della barra.
In fig.96 e 97 probabilmente le migrazioni sono finite da tempo, o stanno comunque esaurendosi.
75
Le galassie che stiamo esaminando
tendono a chiudersi ad anello.
Questo ci porta a considerare un
aspetto più generale della morfologia,
legato all’andamento dei bracci
spiraleggianti, molto aperti lontano
dal nucleo, e sempre più stretti mano
a mano che l'avvolgimento si
avvicina ad esso.
Fig.97
Si consideri lo schema di fig.98.
A, B, C...ecc. sono i punti della barra
intercettati in momenti successivi
dalla linea di flesso f al ruotare della
barra, e gli archi che se ne dipartono
le scie di stelle che tendenzialmente
ne nascono, a dar luogo al tratto di
competenza
del
braccio
spiraleggiante.
In prossimità dell'assetto ortogonale
della barra rispetto al canale le scie,
oltre che più arcuate, sono sempre più
più vicine tra loro.
Fig.98
Se si tiene presente che la barra,
ovvero ciò che di essa via via rimane,
continua a ruotare a velocità costante
nel riferimento assoluto, si intuirà che
alla fine lo spiraleggiare si risolverà
in un ritorno periodico dell'estremità
della barra sullo stesso percorso
circolare.
Poiché in contemporanea con questa
fase avviene l'emigrazione centrifuga
delle stella della barra, avremo che le
sua estremità saranno continuamente
ripristinate, ed avranno ancora stelle
da disseminare, fino ad esaurimento.
Restano comunque visibili i bracci
spiraleggianti, più o meno allargati e
al confronto normalmente piuttosto
evanescenti, intorno al più marcato
anello (fig.99).
Fig.99
76
40 - SOMMARE L’IMBUTO
Abbiamo parlato con disinvoltura di “spiraleggiamenti”, abbiamo tracciato anche schemi con archi
di cerchio a rappresentare scie arcuate di stelle facendo ovviamente intendere che il materiale
stellare bene o male gira intorno al centro del sistema, ma tutto ciò non appare molto giustificato
dall'orografia in cui abbiamo immaginato avvenga, sostanzialmente un canale che ruota.
Anche se non permettiamo alle stelle debordanti i paraggi del flesso di guadagnare il potenziale al
confronto costante degli altopiani che affiancano la vallata, ed imponiamo loro di restare confinate a
muoversi nel restante tratto del versante, non si capisce perché debbano percorrere traiettorie
circolari intorno al centro della galassia, come se si muovessero lungo il versante a sezione
orizzontale circolare dell'imbuto newtoniano.
Ma è questo che, in fondo, anche, fanno: finora, per non complicare le cose, abbiamo
(consapevolmente) ignorato, accennandone solo, per la verità, in un passaggio, un aspetto
fondamentale della dinamica, proprio l'imbuto newtoniano determinato dalla galassia stessa, in
modo particolare dall'addensamento centrale delle sue stelle, dal nucleo.
E questo imbuto indigeno va sommato al potenziale esogeno del canale col quale finora abbiamo
lavorato.
Mi si risparmi la figura.
In tal modo possiamo concedere alle stelle di allontanarsi molto di più, di orbitare cioè
mantenendosi anche a distanze maggiori, senza che la galassia si disperda nello spazio, poiché
trattenute dal versante dell'estesa buca newtoniana, il quale, in ragione della massività della galassia
e del suo nucleo, si estende al di là di quelli del canale e dell'affiancato dosso, attenuandone, se
vogliamo, la rilevanza, (in particolare quella del dosso) ma evidentemente senza vanificarne
l'effetto per quanto concerne gli altri aspetti della dinamica fin qui considerati.
Ma dobbiamo essere onesti, perché alla fine l’onestà, soprattutto quella intellettuale, paga.
C’è un punto un po’ oscuro, nella nostra ricostruzione dell’Universo.
Prendiamo questa spirale, una tra le la più gettonate (fig.100).
Fig.100
77
Non si scorgono indizi, nella sua morfologia, che
tradiscano la presenza del sottostante canale, né si
trovano nelle altre galassie spirali più regolari, come se
lo spiraleggiare avvenisse in un fondo di potenziale a
simmetria rigorosamente radiale, come quello
dell’imbuto newtoniano, che pure c’è, come abbiamo
appena precisato, ma in compagnia di un ampio canale
che lo attraversa, con annesso argine in rilievo da un
lato.
Né e pensabile che la galassia della figura sia uscita dal
canale da cui è stata messa in moto e stia attualmente
spiraleggiando nel vuoto guidata dai soli versanti del
proprio imbuto gravitazione.
O sì?
Dopo la sua formazione, quando i flessi si sono
mangiati il mangiabile, le si è avvicinata (o lei si è
avvicinata a) un’altra potente galassia che col suo
gradiente newtoniano ha inclinato un versante di contenimento del suo canale fino a farla scivolar
fuori? E non ha subito deformazioni in seguito a questa sconvolgente dinamica?
Mah!
Lasciando perdere questa ipotesi, è possibile che i bracci che, in sezioni via via diverse, a turno,
entrano ed escono dal fondo del canale nel corso della relativa rotazione non presentino
deformazioni, addensamenti o rarefazioni locali, a seguito del gradiente dei versanti lungo i quali si
distendono? Che nel complesso, a colpo d’occhio, la spirale non presenti una qualsiasi anisotropia
lungo un particolare asse radiale, quello che tradirebbe la direzione attuale del sottostante canale?
Una risposta a questa domanda deve per forza esserci, magari legata alla trascurabilità dell’effetto, o
addirittura alla sua assenza, proprio in forza della non commensurabilità del gradiente con la
velocità della rotazione: celiando, una questione di pigrizia?
O forse il canale che sotto l’attraversa ha lasciato il segno producendo le vistose ritmiche cicatrici
che percorrono i due bracci, senza che si possa capire dove attualmente l’azione mareale è in corso?
Il nostro modello si è rivelato troppo potente ed efficace, al punto di predire tutti i più importanti
aspetti della morfologia galattica, per temere una siffatto banco di prova.
I limiti sono dell’autore, non suoi.
41 - OSCILLAZIONE DELLA BARRA RESIDUA
Quando la barra, disposta ortogonalmente al canale, ha finito di disperdere in cerchio le stelle,
dissanguandosi completamente, le braccia spiraleggianti, strettamente avvolte alla distanza minima,
alla quale si osserva infatti spesso l'anello, continuano a girare intorno al nucleo, rimasto isolato, e
con il tempo gli avvolgimenti si faranno sempre più fitti.
Non dimentichiamo infatti che la coda di ognuno dei due bracci, la prima a formarsi (quando la
rotazione della barra era assai ritardata rispetto a quella del canale) si muove più lentamente della
testa e via via via delle parti intermedie, e quindi il braccio si allunga, continuando a curvarsi.
In altra sede si è detto che il numero delle rotazioni del canale non risulta dal conteggio degli
avvolgimenti della spirale, che questi sono in numero inferiore, perché la coda si muove avanzando
anch’essa: questo era sicuramente vero, finché si consideravano e si contavano le rotazioni “utili”
del canale, utili ai fini della produzione della scia.
In questa sede stiamo dicendo un'altra cosa, che cioè il numero degli avvolgimenti dipende sì
storicamente dal numero delle rotazioni utili che il canale ha compiuto (finché la velocità di
rotazione della barra era inferiore alla sua) ma anche da quanto tempo è passato dal momento in cui
la rotazione del canale (vale a dire della barra, peraltro in via di estinzione) ha iniziato a divenire
inutile.
Riprenderemo in considerazione questa dinamica quando tratteremo le spirali totali, per rivedere
eventualmente l'ipotesi a suo tempo fatta sulla genesi dei primi aggregati che abbiamo preso in
esame, le galassie lenticolari a sombrero.
Ma dobbiamo ora fare un passo indietro: abbiamo fatto ruotare la nostra barra fino al massimo
(90°), ma dobbiamo ancora vedere quel che succede quando essa esaurisce la sua inerzia molto
prima, inclinandosi solo fino ad un certo punto, per poi ridiscendere lungo i versanti del canale.
Abbiamo già analizzato questa situazione per il caso in cui le sue due estremità non si affacciano ai
paraggi delle linee di flesso, ma ora dobbiamo farlo anche per il caso in cui ciò sia avvenuto, con
conseguente formazione dei due bracci arcuati.
78
Prendiamo direttamente lo spunto da questa bella immagine (fig.101).
Qui, rispetto a quanto si è visto
finora per ciò che riguarda
l'andamento del raccordo tra i bracci
e la barra, osserviamo due piegature
piuttosto nette, a gomito.
Il dolce gradiente dei nostri versanti
non può dar conto di queste
spigolosità, fosse anche essa in
parte giustificata dalla prospettiva:
qui c'è dell'altro, ed è che la barra ha
cessato di salire e sta scendendo.
Fig.101
Più accentuato è lo spigolo, più
tempo è trascorso dal momento in cui essa si è arrestata ed ha incominciato a ruotare nel verso
opposto rispetto al canale.
L’immagine seguente (fig.102) pare quindi essere un fotogramma successivo del film.
Fig.102
Arrivata la barra al punto morto
della rotazione rispetto al canale,
ciascuna delle due metà ha
cominciato a discendere, e con essa
anche la parte più interna della scia
(e tanto più quanto più interna) in
ragione del fatto che quando la barra
è ferma rispetto al canale il
materiale disperso dalle sue
estremità viaggia praticamente alla
stessa velocità del canale, cioè è
praticamente
fermo
anch'esso
rispetto ai versanti del canale, lungo
i quali quindi tende a scendere,
insieme alla barra, tendenza che non
coinvolge le stelle delle parti più
distanti della scia, per due motivi,
peraltro interconnessi: si trovano su
una pendenza più lieve e procedono
ad una velocità minore rispetto a
quella del canale e in particolare a
quella attuale dell’estremità della
barra.
La figura 101 ci fa forse vedere quali sono le stelle coinvolte nella tendenza a scendere, e quali no. I
due bracci presentano una lunga strozzatura, ove vi sono poche stelle: quelle a monte di essa, in
particolare il gruppo che forma la coda, ove sono piuttosto addensate, non sono state coinvolte
dall'arresto della barra e dalla sua retromarcia nel riferimento del canale.
In fig.103 appare la stessa barrata di fig.101: sono visibili bracci più lunghi, e, a ben guardare, c’è il
film della storia più antica, con un’altra strozzatura di seguito alla parte più densa della scia, e lo
79
sciame che si estende più diluito verso la vera e propria coda.
All'inizio l'estremità della barra (si intende
precisamente l'estremità proprio della sua
parte rettilinea, quella parecchio interna al
flesso) discende ad una velocità maggiore del
tratto seguente di scia con essa coinvolto,
perché le stelle di quest'ultimo partono da più
lontano e si muovono su un gradiente minore:
la velocità angolare di discesa della barra
aumenta fino al fondovalle, e nel frattempo
aumenta anche la velocità del materiale che
segue, senza però, probabilmente, che
aumenti per intanto la “spigolosità” del
raccordo.
Questo comincia ad avvenire quando anche il
tratto arcuato raggiunge il fondovalle perché
nel frattempo la barra starà risalendo lungo il
versante opposto, e quindi starà rallentando.
Fig.103
Prima o poi, probabilmente quando la barra
sarà prossima allo stop nel punto morto del
versante che sta risalendo, avviene il “sorpasso” dell'estremità della barra da parte del materiale che
faceva parte della raccordo curvato della scia.
In fig.104 e 105 il sorpasso, peraltro in corso in
fig.102, è avvenuto.
Come prosegue e va a finire il film?
In particolare dalle figure risulta che l’estremità
della barra si è addirittura scollata da quella che era
la sua scia, e questo fa pensare che ora, e per il
futuro dell'evoluzione, non ci sarà più alcun legame
tra il moto della barra e quello dei suoi bracci.
Fig.104
Fig.105
80
Essa continuerà ad oscillare su e giù tra i versanti del
canale, mentre le stelle intorno continueranno a
ruotare: si potrebbe riprodurre cioè la situazione che
abbiamo visto crearsi con l'anello, con la differenza
che qui la barra non si consumerà, perché la sua
oscillazione avverrà sempre entro un angolo
relativamente piccolo (oppure no, infatti una
strozzatura si osserva già nelle due mezze barre di
fig.101, più evidente in fig.103 ).
Potrebbe essere però che anche il materiale della
scia, raggiunto l'argine del versante opposto del
canale dopo aver superato la testa della barra (che si
era fermata prima del flesso) torni indietro.
Avremo così un doppio andirivieni, due oscillazioni,
non in fase, una, quella del materiale che era
debordato ben oltre i flessi, più ampia dell'altra,
quella della barra, e con un periodo più lungo.
Il tutto entro un canale che, non dimentichiamo,
continua a ruotare a velocità costante.
Si deduce un un via vai di stelle che contemporaneamente scendono e salgono tra i due versanti,
rischiando anche lo scontro, se non fosse che non tutta la scia, dalla strozzatura che abbiamo visto
sopra in qua, è destinata a finire nel canale: il braccio comunque persisterà e ruoterà allungandosi,
secondo le modalità già viste, ed avrà un capo, oltre che una coda, il quale avanzerà probabilmente
fluttuando in avanti ed indietro come la testa di un serpente.
42 - SCIE A “CORONA DI ROSARIO”
Se questo è vero, si può dar conto anche di un altro diffuso aspetto della morfologia galattica, le
scie di stelle “ a corona di rosario”, almeno per quanto riguarda le galassie a forma della lettera
theta dell’alfabeto greco, col tratto diametrale più o meno evanescente. Le code ricurve di una
barrata (come quelle di fig.101) presentano un addensamento di stelle che, nel caso di braccia strette
ad anello, può ripetersi, più localizzato, col procedere dell’oscillazione della barra, con la
sovrapposizione di più giri e quindi il deposito alla fine risultante di manciate si stelle a distanze piu
ravvicinate con distribuzione più o meno casuale, o con distribuzione anche regolare, vista la
costante frequenza dell’oscillazione. In questa serie di immagini (fig.106, 107 e 108) il bianco e
nero rende meglio il contrasto tra i diversi addensamenti nei bracci, che danno l’idea della
distribuzione “a rosario”.
Fig.106
Fig.107
Fig.108
81
Abbiamo incluso anche l’immagine della barrata già trattata
(ultima foto di fig.106) da questo punto di vista, poiché qui si
evidenzia una ulteriore granularità, all’interno di quello che
appariva un tratto più denso del braccio, a significare che le
dinamiche sono assai complesse e nel dettaglio tutte da
approfondire. Naturalmente altre ipotesi sono plausibili, anche
perché la struttura a rosario dei bracci si osserva anche in
galassie in cui la barra non c’è (fig.108), o essendoci, non si
osserva una sua controrotazione periodica.
Si potrebbe chiamare in causa la forza di trazione mareale, per
una successione di fratture all’origine, oltre il flesso del canale.
Oppure le fratture potrebbero essere causate dalla trazione del
braccio dovuta alla velocità crescente dalla coda alla testa.
Può essere infatti che la dinamica sia indipendente da cause
esterne, cioè dal gradiente del potenziale, e legata solo alla
coesione interna tra le stelle del braccio, solo parzialmente
imputabile a leggere anisotropie distribuite più o meno
casualmente, magari determinatesi nel tessuto stellare nel corso
dello scompiglio dovuto al superamento dei paraggi del flesso.
43 – LE SPIRALI TOTALI
E siamo finalmente alle galassie spirali totali, quelle senza barra, con i bracci che si dipartono
direttamente dal nucleo.
Anche all'origine della galassia spirale c'è in ogni caso una struttura più o meno allungata, ed a
seconda della sua forma e del rapporto tra tale forma e la larghezza del canale, in particolare la
distanza tra le due linee di flesso, si configurerà la variegata tipologia delle spirali in questione.
Cominciamo con il suddividerle in due categorie.
Una galassia spirale può essere tale per tutto il corso della sua evoluzione, fin dall'origine, oppure
può diventarlo dopo essere stata barrata durante una prima fase.
Consideriamo questo schema di partenza (fig.109).
Il nucleo ha un diametro pari alla distanza tra i
due flessi, ed è così massiccio e coeso da non
Fig.109
subire più di tanto (anche in ragione di una
pendenza molto leggera dei versanti del
canale) lo schiacciamento che finora abbiamo
visto per l'aggregato sferico originario.
Le due espansioni laterali consistono in due
bracci rettilinei di spessore alquanto minore della distanza tra i flessi, e inizialmente giacciono
quindi distesi lungo il fondovalle (schematizziamo qui in questo modo l'evoluzione, tenendo
presente, come già abbiamo ripetutamente osservato, che l'allungamento della barra avviene in
realtà contemporaneamente alla sua rotazione).
Facciamo quindi ruotare il sistema rispetto al
Fig.110
canale , o il canale rispetto al sistema, che è lo
Fig.
stesso. Condizione perché si abbia alla fine la
spirale totale è inoltre che la rotazione fino
all'arresto avvenga per 90°, altrimenti,
ovviamente, saremmo in presenza di una
barrata oscillante con grosso nucleo. Fino ad
un certo punto si conserverà un tratto di barra
(fig.110), che, anche qui, si accorcerà sempre
più, fino a scomparire del tutto, in teoria
quando essa avrà ruotato di 90°(fig.111).
Fig.111
Fig.112
82
Questo non accadeva con le galassie permanentemente barrate che abbiamo già esaminato, e
proprio perché esse avevano un nucleo più piccolo dell'invaso inferiore del canale (quello misurato
dai paraggi dei flessi in giù). Per la verità anche la spirale di fig.112 conserva un po’ di barra. Ciò
significa, secondo la nostra ricostruzione, che il nucleo è un po’ più piccolo della distanza tra i
flessi.
Veniamo alle galassie che fin dall'origine (sia in senso temporale che spaziale) si presentano coi
bracci ricurvi, senza che i due tratti più vicini al nucleo siano mai stati rettilinei.
La struttura iniziale sia un grosso corpo fusiforme, dello spessore dell'invaso inferiore, con un
nucleo che morfologicamente non appare
differenziato come nel caso precedente.
Fig.113
Se nel caso precedente la sfera originaria
si poteva pensare consistente in un
grosso denso e coeso nucleo circondato
da stelle più rarefatte, le quali, collocato
l'oggetto nel canale, “sono scivolate giù”,
a formare quelle due sottili espansioni
rettilinee, lungo le pareti ricurve della sfera centrale rimasta pressoché uguale a se stessa, nel caso
presente dobbiamo immaginare originariamente un corpo sferico non troppo differenziato per
densità al suo interno, che si schiaccia tutto a forma di grosso fuso, di grossa barra (fig.113), della
larghezza della depressione compresa tra i flessi.
Fig.114
Oppure, se un nucleo più denso, come pare, deve comunque esserci, intorno ad esso, grande e denso
quanto si è detto, una “corona sferica” (non nel senso nostro, vedi fig 114, a sinistra) di stelle più
rarefatte e meno legate, molto più spessa che nel caso trattato in fig.109 e segg., in modo che,
sempre “scivolando giù”, le due espansioni laterali vadano a colmare il detto invaso (fig.114 a
destra): siamo partiti qui da una diversa ipotesi per quanto riguarda la composizione interna, ma la
forma risultante sarà la stessa.
Il caso della galassia spirale che per la
prima parte della sua vita fa vedere un
pezzo di barra non presenta in linea di
principio nuovi problemi di descrizione,
essendo perfettamente assimilabile (fin
che c'è barra) a quello delle barrate già
viste.
Nell'altro caso la piegatura della grossa barra avviene fin dall'inizio della rotazione: lo schema
ideale ci dice che l'infinitesima rotazione iniziale la coinvolge tutta, nel senso che il suo margine a
monte si viene a trovare, per tutta la sua lunghezza, oltre il flesso “da subito”(fig.115).
Fig.115
83
Quindi ognuno dei due bracci
comincia ad arcuarsi (fig.116) per
tutta la sua lunghezza, essendo da
subito i punti più estremi soggetti
ad una minore resistenza all'inerzia,
e via via, nello stesso momento,
tutti gli altri meno distanti, fino al
centro del sistema.
Ma come si fa a dire che la parte superiore di ciascuna i mezza barra, quella che all'inizio si trova a
cavallo della linea di flesso, è soggetta alle stesse dinamiche di quella inferiore, cosicchè tutta la
mezza barra si incurva?
Evidentemente non si può dire.
Fig.116
44 - BRACCI BI E TRIFORCUTI
Vero è invece che alquanto oltre il flesso si determina una notevole trazione mareale, essendo
appunto che l'altra sezione longitudinale, quella rimasta al di sotto della linea di flesso, tende a
rimanere indietro, oltre che rettilinea, non essendo ancora giunto il suo turno per farsi piegare.
Se le stelle che compongono i bracci fossero libere come le molecole di un gas ideale a coesione
nulla, o come una schiera di palline che risentono solo della pendenza e dell'inerzia propria,
avremmo una specie di allargamento a ventaglio della barra, con un lato concavo e l'altro più
rettilineo,
senza
soluzione
di
continuità del materiale compreso tra
Fig.
i due lati (fig.117)
Ma le nostre stelle sono tra loro
coese, sono legate dalle sfere celesti
in cui giacciono, e la trazione, che
comunque
determina
un
allontanamento tra loro, deve fare i
conti con un punto di rottura, la
traumatica uscita dal loro caldo letto
Fig.117
dei costituenti dell'oggetto.
Presumibilmente lungo la linea mediana del braccio che si sta incurvando, cioè a spese delle stelle
collocate lungo la mezza via, dove da entrambe le parti viene esercitata una pari trazione,
comincerà, dalla “coda” della scia, a formarsi una frattura, una smagliatura nel tessuto stellare, che,
col procedere della rotazione, potrà anche propagarsi all'indietro..
I bracci che prima erano
due ora sono diventati
quattro fig.118).
E non si vede perché non
possano diventare sei o
più, se è vero che la
sezione
longitudinale
arretrata è soggetta alla
stessa sorte dinamica.
Fig.118
A
questo
proposito
osserviamo, smentendo quanto sopra detto, che la prima fessurazione longitudinale non avviene
necessariamente lungo la linea mediana del braccio, ma lungo una linea che può essere spostata più
verso quello che sarà il lato concavo (fig.119 in alto).
84
La frattura mareale avviene quando una
certa quantità di stelle ha superato la
regione del flesso e sta arrampicandosi
lungo il tratto del versante del canale
ove il gradiente diminuisce molto
velocemente: bisogna che la sezione
longitudinale del braccio interessata alla
trazione rispetto a quella più a valle sia
congrua, affinché avvenga la rottura.
Se ne deduce pertanto che la frattura
non avviene se lo spessore del braccio
non è abbastanza consistente. Diciamo
che lo spessore “critico” è almeno
doppio di quello “normale”.
Nel caso che sia doppio la smagliatura
avviene lungo la linea mediana
(fig.118): il braccio che resta indietro,
conseguentemente, a sua volta non
subirà la biforcazione, non avendo lo
spessore sufficiente, critico.
Fig.119
Lo spessore del braccio deve di
conseguenza essere in origine pressoché
almeno triplo affinché la parte rimasta indietro, quando sarà il suo turno, si fessuri anch'essa, con
l'esito complessivo della triforcazione (fig.119 in basso).
Le galassie barrate da noi considerate non presentavano ai bracci la lacerazione di cui stiamo
parlando, perché la barra d'origine non era sufficientemente grossa: le rotture mareali per trazione
sono fatte così.
A parità delle altre condizioni, le forze mareali sono proporzionali alla dimensione (nella direzione
di competenza) del corpo su cui agiscono, ed a questa dimensione è legata l'esistenza stessa di un
punto di rottura.
Se la barra è sottile difficilmente si divide in due: abbiamo visto che perché la barra si mantenga
anche dopo il raggiungimento del massimo della rotazione di risalita, che è di 90°, bisogna che sia
sottile, più dell'invaso inferiore.
Vale a dire che la ragione per la quale le barrate normalmente hanno solo due bracci spiraleggianti
è la stessa per la quale hanno la barra: come dire “è perché sono barrate”, che, detto così, fa un po'
sorridere, come argomento.
Si può osservare peraltro una biforcazione anche dei bracci di una spirale barrata (vedi figg.101,
102, e 104), che sembra problematico attribuire all’effetto mareale dei versanti del canale, anche
perché tale biforcazione inizia molto a monte: vedremo nel seguito come giustificare ciò,
rimettendo anche in discussione quanto detto in proposito finora.
Quanto detto per la riluttanza delle barrate a presentare braccia bi o triforcute a seguito di frattura
per trazione mareale vale logicamente anche per le galassie spirali totali che nella prima fase della
loro evoluzione presentavano una barra, e proprio perché, come si è visto, le espansioni laterali da
cui i bracci hanno tratto origine erano più strette del canale.
Va da sé che lo spessore delle parti affusolate utile all'insorgere della smagliatura non ha un valore
assoluto, ma va rapportato al gradiente dei versanti del canale.
85
Una galassia spirale piccola può esserlo non solo perché le sue espansioni laterali originarie erano
contenute, ma anche perché era originariamente un non grande aggregato di stelle in un canale
piuttosto stretto (proporzionalmente stretto), tanto da riprodurre alla fine, in scala, le proporzioni di
una grande galassia spirale in un grande canale.
Col che anche i suoi bracci originari (come quelli poi ripiegati ad arco) risultavano più sottili: ne
consegue che questa più piccola galassia non può presentare ai bracci spiraleggianti delle
biforcazioni?
Certamente no, poiché, essendo il canale più stretto, è anche, per la legge da noi per ora postulata,
più profondo, e quindi i gradienti dei versanti sono più velocemente variabili: con ciò la trazione
mareale può ugualmente provocare la smagliatura, poiché si accontenta di spessori minori.
L'espressione appena usata (“gradiente più velocemente variabile”) è appropriata per descrivere le
condizioni del fenomeno mareale: infatti le forze di marea sono espresse dalla derivata seconda del
potenziale, che ci dice come varia il gradiente (mentre quest'ultimo, la derivata prima, come
sappiamo, ci dice come varia il potenziale).
Per avere un'idea della regione del versante del canale in cui avviene la massima trazione mareale
osserviamo il grafico della derivata seconda.
In fig.120 i tre grafici in questione: il primo è quello del potenziale, semplificato al solo canale, (p),
il secondo quello della forza gravitazionale (p’), il terzo quello della forza mareale (p”).
Fig.120
La terza curva è quella che ci interessa: coi suoi valori negativi essa ci descrive l'andamento della
trazione mareale di cui ci stiamo occupando (nella curva p del potenziale, a sinistra del primo flesso
ed a destra del secondo), e con i suoi valori positivi (tra i due flessi della p) quella che potremmo
definire la “compressione mareale” che conosciamo benissimo, anche se non con questo nome,
perché altro non è che la dinamica che ovalizza la sfera dentro il canale di cui ci siamo
ripetutamente occupati.
Vediamo che in corrispondenza dei flessi del canale la forza di marea è nulla.
Bisogna salire lungo il versante esterno per cominciare a ritrovarla, e diventa in modulo massima
(M) in corrispondenza della massima curvatura del potenziale (C), cui corrisponde un punto di
flesso (F) della derivata prima.
Probabilmente a quel punto bisogna far riferimento (e non al flesso, come provvisoriamente si è
fatto finora) per l'individuazione dello spessore critico ai fini della separazione longitudinale dal
86
resto del braccio: il braccio si deve cioè trovare a cavallo di quel livello con lo spessore critico dalla
parte esterna, verso monte.
La relativa lontananza di quella quota da quella del flesso permettere di rendere visibile la
biforcazione del braccio, anche in presenza di un nucleo invasivo: può perciò essere addirittura un
indicatore della dimensione del nucleo rispetto all'invisibile canale.
45 - INDISTINGUIBILITA DI STORIE DIVERSE
La classica galassia spirale, quella paradigmaticamente assunta per rappresentare la variegata
categoria, presenta molti avvolgimenti, che si espandono nello spazio intorno.
Essa deriva probabilmente tanto dalla prima, quanto dalla seconda delle ipotesi da noi fatte, e tanto
più quanto più estese erano originariamente le due espansioni del nucleo, sottili o spesse che
fossero.
Più la spirale è vecchia, più le due storie sono indistinguibili.
Innanzitutto una indistinguibilità è indipendente dall'anzianità: se la prima (quella nata da braccia
sottili) non avesse, come non ha normalmente, biforcazioni negli avvolgimenti, le sue braccia
arcuate risulterebbero dello stesso spessore di quelle dell'altra, poiché quelle che sarebbero, senza
l'effetto mareale, risultate grosse braccia ritorte si sono suddivise fino allo spessore sul quale la
marea al di là del flesso non ha effetto dirompente (cioè allo spessore delle prime).
Ma la differenza si nota alla radice della biforcazione, nei pressi del nucleo
Ed allora le due differenti storie passate, ed i due tipi di spirali totali, si possono distinguere.
E' con la storia successiva, se dura a lungo, che si rimescolano le carte: aumentando gli
avvolgimenti con passar del tempo, quando diventano sempre più stretti senza quasi lasciare vuoti
tra spira e spira, nei paraggi del nucleo non si distinguono più gli attacchi delle braccia, non si
individuano più i due punti antipodali da cui esse si dipartivano, biforcute o meno che fossero.
Al di là della oleografia, la varietà reale delle spirali è stupefacente, e per essere dinamicamente
giustificata richiede uno studio assai accurato, che contempli una pari diversificazione di condizioni
iniziali e di contorno.
Naturalmente non ci cimenteremo in questa impresa, e accenneremo solo brevemente a un paio di
configurazioni di partenza diverse, anche se non in linea di principio, da quelle finora assunte.
La linea di principio non cambia e non deve cambiare, essa è come la musica delle sfere, che è
sempre quella al cambiare di suonatori.
46 - SPIRALI DIVERSE
Se per esempio ipotizziamo che le due espansioni laterali che, insieme alla rotazione, stanno
all'origine di ogni possibile morfologia, siano così contenute da configurare una semplice leggera
ovalizzazione
della
sfera
Fig.121
originaria, per dar luogo ad una
specie di ellissoide di rotazione
con l'asse minore di poco inferiore
a quello maggiore, e dimensionato
come l'ampiezza del canale
misurato da flesso a flesso
(fig.121), ci troveremo dinanzi ad
un oggetto le cui eccedenze
laterali verranno, con la rotazione
rispetto al canale, “limate via” dal
87
doppio versante, laddove si addolcisce, con i trucioli che si invilupperanno in avvolgimenti
(normalmente piuttosto stretti) intorno ad un corpo sferico che avrà diametro pari all'asse minore
dell'oggetto di partenza.
Se invece il “pallone da rugby” ha l'asse minore più corto della distanza tra i due flessi e quello
maggiore leggermente più lungo della distanza stessa (fig.123), la forma dell'ellisse (che qui
sostituisce la classica barra) continuerà a mantenersi tale, seppur meno allungata, nel corso
dell'evoluzione e della rotazione, con le due calotte più curvate solo leggermente limate, e la
limatura dispersa in un paio di filamenti arcuati di modeste proporzioni (e normalmente non
biforcuti) e senza una grande storia futura.
Fig.122
Fig.123
Naturalmente la foto di fig.122 potrebbe riferirsi ad un disco galattico visto non in pianta.
Se l'ellissoide, a parità di asse minore, è più allungato (fig.124 al centro), e quindi in grado di
debordare maggiormente oltre i flessi, anziché di una leggera limatura alle punte si potrà parlare di
vera e propria ripiegatura delle due estremità affusolate con produzione delle scie arcuate (fig.125 a
destra), secondo le modalità viste per le galassie barrate, con l'unica differenza che qui la barra è
panciuta.
Fig.124
Anche qui non abbiamo la certezza che la foto di sinistra di fig.124 non sia di una galassia
discoidale, anziché barrata. Un indizio in tal senso (che sia barrata) è la strozzatura superiore, al
livello dell’attacco del braccio, conseguenza tipica dell’oscillazione della barra.
88
47 - LA ROTAZIONE DEL NUCLEO
C'è una questione sulla quale abbiamo sorvolato, e che urge affrontare e risolvere: lo facciamo qui,
dato che ci stiamo occupando delle spirali totali, spesso fornite di un nucleo sferico evidente, grande
o piccolo che sia.
Come si comporta tale nucleo? Ruota anch'esso come il materiale che lo avvolge?
Sembrerebbe, date le nostre premesse, di no, visto che esso è in linea di principio contenuto entro i
flessi: anzi, si è detto che esso può considerasi come il risultato di una “limatura” da essi operata su
di una forma più allungata.
Beninteso, non è determinante da solo il fatto di essere contenuto entro i flessi: anche la barra, ciò
che di essa resta di rettilineo, è contenuta entri i flessi, eppur si muove.
Ma lo fa perché è un oggetto affusolato.
La sfera non lo è, ed allora, collocata entro il nostro invaso, se per ragioni legate alla sua coesione
interna non si ovalizza, non si capisce perché con la sottostante rotazione del canale debba mettersi
in rotazione insieme al canale, magari pigramente in una prima fase: tenderà a restare immobile nel
riferimento assoluto, poiché la sua simmetria è radiale, non ha un diametro privilegiato, come la
barra.
Se osserviamo i nuclei delle galassie ruotare (e lo fanno con una legge lineare per le velocità radiali,
vale a dire che ruotano solidalmente, come un corpo rigido) non ci resta che una spiegazione.
Nel corso della “limatura”, quando le eccedenze della forma sferica vengono disperse nello spazio
intorno, e nel frattempo però scivolano anche giù per i versanti nel riferimento del canale, si
produce un “effetto volano”, perché quei materiali sono legati, attraverso le sfere celesti, alla
periferia del corpo nucleare, e lo mettono, seppur a fatica, in rotazione, nello stesso verso in cui tali
materiali ruotano..
Come in un diesel, tale moto ha una
scarsa e difficile ripresa, ma una volta
innescato diventa sempre più deciso ed
inarrestabile, tanto che c'è da pensare
che nelle galassie in cui la barra oscilla
la rotazione del nucleo, specie se è un
nucleo
molto grande e massiccio,
continua per conto suo sempre nello
stesso verso.
Osserviamo in questa immagine
(fig.125) le scie arcuate di polveri che
percorrono a mezza via i due bracci
spirali, insinuandosi sino al nucleo.
La galassia deve essere molto vecchia,
tanto che l'effetto volano ha determinato
una rotazione del nucleo a velocità maggiore di quella dei bracci.
Gli studiosi oggi sono piuttosto perplessi di fronte al problema della velocità di rotazione del nucleo
delle spirali a fronte del numero di bracci che si contano, vista l’età delle galassie.
A conti fatti dovremmo osservare decine e centinaia di avvolgimenti, invece dei due o tre che
normalmente si vedono.
Fig.125
89
Evidentemente la rotazione del canale continua ad avere effetto sul nucleo, nel senso che la
rotazione di quest’ultimo è sempre indotta, anche dopo che la rotazione del canale ha cessato di
avere effetto sulle braccia spirali, che volteggiano oltre i flessi.
Si riproduce qui lo schema dinamico della barra, che, dispostasi ortogonalmente rispetto al canale,
continua a ruotare alla sua stessa velocità costante: d’altra parte anche le spirali totali traggono
origine, come si è visto, da una struttura più allungata lungo una direzione assiale.
Secondo il nostro modello dinamico, all’inizio il nucleo era immobile, e hanno cominciato a ruotare
le sue espansioni laterali, cadendo lungo i versanti del canale. Poi, per il trascinamento che si è detto
a partire dalle stelle periferiche della parte compresa tra flesso e flesso, ha iniziato a mettersi in
rotazione anche il nucleo, con effetto volano, a velocità crescente nel tempo, fino a superare quella
dei bracci stessi, in particolare alla distanza dal centro da cui essi si dipartono, ove la curva presenta
un picco (fig.126).
Fig.126
I calcoli degli astronomi che portano al risultato assurdo di centinaia di avvolgimenti partono dal
presupposto che la rotazione del nucleo alla velocità osservata oggi sia in corso dai miliardi di anni
con cui si data la vita della galassia.
48 - LE “FLUTTUAZIONI DI VELOCITA’” DI VERA RUBIN
Siamo da tempo usciti dalla schematizzazione della fila di palline per prendere in seria
considerazione lo spessore dei bracci,
In questa più realistica prospettiva possiamo rendere conto dell'imbarazzante risultato di
misurazioni di velocità radiali effettuate ai primi del secolo scorso da Vera Rubin sulle galassie
spirali.
Non si tratta dell'altrettanto sconvolgente ed inaspettata violazione delle leggi di Keplero (che pure
l'astronoma riscontrò, fu anzi pioniera in tal senso), sempre per quanto concerne le velocità radiali,
quella colossale discrepanza che fece nascere l'ipotesi della Materia Oscura: si tratta, sullo sfondo
tendenzialmente piatto (se non in salita), dell'andamento di quelle velocità, di fluttuazioni in
corrispondenza delle sezioni trasversali degli avvolgimenti a spirale.
Qui di seguito (fig.127) foto e grafici prodotti dalla Rubin, relativi ad una galassia spirale.
90
Fig.127
La seconda foto fa vedere come l'andamento ondulatorio corrisponda al passo tra i bracci della
spirale.
Il tratteggio del grafico in fondo sta ovviamente ad indicare, come risulta anche dalla foto, che lì
non ci sono stelle, che c'è il vuoto tra un avvolgimento e l'altro.
Ciò che rileva è che la velocità delle stelle della parte più interna del braccio spiraleggiante è via via
minore di quella delle più esterne, cresce dal bordo interno a quello esterno.
Possiamo dedurlo dalle nostre premesse.
Le esequie della Dark Matter sono già state celebrate con il ricorso alla semplice fila di palline,
come abbiamo visto a suo tempo: la velocità di rivoluzione delle palline intorno al centro, le quali
91
via via si disperdono oltre l'invaso, aumenta con la distanza dal centro (dai paraggi del flesso in
poi) secondo una legge che sarebbe addirittura quasi lineare se la barra non ruotasse rispetto al
canale, arrampicandosi lungo i suoi versanti, con una velocità angolare in diminuzione.
Vale a dire che dal nostro punto di vista si giustificherebbe la peggiore delle ipotesi, quella appunto
(che vale per le stelle della residua barra al di qua del flesso) dell'aumento della velocità radiale in
proporzione diretta con il raggio: abbiamo visto poi come, a seguito del rallentamento, fino
all'arresto, della barra nel canale, l'andamento delle velocità radiali aumenta sì verso la periferia, ma
sempre meno velocemente. Non abbiamo, a suo tempo, approfondito per arrivare a spingere questa
tendenza fino alla situazione in cui la velocità radiale si mantiene praticamente costante, ma è
intuitivo che a questo risultato si arriva facendo assumere ai parametri in gioco ed alle condizioni di
contorno opportuni valori, e soprattutto trovando la legge dello smorzamento della velocità angolare
di risalita della mezza barra, quale essa sia, lungo il versante.
Per giustificare la fluttuazione scoperta da Vera Rubin (della quale, stranamente, nessuno più parla,
e nemmeno lei, per la verità, nel testo dell'articolo de “Le Scienze” da cui ho tratto le figure e le
foto) dobbiamo partire, ancora una volta, come abbiamo fatto per una prima spiegazione delle
biforcazioni dei bracci, dallo spessore della barra ruotante che si mette di traverso rispetto alla linea
di flesso, come dire che dobbiamo mettere più file di palline una affiancata all'altra, a comporre una
striscia rettilinea di una certa larghezza.
Schematizzeremo, come abbiamo fatto in passato, fingendo che tutto avvenga nel passaggio al
flesso, ben consapevoli che le dinamiche sono ben più complesse e tutt'altro che confinate lì ed in
un istante.
Ci sono almeno due modi di affrontare il problema, uno diacronico e l'altro sincronico.
Vediamo il primo (fig.128).
Quando
la
pallina
A
attraverserà il flesso lo farà,
rispetto al riferimento assoluto
(nel quale ruota nello stesso
verso della barra), ad una certa
velocità che è la differenza tra
la velocità (nel riferimento
assoluto) di quel punto del
canale e la sua velocità
retrograda rispetto al canale stesso, lungo il cui versante essa sta salendo.
Fig.128
Quando toccherà alla corrispondente pallina B, collocata dall'altro lato della striscia, scavalcare il
flesso, la barra avrà ruotato dell’angolo a, e la sua velocità angolare, come sappiamo, sarà diminuita
rispetto al canale; quindi la pallina B passerà il flesso ad una velocità, nel riferimento assoluto,
maggiore di quella con cui è passata la pallina A, essendo che ora, per B, alla velocità del canale è
stata sottratta una quantità minore.
Le stelle A e B continueranno a trovarsi, quando faranno partire della scia ricurva, una da parte e
l'altra dall'altra, A più vicina e B più lontana del centro.
La velocità di quella più vicina sarà minore di quella più lontana, e via via quelle in mezzo.
Il secondo modo è forse più convincente.
Le palline A e B siano questa volta alle due estremità dell'intercetta sulla barra da parte della linea
di flesso (fig.129).
92
Fig.129
Nell'istante considerato la
barra ruota rispetto alla linea
di flesso ad una certa velocità
angolare, che è la stessa con
cui ruotano quindi le sue stelle
A e B. Le velocità proprie
(“periferiche”) però delle due
stelle sono diverse: quella di
B, che è più lontana dal centro
del sistema, è maggiore di
quella di A.
Rinviamo al Cap.38, ove avevamo considerato lo stesso quadro cinematico per valutare la velocità
radiale di fuga dal canale nei due punti considerati, in quella sede, in momenti diversi del tempo.
Ci era venuto fuori, a metà di quel percorso, prima di considerare anche la diminuzione della
velocità angolare di rotazione della barra in salita, una differenza tra le velocità “istantanee di fuga”
maggiore di quella che “storicamente” si registra in quegli stessi punti considerandoli anche due
momenti successivi del tempo, quando appunto il margine a monte della barra li attraversa uno
dopo l'altro (e non contemporaneamente come qui) a velocità angolari diverse.
Si intende che troveremo A e B nella successiva scia ritorta sui lati opposti di essa, A più interno di
B rispetto al centro della galassia, con A che procede più lentamente di B.
Approssimiamo, per semplicità, per l'intervallo tra A e B (lo spessore del braccio), la trovata legge
dell'inverso del seno alla legge lineare: in quel tratto quindi la velocità varia come tra due punti
lungo il raggio di un oggetto rigido in rotazione.
In fig.130 il grafico delle velocità radiali relative allo spessore (supposto uguale) di due bracci
separati da uno spazio vuoto
Fig.130
dello stesso spessore.
Sappiamo, come ci dicono le
osservazioni e come si può
dedurre dalle nostre premesse,
che la velocità con cui il primo
braccio avanza è pressochè
uguale a quella con cui avanza
l'altro, e questo implica che la
velocità
angolare
di
quest’ultima è minore, per la precisione è inversamente proporzionale alla distanza dal centro: se la
distanza dal centro è doppia, come rappresentato in figura, la velocità angolare è la metà, affinché la
velocità di avanzamento sia uguale.
Avremo infatti:
v=wr da cui
w=v/r
v=velocità di avanzamento
W=velocità angolare
r=distanza dal centro
93
Ma che cosa si muove a velocità v?
Il centro dello spessore del braccio, evidentemente, nella figura il punto medio M’.
Anche il punto medio M” del secondo braccio si muove a velocità v, e così pure M’”.
A velocità rispettivamente minore e maggiore rispetto ai centri M si muovono i punti A e B, C e D
ed E e F, e tanto minore e maggiore, in ragione della maggiore velocità angolare all’interno di
ciascuno degli spessori, quanto più siamo vicini al centro del sistema.
Per la legge lineare assunta nel nostro schema esemplificativo, a distanza doppia la differenza tra il
minimo ed il massimo si dimezza ed a distanza tripla si riduce ad un terzo.
I trattini che danno l’andamento delle velocità che si incontrano attraversando radialmente ogni
braccio risultano così sempre meno inclinati con la distanza dal centro.
Esplorando radialmente le velocità dal centro alla periferia, come ha fatto la Rubin utilizzando la
tecnica del redshift, ci imbatteremo quindi localmente, ogni volta che attraverseremo lo spessore di
un braccio spiraleggiante, in un andamento (vista la curva nel ridotto dominio dello spessore del
braccio) pressoché linearmente crescente delle velocità, sullo sfondo di un andamento complessivo
(che altro non è che quello dei valori medi rilevati al centro di ogni piccolo dominio, quello dei
segmenti AB, CD, EF) che sappiamo discostarsi di poco dall'essere costante (almeno nelle grandi
spirali).
I grafici della Rubin di fig.127 sono una sua interpretazione dell'andamento degli spostamenti delle
righe dello spettro reale rilevato: abbiamo riportato la foto del dato rilevato nudo e crudo insieme al
grafico con cui Vera interpola quei trattini leggermente inclinati.
Se anche le altre sue rilevazioni di prima mano si presentano così, c'è da chiedersi il perché di
quell'interpretazione in chiave ondulatoria, in cui i tratti reali della curva non hanno l'andamento
lineare che sembra evincersi dalla foto (oltre, naturalmente che dalla nostra deduzione).
La faccenda è a dir poco piuttosto strana.
Per la verità l'interpretazione di quei trattini in chiave ondulatoria può nascere da una più accurata
asservazione del risultato dell'impressione sulle lastre, come risulta dal grafico (incluso nella figura
127) delle fluttuazioni reso con i puntini anziché coi tratti continui.
Evidentemente anche questo è un dato crudo.
Solo che è discutibile l'interpretazione dell'irregolarità che si osserva in questo andamento come
dispersione intorno ad un andamento “ad esse”, anziché intorno ad un comportamento lineare come
quello che noi abbiamo dedotto in prima battuta.
Ma può ben essere che, viste la complessità delle variabili reali in gioco (si pensi solo a quanto noi
abbiamo semplificato rispetto ad un’analisi trigonometrica più accurata che pur avevamo svolto)
l'andamento non sia proprio lineare.
Ciò che rileva comunque qui sono i valori delle velocità agli estremi di ogni intervallo.
Secondo la teoria della materia oscura non si giustificano: in A e B, come in C e D e via di seguito
si dovrebbe sempre trovare il valore medio v.
Nemmeno ipotizzando strisciate più dense di materia oscura “ad hoc” a ridosso dei bordi dei bracci
o comunque distribuita si potrebbe giustificare quell'andamento delle velocità radiali.
Ho trovato quei grafici della Rubin nel numero 180 (agosto 1983) dell'edizione italiana de “Le
Scienze”: ho fatto una ricerca in rete, e, a fronte di un numero incredibile di pagine ove viene citata
per la scoperta della discrepanza delle velocità radiali delle galassie rispetto alle predizioni
kepleriane, non ho trovato traccia delle fluttuazioni.
La Rubin era un po’ invisa all'ufficialità scientifica, poiché, fin dal dottorato (anni '50), ha sempre
rifiutato la teoria del Big Bang.
94
Negli spazi vuoti tra braccio e braccio la Rubin completa l'andamento ondulatorio con un tratteggio.
Ma quei vuoti, nella realtà, ci sono sempre?
Ci sono galassie spirali in cui i bracci sono così strettamente avvolti che non vi sono praticamente
vuoti tra un avvolgimento e il
Fig.131
successivo.
Se la Rubin avesse misurato le
“fluttuazioni” di velocità anche in
queste galassie, ne sarebbero
risultate certamente lastre con un
tracciato
come
quello
schematizzato in fig.131 che non
avrebbe avuto bisogno di essere
completato
manualmente:
contestualmente sarebbe venuta
meno anche la validità della sua interpretazione dei trattini inclinati come sinistri versanti di una
serie di ondulazioni.
Per la verità ella ha registrato pure questo “salto” dal massimo al minimo: un dettaglio della lastra
di fig.127 ce lo fa vedere, a sinistra del centro, dove evidentemente i due primi bracci, a ridosso del
nucleo, sono a contatto, senza uno spazio vuoto tra di essi. Il relativo grafico delle velocità tracciato
dalla stessa Rubin (il terzo riquadro) riproduce per quel dettaglio lo schema della nostra figura.
49 – LE RAGIONI DELLA RIMOZIONE DEL DATO
La “frattura”, ad ogni braccio, quando essi sono a contatto, deve aver lasciato molto perplessi gli
analisti accademici, e, come noi stiamo facendo, deve presumibilmente averli indotti a rigettare
l'interpolazione della Rubin. Il rigetto, assieme all'acqua sporca, anche del bambino (per cui delle
fluttuazioni misurate dalla Rubin non si trova traccia nella letteratura successiva, se non forse per
argomentare come noi stiamo qui facendo, ma più probabilmente no) è avvenuto sostanzialmente in
seguito al seguente ragionamento.
Se le stelle dal lato interno del braccio si muovono più lentamente di quelle al centro e via via più
velocemente quelle più all'esterno, che ne sarà, nel tempo (trattasi di decine e centinaia di milioni di
anni) del braccio stesso?
Si possono immaginari diversi scenari.
Il più plausibile, dal punto di vista delle
conoscenze attuali, è un allargamento dello
Fig.132
spessore del braccio spiraleggiante in ragione
della distanza dal centro (fig.132).
Prendiamo le stelle sul bordo esterno, che vanno
più veloci: si disporrebbero, nel tempo, in una scia
più arcuata e quindi più avanzata rispetto a quelle
che via via sono più interne e che viaggiano ad
una inferiore velocità.
Il rigonfiamento del braccio, ovviamente,
diminuirebbe in direzione del nucleo, nei paraggi
del quale le stelle si sono più di recente distaccate
e quindi non hanno avuto il tempo di produrre,
muovendosi a velocità diverse, come hanno fratto
quelle più arretrate, la modificazione della
morfologia del braccio.
95
Ma ciò non si osserva: lo spessore del braccio resta costante ed anzi sembra assottigliarsi verso la
coda, conservando la sua i fusiformità nel tempo, la quale, mentre esso si allunga, può solo stirarsi.
In una galassia molto vecchia non si avrebbe più traccia di bracci spirali, poiché sarebbe avvenuta la
completa sovrapposizione e confusione dei materiali all'origine confinati nelle scie arcuate.
Anche senza attendere questo esito, le galassie spirali avrebbero tutt'altro aspetto, se fosse vero che,
in ogni braccio, la velocità delle stelle interne è minore di quella delle stelle esterne.
Ma Vera Rubin, che era una coscienziosissima sperimentatrice, l'aveva misurato!
E Allora?
A ben guardare, quei trattini inclinati delle lastre (così come appaiono nella riproduzione
dell'articolo citato) son così poco inclinati, che qualcuno che non li vuole vedere può dire che sono
orizzontali: o invocare il solito errore sistematico, anche senza averlo individuato nella metodica
della rilevazione, chè tanto prima poi qualcuno lo farà.
Inoltre la Rubin era contraria al Big Bang.
E poi il sesso femminile non deve esserle stato di grande aiuto: si pensi che ha dovuto lottare per
accedere ai telescopi, che le erano negati per ragioni “logistiche” (leggi: mancanza di gabinetti per
le donne, problema da lei risolto mettendo un adeguato cartello su una delle porte della toilette).
Di fatto è stata la prima donna ad avere accesso anche ai grandi osservatori astronomici.
Così, insieme all'acqua indubbiamente sporca del lavoro della Rubin, è stato gettato via anche il
dato sperimentale, e di quella ricerca non si parla più.
Non so se le cose siano andate proprio così: io la storia l'ho ricostruita senza altri elementi rispetto a
quelli qui forniti, ma sospetto fortemente che sia questa.
Per noi le misure di Vera Rubin sono affidabilissime: naturalmente lo diciamo soprattutto perché le
deduciamo a tavolino dalla nostra originale teoria, come si è visto.
Per quanto riguarda il mancato dissolvimento dei bracci per via delle diverse velocità ai bordi, per
noi non c'è problema.
50 - STELLE DISPERSE.
Abbiamo le piccole sfere celesti che tengono coese le stelle quel tanto che basta perché procedano
in corteo serrato intorno al centro della galassia, vincendo la tendenza del gradiente radiale
sottostante a disperderle.
Se viaggiassero ognuna per conto proprio, lungo un circuito con un andamento radiale del gradiente
(così come è in realtà) non calibrato affinché le più veloci e le più lente si mantengano affiancate
sempre alla stessa distanza, allora sì che il corteo si aprirebbe a ventaglio.
Le stelle più interne viaggiano su un gradiente più alto di quello che compete alla loro velocità
orbitale, le più esterne su un gradiente più basso di quello di competenza
Naturalmente c'è sempre quello che non si tiene per mano col vicino, ed allora può perdersi.
Intorno ai bracci di una galassia c'è sempre una più o meno diffusa nebulosità: sono stelle fuggite
per la tangente, “interna” o esterna, proprio perché, secondo la nostra ricostruzione, non tenute
insieme alle altre del corteo dal legame delle sfere, le quali, come più volte detto, non sono
obbligatorie.
Secondo la nostra teoria, una grande percentuale di queste stelle disperse in diffusa nebulosità sono
prive di significative ed attive corone sferiche alla distanza pari a quella media tra le stesse restate
in corteo.
96
Naturalmente possono essere anche altre le ragioni dell'abbandono della manifestazione: legami più
deboli di quello della forza centripeta o centrifuga che tende a far deviare dalla diritta via, o dissidi
interni al partito con radiazione di alcuni elementi irrequieti.
Né le braccia rischiamo, ovviamente, il dissolvimento totale, a seguito di queste dinamica, poiché
quando tutte le stelle periferiche non legate o male legate (che sono, a quanto pare, una minoranza)
se ne saranno andate e si saranno anche nel frattempo meglio definiti i legami di quelle rimaste, la
fuga si arresterà.
Quelle che si sono staccate si allontaneranno sempre più, e quando da tempo non si saranno staccate
più stelle e la nebulosità si sarà allontanata lasciando sereno il cielo, il contorno dei bracci potrà
riapparire netto.
Quindi non è neppure obbligatoria, la nebulosità adiacente: però, nel caso che non la si veda
adiacente, la si vedrà spostata più lontano, magari in forma di braccia più evanescenti, in ragione
del fatto che gli scissionisti sono in minoranza, e più aperte, in ragione del fatto che una volta in
libertà possono viaggiare sul gradiente più gradito.
Questo per quanto concerne la nebulosità esterna: quella interna non è visibile perché si è nel
frattempo probabilmente addensata nel nucleo o a ridosso dei bordo esterno dei braccio interno più
vicino.
51 – ALTRA DINAMICA PER LA BIFORCAZIONE DEI BRACCI
Quanto detto è il risultato della somma di defezioni individuali dal grosso partito, ma si possono
dare anche defezioni di massa, col risultato della scissione dell'unico partito, letteralmente, in due o
più correnti.
Il cielo è decisamente la metafora, tra l’altro, dei rapporti socio-politici tra gli uomini.
A suo tempo abbiamo dato conto della biforcazione dei bracci per effetto mareale dovuto alla
cospicua variazione del gradiente al livello del distacco dal corpo centrale (barra o nucleo che
fosse): qui la biforcazione può iniziare anche molto più a monte.
La smagliatura longitudinale secondo questa seconda ipotesi avviene a seguito di una sorta di tiro
alla fune tra forza centripeta e centripeta sulle rispettive metà dello spessore del braccio, per le
diverse velocità delle stelle, in presenza di forti legami di coesione, non tanto forti però da evitare la
frattura, che, se, come nell’altro caso, lo spessore è congruo, avverrà lungo la linea mediana, e
potrà avere inizio da qualsiasi punto del braccio (ved fig133): questo perché la trazione è dovuta
appunto, al differenziale delle velocità intrinseche, visto l’andamento del potenziale di fondo, in
pratica sempre uguale a se steso su tutto lo spazio percorso, e non, come nel caso precedente, ad una
variazione cospicua della sua curvatura oltre la linea dei flessi, per una fascia circoscritta.
Fig.133
97
Che la frattura si possa verificare lontano dal centro
galattico, si giustifica semplicemente mettendo nel conto
appunto diverse velocità delle stelle interne rispetto a
quelle esterne: lo “slittamento”, che è massimo lungo la
linea mediana longitudinale del braccio, si fa sentire
tanto più quanto più distanti siamo dal suo attacco al
nucleo, per via del fattore tempo, che moltiplicato per le
diverse velocità tende a dilatare lo spazio tra i costituenti
in gioco.
O meglio, le tensioni, massimamente avvertite lungo
l’asse longitudinale del braccio, dovute alle differenze di
velocità tra le stelle legate, sono tanto maggiori quanto
più ci si allontana dal punto d’attacco del braccio.
La biforcazione avviene a partire dai paraggi della coda, quando il braccio ha assunto una
determinata lunghezza, per poi probabilmente mantenersi a quella distanza dal nucleo col suo
ulteriore allungamento
Vale per questa diversa dinamica quanto già dedotto per l’altra, probabilmente con qualche
variante.
Lo spessore del braccio deve essere anche qui almeno “congruo”.
Con lo spessore minimo congruo si ha la suddivisione in due, ma qui forse non vale che con quello
pari a tre mezzi si ha la divisione in tre.
La divisione avviene sempre lungo la linea mediana degli spessori almeno congrui, e poi, se è il
caso (vale a dire se gli spessori dei due bracci divisi sono ancora almeno congrui) avviene in
ciascuno una ulteriore divisione.
Queste immagini (figg.134 e 135) paiono confermarcelo.
Fig.134
Fig.135
Si segua il pèrcorso di un braccio, a partire dall’attacco al nucleo, e si vedrà come ad un certo
punto si biforca: lungo ciascuna delle due direzioni della biforcazione si osserva poi una ulteriore
biforcazione, e così via.
Come dedotto, quando si crea una biforcazione la sezione
Fig.136
del braccio che sta a monte tende a divaricarsi
allontanandosi, e quella che sta a valle a deviare
ulteriormente verso l’interno.
Tutto ciò produce l’ evidente morfologia ad Y, e tanto più
quanto maggiore è da un parte la trazione dovuta alle
differenti velocità, e dall’altra la coesione tra le stelle che
lungo la linea mediana vengono separate.
Né è obbligatorio che si creino soltanto importanti e
simmetriche biforcazioni (contro quanto più sopra detto):
in fig.136 si notano le fughe centrifughe di brevi tratti
distaccatisi dai due bracci.
Si osservi (ved, fig,134 e soprattutto fig.135) come nel
caso che avvengano le biforcazioni l’andamento degli avvolgimenti spiraleggianti è poligonale, non
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curvilineo: fino al punto in cui il braccio si biforca esso si mantiene rettilineo, per piegarsi di netto
nel punto in cui si divide in due e continuare poi per il tratto successivo ad essere rettilineo. Tutto
ciò è estremamente interessante e richiede un ulteriore approfondimento, atto a chiarire fino in
fondo la dinamica dei bracci della spirale.
Solo uno spunto, analogico: se pieghiamo un giunco esso si incurva, ma se tentiamo di farlo con un
ramoscello sufficientemente rigido da spezzarsi non solo non si curveranno le due parti, ma
potremmo anche osservare, in certe condizioni, una biforcazione nel punto di frattura.
Va da sé che, permanendo in generale la curvatura, una volta che un braccio si è diviso in due, si
applicano allo spessore di ciascuna delle due sezioni le rilevazioni di Vera Rubin per quanto
riguarda l’andamento delle velocità: ora quello che era il valore a metà dello spessore diventa
rispettivamente il massimo della scia più interna ed il minimo di quella più esterna, con
redistribuzione, se vale una legge non lineare, dei valori nell’intervallo.
E’ da studiare la sorte della scia di polveri e materiali opachi che percorreva l’anima del braccio
ora diviso: si spartiscono tra le due metà?
E se lo fanno, restano lì stabilmente, al bordo di competenza (esterno e interno rispettivamente), o
cadono nel fondo di ciascuno dei due canali di potenziale intrinseco delle due sezioni, continuando
ad occupare la linea longitudinale mediana di ciascuno dei due nuovi più sottili bracci?
La potenza di questo nuovo modello dinamico, per dedurre il quale abbiamo tratto spunto dai dati
rimossi della Rubin, è tale che può rendere pleonastico ed inutile l’altro, quello della trazione
mareale, facendoci concludere che tutte le biforcazioni osservate sono imputabili a smagliature per
differenze di velocità su di andamento del gradiente molto meno variabile di quello richiesto
perché, vista la viscosità dei bracci, essi si conservino integri nel corso del loro avanzamento.
Resta però da verificare che la trazione dovuta alle differenti velocità rilevate dalla Rubin e dedotte
dal nostro modello sia sufficiente a determinare la smagliatura fin dalla periferia del nucleo (o
dall’estremità della barra, se è il caso): si era detto che tale azione ha tanto più effetto quanto più
siamo distanti da esso, ma ciò non significa che le condizioni perché avvenga la suddivisione non
possano crearsi anche da subito.
Se la biforcazione non risultasse essere competenza dell’effetto mareale appena oltre il flesso del
versante, si libererebbe una variabile dinamica che potrebbe così essere impiegata per spiegare altre
morfologie, per esempio quella già segnalata della “corona di rosario”.
Finché infatti impiegavamo la forza di marea per spiegare le biforcazioni, facendola agire in senso
trasversale rispetto al braccio, non si capiva come potesse essere contemporaneamente impiegata
per spiegare le strozzature lungo i bracci, con manciate di stelle più addensate ogni qual tanto,
morfologia questa che richiedeva un’azione mareale non ortogonale al braccio, ma longitudinale.
52 - IL SOMBRERO A TESE RIPIEGATE ED ANDROMEDA
Accenniamo all’ipotesi di un corto circuito tra l'inizio, quando s'è individuata (senza in quella sede
ancora giustificarla) la prima piegatura alla tesa del sombrero, e la fine, quando, dopo un lungo
percorso, siamo approdati alle spirali totali: o meglio, tra la prima più semplice alterazione
morfologica rispetto alla sfera (il sombrero perfetto, risultato di un semplice schiacciamento in un
solo canale) e la più complessa, in un certo senso, la spirale, essendo essa il risultato di un doppio
schiacciamento tra due canali con contemporanea rotazione della barra comunque intesa che così si
andava formando.
Il sombrero e la spirale totale sono entrambi dei dischi, distesi lungo il basso potenziale di
un'intercapedine sferica, così poco curvata localmente da fare apparire piatto il loro piano
equatoriale.
99
Abbiamo visto (fig.50) la foto di un “sombrero” curvato di profilo a forma di esse, poiché
evidentemente disassato rispetto alla grande sfera celeste che lo ospita.
Non si vede perché non si debba osservare la stessa curvatura anche nelle spirali.
Infatti si osserva, anche se non proprio quella, come si vedrà, nella galassia che ci è più famigliare
(ovvero quella che possiamo vedere meglio, la più vicina, che conosciamo globalmente molto
meglio della nostra, perché ci vuole un certo distacco per capire le cose, non bisogna esserne troppo
coinvolti): Andromeda (fig.137).
La piegatura non appare però
Fig.137
semplice come nel caso del
sombrero ricurvo, non è come aver
appoggiato una pizza morbida su di
un ondulato, e ciò si spiega con la
rotazione dell’oggetto.
Un corto circuito ancora più chiuso
si
sarebbe
potuto
pensare
immaginando che il Sombrero,
quello perfettamente piatto, sia
(come molti oggi pensano) l'approdo
finale della rotazione della spirale,
laddove alla fine si perde ogni
informazione della precedente più
differenziata morfologia.
Ma al di là del fatto di andare a verificare, attraverso le tecniche del doppler, se anche il sombrero
ruota (cosa che non sono riuscito ad appurare cercando dove ho potuto), si può affermare, mettendo
a confronto le piegature del sombrero di fig.50 con quelle di Andromeda, che non può essere così:
quel sombrero non sta ruotando, o comunque non ruotava quando si sono formate le piegature,
perché altrimenti esse si presenterebbero
come quelle di Andromeda, che non sono
Fig.138
simmetriche rispetto al piano ortogonale
passante da parte a parte.
Se il materiale stellare è in rotazione, tale
rotazione non può avvenire mantenendosi
rigorosamente su di un piano ripiegato a
forma di esse, come è quello su cui
giacciono le tese ricurve del sombrero.
Ciò non toglie che strutture lenticolari
senza
differenziazione in termini di
avvolgimenti di braccia spirali possano
risultare, ma solo morfologicamente, lo
stadio finale dell’evoluzione della spirale
totale.
In fig.138 una spirale in uno stadio
piuttosto avanzato dell’evoluzone in tal
senso.
Questa
galassia,
evidentemente
in
rotazione, vista di profilo apparirebbe
probabilmente come il sombrero, anche se
più schiacciata, ma certamente, se da tale prospettiva ci facesse vedere delle piegature, esse si
presenterebbero rispetto ad entrambi gli assi ortogonali del piano galattico, come Andromeda, non
solo rispetto ad uno, come il nostro sombrero curvato.
100
53 – AMMASSI GALATTICI E GRUPPI LOCALI
Ci siamo occupati solo di sfuggita della formazione e della dinamica degli ammassi di galassie,
facendo intendere fin dall’avvio che, mutata la scala, valgono per essi le considerazioni fatte per gli
ammassi di stelle (le singole galassie), a cui in questo lavoro ci siamo prevalentemente dedicati.
Delle galassie ci siamo fatti un’idea come di corpi in sé coesi, addirittura dotati di una struttura
tendenzialmente “cristallina”, per quanto normalmente piuttosto amorfa: la coesione è determinata
dal legame di stabilità garantito da una o più corone sferiche che ciascuna stella ha intorno a sé.
Come in un corpo rigido gli atomi sono stabilmente collocati in fondo a buche di potenziale, alla
scala della “materia” più o meno strette e profonde (vedi a questo proposito l’appendice), così le
stelle sono situate in buche di potenziale, al confronto incommensurabilmente meno profonde e più
larghe, anch’esse dovute all’intersezione delle sfere, a distanze astronomiche e cosmiche
dai centri degli atomi stessi.
Le buche in cui nel corpo galattico le stelle sono prevalentemente collocate sono il risultato
dell’intersezione di almeno tre corone, a dar luogo ad una buca “sferica” senza via d’uscita, così
come gli atomi legati in un corpo materiale, e normalmente quindi sono bloccate, non hanno la
possibilità di compiere rivoluzioni le une intorno alle altre (pur potendosi naturalmente dare tale
libertà, per esempio con alcuni sistemi doppi), esattamente come gli atomi non sono liberi di
revoluire gli uni intorno agli altri, essendo bloccati anch’essi in analoghe buche.
Quanto detto per il corpo materiale e per l’ammasso di stelle vale alla scala dell’ammasso di
galassie, laddove il numero dei costituenti (qui le galassie) è incommensurabilmente minore, come
già rilevato, sia rispetto al primo che rispetto al secondo tipo di aggregato.
Vale quindi anche per gli ammassi che i costituenti, le singole galassie appunto, confinate nelle
larghissime buche dovute all’intersezione di almeno tre sfere celesti, non hanno la libertà di ruotare
gli uni intorno agli altri.
Se ne deduce che in un ammasso troveremo prevalentemente galassie “ellittiche”, che abbiamo
visto essere normalmente inscatolate entro le sei pareti di un loculo ottaedrico.
La galassie spirale, barrata o meno, per formarsi ha bisogno di revoluire intorno ad un’altra
galassia, o che un’altra galassia revoluisca intorno ad essa, e quindi non può essere bloccata agli
incroci di una rete di canali, ma deve poter scorrere liberamente lungo il canale.
Di fatto si osserva che per l’80 per cento le galassie di un ammasso sono ellittiche, e che le galassie
isolate (o in piccoli gruppi locali, come quello cui fanno parte la nostra ed Andromeda) sono per la
stessa percentuale spirali.
A prescindere dai gruppi locali e dalle galassie isolate, si può dire che la predominanza delle
galassie ellittiche all’interno dei cluster vale per gli “ammassi regolari” (ricchi, compatti,
simmetrici, etc.) mentre non è vera per gli “ammassi irregolari” (composti generalmente da meno
galassie, asimmetrici e “aperti”), che contengono praticamente tutti i tipi di galassie.
101
102
APPENDICE
I FONDAMENTI ED ALTRE DERIVAZIONI
103
104
I FONDAMENTI ED ALTRE DERIVAZIONI.
Le sfere celesti sono state attribuite, fin qui, a parte fuggitivi riferimenti ad altri più piccoli corpi ed
alle “molecole” disaggregate del gas primordiale, alle stelle ed ai loro grandi aggregati.
In questa appendice faremo un'ipotesi sul costituente ultimo della materia (che risulterà essere
anche il quanto della radiazione elettromagnetica), il che naturalmente aprirà due altre e diverse
direzioni di ricerca, una inerente la struttura della materia, l'altra quella della radiazione.
Per l'argomento trattato nel presente saggio l'ipotesi ha interesse unicamente per dar conto, ad un
livello fondante, delle nostre sfere celesti, che fino ad ora abbiamo semplicemente postulato.
Il “costituente ultimo” è semplicemente definito da un'equazione che associa, in un riferimento
cartesiano, a ciascuno dei punti dell'infinito spazio tridimensionale un valore del potenziale.
Ritengo che la definizione completa di questo potenziale, definizione che qui si proporrà in modo
inevitabilmente parziale e provvisorio, rappresenti, con poche condizioni di contorno desunte
dall'osservazione, il fine ultimo della ricerca teorica scientifica in senso stretto.
Il potenziale è in ogni punto sempre positivo, tranne che nel punto centrale, in cui è nullo.
Per acquisire dimestichezza col concetto, occorre partire dal potenziale
newtoniano
matematicamente definito intorno ad un punto geometrico (punto “materiale”, cioè “dotato di
massa”, si dice, anche se nessuno sa cosa significa).
Questo “imbuto newtoniano” (fig.139)
di equazione
y=-|a/x|
Fig.139
che ben conosciamo, è riferito all'asse
delle x (non tracciato in figura), e quindi
tutti i valori della funzione, così scritta, sono negativi, come risulta dal segno meno messo davanti
al valore assoluto dell'espressione dell'iperbole.
Ma il potenziale gravitazionale, s’è detto, è sempre positivo.
Per rendere la funzione positiva dobbiamo sbattere a meno infinito l'asse delle x, in pratica farlo
scomparire, col risultato che tutti i valori della funzione diventeranno infiniti positivi, ad eccezione
del punto d'origine, ove il potenziale sarà nullo.
Non per questo i valori della funzione cesseranno di avere un senso: e l'avranno proprio per quanto
rileva in una equazione di potenziale, cioè per l'immutata possibilità di stabilire la differenza di
potenziale tra due punti.
Si potrà cioè continuare a dire che nel punto A il potenziale è più alto che nel punto B, anche se in
entrambi i punti sono infiniti, e calcolare esattamente come prima la differenza di potenziale tra i
due, poiché nella sottrazione i due infiniti scompaiono.
Se considero la superficie del mare increspato dalle onde, la descrizione della loro forma, cioè la
determinazione delle diverse quote del pelo dell'acqua, è assolutamente indipendente dalla
profondità del mare stesso, la quale potrebbe essere anche infinita: l'informazione sulla profondità,
cioè sulle quote assolute, non mi serve per stabilire la differenza tra due quote diverse, o la
pendenza del versante di un'onda.
Il concetto è sinteticamente espresso nel rigoroso linguaggio matematico laddove la derivata di una
105
funzione è indipendente dai valori assoluti della funzione stessa.
Una funzione può contemporaneamente essere la derivata di un numero infinito di altre funzioni, le
quali differiscano tra loro, in ogni punto, di una costante qualsivoglia (indicata di solito con la
lettera C).
Sappiamo che la forza gravitazionale è la derivata del potenziale gravitazionale.
Se abbiamo la forza e dobbiamo calcolare il potenziale, dobbiamo effettuare l'operazione inversa,
cioè calcolare “l'integrale indefinito”.
Si dirà allora che l'integrale indefinito della forza di gravità, la quale ha equazione
y'=a/x^2
è
y=-|a/x|+C
C è un numero reale positivo qualsiasi, e questo giustifica l'aggettivo “indefinito” affibbiato
all'integrale.
Noi quindi daremo valore infinito a quel C: più C è grande, più in basso l'asse delle x taglia il nostro
imbuto, e noi lo taglieremo così in basso da non tagliare nulla, da lasciare l'imbuto intero, da zero a
più infinito.
Ma cos'è il potenziale?
O meglio, di che cosa è potenziale?
Non lo sappiamo, né ci interessa saperlo, se dobbiamo solo descrivere il mondo, di cui vediamo
solo la superficie, non diversamente dal nuotatore che ha a che fare con le onde ed il pelo
dell'acqua e non gli interessa quanto è profondo il mare, perché si annega in due metri come in
diecimila.
Se facciamo solo fisica, e non anche filosofia, possiamo accontentarci della derivata prima (la
“forza”) e delle successive, ed ignorare l'integrale, che è così poco e male definito.
A qualcuno può piacere parlare di qualcosa che riempie lo spazio e la cui densità varia con la legge
di quel potenziale, e chiamarlo magari etere, per giustificare la forza di gravità stessa, visto che la
forza è tanto più grande quanto maggiore è la differenza di potenziale tra due punti contigui, in
termini di “spinta”, anziché di attrazione, da parte di qualcosa che è più denso da una parte che
dall'altra, e nella direzione quindi della rarefazione.
Si sa che i corpi tendono verso il basso potenziale.
Né serve a tanto, anche se gratifica, apparentemente senza troppi sbilanciamenti e concessioni al
materialismo o allo spiritualismo, parlare di “densità dello spazio”: devo dire però che, per quel che
ne sappiamo dello spazio, e soprattutto per quel che ci possiamo rappresentare quando pensiamo
allo “spazio vuoto”, questa soluzione linguistica merita di essere presa in seria considerazione, se
non altro, come dicevo, perché è senza dubbio la meno compromettente.
Voglio dire: lo spazio non è pieno di un bel niente, è lui che è più o meno denso.
Un po' come forse aveva intuito Einstein, se non fosse che chiamarlo poi “curvo” è fare una grossa
confusione tra la realtà e la sua rappresentazione matematica (vedi le raccomandazioni nel Cap.1
riguardo all’interpretazione del modello plastico dell’imbuto newtoniano).
Altrettanto metafisico è chiedersi il perché di quell'andamento della densità dello spazio intorno al
centro del costituente ultimo, o di qualsiasi altro andamento possiamo inventarci (compreso il
nostro, che non sarà ovviamente l'iperbolico da cui siamo qui partiti): e soprattutto il chiedersi che
cosa c'è nel punto centrale, e se è esso il responsabile di ciò che è avvenuto intorno, punto di
106
singolarità ove la funzione del potenziale non viene definita, o se lo è, come noi abbiamo preteso di
fare dicendo che lì il potenziale è nullo, ci crea il grosso problema di concepire lo stacco tra un
dominio con valori infiniti in ogni punto tranne che all'origine, origine verso la quale purtuttavia
convergono.
Questioni, queste, da lasciare ai filosofi.
Ma forse nemmeno ad essi, per la verità, poiché anche loro devono servirsi dell'unico cervello che
hanno, il quale non può ragionare in deroga al principio di non contraddizione (saccheggiato a piene
mani dagli inizi del 900 in poi fino ai giorni nostri) e, soprattutto, non può concepire l'infinito, e
meno che mai i suoi paradossi, che evidentemente hanno la sua stessa natura.
Noi un po' di Metafisica (nel senso che le considerazioni relative non avranno nessun valore
scientifico in senso stretto), ma solo spicciola, per metafore tratte dall'esperienza quotidiana che
abbiamo del modo con cui la materia reagisce alle nostre sollecitazioni, saremo costretti a fare, ma
solo per rendere più pittoresca e famigliare la rappresentazione matematica.
Perché il dichiarato ricorso alla metafora sia il meno sospetto possibile di presunzione, ne
massimizzeremo la brutalità ricorrendo al classico telo elastico ben teso sul quale con un attrezzo
appuntito esercitare (senza bucarlo) in un punto una pressione in modo che si formi il classico
imbuto.
E questo è Newton.
Ricordiamo, ne vien fuori l’imbuto di fig.139, la cui sezione verticale passante per il centro ha
equazione y=-|a/x|+C: a è una costante.
Costruiamo ora il nostro nuovo campo, deformando a modo nostro l’imbuto Newtoniano.
Quell’imbuto ha simmetria radiale, e noi gliela toglieremo sbilanciandolo.
Dopo aver praticato il buco, senza togliere l’attrezzo, lo sposteremo di lato velocemente per un
tratto , dando così un impulso, una spinta (s), che faccia aumentare, dalla parte verso cui è diretto, la
pendenza del versante dell'imbuto, e, dalla parte opposta, la faccia diminuire (fig.140).
Fig.140
Le rispettive nuove equazioni dei due versanti della sezione dell’imbuto lungo la quale abbiamo
spostato l’attrezzo siano
y=-|a'/x|
y=-|a”/x|
x>0
x>0
con a'>a>a”
La prima è l’equazione della sezione del versante in cui è avvenuto il massimo stiramento, l’altra
quella dell’opposto, in cui è avvenuto la massima compressione.
107
In un intorno del nuovo centro il versante compresso (il destro per noi), quello verso cui è stato
diretto l’impulso, a parità di distanza dall’origine ora è più pendente di prima, mentre il versante
opposto è meno pendente.
Ovviamente i parametri a’ ed a” sono funzione l’uno dell’altro, e quindi sono esprimibili nei termini
di una variabile unica, legata all’intensità dell’immaginario impulso.
Il nuovo riferimento verticale passa ora per O’.
Per avere a’ in funzione di a’’ si consideri che la somma dell’integrale definito da O’ a più infinito
con l’integrale definito da O’ a meno infinito, deve risultare uguale al doppio dell’integrale definito
originario (relativo a -|a/x|) da 0 a più infinito: l’immaginario impulso non ha fatto variare la
quantità totale di densità dello spazio, ne ha solo modificato la distribuzione.
Il numero reale a è una costante: a’ e a” si ottengono rispettivamente sommando e sottraendo ad a
un altro numero reale positivo minore di a.
Col che lo sbilanciamento massimo, limite escluso dall’intervallo di variabilità, si ha con a’=2 e
a”=0
Lungo la direzione ortogonale a quella del nostro impulso l'andamento dei versanti non è mutato (il
parametro a si sarà conservato uguale nella loro equazione). e lungo le direzioni intermedie, da una
parte e dall'altra, le pendenze convergeranno verso quella della direzione ortogonale (a' e a”
convergeranno verso a), secondo una legge da stabilire.
Ma non sarà semplicemente questa la deformazione del potenziale che adotteremo.
Immagineremo che le caratteristiche del materiale di cui è costituito il telo siano tali che il nostro
impulso non si limiti a provocare il detto sbilanciamento, ma produca contemporaneamente dei
corrugamenti, delle ondulazioni, nella direzione e verso in cui avviene la compressione,
continuando a valere quanto detto per la parte opposta, ove avviene solo lo stiramento (fig.141)
Fig.141
Le ondulazioni risultanti siano tanto meno accentuate quanto più sono distanti dall'origine, vale a
dire che diminuisce la loro ampiezza verticale ed aumenta quella orizzontale via via che ci si
allontana dal luogo dell'azione creatrice.
Anche qui, naturalmente, la quantità totale di potenziale deve restare invariata: quanto è stato tolto
al potenziale del versante più inclinato in termini di avvallamenti viene pari pari restituito al
potenziale stesso in termini di rilievi nel versate stesso.
La legge del corrugamento in sé (cioè immaginata su di un telo teso orizzontalmente) sia:
108
y=b[sin(c/x)]/(x^2)
b>0
c>0
x>0
I parametri b e c dipendono dall'intensità dell'impulso che abbiamo dato, e presumibilmente sono
legati tra loro da una legge di proporzionalità diretta: b determina l'ampiezza verticale
dell'ondulazione e c quella orizzontale.
Data una distanza dal centro, tanto maggiore è l'impulso, tanto più accentuata è l'ondulazione, nel
senso dell'ampiezza dell'”onda stazionaria” (e tanto maggiore è b), e tanto minore la sua lunghezza
e maggiore la sua “frequenza spaziale” (e tanto maggiore c).
Applicata al versante iperbolico di competenza, quello di cui è aumentata la pendenza, diventa, per
somma:
y=b[sin(c/x)]/(x^2)-|a”/x|
Poiché a”, correlato al grado di sbilanciamento, è legato all'intensità dell'immaginario primordiale
impulso è in funzione di tale parametro che vanno espressi tanto b quanto c, che esprimono la
“quantità di corrugamento”, che aumenta con lo sbilanciamento.
Nell'equazione del corrugamento del versante dovrà cioè risultare un solo parametro libero, il cui
valore sarà correlato (bisogna stabilire se linearmente) all’intensità dell’immaginario impulso dato.
Non ho operato questa riduzione, ed allora accontentiamoci di disegnare la curva attribuendo valori
di comodo ai parametri a” b e c (fig.142).
Fig.142
Al variare dell’unico parametro libero varia lo sbilanciamento, vale a dire che se, a seguito di un
maggior impulso, diminuisce, nell’intorno detto l’inclinazione del versante sinistro e aumenta il
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corrugamento di quello destro, con infittimento delle ondulazioni e loro amplificazione.
Immaginando ora realisticamente lo spazio tridimensionale intorno all'origine, visualizzeremo
nell'emisfero destro i corrugamenti in
direzione ortogonale ai piani tangenti gli
Fig.143
strati di mezza cipolla (fig.143), sfumati
verso la sezione verticale, ove
spariscono, secondo una legge che
potrebbe essere quella di una potenza
del coseno crescente con il grado dello
sbilanciamento.
Ancora una volta, nell’espressione più
generale
dell’andamento
del
corrugamento, in funzione cioè anche
dell’angolo in cui lo si considera,
comparirebbe un solo parametro libero,
quel numero reale positivo minore di a
che abbiamo sottratto al numeratore
dell’espressione
dell’iperbole
non
sbilanciata.
Il diagramma di fig.143 è una sezione
piana qualsiasi passante per il centro e contenente la direzione in cui è stato dato il demiurgico
impulso, lungo la quale lo sbilanciamento è massimo, la direzione, cioè, lungo la quale si rileva
l’andamento della figura precedente.
In tratteggio i minimi, in segno pieno i massimi delle ondulazioni: lo spessore del segno è in
entrambi i casi correlato linearmente con l'andamento dei massimi e minimi stessi.
Questo è il nostro costituente ultimo.
Almeno lo è per quel che ci serve per gli aggregati su vasta scala che abbiamo trattato, poiché da
qui in poi, per quanto riguarda quel comparto, non dovremo postulare altro, solo dedurre, avendo a
disposizione questo modulo in qualsivoglia quantità, con tutti i possibili valori dell’unico
parametro in gioco.
Come anticipato nella prefazione, il campo gravitazionale di Newton risulta dalla sovrapposizione
di un numero “congruo” (idealmente infinito”) di costituenti ultimi così strutturati, con
distribuzione casuale della quantità di sbilanciamento e della sua direzione, in modo che si crei
totale interferenza distruttiva tra i ”dossi” e le “cunette” delle ondulazioni di ciascuno, e si
ricostruisca la “piattezza” del declivio parabolico: nella somma, il primo termine di ciascun
addendo della sommatoria sparisce e il secondo si riduce a -|a/x|.
Le sfere celesti, quelle col dosso e la cunetta affiancati ad interrompere la continuità iperbolica del
potenziale newtoniano, alle distanze e con le caratteristiche più diversificate, vengono ora da sé.
Basta sommare, come prima, una grande quantità di questi costituenti, col centro confinato in una
regione di qualsiasi ampiezza, e con la direzione del massimo sbilanciamento orientata casualmente,
ma con distribuzione non casuale della quantità di sbilanciamento.
Nel grafico che segue (fig.144), sono stati sommati i potenziali di un piccolo numero di costituenti
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ultimi con diversi valori, compresi in un intervallo, del parametro libero.
Fig.144
Naturalmente il computer, come in fig,142., s’è perso nel calcolare il potenziale in prossimità del
comune centro.
Per disegnare questa curva si è sommato un numero molto limitato (sette) di addendi con equazione
generale
y=b[sin(c/x)]/(x^2)-|a”/x|
x>0
avendo posto b=1/5 ed a=1. I sette costituenti ultimi sommati sono stati ottenuti attribuendo a c i
valori 50 100 150 200 250 300 350. Per semplicità b, che secondo quanto s’era detto dovrebbe
variare con c, è stato mantenuto costante (col che varia solo la velocità di diminuzione
dell’ampiezza delle oscillazioni)
Il braccio così ottenuto è stato poi ribaltato a sinistra.
La residua ondulazione tra ogni coppia dosso-cunetta si attenuerebbe, fino a sparire (e tanto prima
quanto più distante dal centro si guarda) aumentando il numero dei costituenti sommati.
Si è già auspicato, a suo tempo, che l’equazione risultante da questo calcolo coincida, per la nostra
anomalia, con quella che abbiamo stabilito più o meno arbitrariamente, cioè la derivata della
gaussiana y=a^-x^2, che è
y’=-2a^-x^2*ln a*x
sommata al potenziale iperbolico.
Naturalmente per lo studio del mondo fisico non serve tanto, cioè sommare un numero infinito di
addendi (o meglio, serve, ma non lo descrive nella sua finitezza, ed in questo caso la mente del
calcolatore è in un certo senso più potente del reale, ma solo perché “astrae”): i costituenti da
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sommare, per ottenere il potenziale riferito a qualsiasi corpo reale, di qualsivoglia dimensioni e
densità, sono comunque in numero finito, per quanto inimmaginabile, fin dalla più piccola
significativa aggregazione che dia luogo a quella che chiamiamo materia.
Quel tremendo (per la verità nel nostro grafico mancato) infittimento delle ondulazioni intorno
all'origine nasce dall'aver fatto coincidere i centri dei nostri costituenti ultimi.
Se i centri fossero stati collocati, separati, in una piccola regione di spazio, si sarebbero create
interferenze distruttive tra le ondulazioni più vicine, e cominceremmo ad osservare i dossi e le
cunette ad una certa distanza dalla regione centrale.
D'altra parte a grandi distanze le anomalie del campo praticamente spariranno, nel senso che il
versante interno delle buche sarà (però la cosa va controllata, come già s’è detto) più inclinato verso
il centro.
Cose già viste, anche se non nel così piccolo.
Per rendere le sequenze dosso-cunetta ancora più evidenti, bisognerà aggiungere altri contributi
ugualmente distribuiti per frequenza e collocazione dei centri: non dimentichiamo infatti che le
ondulazioni dei singoli costituenti continuano ad esserci fino a distanza infinita, rispetto alla quale
le distanze astronomiche di cui ci siamo occupati in questo lavoro sono una miseria, per non dire
una nullità.
Esattamente come nella immaginazione matematica.
.
Il Razionale è Reale e viceversa.
Dobbiamo però precisare che l’equazione del corrugamento di partenza qui proposta
y=b[sin(c/x)]/(x^2)
è solo un’ipotesi sulla quale lavorare, e probabilmente anche da sostituire con un’altra: la nostra
infatti non corrisponde pienamente ai requisiti immaginati (ma forse sono questi ultimi a non essere
corretti, ed allora essa dovrebbe andar bene).
Noi vorremmo che le ondulazioni del potenziale sbilanciato del costituente ultimo permanessero e
diventassero, attenuandosi, sempre più estese fino ad infinito, e quell’equazione ce lo garantisce
solo con c tendente all’infinito.
Dato cioè un valore finito di c, ad una certa distanza dall’origine (tanto maggiore quanto maggiore è
c) l’oscillazione cessa con un ultimo esteso “dosso” che sfuma asindoticamente all’infinito, tanto
più lontano dall’origine quanto maggiore è il valore di c..
Un andamento che ci garantisce invece la permanenza dell’oscillazione (sempre meno accentuata
verticalmente e sempre più ampia orizzontalmente) fino ad infinito è quello dell’equazione
Y=[sin (c (6x/b)^(1/3))]/ x^2
in cui la “lunghezza d’onda” aumenta parabolicamente con la distanza dall’origine.
Oppure quello dell’equazione
y = [sin [(1/c) ln(1+cx/V)]]/x^2
con cui la detta lunghezza aumenta iperbolicamente.
A differenza della nostra, però, con ciascuna di queste due non si ha, verso l’origine, addensamento
infinito dell’ondulazione, e ciò potrebbe essere un pregio o un difetto…
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Requisiti irrinunciabili sono da una parte che, all’atto della somma di un gran numero di costituenti
isotropicamente distribuiti per “frequenza”, si ripristini la “piattezza” del potenziale, dall’altra che
l’anisotropia della loro distribuzione possa determinare, in determinate condizioni, la sequenza
“dosso-cunetta” localmente isolata in tale piattezza, come accade con la nostra, e questo va
verificato, in particolare la seconda condizione..Va verificato anche che sia corretto il divisore x^2
(da cui dipende lo smorzamento verticale dell’oscillazione) delle due espressioni: esso
probabilmente lo è nella nostra, poiché produce la bellezza dell’uguaglianza delle aree di dossi e
cunette che si alternano, cioè l’invarianza dalla lunghezza d’onda crescente del suo integrale
definito.
Data per scontata le puntuale formalizzazione matematica, da qui parte l'annunciata direzione di
ricerca nel campo della struttura della materia.
La musica è sempre la stessa, cambia solo la scala, che è di parecchie ottave superiore (superiore
nel senso della frequenza, non delle fondamenta, se è vero che le galassie sono fatte di atomi, e non
viceversa, a dispetto di quanto propone qualcuno che sostiene che non ci è dato di penetrare nella
più intima struttura della materia, ove potrebbero anche esserci altri mondi, magari abitati).
Anziché con grandi sfere celesti, si avrà a che fare con piccole sferette, in compenso con pazzesche
derivate prime del potenziale e pazzesche loro variazioni (derivate seconde): quindi con la
possibilità di piccoli aggregati di costituenti di giacere stabilmente nel fondo di profondissime e
strettissime buche, per dedurre da una parte tutti i possibili stati della materia, solidità, rigidità,
fragilità, malleabilità, elasticità, fluidità, superfluidità ecc.. e le loro combinazioni, in ragione della
profondità e dell’ampiezza dei canali e del rilievo e dell’ampiezza degli affiancati dossi, e dall’altra
tutte le possibili strutture cristalline in ragione dell'intersezione tra le coroncine sferiche tenuto
conto di una variabilità modulare del loro raggio.
E, ancora, a monte, più verso i nuclei, corsie preferenziali in cui alloggiare corpi ancora più piccoli
(elettroni?), che possono però saltare da un canale all’altro se vengono disturbati.
Insomma, si può restituire realismo, come si augurava Einstein, al microfisico, unificando cielo e
terra, come aveva iniziato a fare Newton.
Concludiamo con un altro rinvio (questo, però, con l'indirizzo).
Manca solo la luce (la radiazione elettromagnetica).
Se per la struttura delle galassie e (entro naturalmente i limiti del nostro modello di base, che
evidentemente va ulteriormente precisato ed articolato) quella della materia, non abbiamo avuto
bisogno di aggiungere altri postulati a quello della forma del potenziale del costituente sbilanciato e
corrugato, per la radiazione elettromagnetica dobbiamo farlo.
Quando abbiamo sbilanciato il nostro imbuto (che altrimenti se ne sarebbe stato immobile nel
riferimento assoluto), non abbiamo detto che probabilmente il suo centro, trascinandosi appresso
solidalmente e rigidamente tutto il suo potenziale fino ad infinito, si sarebbe messo in moto nel
riferimento stesso, con accelerazione costante (e quindi velocità sempre in aumento), nella direzione
e nel verso del minimo potenziale sbilanciato, per noi verso sinistra: un disperato inutile tentativo
(vista la rigidità infinita della distribuzione della sua densità, una volta determinatasi in seguito
all’impulso), di ripristinare la perduta simmetria radiale da parte dell'imbuto importunato.
Si sarebbe messo in moto secondo la legge F=ma (dove m è una costante ed a è correlata con lo
sbilanciamento).
A ben guardare, questo non è un nuovo postulato, ma una conseguenza della legge del moto
postulata nel capitolo 2, la quale recita che un “corpo” tende a dirigersi nella direzione e verso
indicati dalla più veloce diminuzione del potenziale.
E quali sono tali direzione e verso se non quelli in cui il nostro nuovo oggetto ha, a contato col suo
centro, il versante (quello non corrugato) meno inclinato?
Il considerare due o più imbuti corrugati sovrapposti immobili diversamente orientati nel
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riferimento per iniziare lo studio della struttura della materia ci era tacitamente consentito dalla
intuitiva possibilità della loro vicendevole cattura, con il centro di ciascuno collocato in una
profonda, per quanto solo emisferica, vicinissima buca di potenziale di un altro (se non anche con la
coincidenza dei punti centrali a potenziale nullo?...e chi lo può dire, visto anche che la probabilità di
un tale evento, coi numeri reali, è nulla?).
Postulato il moto uniformemente accelerato, ci manca ora solo da aggiungere il postulato della
rotazione.
Il nostro oggetto sia in rotazione, intorno ad un asse qualsiasi della sezione che divide i due emisferi
(quello a cipolla quello a mela), ad una velocità angolare direttamente proporzionale al grado del
suo sbilanciamento.
Anche qui c'è spazio per l'immaginazione letterario-filosofica-poetica-estetica, tutti approcci dettati
comunque dall'esperienza quotidiana.
A titolo esemplificativo, propongo la mia fantasiosa lettura.
Quando l'imbuto era quello radiale di Newton, un “terzo occhio” era in grado di percepire a 360°
sferici lo spazio intorno (ma cosa c’era da guardare?), e questo aveva a che fare anche con la sua
immobilità, come quella del santone indiano che capisce tutto ma non fa nulla e se ne sta fermo a
contemplare l'universo.
Una volta sbilanciato, l'occhio dell'imbuto s'è visto restringere il suo cono di attenzione sulle cose
ed allora, per poter continuare a guardare tutto (questa volta però nel tempo, non come prima:
magari il tempo prima nemmeno esisteva, non essendovi moti e quindi eventi) ha dovuto mettersi in
rotazione.
Sarebbe così giustificata anche la relazione lineare postulata tra sbilanciamento e frequenza della
rotazione: tanto più stretto è il cono di attenzione, tanto più velocemente deve ruotare per
scansionare i dintorni a parità di acquisizione d'informazione: questa rotazione, finalizzata
all’osservazione di eventi però non ancora in corso, dà contestualmente l’avvio agli eventi.
Dacchè la domanda successiva è:
“La traiettoria del centro, che sarebbe stata rettilinea col solo sbilanciamento e senza la rotazione
della freccia della forza, ora qual’ è?”
Se fate questa domanda a qualsiasi fisico o matematico dei giorni nostri, senza lasciargli però il
tempo di fare i calcoli, otterrete una risposta sbagliata, perché questa è una domanda che (tolto
Giuseppe Zungri, che le ha dato anche la risposta corretta), nessuno si è mai posto, che io sappia,
con la conseguenza che c'è una voragine nella conoscenza della dinamica elementare.
Il suo centro, trascinandosi dietro solidalmente tutta la struttura, in rotazione intorno ad esso, del
potenziale fino ad infinito (e trascinandosi quindi contestualmente il paradosso della velocità
periferica infinita ai confini dello spazio), descriverà una traiettoria trocoidale, fatta di archi di
cicloide in generale non ordinaria e non confinata nel piano, con andamento mediamente e
complessivamente rettilineo.
Il nostro costituente ultimo, se libero di muoversi nello spazio, si allontanerà saltellando in una
direzione retta, con una traiettoria dotata di una periodicità legata alla velocità angolare della
rotazione, cioè al suo “sbilanciamento” .
Col contributo, anche qui, di una congrua quantità di tali costituenti ultimi, come per la materia,
(laddove invece erano prigionieri in una buca, pur ruotando e muovendosi un po' sul posto) si
costruisce la radiazione elettromagnetica.
Con tutti i suoi limiti (che sono anche quelli del presente lavoro sulle galassie, anch’esso portato
avanti in solitudine) questa deduzione esiste, ad opera dello stesso autore, e si trova da anni anche in
rete.
http://www.lucianobuggio.alterivsta.org
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INDICE
Introduzione……………………………………………………………………………………….…5
1 - Il campo gravitazionale di Newton………………………….…………………………….…….7
2 - La densità dello spazio e la legge del moto………………………………………………….….9
3 - Piano di lavoro………………………………….……………………………………………...11
4 - Le deviazioni postulate…………………………………………………………………….…..11
5 - Dosso e buca ideali?.................................................................................................................. 16
6 - Un’anticipazione: “punti di Lagrange” e trazione gravitazionale seriale……………….……..19
7 - Prima ipotesi provvisoria: una corona per ogni stella………………………………………….21
8 - Pluralità di corone concentriche intono ad ogni stella….……………………………………...26
9 - Una parentesi: le stelle binarie………………………………………………………………....27
10 - Una legge per la distribuzione e la variazione dell’”anomalia”……………………….……....28
11 - Variabilità dell’anomalia per interferenza………………………………………..…………....29
12 - Una scala gerarchica di anisotropie……………………………………………………..……..30
13 - La formazione di una stella e delle sue corone sferiche…………………………………..……32
14 - La formazione dell’ammasso galattico………………………………………………….….….35
15 - Un minimo di quantificazione di distanze e dimensioni…………………………………..…..35
16 - L’aggregato stabile sferico nel potenziale costante…………………………………………....37
17 - L’ammasso galattico nella buca di potenziale………………………………………………....38
18 - La simmetria della buca…………….…………………………………………..…………..….39
19 - La sfera si schiaccia in una corona: la galassia lenticolare………………………………….…41
20 - Polveri e materiali opachi……………………………………………………………………...42
21 - Il piano equatoriale delle galassie nella corona sferica………………………………………..43
22 - “Sombrero” con tese ripiegate………...……………………………………………………….44
23 - La galassia nell’intersezione tra due corone sferiche………………………………………….45
24 - Le galassie “ellittiche”………………………………………..…………………….………….46
25 - Le galassie quadrate………………………..………………………………………….…….…50
26 - La galassia nell’intersezione tra tre corone sferiche…………………………………………..52
27 - Osservazione e ragionamento……………………………………………………………….…52
28 - La forma ed il contenuto (lo stampo e la colata)………………………………………………55
29 - Galassie inscatolate (disky & boxy)……………………………………………………………56
30 - Abbondanza relativa…………………………………………………………………………....58
31 - Le galassie “fusiformi”……………………….………………………………………………..58
32 - Il canale ruota rispetto alla barra……………………………………………………………...60
33 - Barre e cialde che si incurvano………………………………………………………………...63
34 - Oscillazione della barra intera………………………………………………………………....66
35 - Barre controrotanti………………………………………………………………………….…68
36 - Fusi non debordanti ma asimmetrici………………………………………………………….68
37 - Spirali barrate………………………………………………………………………………….69
38 - Velocità di rotazione dei bracci spiraleggianti………………………………………………...71
39 - Galassie a “theta” ed ad anello………………………………………………………………...74
40 - Sommare l’imbuto…………………………………………………………………………...…77
41 - Oscillazione della barra residua………………………………………………………………..78
42 - Scie a “corona di rosario”……………………………………….………………………….….81
43 - Le spirali totali…………………………………………………………………………………82
44 - Bracci bi- e triforcuti…………………………………………………………………………...84
45 - Indistinguibilità di storie diverse………………………………………………………………87
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46 - Spirali diverse………………………………….………………………………………………87
47 - La rotazione del nucleo………………………………….………………………….………….89
48 - Le fluttuazioni di velocità di Vera Rubin……………….……………………………………..90
49 - Le ragioni della rimozione del dato………………………………….……………….………..95
50 - Stelle disperse………………………………………………………….………………….…...96
51 - Altra dinamica per la biforcazione dei bracci………………………….………………….…...97
52 - Il “sombrero” a tese ripiegate ed Andromeda…………………………………………………99
53 - Ammassi galattici e gruppi locali……………………………………………………………..101
Appendice
I fondamenti ed altre derivazioni…………………………………………………………………..103
116