DOMANDA GIUDIZIALE E POTERE AMMINISTRATIVO. L'AZIONE DI CONDANNA AL FACERE (*) Dir. proc. amm., fasc.3, 2013, pag. 617 Leonardo Ferrara Classificazioni: PROCEDIMENTO CIVILE - Domanda giudiziale nuova - - in genere Sommario: 1. Osservazioni introduttive. — 2. Domanda e giurisdizione soggettiva. — 3. L'oggetto del processo. — 4.1. La domanda di condanna (e il diritto di credito): osservazioni preliminari. — 4.2. Il fatto costitutivo dell'interesse legittimo. — 4.3. L'azione di esatto adempimento comunemente intesa. — 4.4. L'azione di condanna all'emanazione del provvedimento discrezionale. — 4.4.1. La condanna rispetto a ogni obbligo determinato (o determinabile) nel contenuto. — 4.4.2. I (gravi) limiti della prospettiva avanzata. — 4.4.3. La condanna a dare/attuare la chance legale. 1. Scopo dell'analisi non è riflettere sul principio della domanda come proposizione del processo per opera esclusiva della parte (1): di là dalla confusione che ancora si fa tra principio della domanda e principio dispositivo (2), è ritenuto, infatti, « pacifico », almeno in termini generali (3), che « solo le parti dispongono dell'azione in giudizio e definiscono l'oggetto della controversia »: tanto nella giurisprudenza amministrativa italiana che in quella comunitaria (4). Ed è questo un principio condiviso anche « dalla maggior parte degli Stati membri » dell'Unione (5). Risulta di maggiore interesse trattare della domanda giudiziale e, insieme a essa, dell'allegazione dei fatti principali (6), perseguendo essenzialmente l'obiettivo di « accrescere i contenuti della decisione di cognizione » del giudice amministrativo italiano, al fine di assicurare la « realizzazione integrale della pretesa, così come configurata sul piano sostanziale », secondo quanto richiesto dal principio della pienezza della tutela sancito anche dall'art. 1 c.p.a. (codice sul processo amministrativo) (7). Preme, dunque, porsi, in un contesto in cui la domanda giudiziale non ha più l'esclusivo « contenuto tipico » (8) di annullamento, alcuni degli interrogativi che Marcello Clarich affrontò in « Giudicato e potere amministrativo » (9): in particolare, la questione relativa alla possibilità di impedire alla p.a. di riesercitare tendenzialmente all'infinito il suo potere di diniego dopo la sentenza di cognizione. In questa prospettiva sarà allora imprescindibile scomporre la domanda nel petitum e nella causa petendi (10), focalizzando l'attenzione sull'azione di condanna al fare (l'azione di adem pimento), specie laddove sussiste un potere discrezionale (pure ampio) della pubblica amministrazione, nonché sul fatto costitutivo della situazione giuridica soggettiva nella specie vantata. Fondamentali si riveleranno le prese di posizione sull'oggetto del processo, sulla regola della preclusione del dedotto e del deducibile e, sommamente, sulla distinzione tra oggetto della cognizione e oggetto del giudicato. Non si è convinti di avere trovato la soluzione all'anzidetto problema, ma interessa mettere almeno in moto una riflessione in proposito: si anticipa che uno dei punti di arrivo (se non il punto di arrivo) del ragionamento svolto consiste nella possibilità di raccogliere le tesi, avanzate in passato (11) e riproposte di recente (12), secondo cui ogni questione insorta successivamente alla sentenza di cognizione (ogni illegittimità contestata, anche quella ritenuta — esattamente o meno, è un profilo che vedremo alla fine — non contrastante con il giudicato, in quanto il provvedimento è stato motivato diversamente) avrebbe dovuto essere sottoposta al giudice dell'ottemperanza. Sia chiaro sin da ora: senza con questo accettare il concetto di giudicato a formazione progressiva, che posticipa pur sempre l'esecuzione (13). E saltando a piè pari quelle soluzioni pragmatiche di matrice giurisprudenziale che postulano un esaurimento della discrezionalità amministrativa a scoppio per così dire ritardato, cioè, dopo il secondo esercizio del potere amministrativo facente seguito a una pronuncia del giudice, tanto definitiva quanto addirittura cautelare (14). Queste soluzioni, pur mosse dal lodevole intento di abbandonare « ogni lettura formalistica che obbligasse il ricorrente vincitore a instaurare sempre nuovi giudizi di cognizione per ottenere l'annullamento dei nuovi atti adottati dall'amministrazione », lettura che « ripugnerebbe » al principio di effettività della tutela (15), sono prive di fondamento teorico (16). Vale la pena di notare che la questione dell'ammissibilità o meno del giudizio di ottemperanza in caso di impugnativa di un atto per ragioni (ritenute, si aggiunge nuovamente) non coperte dal precedente giudicato non è solo di estremo interesse pratico e teorico, ma è anche di attualità, visto che, in specifico riferimento ai giudizi tecnico-valutativi di una commissione di concorso, è stata rimessa all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con ordinanza della Sesta Sezione n. 2024 del 5 aprile 2012 (17). Un presupposto, di carattere generale, della relazione, va ancora chiarito, è costituito dalla convinzione di potersi ricavare dal c.p.a. indicazioni di metodo relative al rapporto tra sostanza e processo, sul pacifico assunto della loro interazione (18). È da ritenersi, infatti, che, più il processo amministrativo di legittimità si struttura sulla falsariga del processo civile (19), più sia indispensabile avere una idea chiara della situazione giuridica soggettiva vantata, cioè dell'interesse legittimo (20). Senza questa chiarezza non si possono utilizzare correttamente concetti o principi come domanda, allegazione dei fatti principali, corrispondenza tra chiesto e pronunciato, graduazione dei motivi, ecc. L'affinamento del processo rende, cioè, urgente la pulizia concettuale sul piano sostanziale. Del resto, un passo in questa direzione lo ha fatto lo stesso c.p.a. nel momento in cui ha disciplinato al capo II del titolo III del libro I le azioni, che, come esattamente rilevato, hanno « natura sostanziale » (21). La necessità di applicare quei concetti e quei principi spinge, in altre parole, a spostare su un piano tecnico le disquisizioni sulla nozione di interesse legittimo, abbandonando i toni discorsivi e le metafore. Finché sussisteva solo una pronuncia di annullamento e nemmeno vi era l'art. 21-octies, secondo comma, l. n. 241/90 era facile esplicitare i fatti costitutivi (essi consistevano nei vizi, in tutti i vizi di legittimità) (22), ma da quando sono possibili altri tipi di pronuncia e i vizi meramente formali non producono annullabilità (23) è diventato essenziale avere una percezione netta e lucida dell'interesse legittimo per averla anche, per quel che qui in particolare preme, dei fatti principali. D'altra parte, e in senso inverso, riflettere su (concetti come) petitum e causa petendi (24) può servire per inquadrare meglio l'interesse legittimo: a questi fini è sufficiente notare che molte definizioni recenti e passate di questa situazione giuridica soggettiva non sono traducibili in fatti costitutivi (25). L'impostazione processualistica può, dunque, servire ad abbandonare le immagini dell'interesse legittimo e a ragionare su di esso per l'appunto come vera e propria situazione giuridica soggettiva (26). E ancora, proseguendo circolarmente alla ricerca di un affinamento concettuale affidato ai rapporti tra sostanza e processo, una più esatta definizione dell'interesse legittimo potrà per esempio contribuire a mettere in discussione gli scollamenti che vi sono intorno all'istituto della legittimazione ad agire tra processo civile e processo amministrativo, dove, come è noto, non è sufficiente l'affermazione della titolarità della situazione giuridica soggettiva (27); oppure a ridimensionare quel ruolo che l'interesse ad agire ha nel processo amministrativo (28) e non ha invece nel processo civile (29). È richiesto, dunque, un cambio di mentalità, che rende altresì indispensabile attrezzarsi concettualmente (30). Concludendo sul punto, è auspicabile che non si ritrovi in futuro negli studi di teoria generale del processo l'affermazione che « il termine ‘domanda giudiziale' ha significato esclusivamente con riferimento al processo civile [considerato che] molto meno se ne parla nel processo amministrativo e tributario » (31): affermazione che, peraltro, conferma la scelta assolutamente felice del tema di questo convegno. Vista la complessità della problematica, la necessità di una rimeditazione o anche di una meditazione di una serie di concetti è il solo risultato certo che si intende e si può conseguire. 2. L'aspetto da considerare in via preliminare concerne il collegamento tra domanda, oggetto del processo e natura della giurisdizione amministrativa. Premesso che il c.p.a. fa molti riferimenti alla domanda e al principio della domanda (32), bisogna in altre parole chiarire se per « domanda » il legislatore intende il veicolo formale dell'affermazione del diritto soggettivo o, comunque, della situazione giuridica soggettiva di vantaggio (ed è questa la domanda in senso proprio, cui corrisponde la giurisdizione in senso soggettivo) (33) oppure la « richiesta del provvedimento che il giudice deve pronunciare in attuazione dell'interesse generale oggettivamente tutelato » (34) (l'« azione meramente processuale, volta a mettere in moto il processo al fine di sindacare il rispetto o meno della volontà della legge » (35)) (36). Ora, se si vanno a leggere alcune recenti Adunanze plenarie del Consiglio di Stato, quali la n. 4 del 2011 o la n. 30 del 2012 (e, in genere, la giurisprudenza di quest'organo) (37), o se si scorrono le principali posizioni dottrinali (38), si rinvengono nette affermazioni a favore del carattere soggettivo della giurisdizione del giudice amministrativo. È questa, insomma, una risposta quasi corale (39). Il che non stupisce affatto, se il processo amministrativo deve essere finalizzato alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive già ai sensi dell'art. 24 della Costituzione (40). Tuttavia, è stato rilevato, una cosa è lo scopo della giurisdizione altro l'oggetto del giudizio (41): tanto da sostenere che « la tutela dei propri diritti e interessi legittimi » di cui alla norma costituzionale (42) non corrisponde al « far valere un diritto » di cui all'art. 99 c.p.c. (disposizione la quale fa del diritto affermato l'oggetto del processo (43)) (44). Ricavare dallo scopo della tutela una ragione sufficiente a favore del carattere soggettivo della giurisdizione significa, però, che della giurisdizione soggettiva si finiscono per assumere due diverse accezioni, una per così dire forte e una debole. Non solo: la separazione dello scopo dall'oggetto del processo comporta che anche della domanda si dia, più o meno consapevolmente, una terza accezione: una domanda con cui non si fa valere una situazione giuridica soggettiva ma si intende pur sempre tutelarla. Non è sempre facile comprendere quali accezioni abbia in mente chi sposa la giurisdizione soggettiva. A scoprire le carte è solo e soltanto (la presa di posizione, ove esistente, sul) l'oggetto del processo. Per i processualcivilisti è fuori discussione che « l'elemento costante dell'esercizio del potere di azione consiste nell'affermazione di una situazione soggettiva sostanziale della quale si invoca la tutela » (45); è pacifico che « parlare di identificazione dell'azione o di oggetto processuale è una variazione meramente nominalistica » (46). Esiste nel processo civile una precisa correlazione tra la giurisdizione soggettiva, la domanda (in senso proprio (47)) e l'oggetto del processo (lo Streitgegenstand), che rende scontato, almeno in termini generali, che quest'ultimo è rappresentato dalla situazione giuridica soggettiva. Non altrettanto avviene nel processo amministrativo: se si escludono alcuni autori (48), manca un'analoga chiarezza. È assente, invero, l'accordo sull'oggetto del processo (49). Come è dimostrato dal fatto che di fronte all'accoglimento dell'anzidetta correlazione si sarebbero prodotte conseguenze a cascata su molti istituti processuali (conseguenze che sono ancora ben lungi dall'essere state adeguatamente sondate) (50): si pensi alla legittimazione a ricorrere e all'interesse al ricorso, di cui già si è fatto cenno; fino ad arrivare alla regola della preclusione del dedotto e del deducibile e all'oggetto del giudicato (o ai limiti oggettivi del giudicato) (51), sui quali, come detto, si vuole in particolare riflettere in questa occasione. Ma il cpa (52) ha finalmente sposato (è un'opinione, s'intende) la giurisdizione soggettiva, la domanda in senso proprio, l'oggetto del processo consistente nella situazione giuridica soggettiva fatta valere; è confermativo del legame esistente tra questi tre termini; identifica, per riprendere quanto osservavamo poc'anzi, scopo della tutela e oggetto della tutela; concepisce « l'agire in giudizio ovvero la domanda [...] in rigida correlazione [...] con una situazione sostanziale dedotta nel processo » (53). In una parola, il c.p.a. dice chiaramente che l'oggetto del giudizio di legittimità (54) è l'interesse legittimo. Si consideri, infatti, l'art. 7: « sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi » (55). È questa la stessa formula dell'art. 2 l. abol. cont. amm. (salvo il fatto che quest'ultima si riferisce, ovviamente, ai — soli — diritti soggettivi). E si tenga pure presente che è stato abrogato l'art. 26 T.U. C.S. È vero che lo stesso art. 7 insiste anche (56) sul concetto di potere (57), dove si aggiunge, poco più avanti, « concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere »: epperò questa precisazione è funzionale all'illustrazione (individuazione) dei diritti soggettivi oggetto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, secondo gli insegnamenti, discutibili, peraltro, della Corte costituzionale (58); tutto al più, a volerla riferire anche agli interessi legittimi, suona come conferma della loro correlazione all'esercizio della potestà amministrativa (59). Ma si prenda anche l'art. 34 comma 1 lett. c: qui si parla di tutela della situazione giuridica soggettiva « dedotta in giudizio ». Senza (ancora) riflettere sul fatto che, ai sensi dell'art. 30 comma 1 cpa, può essere chiesta « contestualmente » all'annullamento una condanna: questa domanda di condanna quantomeno esclude che l'oggetto del giudizio consista nell'atto emanato. L'oggetto del processo, dunque, è l'interesse legittimo. Secondo una tesi da tempo esistente in dottrina (60). Il « quiz insolubile » di cui parlava Mario Nigro (61) è stato finalmente sciolto dalla legge. 3. Si è fin qui sostenuto che la domanda giudiziale di fronte al giudice amministrativo è una domanda in senso proprio e che l'oggetto del processo amministrativo (che solo per semplicità si continua a chiamare) di legittimità è rappresentato dalla situazione giuridica soggettiva vantata, nella specie dall'interesse legittimo. È ora necessario però precisare in che cosa consista questa situazione soggettiva. Se dalla domanda si ricava l'oggetto del giudizio (salvo ricorsi incidentali (62), motivi aggiunti (63), riconvenzionali (64)) (65), riflettere sulla prima, come si è a suo tempo osservato, può contribuire a chiarire i contorni (e la consistenza) dell'interesse legittimo. Prima di scendere in questa analisi, distinguendo il petitum dalla causa petendi, conviene tuttavia insistere in termini generali sull'oggetto del processo amministrativo, per rendere più evidente la soluzione costruttiva qui proposta nel panorama del dibattito dottrinale (66) e per fugare alcuni fraintendimenti che il lessico corrente può ingenerare. È, innanzitutto, scontato che aver sostenuto che l'oggetto del processo è l'interesse legittimo significa tagliar fuori il c.d. giudizio sull'atto. Né le cose cambiano, se si ipotizza un « processo all'atto » anziché « sull'atto » (67). Cambiano ben poco anche ragionando di « legittimità (contestata) dell'esercizio del potere » (68). Incompatibile con la conclusione raggiunta è, inoltre, la tesi del c.d. giudizio sul potere (69). Il potere amministrativo non può essere l'oggetto del processo non fosse altro (70) perché il ricorrente fa valere la propria situazione giuridica soggettiva (71). È stato detto lim pidamente che « se il giudice non deve esaminare un rapporto paritario, ma un potere amministrativo, l'azione finisce per perdere il suo connotato principale di strumento di soddisfazione degli interessi violati e diviene un mero strumento di controllo della legalità dell'esercizio amministrativo » (72). Altra storia è affermare che oggetto del processo è (73) il rapporto: questa affermazione non dovrebbe essere diversa da quella secondo cui l'oggetto è il diritto fatto valere in giudizio, almeno stando alla terminologia utilizzata dalla dottrina processualcivilistica (74). E in questi termini può essere integralmente sposata (75). Il discorso si fa, tuttavia, problematico, quando ci si riferisce al « rapporto amministrativo, come dedotto nella (e quindi nei limiti della) domanda giudiziale » (76). In questo caso, invero interpretabile in svariati modi, diventa decisivo capire se la domanda fa valere o meno una situazione giuridica soggettiva (un interesse legittimo) e di che tipo questa sia. Ci torneremo in seguito. È invece certo che la soluzione che qui si avanza non corrisponde al giudizio sul rapporto, se con questo si intende un giudizio nel quale si perviene alla definitiva attribuzione del bene della vita (anche) nei casi in cui la pubblica amministrazione dispone di potere discrezionale (e non solo vincolato), attraverso il riesercizio difensivo (con atto processuale, cioè, tramite eccezione) dello stesso potere e, insieme, l'applicazione della regola della preclusione del dedotto e del deducibile (77). Qui, infatti, il rapporto è inteso « in senso dinamico » (78), non « in senso statico » (79); e per quanto la tesi possa apparire la più appagante in termini di effettività della tutela (80), essa finisce per portare a oggetto del processo una situazione giuridica soggettiva (il diritto al bene finale) che sul piano sostanziale non esiste (o non esiste ancora) (81): almeno nei casi di cui si sta facendo questione, dove il potere amministrativo ha carattere ampliatorio (82). Lo dimostra il fatto che rispetto al diniego di una concessione di beni pubblici o di un'autorizzazione all'apertura di un negozio di grandi dimensioni non sarebbero allegabili in giudizio tutti gli elementi del fatto costitutivo dante diritto al bene finale. Non lo sarebbero, proprio perché rispetto al diritto al bene finale si interpone l'esercizio del potere discrezionale. Il bene finale spetta, infatti, al ricorrente solo in termini di possibilità: una possibilità che riflette plasticamente le alternative legittime sullo sfondo della scelta amministrativa. Con la conseguenza che, se manca il fatto costitutivo della situazione giuridica soggettiva del ricorrente avente per oggetto il bene finale, non ha senso neppure ragionare di una difesa (tramite eccezione) volta a introdurre fatti impeditivi o estintivi dello stesso fatto costitutivo (83). Non solo. Il riesercizio del potere (la motivazione postuma vera e propria) non corrisponderebbe, come sostenuto, a una eccezione (in senso stretto), ma a una eccezione riconvenzionale, o a una domanda riconvenzionale; esso introdurrebbe un nuovo titolo per negare la concessione (un nuovo titolo del diritto/potere ampliatorio): pertanto, non potrebbe ricorrere nessuna preclusione processuale (84) rispetto alla deduzione di siffatta eccezione (o domanda che sia) (85). 4.1. È il momento di analizzare la domanda e la sentenza di condanna (al fare), ma non solo, e non tanto, quella di esatto adempimento, inteso comunemente come emanazione dell'atto richiesto e dovuto, quanto quella avanzata in presenza di un provvedimento discrezionale illegittimo. Affiancare l'azione di adempimento all'esistenza (e persistenza) del potere discrezionale è, infatti, operazione che non deve più stupire di fronte alle novità del diritto positivo. Mettiamo in fila una serie di dati. L'art. 30, comma 1, c.p.a. ammette nel suo incipit (e, dunque, tipizza) « azioni di condanna necessariamente diverse da quella risarcitoria, con un riferimento ampio, senza qualificazioni restrittive » (86); la disposizione, in particolare, non distingue tra attività vincolata e attività discrezionale; presup pone « un'azione generica di condanna » (87), una « azione a petitum indeterminato » (88). Parimenti, l'art. 34, comma 1, lett. c) c.p.a. « attribuisce al giudice un potere di condanna atipico, quanto al contenuto » (89). Sempre l'art. 34 comma 1 lett. c) e anche lett. e) fonda, come riconosciuto dalla giurisprudenza (90), distinti petita (rispetto all'annullamento), che in raccordo con il principio della domanda, vietano l'assorbimento dei motivi (91). L'art. 44, comma 1, della l. n. 69 del 2009 e l'art. 34, comma 5, c.p.a. si riferiscono a una « pretesa » (92), qualificano in generale l'interesse legittimo come pretesa, ancora una volta senza distinguere tra attività vincolata e attività discrezionale. Sembra basti e avanzi per sottrarre allo spazio delle speculazioni teoriche la condanna all'attività discrezionale e per tentare di delineare in termini giuridicamente compiuti la situazione soggettiva postulata da tale azione per il tramite dell'analisi del suo fatto costitutivo. Non senza però aver prima aggiunto che l'espressione « pretesa » (come tante altre nel diritto amministrativo) tradisce quella « paura della tutela » della quale ha parlato Pajno (93): i civilisti hanno chiarito tutti i limiti di essa (senza nulla togliere al concetto di Anspruch e di pretesa come rivendicazione anche processuale di un diritto); « pretesa » è espressione equivoca o inutile, se intende identificare una determinata categoria di situazioni giuridiche soggettive. Infatti, se la pretesa non è tutelata, non è una situazione giuridica soggettiva, è una mera aspettativa; se invece è tutelata, altro non è che un (diritto di) credito (94). Ma dal codice esce fondamentalmente confermata l'idea che l'interesse legittimo sia strutturalmente un diritto di credito (95), tanto da fargli corrispondere, come detto, l'azione di condanna. È decisivo anche rispetto al potere amministrativo il binomio credito-(azione di) adempimento. Se c'è l'uno (l'una), ci deve essere anche l'altro: il codice, attraverso l'(azione di) adempimento, presuppone che i vincoli posti dalla legge all'agire amministrativo siano obblighi, indipendentemente dall'oggetto dell'obbligo, « indipendentemente dalla distinzione tra obblighi cui corrisponde un bene sostanziale del cittadino ed obblighi procedurali » (96); e gli obblighi, o l'obbligazione (nel nostro caso complessa) (97), presuppongono, a loro volta, un credito. Si è compiuta una evoluzione nell'interpretazione delle norme relative al rapporto tra p.a. e soggetto privato, che reca con sé l'affermazione della nozione di rapporto amministrativo (98), la fine del dovere della p.a. come situazione giuridica soggettiva irrelata (99), il superamento delle norme di azione (100). Un caveat finale. Se davvero non si dovesse riuscire ad ammettere altra azione di adempimento se non quella correlata alla presenza di provvedimenti vincolati, non resterebbe che tornare a mettere in discussione l'unitarietà dell'interesse legittimo (più esattamente, la sua comprensività), riconoscendo (101) che a fronte degli stessi provvedimenti vincolati sussiste in tutto e per tutto (formalmente e non solo strutturalmente) un diritto soggettivo (102). 4.2. Prima di procedere nell'analisi dell'azione di condan na vi è ancora un aspetto da chiarire: qual è il suo titolo; qual è la causa petendi; qual è il fatto costitutivo dell'interesse legittimo. È evidente che, se l'interesse legittimo ha struttura di diritto di credito e il petitum giudiziale non è (solo) quello di annullamento, la causa petendi non può ridursi al (tradizionale) vizio di legittimità. Ma, per quando già detto, dovrebbe essere parimenti evidente che il fatto costitutivo dell'interesse legittimo in presenza di attività (integralmente) vincolata e il fatto costitutivo dell'interesse legittimo ove vi è potere discrezionale non possono che coincidere (nei loro termini astratti, s'intende): il fatto costitutivo deve dar vita sempre a qualcosa che spetta (non si può essere garantiti e tutelati in qualcosa che non spetta, per definizione). Il fatto costitutivo dell'interesse legittimo deve ricavarsi, pertanto, dalle regole (103) sostanziali che vincolano l'azione amministrativa; con terminologia della tradizione disciplinare, dalle norme sostanziali disciplinanti la componente doverosa della potestà (nulla hanno invece a che fare con il fatto costitutivo le regole procedimentali, dal momento che esse attribuiscono piuttosto delle facoltà (104), le quali integrano la situazione soggettiva sul versante dinamico). Del resto, non è mancata anche in passato dottrina che ha ritenuto definitori dell'interesse legittimo soltanto gli elementi (105)rigidi del rapporto amministrativo ricavabili dalle norme sostanziali (106). Se non è e non può essere il fatto costitutivo a cambiare (laddove l'interesse legittimo sia unitariamente considerato, come si è detto doversi fare, un diritto a struttura creditizia), è invece l'oggetto della situazione giuridica che cambia, a seconda che il provvedimento sia vincolato oppure discrezionale. Questo oggetto consisterà nell'applicazione delle regole anzidette, e quindi nell'attribuzione del cosiddetto bene della vita, nel primo caso; nell'attuazione della chance risultante dalla legge, e quindi nello scioglimento del soggetto privato dall'incertezza in cui la stessa legge lo ha lasciato (107), nel secondo caso. Dove è chiaro che la spettanza di questa chance si reggerà sul fatto costitutivo nascente dalle regole sostanziali che vincolano l'azione amministrativa; mentre l'attuazione dipenderà, oltre che dal riconoscimento del fatto costitutivo, dalla corretta applicazione delle norme sostanziali, elastiche ed essenzialmente di principio, che disciplinano l'esercizio del potere discrezionale. Quanto, infine, al vizio di legittimità, esso, nella prospettiva dell'azione di condanna, non rileverà quale fatto costitutivo del diritto all'annullamento del provvedimento amministrativo ma integrerà l'inadempimento, precisamente, l'inesatto adempimento. 4.3. Qualche rapida osservazione sull'azione di esatto adempimento comunemente intesa, precisando che per esigenze di semplicità e di conseguenziale schematismo si farà fondamentalmente riferimento all'ipotesi in cui è in giuoco un'attività integralmente/originariamente/astrattamente vincolata (e non anche, dunque, un'attività che ha visto esaurirsi in un secondo tempo i suoi margini di discrezionalità (108) o che astrattamente discrezionale risulti in concreto e da subito vincolata (109)). Si è fatto un gran parlare di tale azione in ragione della sua ammissibilità o meno nel sistema codicistico: il decreto legislativo 14 settembre 2012, n. 160 (il secondo correttivo del c.p.a.) ha chiuso la discussione (questa discussione) (110). Tuttavia, pur riconoscendo si sia di fronte a « un progresso importante nella nostra giustizia amministrativa » (111), è lecito dubitare che l'innovazione legislativa rappresenti il punto di arrivo del processo evolutivo in corso, e soprattutto sia del tutto soddisfacente dal punto di vista della tutela giurisdizionale del soggetto privato. Essa rappresenta senz'altro il raggiungimento del livello di effettività della tutela conosciuto in Germania attraverso la Verpflichtungsklage (112), ma, considerato che il principio dell'effettività vuole che il processo assicuri « la massima strumentalità dei propri risultati rispetto al diritto sostanziale » (113), è da domandarsi se la piena soddisfazione della situazione soggettiva dell'attore, laddove l'attività della p.a. è vincolata, non vada piuttosto rinvenuta (114) in una sentenza di accertamento costitutivo o in una sentenza cognitiva con effetti esecutivi sulla falsariga di quella di cui all'art. 2932 c.c. (115). Non si vuole, però, tornare qui su argomenti (teorici e di diritto positivo) recenti (116) e meno recenti (117) avanzati a favore di tale soluzione, a cominciare da quello secondo cui un'azione strutturalmente affine, come quella avverso il silenzio-inadempimento (118), si prestava anche letteralmente a essere inquadrata come azione di accertamento costitutivo: stando almeno alla disciplina introdotta dalla l. n. 80 del 2005 (119), che ammetteva che il giudice amministrativo conoscesse della « fondatezza dell'istanza » (anziché, come adesso, della « pretesa ») (120). Si vuole invece far soltanto notare come anche nella prospettiva dell'azione di adempimento non possa prescindersi dall'accoglimento della regola della preclusione del dedotto e del deducibile, escludendo, dunque, che la p.a. dopo la sentenza possa negare l'atto richiesto adducendo ragioni diverse da quelle contenute nel primo diniego (121). Ragionare diversamente significherebbe contraddire il concetto di condanna. In aggiunta si ricorderà che l'art. 42 del testo provvisorio del codice statuiva che « le parti allegano in giudizio tutti gli elementi utili ai fini dell'accertamento della fondatezza della pretesa » (122). « Tutti gli elementi » significa (123) tutte le componenti fattuali integranti il fatto costitutivo, compresi quegli aspetti che la pubblica amministrazione non ha disconosciuto nel diniego di atto ampliatorio. Questi elementi, se non contestati (124), cadranno sotto la preclusione come quelli contestati (125) ma provati esistenti (più esattamente la preclusione cade sul fatto costitutivo non sui singoli elementi o fatti storici) (126). 4.4. Si può adesso affrontare dal punto di vista dell'azione di condanna il problema centrale della giustizia amministrativa, rappresentato dalla tutela giurisdizionale della situazione giuridica soggettiva di colui che si è visto illegittimamente negare un atto amministrativo ampliatorio di carattere discrezionale. Preliminarmente si deve dar conto di una prospettiva che si sta affacciando nel panorama dottrinale o che almeno mostra le premesse perché vi si affacci: una prospettiva che raccoglie alcuni elementi di novità contenuti nel codice, quali la possibilità di un dispositivo di condanna in correlazione all'esercizio discrezionale del potere amministrativo, ma che si presta a serie obiezioni che rivelano al fondo la sua incongruenza. Successivamente si traccerà il quadro ricostruttivo, che appare, oltre che più satisfattivo in termini di tutela, maggiormente coerente con quanto si è venuti sin qui osservando. 4.4.1. Cominciamo dal primo scenario. Non si racconta nulla di nuovo, ricordando che finché è esistito solo il potere giurisdizionale di annullamento del provvedimento amministrativo negativo, l'interesse legittimo ha avuto una tutela non conforme alla pretesa del suo titolare (a una pretesa, quale che sia, o che fosse, il suo contenuto); alla fin fine l'interesse legittimo non era una situazione giuridica soggettiva di carattere sostanziale. Le cose sono cominciate a cambiare, come tutti sanno, con il riconoscimento del cosiddetto effetto conformativo. Il codice sul processo amministrativo consente, però, di fare un altro passo avanti, poiché l'effetto conformativo, nel momento in cui l'annullamento può essere accompagnato dalla condanna (ai sensi dell'art. 30, comma 1, come detto), può tradursi in qualcosa che trascende la pur importante invenzione della dottrina e della giurisprudenza amministrativa: il contenuto ordinatorio, positivo, dell'effetto conformativo (127) può, cioè, prendere la veste della condanna (128), rientrando a pieno titolo in un concetto appartenente alla teoria generale del processo. Per quanto l'art. 113, comma 1 (in tema di competenza del giudice dell'ottemperanza) conservi un margine di ambiguità nella misura in cui si riferisce a un « contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo grado », sulla base dell'art 34, comma 1, deve ritenersi che questo contenuto conformativo, per un verso, possa risultare dal dispositivo della sentenza (129), eliminando una non secondaria differenza tra processo amministrativo e processo civile in punto di efficacia vincolante della sentenza (130); per altro verso, non sia più « nella disponibilità del giudice » (131) ma debba corrispondere alla condanna richiesta (cosicché, come detto, non possa neppure praticarsi l'assorbimento (132)) (133). Decisivi al riguardo sono il limite della domanda (ricordiamo l'inciso iniziale dell'art. 34: « nei limiti della domanda ») e l'atipicità delle statuizioni previste alla lettera c (rileva a questi fini la condanna « all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio ») (134). Se, pertanto, l'effetto conformativo poteva prodursi in presenza di provvedimenti discrezionali, oltre che vincolati, altrettanto concepibile si direbbe ora la condanna all'adempimento di tutti gli obblighi determinati (quali il riconoscimento degli elementi integranti il fatto costitutivo, come precedentemente illustrato) o determinabili (quali il rispetto dei principi violati, nei termini preclusivi, si faccia la massima attenzione, risultanti dall'accertamento della loro violazione (135)), che gravano sull'esercizio del potere discrezionale (136). Del resto, se è (espressamente e tipicamente (137)) ammessa la condanna ad adempiere all'obbligo di concludere il procedimento amministrativo entro il termine previsto (ex art. 2 l. 241/1990), non è ragionevolmente possibile escludere una condanna ad attuare ogni altro vincolo di legge, se non riesumando l'argomento che siffatti vincoli, diversamente da quello temporale (138), rappresentino per la pubblica amministrazione dei doveri, e non, appunto, degli obblighi. Al prezzo, naturalmente, di disconoscere che l'interesse legittimo sia una situazione giuridica sostanziale, « parifica[ta] totalmente » al diritto soggettivo (139), tutelata direttamente e non come riflesso dell'interesse pubblico (140). Un prezzo che non esiste. 4.4.2. Lo scenario appena prospettato, tuttavia, come anticipato, non convince appieno. Assecondando tale scenario è, infatti, evidente che, di fronte all'emanazione di un provvedimento amministrativo che (adempia alla condanna di cui si è discorso ma) si presenti viziato da una nuova e diversa illegittimità (in quanto relativa al rinnovato esercizio del potere discrezionale), non vi è altra strada processuale che quella di un secondo ricorso in sede di legittimità (secondo il noto schema del doppio binario (141)). Epperò, se è necessario ricorrere nuovamente al giudice della cognizione (senza potersi rivolgere a quello dell'ottemperanza), deve invero riconoscersi che si sta facendo valere un nuovo interesse legittimo (o, almeno, un interesse legittimo con un differente titolo): ché, se non fosse nuovo, la sentenza (emanata al termine del processo di cognizione) lo avrebbe dovuto soddisfare necessariamente (per definizione) (142). Stando così le cose, l'unica nozione coerente di interesse legittimo sembra essere quella del diritto potestativo all'annullamento, riesercitabile di fronte al nuovo esercizio del potere discrezionale (143): una nozione che è smentita da tutto il movimento dottrinale verso l'affermazione dell'interesse legittimo come situazione giuridica di natura sostanziale e che rinnega la possibilità stessa di una sentenza di condanna, ma che ha una logicità interna che viceversa non si verifica in uno scenario in cui l'interesse legittimo dà diritto a un effetto ordinatorio (o conformativo) oppure financo, come detto, a una condanna sulla parte dell'applicazione di legge che è stato possibile accertare dal giudice in riferimento al potere già speso. Di questo interesse legittimo, infatti, non si riesce fino in fondo a trovare un oggetto credibile, e un bene soddisfatto, tanto che si può essere costretti a tornare dal giudice della cognizione. Sovviene pertanto anche il dubbio che nell'anzidetta prospettiva l'oggetto del processo non sia affatto la situazione giuridica soggettiva (l'interesse legittimo), ma sia piuttosto il rapporto nella sua accezione volgarizzata (e purtroppo molto diffusa nella dottrina amministrativistica), dove per rapporto si intende in realtà una serie di pezzi del rapporto, una parte del rapporto (e non, appunto, la situazione giuridica soggettiva, come si è visto essere secondo la dottrina processualcivilistica (144)) (145). Più onesta, dunque, sarebbe la tesi secondo cui oggetto del processo è il potere amministrativo (quello esercitato) (146): tesi che in tutta probabilità corrisponde al diritto vivente, ma che contraddice la giurisdizione soggettiva, la domanda in senso proprio, l'oggetto del processo consistente nella situazione giuridica soggettiva fatta valere e il legame tra essi esistente. Non resta allora che provare con un ragionamento diverso: forse vi è qualcosa che è sempre sfuggito all'attenzione. 4.4.3. A base del ragionamento può porsi l'assunto che, se l'oggetto del processo amministrativo, come a suo tempo si è sostenuto (147), è rappresentato dalla situazione giuridica soggettiva fatta valere dall'attore tramite la domanda giudiziale, la stessa situazione giuridica soggettiva è anche l'oggetto del giudicato. Una volta che si sia accettato che l'interesse legittimo costituisce l'oggetto del processo, si deve, cioè, inevitabilmente accettare anche che la cosa giudicata sostanziale (di cui all'art. 2909 c.c.) « si forma sull'accertamento del diritto fatto valere in giudizio » (148): il che, appunto, vuole dire che si forma sull'accertamento dell'interesse legittimo vantato dal ricorrente. Ma questo a sua volta significa che il giudicato (altro è il discorso per la preclusione del dedotto e del deducibile (149)) non concerne i fatti: « l'accertamento dei fatti costitutivi, im peditivi, modificativi ed estintivi [è stato sostenuto in modo netto] non sarà mai coperto da autorità di cosa giudicata e sarà sempre effettuato incidenter tantum ai soli fini della statuizione sul diritto fatto valere in giudizio dall'attore » (150). Oggetto della cognizione (« ogni elemento da cui può dipendere l'esistenza » della situazione soggettiva (151)) e oggetto del giudicato, dunque, non coincidono. Lo schema proposto già dovrebbe far riflettere sul convincimento che l'effetto preclusivo e quello conformativo della sentenza di annullamento abbiano a che vedere con il giudicato (152); e quantomeno ne rende un po' semplicistica la vulgata. Naturalmente, ove si tenga fermo che il processo innanzi al giudice amministrativo sia inquadrabile nella giurisdizione soggettiva: diverso sarebbe, per l'appunto, se l'oggetto del processo fosse l'atto oppure il potere (153). Qui però preme cogliere le ripercussioni del ragionamento rispetto al petitum di condanna. In questa prospettiva, ripetuto che il giudicato amministrativo si appunta sull'interesse legittimo e sulla sua lesione, così come quello civile sul diritto di credito insoddisfatto, sembra doversi aggiungere che, nella stessa maniera in cui quest'ultimo (il giudicato civile) non copre né le ragioni e i modi dell'inadempimento (quello verificatosi e a maggior ragione quello che potrebbe continuare a verificarsi in futuro) (154) né le modalità dell'adempimento (ché all'individuazione di queste provvede il giudice dell'esecuzione) (155), parimenti nel giudizio amministrativo (156) non si deve immaginare la necessità di una condanna e di un giudicato sui modi di riesercizio del potere (i quali corrispondono alle modalità dell'adempimento) (157). Se così non fosse, non vi sarebbe via d'uscita dalla conclusione che « accertamento giudiziale e discrezionalità amministrativa sembrano essere necessariamente confliggenti » (158). Appare invece sufficiente (e coerente con il quadro concettuale sin qui prospettato) l'accertamento dell'interesse legittimo fatto valere in giudizio (esistente se esistente il fatto costitutivo: sul quale opera, anche in questo caso (159), la preclusione del dedotto e del deducibile, senza che la circostanza possa dar luogo a sorprese, le quali sarebbero solo figlie di una vetusta sensibilità che stride con l'idea che la p.a. possa perdere il proprio potere di accertamento in relazione al nucleo normativo vincolato che sorregge l'esercizio della discreziona lità (160)) e, di conseguenza, la condanna ad adempiere (161): che è quanto dire, la condanna all'esercizio legittimo del potere, a dare o ad attuare la chance legale, a sciogliere il soggetto privato dalla situazione di incertezza in cui la legge lo ha lasciato. Basta anche, volendo utilizzare altre e note definizioni dottrinali dell'interesse legittimo, la condanna a soddisfare « l'interesse al provvedimento favorevole » (162), o ad appagare « il diritto soggettivo alla legittimità dell'atto » (163). Basta, insomma, la condanna a dare « ciò che spetta [che in questo caso] non è in realtà altro che un nuovo, corretto esercizio della discrezionalità amministrativa », cioè, ancora la chance (164). Ne consegue che l'attuazione del (l'ottemperanza al) giudicato o, molto più correttamente, l'esecuzione amministrativa della condanna (165) è data dallo scioglimento per opera della p.a. delle alternative normative in punto di soddisfazione dell'interesse materiale, con la conseguente realizzazione di una certezza in ordine alla possibilità o meno di tale soddisfazione (166); e che, di converso, l'emanazione di un atto illegittimo mantiene uno stato di incertezza, rappresenta un perdurante inadempimento (167), determina quell'inottemperanza, che apre le porte al giudizio di esecuzione nelle forme del giudizio di ottemperanza di cui agli artt. 112 ss. c.p.a. (168). Sarà poi il giudice dell'ottemperanza a stabilire in questo secondo caso le modalità di esecuzione (i modi di esercizio del potere amministrativo); così come fa il giudice civile nell'esecuzione relativa a obbligazioni di fare/non fare o nell'espro priazione forzata (169). Senza voler tornare sulle ragioni che fanno escludere ogni violazione del principio della separazione dei poteri nella sostituzione del giudice dell'esecuzione nell'esercizio amministrativo del potere discrezionale (intangibile e riservato rispetto, viceversa, al giudice della cognizione) (170), è sufficiente ricordare che anche nel processo civile la condanna lascia margini di libertà al debitore (come trovare il denaro con cui adempiere a una obbligazione pecuniaria, per esempio), annullati dall'esecuzione forzata. Oltremodo significativa, del resto, è l'abrogazione (171) delle disposizioni (gli artt. 45 t.u. n. 1054 del 1924 e 26 l. n. 1034 del 1971), che facevano salvi gli ulteriori atti dell'autorità amministrativa, nonché dell'art. 88 r.d n. 642 del 1907, secondo cui « l'esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa ». Naturalmente, la soddisfazione dell'interesse legittimo, avendo per oggetto la chance legale, e non il c.d. bene della vita (172), prescinde dall'ottenimento di quest'ultimo bene (restando l'appagamento dell'interesse materiale solo una possibilità) e, dunque, dal modo in cui il potere è esercitato dal giudice o dal suo ausiliario (il commissario ad acta di cui all'art. 21 c.p.a.) (173). Nello scenario qui prospettato, questo è il punto, ogni nuovo atto illegittimo è emanato in (costituisce una) violazione o elusione del giudicato, in quanto non soddisfa l'interesse legittimo, non adempie all'obbligazione di fàcere, a cui la p.a. è stata condannata. Violazione ed elusione del giudicato, pertanto, sono espressioni che vanno rispettivamente ricondotte agli inequivoci concetti di inadempimento e inesatto adempimento (174); alla totale o parziale non esecuzione della condanna (più che del giudicato). Si è già osservato che dover tornare dal giudice della cognizione di fronte a una nuova illegittimità significa smentire la soddisfazione dell'interesse legittimo (in violazione della garanzia giurisdizionale di cui all'art. 24 Cost.), a meno di non voler sostenere che al riesercizio del potere amministrativo si correli un nuovo interesse legittimo (o un interesse legittimo con un diverso titolo) (175): sennonché l'interesse alla chance e alla certezza sul bene finale è uno solo; uno solo è il suo fatto costitutivo e uno solo il suo oggetto (176). Uno solo, pertanto, deve anche essere il processo di cognizione. Una volta abbandonata la prospettiva esclusiva della tutela costitutiva (nella declinazione che conduce alla parcellizzazione, peraltro inevitabile (177), dell'interesse legittimo di fronte al concreto episodio di vita (178)) e affiancata a quest'ultima la tutela di condanna, si realizza (si può realizzare) quell'effettività della tutela dell'interesse legittimo pretensivo lungamente ma vanamente rincorsa. Se « la giustizia amministrativa deve necessariamente assicurare tutto ciò che spetta al cittadino in base al diritto » (179), non è concepibile lasciare la pubblica amministrazione, dopo il processo di cognizione, arbitra di decidere cosa spetta e cosa non spetta allo stesso cittadino. Una volta riconosciuto a quest'ultimo il diritto alla chance (poiché è stato irrevocabilmente accertato, secondo la legge, il fatto costitutivo della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo dal medesimo vantata), è la pubblica amministrazione che può e al tempo stesso deve emanare il provvedimento amministrativo, che costituisce la prestazione attraverso la quale quella chance si concretizza per mezzo dell'esercizio del potere discrezionale: ma se questa prestazione non viene eseguita, perché si persiste nell'illegittima attuazione della possibilità normativa garantita dalla legge, è ragionevole (e costituzionalmente necessitato) che si apra il processo di esecuzione. Si obietterà che « a una condanna, per definizione, non sopravvive alcuna posizione di potere giuridico » (180): tutta via, premesso che applicare la legge da parte della p.a., di per sé e in linea generale, è adempimento (e non esercizio di potere, seppure concretamente indisgiungibile all'origine dall'esercizio del potere) (181), dopo la condanna di cui si è venuti discorrendo rileva, e dunque sussiste, solo l'obbligo sottoposto a coercizione, perché l'esercizio del potere permane esclusivamente come strumento di attuazione di quell'obbligo. In altre parole, esiste ancora il potere dal punto di vista della produzione degli effetti, ma dopo la condanna non è più lo stesso potere originale: in questo senso non è più potere, se per tale propriamente si intende potere riservato alla p.a. (esattamente come di fronte al pignoramento non esiste più la libertà del debitore inadempiente (182)) (183). Si obietterà anche che, assecondando lo scenario prospet tato, si finisce per attribuire al giudice dell'ottemperanza un ambito di sostituzione nelle valutazioni discrezionali all'origine riservate alla p.a. molto ampio: sennonché, non è certamente minore quello che il giudice amministrativo ha all'interno del rito speciale di cui all'art. 117 c.p.a., previsto per il caso di ricorso avverso il silenzio (dove cognizione ed esecuzione sono concentrati di fronte allo stesso collegio giudicante). Anzi, per questa via si realizza la tendenziale convergenza tra tale rito e il giudizio di ottemperanza, ridimensionando una distanza tra i due modelli di tutela non facilmente giustificabile. Del resto, una riprova della somiglianza in punto di potere sostitutivo esercitabile dal giudice è data dalla previsione, ex art. 117 comma 4, secondo cui nella tutela contro l'inerzia della p.a. « il giudice conosce di tutte le questioni relative all'esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario ». Questa disposizione, sconosciuta nel contesto previgente di cui all'art. 2 della l. n. 205 del 2000, dimostra chiaramente che il commissario è un ausiliario del giudice, così come lo è laddove la sua nomina provenga dal giudice dell'ottemperanza (184). In ogni caso, anche senza voler insistere sulle ragioni dell'anzidetto parallelismo (e pure ritenendo di doverlo disconoscere), resta il fatto che nel giudizio di ottemperanza, stando al diritto vivente, meglio, alla sua corrente rappresentazione, è possibile la sostituzione giudiziale (185) nell'esercizio del potere discrezionale: non può, dunque, essere la quantità di questa sostituzione a cambiare l'istituto o a far dubitare della sua giustificazione. In fondo, la pubblica amministrazione (186) ha la possibilità di adempiere, se vuole evitare la sostituzione giudiziale; e può anche impedire si apra il processo di ottemperanza (187), malgrado il suo adempimento (perché disconosciuto dal soggetto privato), emanando un nuovo atto amministrativo durante la fase del giudizio di cognizione (188), se non addirittura riesercitando il potere nello stesso giudizio tramite un'eccezione o una domanda riconvenzionale (189). Ma se il giudizio di ottemperanza che qui si immagina non convince, allora è l'istituto in generale a dover essere ripensato. Meglio un sistema che si affidi alle sole misure coercitive indirette (ora peraltro introdotte dal cpa, che le sottopone sempre al principio della domanda (190)): tanto il giudizio di ottemperanza rischia, in concreto, di essere una farsa, grazie a quegli ordini ripetuti di ottemperare (191), che procrastinano all'infinito l'esecuzione (192). Abstract: Lo scritto si propone di impostare i rapporti tra cognizione ed esecuzione nel processo amministrativo di legittimità in modo da garantire (sempre) la soddisfazione della situazione giuridica soggettiva al termine della prima fase e da consentire l'accesso al giudizio di ottemperanza di fronte a qualsivoglia nuovo e successivo esercizio del potere discrezionale da parte della pubblica amministrazione. L'avvio della riflessione è rappresentato dal significato assunto dalla domanda giudiziale in un processo in cui al consueto rimedio dell'annullamento si è affiancato quello della condanna al fare. I passaggi del ragionamento vertono sulla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, sull'identificazione dell'oggetto del processo nell'interesse legittimo, sul fatto costitutivo di tale situazione soggettiva, sulla spendibilità dell'azione di condanna laddove la p.a. gode di potere discrezionale, sull'applicazione della regola della preclusione del dedotto e del deducibile in termini affatto diversi da quelli consegnatici dalla tradizione amministrativistica, sulla distinzione tra oggetto della cognizione e oggetto del giudicato. Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin: 10px 10px;"> Note: (*) Il testo riproduce con modifiche e aggiornamenti la relazione presentata al Convegno A.I.P.D.A. su Principio della domanda e poteri d'ufficio del giudice amministrativo, Trento, 5-6 ottobre 2012. (1) Né sui suoi corollari, quali il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e quello della graduazione delle domande. Circa il rapporto tra principio della domanda e principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato eloquente C. Consolo, Domanda giudiziale, in Dig. disc. civ., VII, Torino, 1991, 57. In giurisprudenza, in ordine a quest'ultimo principio, tra molte altre, Cons. Stato, Sez. V, 27 maggio 2011, n. 3091; T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 11 luglio 2008, n. 1367; Cons. Stato, Sez. IV, 22 ottobre 2004, n. 6959.Più complessa la questione della graduazione dei motivi: v., di recente, A. Romano Tassone, Sulla disponibilità dell'ordine di esame dei motivi di ricorso, in questa Rivista, 2012, 803 ss. In giurisprudenza v. Cons. Stato, Sez. III, 22 agosto 2012, n. 4592, secondo cui ricorre un « orientamento giurisprudenziale assolutamente pacifico secondo il quale, nel quadro del principio generale della domanda, la graduazione delle domande in via principale o subordinata costituisce espressione dell'ampiezza dell'esercizio dell'azione che va riconosciuta anche nel processo amministrativo, in armonia con il principio di livello costituzionale di pienezza dei mezzi di tutela, sicché sussiste l'obbligo del giudice di esaminare i motivi di ricorso in base all'ordine che la parte ha stabilito in relazione al grado decrescente di soddisfazione del proprio interesse al bene della vita perseguito nel caso concreto (cfr., ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 21 e 26 novembre 2008, n. 5841, ivi citata, nonché Sez. V, 1 aprile 2009, n. 2070) »; v. anche Cons. Stato, Sez. V, 11 gennaio 2012, n. 82 e Cons. Stato, Sez. V, 5 settembre 2006, n. 5108. (2) Malgrado quanto affermava E.T. Liebman, Fondamento del principio dispositivo, ora in Problemi del processo civile, Napoli, 1962, 4, si continua ad assimilare, almeno a proposito del processo amministrativo e nella giurisprudenza amministrativa (v., rispettivamente, a titolo di esempio, A. Lugo, Il potere dispositivo e l'onere della parte nel processo amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 1068-1069 e T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 29 agosto 2012, n. 2194), ma anche in quella comunitaria (per tutte, Corte giust. CE, Sez. II, 12 ottobre 2004, n. 106), principio della domanda e principio dispositivo (in senso processuale), dimenticandosi che quest'ultimo « regola [...] la raccolta degli elementi di cognizione, su cui dovrà essere fondato il giudizio », concerne cioè la trattazione e l'istruzione della causa, mentre il principio della domanda « disciplina invece l'esercizio stesso della funzione giurisdizionale, in quanto subordina questo alla domanda dell'interessato » (così E.T. Liebman, Intorno ai rapporti tra azione ed eccezione, ora in Problemi, cit., 74). Sui termini della questione resta fondamentale T. Carnacini, Tutela giurisdizionale e tecnica del processo, in Studi in onore di Enrico Redenti, II, Milano, 1950, 695 ss.; v., comunque, N. Trocker, Processo civile e Costituzione, Milano, 1974, 373 ss.; B. Cavallone, Principio dispositivo, fatti secondari e fatti « rilevabili ex officio », ora in Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, 99 ss.; F. Tommaseo,I processi a contenuto oggettivo, in Studi in onore di Enrico Allorio, I, Milano, 1989, 92-93, nota 33); v. anche G. Verde, Dispositivo (principio), in Enc. giur., XI, Roma, 1989, 1 ss. Non andrebbe neppure dimenticato che il principio della domanda viene disgiunto anche dal principio dispositivo in senso sostanziale, per essere ritenuto piuttosto espressione del principio di imparzialità del giudice (v. E.T. Liebman, Fondamento, cit., 11 ss.; G. Verde, Domanda (principio della), in Enc. giur., XII, Roma, 1989, 1 ss.; C. Consolo, Domanda, cit., 57 ss.; R. Briani, L'istruzione probatoria nel processo amministrativo. Una lettura alla luce dell'art. 111 della Costituzione, in corso di stampa, passim). Distingue il principio della domanda « da quello — egualmente generale, ma di ampiezza minore — della normale correlazione tra diritto sostanziale dedotto in giudizio e titolarità del diritto di azione » (il secondo dei quali « rinviene la sua ratio nella autonomia privata ») A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale, Napoli, 2002, 192 ss. Per la critica della distinzione tra processo amministrativo e processo ordinario alla luce del principio dispositivo, per tutti, L. Perfetti, Prova (diritto processuale amministrativo), in Enc. dir., Annali, II, tomo 1, Milano, 2008, 917 ss. (3) Vedi, peraltro, quanto si osserverà più avanti. (4) V., a titolo di esempio, per la prima, T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. I, n. 1367/2008 cit.; per la seconda, Corte giust. CE, Sez. II, 8 dicembre 2011, n. 272; C. giust. CE, Sez. I, 4 ottobre 2007, n. 429; Corte giust. CE, 14 dicembre 1995, cause riunite C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel e Van Veen.In dottrina, M. Nigro, Domanda (principio della), Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., XII, Roma, 1989, 1; F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2011, 155; G. Verde, Domanda, cit., 2; S. Menchini, Osservazioni critiche sul c.d. onere di allegazione dei fatti giuridici nel processo civile, in Studi in onore di E. Fazzalari, III, Milano, 1993, 32. (5) Le citazioni di cui al testo sono tratte da Corte giust. CE, 14 dicembre 1995, C-430/93 e C-431/93 cit. (6) Si consideri che il c.d. onere di allegazione dei fatti principali presenta connessioni, oltre che con il principio della domanda, con quello della trattazione. In proposito S. Menchini, Osservazioni critiche, cit., 23 ss., dove si dimostra che il « vincolo del giudice agli alligata partium [non è] espressione del principio dispositivo in senso stretto, [o] la proiezione ineliminabile nel processo del carattere disponibile dei diritti sostanziali privati [ma] piuttosto, manifestazione (eventuale) di scelte riconducibili alla tecnica del procedimento ».Sull'allegazione v., inoltre, L.P. Comoglio, Allegazione, in Dig. disc. priv., Sez. civ., I, Torino, 1987, 272 ss.; B. Cavallone, Principio dispositivo, cit., 107 ss.; D. Buoncristiani, L'allegazione dei fatti nel processo civile. Profili sistematici, Torino, 2001; A. Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Commentario del Codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, II, 1, Torino, 1980, 128 ss.; C. Consolo, Domanda, cit., 70 ss.L'attenzione che sarà prestata all'allegazione dei fatti principali si lega alla circostanza che, secondo quanto assodato dalla dottrina processualcivilistica, vi sono fatti che « attengono non all'identificazione, ma alla fondatezza della domanda »: così A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 132; similmente, C. Consolo, Domanda, cit., 73; A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 194 (« i fatti — la allegazione al giudizio dei fatti su istanza di parte — sono coperti dal principio della domanda solo se indispensabili per l'individuazione del diritto fatto valere »).Rileva che « se è vero che non sempre la specificazione dei fatti costitutivi è essenziale per individuare l'oggetto del processo, ossia il diritto dedotto in giudizio, è pur vero, però, che la variazione di tali fatti implica immancabilmente, a seconda dei casi, una modificazione o quanto meno una precisazione della domanda » G. Balena, Elementi di diritto processuale civile, I, Bari, 2006, 77. (7) Si tratta dell'obiettivo inseguito recentemente anche da M. Lipari, L'effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in federalismi.it, 8 e 23, per le citazioni di cui al testo. Diffusa è, del resto, l'insoddisfazione per i limiti della tutela degli interessi legittimi pretensivi insiti nell'effetto conformativo della sentenza di annullamento: per tutti, E. Follieri, Atto autoritativo e giurisdizione. Poteri di trasformazione e poteri di conservazione, in A.I.P.D.A., Annuario 2011, Napoli, 2012, 77 ss. (8) Come si diceva una volta: A. Lugo, Il potere dispositivo, cit., 1069.Già diverso tempo fa V. Domenichelli, Le azioni nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2006, 16, osservava che « siamo lontani ormai anni luce dall'unicità del petitum ».Si sono espressi, in particolare, a favore del principio di atipicità delle azioni, L. Torchia, Le nuove pronunce nel Codice del processo amministrativo, in Aa.Vv., La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali, Atti del LVI Convegno di studi di scienza dell'amministrazione, Varenna - Villa Monastero, 23-25 settembre 2010, Milano, 2011, 337 ss.; M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2005, 557 ss.; Id., Le azioni, in Giorn. dir. amm., 2010, 1121 ss. Avendo, tuttavia, il c.p.a. tipizzato numerose azioni, sembra oggi possibile ricorrere a tale principio solo in via residuale (in particolare, a proposito dell'azione di mero accertamento o di quella di accertamento costitutivo, come si dirà più avanti). Sull'attuale dibattito tra fautori del principio di tipicità e di quello di atipicità v. E. Scotti, Tra tipicità e atipicità delle azioni nel processo amministrativo (a proposito di ad. plen. 15/11), in Dir. amm., 2011, 767 ss. (9) Del quale non a caso sono debitore del titolo della relazione: v. M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989. (10) I quali, insieme ai soggetti, costituiscono tradizionalmente (sulle orme di G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Roma, 1935, 321 ss.), « i termini essenziali di raffronto tra ciò che le parti chiedono e ciò su cui il giudice può e deve provvedere » (così G. Verde, Domanda, cit., 5; sugli elementi di identificazione della domanda v. anche A. Proto Pisani, Dell'esercizio dell'azione, in Commentario del Codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 1059 ss.). La necessità di scomporre la domanda è esaltata dal codice sul processo amministrativo, nel momento in cui, come è stato esattamente notato, classifica le azioni « con preponderante (se non esclusivo) riferimento al petitum », mentre nella disciplina delle sentenze di merito (art. 34) mette al centro la causa petendi, cioè la situazione giuridica soggettiva affermata dalla parte, in rapporto alla lesione lamentata (comma 1 lett. c: tutela della « situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio »; comma 5: soddisfazione della « pretesa del ricorrente »): così M. Lipari, L'effettività, cit., 27-28, il quale aggiunge che « l'attenzione rivolta verso la situazione giuridica posta alla base della pretesa rafforza la convinzione secondo cui la decisione di accoglimento contiene, prima ancora della componente costitutiva-demolitoria e della parte conformativa, la necessaria premessa logica dell'accertamento della situazione giuridica, della lesione e dei fatti che definiscono i presupposti sostanziali della richiesta formulata dall'attore », con la conseguenza che, « anche prescindendo dalla assenza di nuove azioni nominate, il codice manifesta un fermento innovativo marcatissimo nella previsione accurata dei poteri esercitabili dal giudice nel caso di accoglimento della domanda ». (11) F. Francario, Inerzia ed ottemperanza al giudicato: spunti per una riflessione sull'atto di ottemperanza, in Foro amm., 1985, 746 ss. In giurisprudenza, ha sostenuto che « l'illegittimità dell'atto di esecuzione [...] è di per se stessa una inottemperanza al giudicato » T.A.R. Lazio, Sez. II, 3 giugno 1981, n. 483, in Foro amm., I, 1981, 1749 ss., con nota adesiva di G. Abbamonte (Giudizio di legittimità e sindacato di legittimità sugli atti successivi al giudicato). (12) A. Travi, Il nuovo processo amministrativo nella giurisprudenza: prime riflessioni sul nuovo codice, relazione al Convegno Il nuovo processo amministrativo, tenutosi a Bergamo, presso l'Accademia della Guardia di finanza, il 23 maggio 2011.Pur ritenendo di non « arrivare alla ipotesi, forse estrema, che tutta l'attività successiva al giudicato sia da far rientrare nell'ottemperanza », rivela insoddisfazione per le incertezze in cui il soggetto interessato è lasciato dalla giurisprudenza amministrativa sul « se debba agire con lo strumento ordinario ovvero con il giudizio di ottemperanza » S.S. Scoca, Violazione ed elusione del giudicato: differenza anodina o utile?, in www.giustamm.it. (13) V. in proposito, per tutte, C.g.a.r.s., 29 ottobre 1994, n. 406. Per indicazioni dottrinali sia consentito rinviare a L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo esecutivo, La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003, 47 ss. (14) Cons. Stato, Sez. V, 6 febbraio 1999, n. 134, in Foro it., 1999, III, 166 ss., con annotazione di A. Travi; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 7 febbraio 2002, n. 842, in Urb. app., 2002, 955, con commento di G. De Giorgi Cezzi, Sull'inesauribilità del potere amministrativo; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428 (la c.d. sentenza Simeoli, pluricommentata, che ha riconosciuto in via interpretativa l'esperibilità dell'azione di esatto adempimento). (15) Così Cons. Stato, Sez. IV, 4 marzo 2011, n. 1415, in Foro amm. - C.d.S., 2011, 846 ss. (16) Già A. Travi,L'esecuzione della sentenza, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo generale, II, Milano, 2000, 3542, aveva notato che esse sono « il frutto di un compromesso » ispirato da « considerazioni pratiche di ordine equitativo ». (17) In proposito A. Cerretto, Il giudizio di ottemperanza nella sua evoluzione, in www.giustamm.it.Devo però ridimensionare l'attesa per la decisione: infatti, secondo l'ordinanza, la quale, tra l'altro, avalla le anzidette soluzioni, secondo cui un provvedimento negativo potrebbe essere reiterato « una volta sola », « il Codice del processo amministrativo sembra [sì] mostrare un favor per la concentrazione nel giudizio di ottemperanza di tutte le questioni che sorgono dopo un giudicato, in relazione alla sua esecuzione », aggiungendosi tuttavia che « tale favor non pare possa essere considerato spinto sino al punto di comunque affermare che qualsivoglia provvedimento adottato dopo un giudicato, e in conseguenza di esso, ma in contrasto con la soddisfazione del ricorrente vittorioso, debba essere portato davanti al (solo) giudice dell'ottemperanza »: in definitiva a essere rimessa all'Adunanza plenaria è soltanto la questione se, nell'ipotesi « di reiterazione di un'attività vincolata, o di un'attività valutativa frutto di discrezionalità tecnica » (concorsi, gare, esami, si esemplifica), non si debba « ritenere che nel caso di giudicato di annullamento per vizi sostanziali, il rinnovo del procedimento, con la commissione di ulteriori vizi sostanziali, dia luogo a violazione o elusione del giudicato ogni qualvolta i nuovi vizi derivano da una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come necessitanti di una nuova valutazione ».Mentre si licenziava il testo scritto è intervenuta Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013 n. 2, la quale arriva (ma anche si limita) a ritenere « annoverabile nell'ambito delle controversie devolute alla cognizione del giudice dell'ottemperanza » la frustrazione della pretesa del ricorrente avvenuta « mediante l'utilizzo di un corredo motivazionale nuovo, che tenda [...] a confermare il precedente risultato mediante l'utilizzo di un percorso logico differente da quello in precedenza utilizzato ». (18) Non intendo, però, soffermarmi direttamente sulla relazione tra diritto (tra situazione giuridica soggettiva) e azione, seppure tenderei a cogliere nel c.p.a., come è stato sostenuto (I. Pagni, L'azione di adempimento nel processo amministrativo, in www.giustamm.it; A. Pajno, Il codice del processo amministrativo ed il superamento del sistema di giustizia amministrativa. Una introduzione al libro I, in questa Rivista, 2011, 105; A. Carbone, Azione di adempimento, disponibilità della situazione giuridica e onere della prova, in Foro amm. - Tar, 2011, 2959 ss.), il rovesciamento dell'impostazione crispina con il riconoscimento della sequenza situazione giuridica soggettiva — azioni — poteri del giudice. Rileva che il codice del processo amministrativo « con una inversione di tendenza, addirittura con una rottura rispetto alla impostazione adottata dal legislatore fin dal 1865 e dal 1889, cerca ora di delineare le tutele giurisdizionali adattandole alle situazioni tutelate aprioristicamente considerate, e non viceversa » A. Romano, Nota bio-bibliografica, in L'« ultimo » Santi Romano, Milano, 2013, 843 ss.Sostiene, al contrario, che si stia perpetuando l'« inversione logica » tra diritto e azione, cosicché il collegamento andrebbe piuttosto fatto « tra azione e sfera giuridica lesa », F. Patroni Griffi, Riflessioni sul tema delle tutele nel processo amministrativo riformato, in www.giustiziaamministrativa.it.L'interazione di cui al testo non è, invece, in contrasto con l'affermazione che il c.p.a. « va nel senso di una definitiva separazione tra disciplina sostanziale e disciplina processuale »: così A. Pajno, Il codice del processo amministrativo tra « cambio di paradigma » e paura della tutela, in E. Catelani - A. Fioritto - A. Massera (a cura di), La riforma del processo amministrativo. La fine dell'ingiustizia amministrativa?, Napoli, 2011, 82; Id., Il codice del processo amministrativo ed il superamento, cit., 105 e 109. (19) Rileva S. Baccarini, « Scelta » delle azioni e valutazione della « necessità » dell'annullamento per la tutela del ricorrente, in questa Rivista, 2011, 1261, che « il processo amministrativo è stato finalmente aggiornato alla cultura del processo ». (20) Quest'esigenza di chiarimento è stata sottolineata anche da S.R. Masera, La supremazia della legge ed il valore del diritto nel giudizio amministrativo, in E. García de Enterría, Le trasformazioni della giustizia amministrativa, Milano, 2010, XVII, alla stregua del cambio di paradigma sostenuto dal maestro spagnolo. Rileva una « impressione di poca chiarezza della nozione di interesse legittimo che sta alla base [...] di molte delle decisioni che, negli ultimi anni, si sono via via succedute sul tema della tutela risarcitoria dei danni derivanti dalla lesione » degli stessi interessi A. De Chiara, Danno derivante da lesione di interesse legittimo e situazioni giuridiche soggettive, in G. Clemente di San Luca, La tutela delle situazioni soggettive nel diritto italiano, europeo e comparato, I, Napoli, 2011, 123. (21) E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 184; A. Pajno, Il codice del processo amministrativo ed il superamento, cit., 106; nota S. Baccarini, « Scelta » delle azioni, cit., 1261, che « con la disciplina delle azioni, che non ha posto nel codice di procedura civile, è stato modificato in realtà il contenuto delle situazioni soggettive ». (22) Salvo il problema se a ogni vizio dedotto corrisponda una domanda distinta oppure il diritto all'annullamento sia unico ancorché fondato su titoli diversi: in proposito, tra altri, nel processo civile, A. Proto Pisani, Appunti sulla tutela c.d. costitutiva (e sulle tecniche di produzione degli effetti sostanziali), in Riv. dir. proc., 1991, 60 ss.; Id., Lezioni, cit., 70 ss.; C. Ferri, Costitutiva (azione), in Enc. giur., X, Roma, 1988, 4 ss.; Id., Profili dell'accertamento costitutivo, Padova, 1970, 71 ss.; A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 40 ss. e 146 ss.; C. Consolo, Domanda, cit., 79-86; G.F. Ricci, Principi di diritto processuale generale, Torino, 2010, 270; G. Verde, Domanda, cit., 6; M. Fornaciari, Situazioni potestative, tutela costitutiva, giudicato, Torino, 1999, 247 ss.; in quello amministrativo, M. Clarich, Giudicato, cit., 124 ss. e 137 ss.; M. Nigro, Domanda, cit., 2-3; M. D'Orsogna-F. Figorilli, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 294; M.P. Chiti, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, Milano, 2007, 176; A. Romano Tassone, Sulla disponibilità, cit., 811 ss. (23) In proposito, M. D'Orsogna-F. Figorilli, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 296; M.P. Chiti, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, cit., 175-176. (24) Nella consapevolezza che « il problema dell'identificazione dell'azione costituisce uno degli argomenti più delicati [dello stesso] processo civile e dà luogo a soluzioni sulle quali i dissensi sono ancora aperti »: G.F. Ricci, Principi, cit., 120; v. in proposito anche A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 8 ss., il quale in particolare ricorda che « la c. petendi è, indubbiamente, il più complesso e controverso dei tre elementi identificatori », nonché C. Consolo, Domanda, cit., 65. (25) Basta pensare, tra i contributi recenti, a chi ancora ragiona di una « doppia anima » dell'interesse legittimo di protezione dell'interesse sia privato che pubblico (P.L. Portaluri, Le « macchine pigre » e un codice ben temperato, in www.giustamm.it); o a chi lo configura a metà tra il diritto soggettivo e il dovere di solidarietà (M. Magri, La rilevanza del formante sociale: l'interesse legittimo come "essere tra" (diritto e dovere), in G. Arena - F. Cortese (a cura di), Per governare insieme: il federalismo come metodo. Verso nuove forme della democrazia, Padova, 2011, 41 ss.). Ma anche chi afferma, non senza ragione, che « l'interesse legittimo è una mera superfetazione, non assolvendo ad alcuna funzione pratica, né sul versante del riparto di giurisdizione, né su quello del diritto sostanziale », finisce per lasciar sguarnita di ogni possibilità di inquadramento a fini processuali la situazione giuridica soggettiva tutelata dal giudice amministrativo, nell'ambito di una giurisdizione di cui pur si riconosce il carattere soggettivo, nella misura in cui rinuncia a ogni indagine in positivo sulla struttura di tale situazione soggettiva (così M. Mazzamuto, A cosa serve l'interesse legittimo?, in questa Rivista, 2012, 46 ss.). (26) Di più, o ancor prima: tale impostazione, ove fosse accolta dal giudice amministrativo, potrebbe spingerlo a non operare « partendo dalla ricognizione delle norme dettate per disciplinare il potere pubblico » e a muovere « invece dal diritto ricavandone per differenza la dimensione del potere »: A. Pioggia, Il giudice e la funzione. Il sindacato del giudice ordinario sul potere privato dell'amministrazione, in Dir. pubbl., 2004, 233. (27) Dal momento che in esso « l'esito non è determinato dalla titolarità della posizione giuridica sostanziale, sebbene dalla illegittimità del provvedimento impugnato » (a differenza del processo civile, dove « il riconoscimento della titolarità del diritto coincide con la verifica della fondatezza della domanda »): R. Villata, Legittimazione processuale, II) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990, 2. V. in proposito e in senso critico C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Rimini, 2012, 143 ss.Ricorda esattamente M. Protto, Ordine di esame del ricorso principale e incidentale in materia di appalti pubblici: la parola al giudice comunitario, in www.giustizia-amministrativa.it, che il controllo della legittimazione al ricorso ha carattere pregiudiziale rispetto all'esame del merito della domanda, in coerenza con i principi della giurisdizione soggettiva e dell'impulso di parte. (28) Un ruolo, questo, che appare storicamente riconducibile al « distacco del giudizio di legittimità da qualsiasi rapporto sostanziale », tanto da fare di quell'interesse « l'unico elemento rilevante per poter giudicare della possibilità del ricorrente di impugnare un determinato atto »: così G.F. Ricci, Principi, cit., 135-136, il quale ricorda che « la giurisprudenza ha sempre ritenuto inammissibile il ricorso contro l'atto amministrativo illegittimo, quando questo è favorevole all'istante », rilevando criticamente che l'impugnazione può viceversa rivelarsi funzionale alla rimozione di uno « stato di incertezza ». Se si assume che la certezza rientri nell'oggetto dell'interesse legittimo (sul punto torneremo ampiamente), non può nemmeno sostenersi che in caso di « provvedimento favorevole ma illegittimo non c'è lesione dell'interesse legittimo » (A. Zito, in F.G. Scoca — a cura di —, Giustizia amministrativa, cit., 81). Ché se poi la illegittimità è meramente formale non c'è lesione perché l'interesse legittimo è soddisfatto (affermazione oggi facilmente desumibile dall'art. 21-octies, secondo comma, ma alla quale perveniva già R. Villata, Nuove riflessioni sull'oggetto del processo amministrativo, in Studi in onore di Antonio Amorth, I, Milano, 1982, 716, nt. 34). (29) Si pensi soltanto all'insegnamento dottrinario processualcivilistico, stando al quale nell'azione costitutiva l'interesse ad agire è in re ipsa: vedine le ragioni in L. Perfetti, Diritto di azione ed interesse ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2004, 167 ss., cui si rinvia anche per ogni indicazione dottrinale. (30) Uno sguardo ai commenti agli art. 40 e 44 c.p.a. dimostra come regni ancora molta incertezza, per esempio sul significato da dare all'espressione « oggetto della domanda ».Si veda, per tutti, R. De Nictolis (a cura di), Codice del processo amministrativo commentato, Assago, 2012, 759 ss., dove l'oggetto della domanda ex art. 40 lett. b) c.p.a. corrisponde al tempo stesso al petitum (condanna, risarcimento, accertamento, ecc.); all'atto di diffida ad adempiere o alla prova dell'istanza avanzata all'amministrazione, nel ricorso contro il silenzio inadempimento; agli elementi costitutivi della pretesa risarcitoria.Non manca neppure chi sembra sottovalutare l'importanza dell'anzidetta espressione, sostenendo che l'art. 40 c.p.a. contiene una disciplina « sostanzialmente identica » a quella del regolamento di procedura del 1907 (C.E. Gallo, Manuale di giustizia amministrativa, Torino, 2010, 127; similmente J. D'Auria, in R. Garofoli G. Ferrari (a cura di), Codice del processo amministrativo, 2012, 707): andrebbe considerato che « l'indicazione dell'oggetto della domanda » postula che oggi possano essere chiesti al giudice provvedimenti diversi dall'annullamento dell'atto amministrativo, insieme a questo o al posto di questo (così esattamente M. D'Orsogna-F. Figorilli, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 292). (31) G.F. Ricci, Principi, cit., 119. (32) Tra questi riferimenti (che vanno ad affiancarsi a quelli, ben noti, di cui agli artt. 99 c.p.c., 2907 c.c., 24 Cost.) spiccano quelli contenuti nell'art. 34 (« nei limiti della domanda »), nell'art. 31, comma 4, e nell'art. 32, ma è significativo, in generale, seppur non soltanto, il titolo III del libro I; il principio della domanda, inoltre, è già implicito nell'art. 1, sotto le vesti del principio di effettività della tutela (v. M. Ramajoli, Principio della domanda e poteri d'ufficio del giudice, relazione al Convegno Annullamento dell'aggiudicazione e patologie del contratto, svoltosi a Firenze il 13 aprile 2012: « nella domanda che fa la parte si esprime un bisogno di tutela al quale il giudice deve dare una risposta adeguata »). Rileva L. Torchia, Le nuove pronunce, cit., che « il Codice ribadisce, innanzitutto, la fondamentale regola secondo la quale il giudice deve decidere sempre nei limiti della domanda », aggiungendo che « il principio della domanda non è stato codificato in quanto tale, come accadeva nell'articolo 3 della bozza di Codice predisposta dalla Commissione, che lo inseriva nella più generale affermazione dell'obbligo di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ma assume comunque una valenza più ampia di un semplice strumento di delimitazione del thema decidendum in ragione delle disposizioni dell'articolo 32 », dal momento che « queste disposizioni, infatti, non solo consentono il cumulo di domande connesse nello stesso giudizio, ma impongono al giudice di qualificare l'azione proposta « in base ai suoi elementi sostanziali » e gli consentono di disporre la conversione delle azioni (comma 2) ». (33) Per tutti, F. Tommaseo, I processi, cit., 92. (34) F. Tommaseo, I processi, cit., 94. (35) G.F. Ricci, Principi, cit., 13. Distingue tra domanda in senso ampio e domanda in senso stretto anche C. Consolo, Domanda giudiziale, cit., 48 e 61. (36) È alla domanda come azione meramente processuale che alcuni autori fanno corrispondere la giurisdizione oggettiva (o i processi a contenuto oggettivo): così chiaramente G.F. Ricci, Principi, cit., 131-132, che vede attagliarsi al tradizionale processo amministrativo di annullamento il concetto di azione meramente processuale nella considerazione del suo « distacco [...] dalla situazione sostanziale », cogliendo altresì in questa impostazione la ragione di quella distanza della dottrina amministrativistica dal dibattito processualcivilistico sulla domanda giudiziale della quale innanzi si diceva. Tuttavia, si sostiene pure che i processi a contenuto oggettivo « sono processi senza domanda e ciò ha tutta una serie di implicazioni che contrastano con il nostro sistema processuale » (il rilievo è di R. Villata, Riflessioni in tema di partecipazione al procedimento e legittimazione processuale, in questa Rivista, 1992, 202).Osserva C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Torino, 2012, 207, che i « cd. processi a contenuto oggettivo [...] non vertono su diritti soggettivi o status, bensì [...] sull'accertamento del dovere decisorio del giudice e di un certo suo contenuto » e che « in questi procedimenti non opera con rigore il principio della domanda e all'iniziativa di parte è riconosciuto il solo ruolo di atto di promozione della sequenza procedimentale », aggiungendo che « questa poi si sviluppa secondo cadenze proprie, svincolata dal rispetto del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e caratterizzata dal riconoscimento di rilevanti poteri ufficiosi al giudice in materia probatoria ». Alla categoria sono stati ricondotti, a titolo esemplificativo, il procedimento per la dichiarazione di fallimento, quello d'interdizione e di inabilitazione, il rito in materia elettorale, il procedimento per la dichiarazione d'assenza o di morte presunta, il giudizio di scioglimento delle comunioni, il giudizio civile di querela di falso e quello dichiarativo della nullità del matrimonio. Per l'inquadramento del concetto e l'individuazione delle ipotesi v. E. Allorio, L'ordinamento giuridico nel prisma dell'accertamento giudiziale, in Problemi del diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.; A. Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ., 1987, I, 483 ss.; F. Tommaseo, I processi, cit. (37) V., tra molte altre, Cons. Stato, Sez. V, 27 maggio 2011, n. 3091.Adde ora Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2, cit., secondo cui « la risposta del giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come soddisfazione di una specifica pretesa ». (38) In dottrina, a favore del giudizio amministrativo come giurisdizione di diritto soggettivo o come « processo di parti », tra i tanti, P. Stella Richter, Dopo il codice del processo amministrativo, in questa Rivista, 2012, 876; G. Rossi, Giudice e processo amministrativo, ivi, 1211; F. Salvia, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, cit., 88-89; E. Ferrari, Commento all'art. 26 della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, in A. Romano (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 1992, 717-718. Sostiene che il ricorso avanti le giurisdizioni amministrative « è una vera e propria citazione » S. Costa, Domanda giudiziale, in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960, 169; ma si vedano anche S. Baccarini, Piccolo mondo antico: la teoria del « processo da ricorso », in questa Rivista, 2007, 1138 ss. e M.P. Chiti, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, cit., 171-172. Sul (significato del)la contrapposizione tra ricorso e citazione v. comunque F. Benvenuti, Processo amministrativo. a) Ragioni e struttura, in Enc. dir., XXXVI, Milano, 1987, 460 ss.; nonché M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1976, 273. In proposito, di recente, J. D'Auria, in R. Garofoli - G. Ferrari (a cura di), Codice, cit., 701 ss.Traccia la distinzione tra la giurisdizione soggettiva e quella oggettiva, in particolare, F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 154. (39) Va, infatti, sinteticamente ricordato che non bastano l'esistenza di un qualche potere officioso e/o il perseguimento di un interesse generale per riconoscersi le caratteristiche della giurisdizione oggettiva (per tutti, F. Tommaseo, I processi, cit., 100): altrimenti rientrerebbe in tale giurisdizione anche la dichiarazione civilistica di nullità del contratto (allorquando la nullità stessa sia stata rilevata dal giudice) e si dimenticherebbe che « l'esercizio dello ius excipiendi lascia immutati i limiti oggettivi del giudicato » — altra cosa è il thema decidendum o l'oggetto della cognizione (v. C. Consolo, Domanda, cit., 78) — per cui l'indicazione del fatto impeditivo, modificativo o estintivo, oggetto di eccezioni improprie o in senso lato, « non presenta alcun collegamento con il principio della domanda » (S. Menchini, Osservazioni critiche, cit., 32-33); si trascurerebbe « il normale operare dei fatti giuridici ipso iure senza la necessaria intermediazione dell'esercizio di un potere riservato alla parte », cui fa seguito la « regola generale » della rilevabilità d'ufficio dei fatti allegati (la quale rende eccezionali le ipotesi in cui si è di fronte a una eccezione in senso stretto: A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 194-195; sulla nozione di eccezione v., di recente, A. Motto, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 203 ss.; C. Cavallini, Eccezione rilevabile d'ufficio e struttura del processo, Napoli, 2003). Si pretermetterebbe altresì che « rilevare d'ufficio sta per indicare d'ufficio alle parti »: come già riteneva il Consiglio di Stato nell'Adunanza plenaria n. 1 del 2000; vedi ora l'art. 73, comma 3, c.p.a. Per tali ragioni non risulta costituire una “parentesi di giurisdizione oggettiva”, come si legge in C.g.a.r.s., 27 luglio 2012, n. 721, la rilevabilità d'ufficio della nullità del provvedimento amministrativo ex art. 31, comma 4, c.p.a.: nota in modo condivisibile N. Paolantonio, Gli interessi generali nel (e del) processo amministrativo. O del processo amministrativo tra contenuto soggettivo ed oggettivo (osservazioni sparse), relazione al Seminario di studi Il processo amministrativo tra giurisdizione soggettiva e giurisdizione oggettiva, Firenze, 15 maggio 2013, che « la previsione di tale potere officioso non desterebbe problemi se non fosse che ad esso non si affianca [...] la regola della imprescrittibilità dell'azione, invece soggetta a decadenza ».Certamente esistono disposizioni e istituti particolari o controversi (la dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a.; le sanzioni alternative ex art. 123 c.p.a.; l'art. 21-bis della l. n. 287 del 1990, che riconosce all'Autorità garante della concorrenza e del mercato la legittimazione ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato), ma l'azione e la delimitazione dell'oggetto del giudizio sono rimesse in linea generale all'iniziativa delle parti: e se è così, non può pensarsi che sia demandata « alla libera scelta del privato l'ambito, l'ampiezza e, prima ancora, la stessa eventualità della cura dell'interesse pubblico alla legittimità dell'azione amministrativa » (così R. Briani, L'istruzione probatoria, cit.). Senza dire che proprio il fatto che in alcuni casi agisca un'autorità amministrativa assumendo vesti similari a quelle del pubblico ministero (contraria, in riferimento alla legittimazione dell'AGCM, è l'opinione espressa da T.A.R. Lazio, Sez. III-ter, 15 marzo 2013, n. 2720) o che in altri casi agisca il giudice d'ufficio (ipotesi, peraltro, non assimilabili, perché nel primo caso il principio della domanda, inteso in senso formale, è « rispettato » — e con esso è fatta salva l'imparzialità del giudice —: A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 193) rafforza l'idea che quando il processo si regge sulla domanda della parte esso ha natura soggettiva; nondimeno, i casi di iniziativa ufficiosa in deroga al principio della domanda sono « eccezionali » e come tali, per dirla con G. Verde, Domanda, cit., 2 e 3 (di « indubbia eccezionalità ed estraneità al principio costituzionalizzato all'art. 24 » ragiona C. Consolo, Domanda, cit., 56 e 58), « finiscono indirettamente con il confermare la validità del principio in esame ». Rileva C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi, cit., 66 ss., che « proprio perché non esiste un modello generale oggettivo di tutela degli interessi diffusi, il legislatore eccezionalmente (in ipotesi tassative riferite a materie particolarmente delicate) ha affidato la legittimazione ad agire a soggetti pubblici: resta fermo, per converso, che l'emersione di interessi privati, ancorché sovraindividuali, richiede la predisposizione di meccanismi di tutela attivabili — appunto — da soggetti privati ». (40) Così F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 154; ma possono citarsi molti altri autori: da G. Abbamonte, Il ritiro dell'atto impugnato nel corso del processo e la determinazione dell'oggetto del giudizio innanzi al Consiglio di Stato, in Studi in onore di Antonino Papaldo, Milano, 1975, 305, a S. Piraino, L'azione nel processo amministrativo, Milano, 1981, 136 ss., 184 ss. e passim, sino a A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia « non amministrativa », Milano, 2005, 43 ss. Anche R. Villata, Nuove riflessioni, cit., 712-713, pur rilevando che « il distacco dell'oggetto del giudizio dal provvedimento impugnato e dal problema della sua legittimità o meno non appare [...] un portato necessario di prescrizioni costituzionali nella loro intrinseca normatività », ritrova « nelle disposizioni costituzionali la fonte di un raccordo necessario tra oggetto della tutela giurisdizionale e interessi legittimi » in funzione dell'obiettivo del loro soddisfacimento. (41) R. Villata, Nuove riflessioni, cit., 714 nt. 24. (42) Così come « la tutela giurisdizionale dei diritti » di cui all'art. 2907 c.c. (43) Sul punto v. infra. (44) Così come viceversa sostiene, tra altri, A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 127. (45) C. Ferri, Costitutiva, cit., 3; v., peraltro, per la distinzione tra oggetto di giudizio processuale e oggetto di giudizio di merito, C. Consolo, Domanda, cit., 52 ss. (46) Sono parole di A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 32. (47) La domanda quale veicolo formale dell'affermazione della situazione giuridica soggettiva. (48) V., per esempio, F. Cangelli, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 220; nonché A. Carbone, L'azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012, 70, il quale osserva che « una volta chiarito che l'interesse legittimo è situazione giuridica sostanziale e che quella amministrativa è una giurisdizione di carattere soggettivo, la questione dell'oggetto del processo amministrativo dovrebbe essere analizzata in termini non dissimili da quanto avviene nel processo civile ». (49) V. al prossimo §. (50) Del resto, è ormai assodato « il valore pratico del problema della domanda giudiziale e dell'oggetto del processo » (C. Consolo, Domanda, cit., 60). (51) « Fra oggetto del processo e oggetto del giudicato sussiste infatti una correlazione strettissima »: A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 59. (52) Non mi soffermo su altre disposizioni, come l'art. 21-octies, secondo comma, l. n. 241/1990, che pure si muovono « verso un tipo di processo pienamente ed esclusivamente di carattere soggettivo », nella misura in cui tutelano « l'interesse effettivo del ricorrente, e soltanto quello »: così F.G. Scoca, Attualità dell'interesse legittimo?, in questa Rivista, 2011, 406. (53) A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 127-128, il quale, peraltro, ritiene che il principio della domanda sia da intendere anche come il riflesso del potere di disporre in senso sostanziale della situazione giuridica soggettiva: qui però si cela un problema ulteriore, che in questa sede non si intende affrontare (può solo ricordarsi la rilevanza assunta rispetto al principio della domanda dalla terzietà del giudice, di cui all'art. 111 Cost.: supra nota 2 per riferimenti dottrinali). (54) La denominazione « giudizio di legittimità », peraltro, è ormai superata e andrebbe abbandonata. (55) Il corsivo è mio. La frase prosegue, mettendo sullo stesso piano, dal punto di vista dell'oggetto del processo, interessi legittimi e diritti soggettivi: « e, nelle particolare materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi ». (56) Così S. Giacchetti, La rivoluzione silenziosa del Codice di procedura amministrativa recita un requiem per l'interesse legittimo, in questa Rivista, 2011, 355. (57) Fuori da ogni considerazione sull'assimilabilità tra diritto soggettivo e potere in termini di situazioni giuridiche. (58) Inaugurati dalla sentenza n. 204 del 6 luglio 2004. Per osservazioni e riferimenti dottrinali si rinvia a L. Ferrara, L'interesse legittimo alla riprova della responsabilità patrimoniale, in Dir. pubbl., 2010, 670 ss. (59) In proposito, A. Zito, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 76-77. V. anche L. Mazzarolli, Ancora qualche riflessione in tema di interesse legittimo, dopo l'emanazione del codice del processo amministrativo (a margine di un pluridecennale, ma non esaurito, profittevole dialogo con Alberto Romano), in questa Rivista, 2011, 1210, secondo cui « l'ambito nel quale un interesse legittimo può essere presente è il medesimo in cui è presente il potere pubblico dell'amministrazione ». (60) Tra tutti, A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, I, Milano, 1962, 124 ss. (61) Ricordato anche da L. Mazzarolli, Il processo amministrativo come processo di parti e l'oggetto del giudizio, in questa Rivista 1997, 15. (62) In proposito, tra altri, G. Tropea, Il ricorso incidentale nel processo amministrativo, Napoli, 2007; A. Romano Tassone, Il ricorso incidentale e gli strumenti di difesa nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2009, 581 ss.; R. Villata, Riflessioni in tema di ricorso incidentale nel giudizio amministrativo di primo grado (con particolare riguardo alle impugnative delle gare contrattuali), in questa Rivista, 2009, 291 ss.; W. Catallozzi, Ricorso incidentale, I) Giudizio amministrativo, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991. (63) Su cui, tra altri, V. Caianiello, Motivi aggiunti (nel giudizio amministrativo), in Enc. giur., XX, Roma, 1990; F. Figorilli, L'istituto dei motivi aggiunti alla luce delle modifiche introdotte dalla 205/2000, in G. Falcon (a cura di), La tutela dell'interesse al provvedimento, Trento, 2001, 83 ss.; C. Mignone, I motivi aggiunti nel processo amministrativo, Padova, 1984; S. Castro, Il ricorso per motivi aggiunti nel processo amministrativo, Milano, 2011. (64) Su cui, di recente, C. Bertolini, Spunti di riflessione in tema di riconvenzione nel processo amministrativo, in E. Catelani - A. Fioritto - A. Massera (a cura di), La riforma, cit., 191 ss. V. anche A. Di Giovanni, La domanda riconvenzionale nel processo amministrativo, Padova, 2004; S. Evangelista, Riconvenzionale (domanda), in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991. (65) Sulla simmetria tra contenuto della domanda e della sentenza si veda, anche in chiave critica, C. Consolo, Domanda, cit., 56 ss.; per ulteriori riferimenti dottrinali si rinvia a A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 81 nt. 38. (66) Più che convincere sulla bontà di tale soluzione, interessa far chiarezza sulle alternative in campo, per poter meglio illustrare le possibili ricadute dell'impostazione prescelta. (67) R. Politi, Atipicità delle azioni e chirurgia giurisprudenziale dell'azione di annullamento: la « sovrascrittura del programma », in Foro amm. - Tar, 2012, 1073, il quale, peraltro, sembra interpretare erroneamente il pensiero di F. Caringella, Architettura e tutela dell'interesse legittimo dopo il codice del processo amministrativo: verso il futuro!, in www.giustizia-amministrativa.it, che comunque ritiene che il giudizio amministrativo « assurge a giudizio sul rapporto » soltanto « ove non vi osti il residuare di sacche di discrezionalità amministrativa o tecnica ». L'espressione « giudizio all'atto » non è certamente nuova: per tutti, L. Mazzarolli, Il processo amministrativo, cit. (68) V. Cerulli Irelli, Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni, in E. Catelani - A. Fioritto - A. Massera (a cura di), La riforma, cit., 21. (69) Per tutti, F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 161: « L'oggetto del giudizio amministrativo è il potere amministrativo (inteso come situazione giuridica soggettiva), o, più esattamente, la legittimità degli atti (e dei comportamenti) che ne costituiscono esercizio, in funzione della tutela dell'interesse legittimo ». (70) Mi prometto di tornare ampiamente su questa tesi in una prossima occasione, proseguendo un dialogo del quale il prof. Scoca fa alla Scuola fiorentina graditissimo onore. (71) Alla « tutela dei propri diritti e interessi legittimi » si riferisce lo stesso art. 24 Cost. Rileva A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 180, che « oggetto del [...] processo e, quindi, dell'accertamento con autorità di cosa giudicata, è il diritto o rapporto giuridico su cui incide l'atto di esercizio del potere sostanziale, e non già la situazione giuridica di potere ». Afferma L. Perfetti, Prova, cit., 933, che « le parti nel processo amministrativo agiscono a protezione delle loro posizioni soggettive di diritto sostanziale, e di queste (e solo di queste) richiedono tutela piena ed effettiva in giudizio ». (72) V. Domenichelli, Il giudizio amministrativo, in L. Mazzarolli - G. Pericu - A. Romano - F.A. Roversi Monaco - F.G. Scoca, Diritto amministrativo, II, Bologna, 544. (73) Sempre, e non soltanto laddove l'attività della pubblica amministrazione è vincolata (supra nota 67). (74) Ex multis, A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 66; C. Consolo, Domanda, cit., 57 e 67. Ricorda che si tratta dello « stesso lessico utilizzato dall'art. 2908 c.c. » R. Cavallo Perin, La tutela cautelare nel processo avanti al giudice amministrativo, in Aa.Vv., Studi in onore di Alberto Romano, II, Napoli, 2011, 1117. Chiarisce che « oggetto dell'accertamento dovrà considerarsi la Normsituazion, vale a dire la regola (o regole) di qualificazione dei comportamenti delle parti secondo l'ordinamento e, di riflesso, la Rechtsklage, vale a dire le reciproche posizioni delle parti » B. Sassani, Impugnativa dell'atto e disciplina del rapporto, Padova, 1989, 77. (75) Sostiene che « l'oggetto del giudizio si presenta come la cognizione del rapporto funzionalizzata alla pretesa processuale del ricorrente » A. Carbone, L'azione di adempimento, cit., 71. (76) F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 162. (77) È la nota tesi di G. Corso,Processo amministrativo di cognizione e tutela esecutiva, in Foro it., 1989, V, 421 ss. e di G. Verde, Osservazioni sul giudizio di ottemperanza, in Riv. dir. proc., 1980, 642 ss.; e ancor prima, ma solo in certa misura, di A. Piras, Interesse legittimo, cit. (78) O « nella sua integralità »: F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 162. (79) La contrapposizione è di G. Tropea, La c.d. motivazione « successiva » tra attività di sanatoria e giudizio amministrativo, in Dir. amm., 2003, 552. (80) Rileva anche di recente G. Verde, Sguardo panoramico al libro primo e in particolare alle tutele e ai poteri del giudice, in questa Rivista, 2010, 799-800, che « in situazioni in cui il potere di scelta può essere ancora utilmente esercitato nel corso del giudizio [...] lasciare all'Amministrazione margini di discrezionalità successivi alla conclusione del processo si risolve in un privilegio del tutto ingiustificato ». Non andrebbe, peraltro, dimenticato che « la funzione del processo è di statuire sulla situazione fatta valere e non di definire per sempre tutta la relazione intercorrente tra le parti »: A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 139; v. anche C. Consolo, Domanda, cit., 67. (81) Devono, invece, ritenersi superati gli ostacoli all'accoglimento della teoria che venivano postulati da L. Mazzarolli, Il processo amministrativo, cit., 16: infatti, i vizi di natura formale sono stati « sviliti » dall'art. 21-octies, secondo comma, l. n. 241/1990; nondimeno, nella competenza si è letta la protezione di un interesse sostanziale (A. Pioggia, La competenza amministrativa. L'organizzazione fra specialità pubblicistica e diritto privato, Torino, 2001). (82) Mentre dove il potere ha carattere ablatorio dovrebbe coerentemente postularsi (il diritto soggettivo e) la giurisdizione del giudice ordinario. (83) In termini sostanziali, può semplicemente osservarsi che (almeno) nei casi di cui si fa questione l'interesse legittimo non può avere per oggetto il bene della vita. Altrimenti il terzo pretendente non sarebbe mai titolare di tale situazione giuridica soggettiva (laddove lo è il ricorrente): non sarebbe, infatti, logicamente sostenibile che il bene della vita sia l'oggetto tanto della situazione soggettiva dell'interessato che di quella del controinteressato. La circostanza stessa che possano sussistere contemporaneamente in una vicenda amministrativa due o più titolari di interessi legittimi, con interessi sostanziali contrapposti, diversamente da quanto avviene tra due soggetti che accampano entrambi una proprietà, dove uno solo in realtà è titolare della situazione soggettiva, conferma che il bene tutelato non può corrispondere nella specie con quello c.d. finale. (84) Più esattamente, il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile determina una preclusione « extraprocessuale » (G. Verde, Domanda, cit., 6). Esula da questa analisi la considerazione della cosiddetta preclusione procedimentale, ovvero della definitiva fissazione degli accertamenti e delle valutazioni della p.a., così come compiuti nell'ambito del procedimento amministrativo (secondo una ipotesi ricostruttiva rilanciata dall'introduzione dell'istituto della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, ai sensi dell'art. 10 bis della legge n. 241/1990: v., in particolare, D. Vaiano, Preavviso di rigetto e principio del contraddittorio nel procedimento amministrativo, in L. Perfetti (a cura di) Le riforme della l. 7 agosto 1990, n. 241 tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Padova, 2008, 35 ss.; P. Amovilli, La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza (art. 10-bis l. 241/90) tra partecipazione, deflazione del contenzioso e nuovi modelli di contradditorio « ad armi pari », in www.giustizia-amministrativa.it): seppure si è dell'avviso che si oppongano alla consumazione o all'esaurimento del potere amministrativo, insiti nella preclusione della possibilità di opporre nuovi motivi di diniego dell'istanza dopo la comunicazione di cui si discorre, sia la rilevanza che deve avere nel processo la difesa dei controinteressati (impedita dall'ordine di idee che attribuisce agli originari motivi manifestati il valore di « fatti costitutivi della decisione di provvedere o di non provvedere »: così D. Vaiano, Preavviso, cit., 46-47) sia la penalizzazione della p.a. rispetto a qualsiasi altro soggetto debitore, a cui è data la possibilità di adempiere tardivamente alla sua obbligazione, salvo il risarcimento del danno da ritardo (v. L. Ferrara, La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza — art. 10-bis, legge n. 241/1990 — nel riformato quadro delle garanzie procedimentali, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, II, 83 ss.). (85) Si può, dunque, discutere se sia possibile riesercitare il potere in giudizio con atto processuale (sembra escluderlo A. Romano Tassone, Il ricorso incidentale, cit., 592; con provvedimento amministrativo durante il giudizio è, invece, pacifico che lo sia: e il provvedimento sarà impugnabile con motivi aggiunti), ma non si può imporre alla p.a. tale riesercizio, se non violando il principio della domanda nei suoi confronti. (86) I. Pagni, L'azione di adempimento, cit. (87) A. Carbone, L'azione di adempimento, cit., 186. Di « azione generale di condanna » ragiona per esempio G. Di Marco, L'azione di adempimento e il nuovo codice del processo amministrativo, in Corr. mer., 2011, 1234. (88) S. Baccarini, « Scelta » delle azioni, cit., 1277. (89) Così, distinguendo tipicità dell'azione da atipicità del suo contenuto, A. Scognamiglio, Appunti per una prima lettura dell'art. 34, comma 1, lett. c), d) ed e): le sentenze di condanna e condanna al risarcimento dei danni, in www.giustizia-amministrativa.it, la quale aggiunge che « tutte le misure sono ammesse, purché sia fornita una tutela acconcia alla situazione dedotta in giudizio ». Si veda, tuttavia, il § 4.3 per il contenuto tipico aggiunto dal c.d. secondo correttivo al cpa. (90) V. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 13 ottobre 2011 n. 2429 (estensore R. Gisondi). (91) Sulla base dell'art. 34 c.p.a. l'assorbimento dei motivi non sembra essere più possibile: v. S. Raimondi, Le azioni, cit., 922; contraR. Briani, L'istruttoria probatoria, cit.; nonché N. Paolantonio, Gli interessi generali nel (e del) processo amministrativo, cit., nella considerazione dell'art. 101, comma 2, c.p.a., secondo cui “si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell'atto di appello o, per le parti diverse dall'appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio”. Circa tale pratica, tra altri, F. De Leonardis e M.P. Chiti, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, cit., rispettivamente 152 e 177-178. Rileva che l'assorbimento in quanto omissione parziale di pronuncia dovrebbe rendere « configurabile una ipotesi di riproponibilità della stessa domanda » C. Consolo, Domanda, cit., 68. (92) V. in proposito A. Pajno, Il codice del processo amministrativo tra « cambio di paradigma » e paura della tutela, cit., 70 ss.; Id., Il codice del processo amministrativo ed il superamento, cit., 104-105. (93) A. Pajno, Il codice del processo amministrativo tra « cambio di paradigma » e paura della tutela, cit. (94) A. Gentili, Pretesa, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991. (95) Ha sostenuto recentemente che l'interesse legittimo pretensivo « è simile ad un diritto di credito per una prestazione non totalmente determinata » C. Consolo, Piccolo discorso sul riparto di giurisdizione. Il dialogo fra le Corti e le esigenze dei tempi, in questa Rivista, 2007, 657. E la tesi è stata ripresa anche da F. Merusi, Il codice, cit., 13 ss. (incontrando peraltro le critiche di R. Villata, Ancora « spigolature » sul nuovo processo amministrativo?, in questa Rivista, 2011, 1512 ss.). Di un diritto di credito si era cominciato a parlare già con G. Greco, L'accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, 1980, 154 ss., seppure in quest'ultimo caso si trattava di un diritto di credito sottoposto a una condizione potestativa, sul presupposto che l'interesse legittimo avesse comunque per oggetto il bene finale. Si è respinto tale presupposto in L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza, cit., 170 ss. Circa l'assimilazione tra interesse legittimo e diritto di credito v. anche P. Virga, Diritto amministrativo, II, Milano, 1997, 171 nt. 4. (96) A. Proto Pisani, Introduzione sull'atipicità dell'azione e la strumentalità del processo, in Foro it., 2012, V, 6. (97) Non interessa in questa sede fare i conti con l'eventualità che gli obblighi in alcuni casi possano rilevare in modo autonomo rispetto all'obbligazione complessa gravante sulla p.a. in termini provvedimentali. (98) M. Protto, Il rapporto amministrativo, Milano, 2008. (99) Ampiamente L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza, cit., 105 ss.; ma già G. Greco, L'accertamento autonomo, cit., 155. (100) Del resto, non è sostenibile che addirittura le stesse norme siano di relazione quando non vi è potere discrezionale (tanto che si ragiona di spettanza del bene finale — G.D. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001, 287 ss. — e si è arrivati al riconoscimento dell'azione di adempimento comunemente intesa) e siano di azione quando viceversa il potere discrezionale sussiste: si pensi alle disposizioni (o parti di disposizioni) che fissano presupposti rigidi (unici presupposti nel primo caso, presupposti non unici nel secondo caso) rispetto all'esercizio di un'attività privata. (101) Come fa A. Scognamiglio, Appunti per una prima lettura, cit. (102) Secondo la tesi di A. Orsi Battaglini, Attività vincolata e situazioni soggettive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 3 ss. (103) Si è usato il corsivo per evidenziare la contrapposizione tra le regole e i principi, dei quali tra poco diremo. (104) Di facoltà ragiona anche F.G. Scoca, Attualità, cit., 402. (105) Appare corretto parlare di fatto costitutivo al singolare e di elementi al plurale perché « quando più fatti generano un solo effetto in base alla fattispecie normativa essi si riuniscono in un unico fatto costitutivo »: così C. Consolo, Domanda, cit., 74, in relazione, peraltro, al diverso problema del « rapporto tra diritto e fatto generatore » nel contesto delle domande eterodeterminate. (106) G. Greco, L'accertamento autonomo, cit., per esempio 169 (ma v. 109 ss.). (107) Di un « obbligo di sciogliere l'incertezza » ragiona di recente anche I. Pagni, L'azione di adempimento, cit. Non sembra necessario spendere particolare parola sulla differenza tra questa incertezza e quella « propria di qualsiasi conflitto giuridico », salvo osservare che la prima prescinde dalla patologia e dalla contestazione dei rapporti giuridici, essendo per l'appunto riconducibile alla voluntas legis, attributiva di un potere di composizione degli interessi in giuoco alla pubblica amministrazione. Ché se poi con « conflitto giuridico » si intende alludere (come è nell'impostazione di M. Mazzamuto, A cosa serve, cit., 66-67) ai casi in cui « vi è un diritto che, nelle innumerevoli combinazioni dei rapporti giuridici, può incontrare un limite nell'esercizio di un diritto altrui », per un verso, non si fa altro che confermare, in modo assolutamente condivisibile, che l'interesse legittimo ha la struttura del diritto soggettivo (altra questione è poi se sia più garantista il regime pubblicistico o quello privatistico; o se il regime giuridico possa o meno risentire il condizionamento della struttura); per altro verso, si dimentica che nel caso degli interessi pretensivi, da una parte, non esiste un diritto sul bene finale fino a quando il potere non è stato esercitato, ed esercitato in un certo modo (esiste solo il diritto a che questo esercizio avvenga in modo corretto), dall'altra parte, ricorre l'interesse materiale del titolare della situazione giuridica all'esercizio del potere e allo scioglimento dell'incertezza (mentre nel caso degli interessi oppositivi o dei diritti preesistenti questo interesse certamente non esiste). (108) L'ipotesi della c.d. consumazione o riduzione a zero della discrezionalità amministrativa (la Reduzierung auf Null di matrice tedesca, su cui mostra di riflettere anche il nostro giudice: v. Trga, Sez. Trento, 16 dicembre 2009, n. 305). (109) Ipotesi presupposta dall'art. 21-octies, secondo comma, l. n. 241 del 1990. (110) È stato osservato che « l'innovazione intervenuta [ha] l'effetto di dare un contenuto tipico all'azione generica di condanna »: A. Carbone, L'azione di adempimento è nel Codice. Alcune riflessioni sul D.Lgs. 14 settembre 2012, n. 160 (c.d. Secondo Correttivo), in Giustamm.it. (111) Così A. Travi,Alla ricerca dell'azione di adempimento, in Rivista amministrativa della Regione Lombardia, 2012, n. 3-4, 155 ss. Non si dovrebbe per esempio dimenticare che sono trascorsi più di trent'anni dalla lezione che fece a Pisa F. Merusi: v. Verso un'azione di adempimento?, in Aa.Vv., Il processo amministrativo, Scritti in onore di Miele, Milano, 1979, 331 ss.; in proposito v. anche M. Clarich, Conclusioni, in E. Catelani - A. Fioritto - A. Massera (a cura di), La riforma, cit., 307 ss. A favore dell'introduzione dell'azione di adempimento vedi già M. Nigro, L'esecuzione delle sentenze di condanna della pubblica amministrazione, in Foro it., 1965, ora in Scritti giuridici, Milano 1996, I, 632; Id., Problemi del nuovo processo amministrativo, in Impr., amb. e pubbl. amm., 1977, ora in Scritti giuridici, cit., II, 1286; ed inoltre F. La Valle, Azione d'impugnazione e azione d'adempimento nel giudizio amministrativo di legittimità, in Jus, 1965, 156 ss. (112) Seppure restano alcune differenze rispetto a quest'ultima, quale per esempio il fatto che « l'azione di adempimento italiana debba comunque agganciarsi all'annullamento dell'atto » (I. Pagni, L'azione di adempimento, cit.). (113) I. Pagni, L'azione di adempimento, cit.Andrebbe anche considerato che secondo l'art. 7, comma 7, c.p.a. l'effettività comporta « ogni forma di tutela degli interessi legittimi »; nondimeno, che l'art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a. è stato ritenuto contenere un « vero e proprio principio di atipicità delle statuizioni adottabili dal giudice, anche oltre lo stesso accoglimento dell'azione di adempimento » (così M. Lipari, L'effettività, cit., 26). (114) Sovviene a questo proposito il recente ricordo dell'operazione di Chiovenda che, sul presupposto che « il processo come organismo pubblico d'attuazione della legge è per se stesso fonte di tutte le azioni praticamente possibili, che tendano all'attuazione di una volontà di legge », desumeva, già sotto il vigore dei codici del 1865, la possibilità, in caso di inadempimento di un contratto preliminare, di ottenere tramite sentenza gli effetti del contratto definitivo non concluso (v. A. Proto Pisani, Introduzione sull'atipicità dell'azione e la strumentalità del processo, in Foro it., 2012, V, 4). (115) Un « accertamento costitutivo della legittima disciplina del rapporto » è stato sostenuto anche da F. Merusi, Il codice del giusto processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 9, il quale evidentemente non si accontenta più di quanto aveva prospettato nella menzionata lezione pisana. Sulla stessa lunghezza d'onda si pone R. Cavallo Perin, La tutela cautelare, cit., 1123-1124.Disponeva « il rilascio, in favore del ricorrente, dell'autorizzazione richiesta » (seppure sul presupposto dell'esaurimento del potere discrezionale nella specie teorizzato, e dunque di là dal caso dell'attività vincolata ex ante) T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 7 febbraio 2002, n. 842.Circa la collocazione dell'art. 2932 c.c. nella tutela esecutiva v. B. Sassani, Dal controllo del potere all'attuazione del rapporto, Milano, 1997, 33 ss., e autori ivi citati. (116) V. L. Ferrara, Oltre l'azione di adempimento, una sentenza che tenga luogo dell'atto amministrativo non emanato, in www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/amministrativo/primiPiani/2011/09/ oltre-l-azione-di-adempimento-una-sentenza tenza-che-tenga-luogo-dell-attoamministrativo-non-emanato.html. (117) V. L. Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento costitutivo, Padova, 1996, 72 ss., nonché, quasi contemporaneamente, B. Tonoletti, Silenzio della pubblica amministrazione, in Digesto disc. pubbl., XIV, Torino, 1999, 170 ss. V. anche E. Ferrari, Commento all'art. 26, cit., 725. (118) All'art. 31 comma 3 (ai suoi « limiti ») rinvia l'art. 34 comma 1 lett. c), dopo la modifica del secondo decreto correttivo. (119) E del precedente dettato dell'art. 2, comma 8, l. n. 241/1990. (120) Si può solo escludere un possibile argomento contrario (v. A. Scognamiglio, Appunti per una prima lettura, cit.), osservando che non c'è « sostituzione » nell'applicazione della legge, soprattutto nel senso di cui all'art. 7, comma 6, c.p.a.: ché altrimenti sarebbe giurisdizione di merito pure la giurisdizione di annullamento, considerato che anche in quest'ultima si è storicamente vista una sostituzione (chiaro il riferimento alla legge di abolizione del contenzioso amministrativo); né può farsi differenza tra un effetto costitutivo negativo o eliminativo, l'annullamento, appunto, e un effetto costitutivo positivo o in senso stretto, come nell'accertamento costitutivo; la sostituzione postula, infatti, la volizione (così G. De Giorgi Cezzi, La ricostruzione del fatto nel processo amministrativo, Napoli, 2003, 93), e la volizione si lega all'innovazione (nella specie assente per definizione). Nondimeno, si può ricordare in positivo l'abrogazione degli artt. 45 t.u. n. 1054 del 1924 e 26 l. n. 1034 del 1971, che facevano salvi gli ulteriori atti dell'autorità amministrativa, nonché dell'articolo 88 r.d. n. 642 del 1907, secondo cui « l'esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa »; e, soprattutto, la possibilità di esecuzione anticipata nella sede cognitoria contenuta nell'art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a. (sostengono che tale articolo si applichi in generale — comprendendo, dunque, « le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato », diverse dalla nomina di un commissario ad acta —, alla cognizione, tra altri, E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 192; S. Raimondi, Le azioni, le domande proponibili e le relative pronunzie nel codice del processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 915-916; ritiene, invece, che il medesimo articolo si applichi al giudizio di ottemperanza M. Lipari, L'effettività, cit., 31 ss.; in proposito può osservarsi che, se è vero che le pronunce del giudice dell'ottemperanza sono espressamente disciplinate nel libro IV dall'art. 114 comma 4, è anche vero che il rapporto tra libro I e libri successivi rende sostenibile quest'ultima opinione; non si può però trascurare che la rubrica dell'art. 34 si riferisce alle « sentenze di merito »; sul tema v. anche R. Gisondi, Nuovi strumenti di tutela nel codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it.). (121) Così anche A. Travi, Alla ricerca, cit., che sostiene che la condanna produca l'esaurimento del potere amministrativo; nonché R. Gisondi, Commento all'art. 30. Azione di condanna, in F. Caringella - M. Protto (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo, Trento, 2013, 366 ss., il quale rileva l'« ampliamento dei poteri e degli oneri processuali che incombono sulla p.a., la quale, per contrastare la domanda di condanna, potrà dedurre in giudizio tutte le circostanze ostative all'accoglimento dell'istanza, anche decampando dai limiti della motivazione dell'atto e dell'istruttoria procedimentale ». (122) Rileva che « il legislatore del Correttivo non si è preoccupato di regolamentare anche la delicata questione concernente l'allegazione dei fatti in giudizio e l'onere della prova in relazione all'azione di condanna » A. Carbone, L'azione di adempimento, cit. (123) Almeno interpretando la disposizione alla stregua di quanto si è sostenuto nei paragrafi precedenti (essendo astrattamente possibile anche una interpretazione coerente con la tesi criticata nel § 3 relativa al giudizio sul rapporto inteso in senso dinamico). (124) Il giudice può, però, giungere a diverso convincimento sulla base dei fatti comunque emersi nel corso del giudizio. La non contestazione non opera, infatti, come una prova legale. V. in proposito R. Briani, L'istruzione probatoria, cit.; L. Giani, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 368; F. Follieri, Il principio di non contestazione nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2012, 1015-1016; G. Tropea, Considerazioni sul principio di non contestazione, anche alla luce delle sue prime applicazioni giurisprudenziali, ivi, 1142 ss. (125) Si consideri che la contestazione può consistere in una motivazione postuma: ma in questo caso non si tratterà, come nella prospettiva del giudizio sul rapporto inteso in senso integrale (supra § 3), di una eccezione o domanda riconvenzionale. La contestazione avverrà con mera difesa o con eccezione di merito, rispetto alle quali si conferma la regola generale della preclusione del dedotto e del deducibile. (126) Andrebbe, peraltro, considerata la tesi secondo cui « di regola, deve essere esclusa la rilevanza del fatto costitutivo ai fini dell'individuazione della domanda giudiziale e, prima ancora, della situazione soggettiva dedotta in causa » (S. Menchini, Osservazioni critiche, cit., 33), dalla quale discenderebbe che a tali fini (soltanto a tali fini: altra cosa è la fondatezza della domanda) sarebbe sufficiente l'indicazione del provvedimento richiesto, alla cui emanazione si vuole sia condannata la p.a. (cioè, l'indicazione del petitum; si noti che la richiesta del provvedimento rappresenta invece uno degli elementi che compongono il fatto costitutivo). Non sarebbe, dunque, corretto identificare l'onere di allegazione con « il mero rispetto del principio della domanda » (così A. Carbone, Azione di adempimento, cit.), mentre potrebbe bastare che gli elementi costitutivi di cui al testo risultassero dagli atti di causa, se non semplicemente che non vi fosse contestazione.Con l'anzidetto ordine di idee, che porta molto avanti la lunga operazione della dottrina processualcivilistica di ridimensionamento dell'assunto secondo cui « l'allegazione dei fatti è elemento necessario per l'identificazione del rapporto dedotto in giudizio » (in proposito, tra molti altri, A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 39 ma passim), non entra, almeno di necessità, in frizione l'affermazione per cui nel « processo amministrativo come processo di parti [...] spetta alle parti e ad esse soltanto allegare i fatti, introducendoli nel processo » (M. Dugato, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, cit., 210).In ogni caso si deve valutare che secondo la giurisprudenza amministrativa vale « il principio secondo cui gli elementi dell'azione possono ricavarsi da tutti gli atti del giudizio [...] che integrano il ricorso o, comunque, valgono a definire il contenuto sostanziale della pretesa ed il thema decidendum o probandum del processo »: così, per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 16 gennaio 2009, n. 202, la quale aggiunge che « le istanze di prelievo o di fissazione dell'udienza non presentano né tale funzione, né natura sostanziale, avendo esclusivo effetto di impulso processuale » e che « una diversa interpretazione sarebbe in contrasto con la teoria generale dell'azione, che postula l'indicazione degli elementi costitutivi della domanda negli atti processuali a ciò deputati, salvo il temperamento di cui sopra, elaborato dalla giurisprudenza attraverso un'interpretazione estensiva (peraltro non immune da critiche della dottrina) delle norme processuali, non suscettibile di ulteriore ampliamento, pena la devastazione del sistema ». (127) V. M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 386 ss. V. altresì E. Ferrari, Commento all'art. 26, cit., 727 ss. (128) Come la dottrina, si è accennato, non ha mancato di rilevare. È stato, infatti, sostenuto che la domanda di condanna è « destinata ad ottenere che il giudice espliciti nel dispositivo il contenuto ordinatorio del c.d. “effetto conformativo” » (A. Romano Tassone, Sulla disponibilità, cit., 814); che « la nuova disciplina del codice consente di qualificare [l'effetto conformativo] come un vero e proprio dispositivo di condanna » (F. Luciani, Processo amministrativo e disciplina delle azioni: nuove opportunità; vecchi problemi e qualche lacuna nella tutela dell'interesse legittimo, in questa Rivista, 2012, 523); che « la pronuncia ordinatoria riguardante le « misure idonee » risulta inquadrabile direttamente nello schema della sentenza di condanna » (M. Lipari, L'effettività, cit., 30). Ritiene che « si tratta, però, pur sempre di una possibilità di cui dispone il giudice » E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 192 ss.Andando indietro nel tempo, non era molto diversa la tesi sull'accertamento autonomo del rapporto avanzata da G. Greco, L'accertamento autonomo, cit., 36 ss., laddove immaginava « un giudizio [...] diretto ad accertare la fondatezza della pretesa di diritto sostanziale del ricorrente ed il correlativo contenuto dell'obbligo di provvedere, salvi i margini della discrezionalità ». (129) È noto l'orientamento giurisprudenziale secondo cui « l'effetto conformativo della sentenza ottemperanda [...] non può essere individuato con esclusivo riferimento ai passaggi conclusivi della motivazione, dovendo invece tenersi presente il più ampio complesso argomentativo esposto dal giudice del merito » (così Cons. Stato, Sez. V, 20 aprile 2012, n. 2348). (130) Si vuole fare riferimento al fatto che secondo i processualcivilisti il giudicato non si estende alla motivazione: v., per tutti, A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 137; T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984, 412-413.Va, peraltro considerata la teoria dell'efficacia portante della motivazione, su cui, di recente, A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 171 ss., il quale, estendendo tale efficacia oltre la qualificazione giuridica del diritto accertato fino a ricomprendervi i « presupposti condizionanti l'esistenza » dello stesso diritto (gli « elementi costitutivi ») opera una razionalizzazione dell'effetto conformativo ricavabile dalla motivazione. (131) E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 191. V. in proposito anche G. De Giorgi Cezzi,Sull'inesauribilità del potere amministrativo, cit., 966. (132) V. supra § 4.1. (133) Deve ritenersi che questa condanna possa essere chiesta anche dal controinteressato con ricorso incidentale: similmente, M. Lipari, L'effettività, cit., 45, che ritiene che « potrebbe ammettersi, anche sulla base del riconoscimento del principio di parità delle parti, il potere di questi soggetti di esigere, in caso di accoglimento del ricorso avversario, l'esplicitazione della portata conformativa e dispositiva della pronuncia ». (134) Sostiene, in particolare, che l'art. 34, comma 1, lett. c) contenga un « vero e proprio principio di atipicità delle statuizioni adottabili dal giudice, anche oltre lo stesso accoglimento dell'azione di adempimento » M. Lipari, L'effettività, cit., 26. (135) Gli obblighi, in definitiva, di non reiterare la violazione dei principi, negli stessi modi avvenuti con l'emanazione del provvedimento impugnato. (136) Nota C.E. Gallo, Le azioni ammissibili nel processo amministrativo ed il superamento della pregiudizialità anche per le controversie ante codice, in Urb. app., 2011, 694 ss., che « il codice ha voluto sicuramente ricondurre alla fase della cognizione tutto quanto era impropriamente attribuito al giudizio di ottemperanza, al fine di instaurare un vero dibattito tra le parti e di definire in modo più puntuale i ruoli dei due rimedi, quello di cognizione e quello di esecuzione », aggiungendo che « quello che è oggi il contenuto del giudizio di ottemperanza, secondo il Codice diviene, di norma, il contenuto della sentenza di cognizione ». (137) Sempre ai sensi del citato art. 31 c.p.a. (138) Differenza la cui logica non è dato comprendere. (139) E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 183.Altra questione essendo l'opportunità che la nozione di interesse legittimo vada « verso un meritato riposo »: così F. Merloni, Funzioni amministrative e sindacato giurisdizionale. Una rilettura della Costituzione, in Dir. pubbl., 2011, 503. (140) Ritiene che « l'interesse legittimo è contemplato da una norma che disciplina l'esercizio del potere amministrativo (l'azione della P.A.), e che, dunque, non prende in considerazione in via principale e diretta, ma soltanto in via mediata, le situazioni individuali dei vari soggetti della comunità » G. Clemente di San Luca, Approfondimenti di diritto amministrativo per il corso specialistico, Napoli, 2012, 317. (141) Confermato per esempio, di recente, da Cons. Stato, Sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638, in Foro amm. - C.d.S., 2012, 1932 ss., da Cons. Stato, Sez. VI, 19 giugno 2012, n. 3569 e da Cons. Stato, Sez. IV, 30 novembre 2010, n. 8363, in Foro it., 2011, III, 82 ss. con annotazione di A. Travi e nota di N. PignatelliIl giudizio di ottemperanza dinanzi agli effetti della illegittimità costituzionale: la violazione « in astratto » del giudicato. (142) Questo è vero anche accogliendo l'insegnamento secondo cui « la satisfattività della sentenza può misurarsi solo sulla sua concreta idoneità a rimuovere la lesione effettivamente subita » (così B. Sassani, Impugnativa, cit., 99). (143) Il Gestaltungsklagerecht della dottrina tedesca, sul quale ha riflettuto, in particolare, M. Clarich, Giudicato, cit. (144) Supra § 3. (145) Il che rappresenta il significato estremo opposto a quello di rapporto in senso dinamico o integrale (v. sempre supra § 3). (146) V. ancora supra § 3. Osservava, del resto, R. Villata, Nuove riflessioni, cit., 721, che « non occorre scomodare il processo sul rapporto [...] per pervenire a una verifica giudiziale [...] dei presupposti (in senso lato) non discrezionali per l'emanazione dell'atto favorevole ». (147) Supra §§ 2-3. (148) A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 59. (149) Per tutti, A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 78 ss. (150) « Con la sola eccezione dell'ipotesi in cui si sia alla presenza di fatti-diritti che per esplicita domanda di parte o per legge debbano essere accertati con autorità di cosa giudicata »: A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 58-59, che qualifica come fatti-diritti « quei fatti che, oltre ad avere rilievo di fatti costitutivi, impeditivi, ecc. ai fini del diritto fatto valere in giudizio dall'attore sono a loro volta l'effetto di una autonoma fattispecie, così che potrebbero anche essi costituire oggetto di una autonoma domanda ». (151) A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 81. (152) Rispetto alla tesi secondo cui il giudicato « si forma in relazione ai motivi posti a fondamento della domanda » di annullamento (E. Ferrari, Commento all'art. 26, cit., 721) si rivelerà per esempio decisivo il ruolo giocato dai motivi nella nozione di interesse legittimo che si intenda accogliere. Sosteneva E. Garbagnati, La giurisdizione amministrativa: concetto e oggetto, Milano, 1950, 67, che in un processo che ha per oggetto il diritto potestativo di annullamento del provvedimento amministrativo i motivi non oltrepassano la soglia degli accertamenti pregiudiziali. (153) Sarebbe interessante a tali fini una riflessione (per la quale non è, tuttavia, questa l'occasione) sulla utilizzazione della teoria dell'efficacia portante della motivazione compiuta da A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 171 ss. (v. supra nota 130). (154) Il che sembra discendere dal pacifico assunto per cui i fatti non sono l'oggetto del giudizio (per tutti, A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 131). (155) Si pensi agli obblighi di fare/disfare. V. in proposito G. Borrè,Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, Napoli, 1966, 175 ss.; C. Mandrioli, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, in Nss. dig. it., Torino, I, 1964, 770 ss.; B. Denti, L'esecuzione forzata in forma specifica, Milano, 1953, 207; V. Corsaro - S. Bozzi, Manuale dell'esecuzione forzata, Milano, 1966, 433 ss. (156) Oltre a non potersi discernere tra i fatti integranti l'inadempimento quelli che sarebbero inquadrabili in un vizio di illegittimità: una volta almeno che la tutela di annullamento sia stata affiancata, e, si vorrebbe dire, surclassata da quella di condanna. (157) Inoltre, non andrebbe dimenticato che « la tendenza di circoscrivere il giudicato all'interno delle allegazioni compiute [...] altera il significato della regola di corrispondenza, perché pone a contenuto della pronuncia e del giudicato non la domanda, bensì i profili discussi della domanda » (A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 116-117). (158) E. Ferrari, Commento all'art. 26, cit., 724. (159) V. supra § 4.3. (160) Si sostiene comunemente che nel processo amministrativo la regola della preclusione del dedotto e del deducibile non si applica alla p.a. (riconducendo tale processo ai sistemi c.d. elastici): ma questo è ragionevole, solo perché si parte dall'idea che altrimenti sarebbe precluso il riesercizio del potere amministrativo discrezionale dopo la sentenza del giudice (la tesi a favore del giudizio sul rapporto, del resto, presuppone — v. supra § 3 —, che si motivi in modo postumo solo con atti difensivi). Il discorso cambia necessariamente e totalmente rispetto ai fatti costitutivi (e ai fatti lesivi, per chi li distingue), che compongono la causa petendi della situazione giuridica soggettiva vantata. Impostata così la questione, la regola si applica e si applica sempre (nel processo amministrativo come in quello civile): mera difesa (negazione del fatto costitutivo) ed eccezione (deduzione di fatti modificativi, eliminativi, impeditivi) della p.a. sono sottoposte alla preclusione. Anche nel processo amministrativo, pertanto, la domanda giudiziale fissa il thema decidendum, forma l'oggetto della pronuncia, fornisce il criterio per l'effetto preclusivo del giudicato (v. per tutti A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit.). (161) Superandosi la stessa supposta distinzione tra tipicità dell'azione e atipicità del suo contenuto (supra § 4.1). (162) Se è vero che « l'interesse al comportamento favorevole [è] tutelato come (nei limiti di) interesse al comportamento legittimo » o che « l'interesse strumentale, di per sé interesse alla disciplina favorevole, è tutelato come interesse alla disciplina (dell'interesse sostanziale), nei limiti della legittimità e della opportunità della funzione amministrativa »: F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971, 149. (163) A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto, cit., 169. (164) G.D. Falcon, Il giudice amministrativo, cit., 327-328. Sulla costruzione dell'interesse legittimo come « possibilità di conservare (nel caso di interessi oppositivi) o di acquisire (nel caso di interessi pretensivi) un bene » v. anche D. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2010, 472. (165) Il concetto di giudicato « a stretto rigore [...] riguarda esclusivamente il rapporto tra organi giudiziari », non anche « il comportamento che la pubblica amministrazione deve tenere a seguito dell'esito del giudizio »: esso, cioè, determina una preclusione per il giudice, il divieto di un secondo processo sullo stesso fatto (così G.F. Ricci, Principi, cit., 294). (166) Sembra giunto il tempo di passare dalla « certezza della posizione dell'amministrazione nei confronti del cittadino » a quella del cittadino nei confronti dell'amministrazione, visto che il soggetto in situazione di vantaggio rispetto alla legge (altro è il discorso se si ragiona del potere) è appunto il cittadino (F. Benvenuti, Processo amministrativo, cit., 459, che invero riteneva equivalenti le due posizioni). (167) Più esattamente, un perdurante inadempimento dell'obbligazione legale e una violazione del comando del giudice. Circa la possibilità di leggere i vizi dell'atto in termini di inadempimento si veda anche G. Santoro Passarelli, I concorsi privati: una fattispecie in via di assestamento, in Mass. Giur. Lav., 1989, 292 ss. (168) Rilevava F. Francario, Inerzia ed ottemperanza al giudicato, cit., 752, che « è solo facendo della legittimità dell'azione amministrativa il connotato fondamentale dell'atto ottemperativo che questo risulta essere realmente idoneo a dirimere la controversia insorta tra cittadino e pubblica amministrazione e, quindi, necessariamente, idoneo a soddisfare il bisogno di tutela di cui è portavoce il ricorrente ». Apparirebbe, del resto, contraddittoria l'insistenza della giurisprudenza (v., di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 2 maggio 2012, nn. 2509 e 2517) sulla natura anche cognitoria del giudizio di ottemperanza, se in questa non rientrasse la conoscenza della nuova illegittimità amministrativa (senza che questa cognizione possa, peraltro, alterare la funzione essenzialmente esecutiva del giudizio di ottemperanza: in questo senso, di recente, ex multis, C.E. Gallo, Presidente e collegio nella tutela cautelare: novità e prospettive nella disciplina della legge n. 205 del 200, in www.giustizia-amministrativa.it). (169) È noto che al giudice dell'esecuzione civile è lasciato uno spazio di valutazione: v., per tutti, R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in questa Rivista, 1989, 376. (170) Sia consentito rinviare ancora a L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza, cit., 1 ss. e 193 ss. (171) Vedi l'art. 4 dell'Allegato 4 al c.p.a. Tuttavia, va considerato anche l'art. 88, comma 2, lett. f), c.p.a., secondo cui la sentenza deve contenere l'“ordine che la decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa”. La diversità della formulazione e il carattere generale della previsione sembrano, però, evocare una clausola di stile, riflesso dell'autorità e dell'efficacia vincolante dell'atto del giudice (paragonabile alla dicitura « è fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e farlo osservare », rinvenibile per esempio nei regolamenti ministeriali). (172) Supra § 4.2. (173) Il che renderebbe anche non pertinente l'eventuale obiezione relativa a una presunta minore tutela del soggetto privato, discendente dalla perdita del doppio grado di giudizio rispetto alla cognizione sul riesercizio del potere amministrativo (quale effetto della percorribilità del solo giudizio di ottemperanza). (174) Così di recente, sulle orme dell'insegnamento gianniniano (v. M.S. Giannini, Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, 473), S.S. Scoca, Violazione ed elusione, cit., 24, al termine di un'ampia analisi della giurisprudenza amministrativa relativa alla « nebulosa » nozione di elusione del giudicato. In tema, tra altri, M. D'Orsogna, Violazione ed elusione del giudicato nella nuova disciplina della nullità dei provvedimenti amministrativi, in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, IV, 125 ss. Circa la lettura dell'elusione come « adempimento apparente (assimilato a inadempimento) » v. anche B. Sassani, Dal controllo, cit., 114. (175) Supra § 4.4.2. (176) Supra § 4.2. (177) A voler condividere le obiezioni mosse alla tesi favorevole al giudizio sul rapporto, inteso in senso dinamico (supra § 3). (178) Notava A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 143: « Se la res in judicium deducta è diversa a seconda del rapporto in cui il diritto si inserisce o del fatto da cui sorge o delle vicende intervenute, si finiscono per concepire altrettanti possibili processi. Eppure sul piano sostanziale quel diritto concreto esiste o non esiste una sola volta, poiché può partecipare di un solo rapporto, può nascere da un solo fatto costitutivo, è la sola situazione culminante della vicenda modificativa. Appare allora chiaro che l'eccessiva fedeltà agli schemi sostanziali anziché garantire la corrispondenza tra diritto e processo, finisce per esserne la contraddizione più clamorosa. Soprattutto tale fedeltà importa che il processo non verta su un diritto che può concretamente esistere, ma su profili o porzioni dello stesso: non il diritto come tale, ma il diritto correlato ad un rapporto o ad un fatto determinati ». (179) La frase è di A. Pajno, Il codice del processo amministrativo ed il superamento, cit., 116, che la ricava da S.R. Masera, La supremazia della legge, cit., XXXII, nell'interpretazione che quest'ultimo Autore dà del pensiero di García de Enterría. La frase, peraltro, è figlia del noto principio chiovendiano, secondo cui il processo deve dare, per quanto possibile, praticamente, a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che ha diritto di conseguire. (180) A. Travi, Alla ricerca, cit. Della « difficoltà [...] di parlare di adempimento in una situazione in cui [...] resta il dato di partenza per cui l'assetto degli interessi non è stato predeterminato dal legislatore » ragiona I. Pagni, L'azione di adempimento, cit. Non sembra, tuttavia, diverso il caso di scuola del contratto stipulato con il pittore per l'esecuzione di un ritratto (dove il risultato è altrettanto incerto e dipende non da una scelta politica ma da una scelta artistica). Si dirà che qui la condanna non è eseguibile, ma questa è un'altra questione: si convenga o meno, poi, sul fatto che l'unica ipotesi non discutibile di obbligo giuridicamente infungibile sia determinata dall'incoercibilità materiale del soggetto obbligato (secondo la massima nemo ad factum praecisum cogi potest), visto che, a certe condizioni, è possibile (o è stata sostenuta) anche la surrogazione giudiziale nell'autonomia negoziale (si pensi, per esempio, all'ipotesi di cui all'art. 2597 c.c. — su cui infra nota 182 —; oppure si rifletta sulla determinazione degli obblighi familiari). (181) Costruisce « l'osservanza del principio di legalità come « adempimento » anche F. Francario, Inerzia ed inottemperanza, cit., 387. Sostiene, invece, che « gli atti emanati dall'amministrazione legati all'ottemperanza sono comunque espressione di potere amministrativo » G. Sciullo, Il comportamento dell'amministrazione nell'ottemperanza, in questa Rivista, 1997, 75. (182) Similmente si trasforma l'autonomia negoziale del monopolista di fronte alla violazione dell'obbligo di contrarre (ex art. 2597 c.c.). Sul tema, particolarmente dibattuto, si veda L. Nivarra, L'obbligo a contrarre e il mercato, Padova, 1989; L. Montesano, Obbligo a contrarre, in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 524 ss.; P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969. Per una recente sintesi, anche relativa alla giurisprudenza che ammette la determinazione giudiziale del contenuto e dei limiti dell'obbligo di contrarre (dunque, l'identificazione della prestazione dovuta), L. Rotondo, Monopolio legale e abuso di posizione dominante, in www.diritto.it. Sulla posizione di monopolista della p.a. si veda, in particolare, F. Goisis, La giustizia sportiva tra funzione amministrativa ed arbitrato, Milano, 2007, 133 ss. Di estremo rilievo in questo contesto sarebbero, inoltre, le sentenze determinative, o costitutivo-determinative, del giudice civile: in proposito, per tutti, A. di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 1987, 341 ss. (183) È questa una prospettiva totalmente assente nel pur ampio e argomentato studio di A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 1 ss. e 91 ss., dove si sostiene che « l'attribuzione del bene della vita compiuta dalla sentenza al vincitore del processo, la quale dovrebbe essere stabile ed incontestabile, può essere posta in via unilaterale in discussione ad opera del titolare di un potere sostanziale » e, più precisamente, che « l'atto di esercizio del potere successivo al referente temporale dell'accertamento produce un nuovo effetto giuridico, che, come tale, non rientra nei limiti di efficacia del giudicato, con la conseguenza che l'esistenza (o inesistenza) della situazione giuridica dichiarata può, in base ad esso, essere posta nuovamente in discussione » (il che, si noti, dovrebbe valere a prescindere dalla sussistenza o meno di fatti sopravvenuti). Andrebbe anche considerato che l'esercizio negativo del potere ampliatorio (tanto originario che successivo), in realtà, non produce nessun effetto giuridico (nella specie, costitutivo), laddove esso (l'effetto) sia parametrato sul diritto soggettivo al c.d. bene finale (così come è secondo l'anzidetto studio, il quale, a onore del vero, di là dall'attenzione dedicata agli interessi pretensivi, specificamente nel diritto privato, ragiona fondamentalmente di poteri sostanziali che producono effetti estintivi e modificativi), salvo non porsi nella prospettiva del controinteressato (si pensi al vincitore di un concorso, rispetto a cui, però, l'esercizio del potere è positivo): sia consentito sul punto rinviare a L. Ferrara, I riflessi sulla tutela giurisdizionale dei principi dell'azione amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento: verso il tramonto del processo di legittimità?, in Dir. amm., 2006, 607 e nota 51. (184) Similmente, R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo. Commento a tutte le novità del giudizio amministrativo (D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), Milano, 2010, 527. In passato in giurisprudenza, come noto, si riteneva prevalentemente che nel giudizio avverso il silenzio il commissario « assomiglia più ad un organo dell'Amministrazione che ad un ausiliario del giudice »: così, ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3602. (185) Del giudice direttamente o della sua longa manus commissariale. (186) Si è lasciata fuori dagli obiettivi di questo scritto la considerazione della posizione dei terzi (tanto più se estranei al giudicato), di cui solo in alcune occasioni si è fatto cenno. (187) Oltre che potersi difendersi in esso. Come il debitore esecutato si difende attraverso l'opposizione all'esecuzione, così la p.a. si difende nel giudizio di ottemperanza in ragione di quella cognizione giurisdizionale che è interna, anziché esterna, a tale giudizio: per questo paragone vedi già G. Abbamonte, Giudizio di legittimità, cit., 1752. (188) Soddisfacendo l'interesse legittimo e aprendo la strada alla dichiarazione della cessazione della materia del contendere (ma anche riducendo in questo modo il ritardo nell'adempimento). (189) V. in proposito supra § 3. Si consideri, tuttavia, che da un punto di vista sostanziale (diversamente da quello processuale) l'emanazione del provvedimento o l'esercizio processuale del potere non sono una possibilità ma un dovere, perché corrispondono all'adempimento meno tardivo. (190) Circa la necessità della richiesta di parte, in giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. V, 11 giugno 2012, n. 3397. Sulle astreintes v. in particolare M.P. Chiti, I nuovi poteri del giudice amministrativo: i casi problematici delle sanzioni alternative e delle astreintes, in G. Greco (a cura di), La giustizia amministrativa negli appalti pubblici in Europa, Milano, 2012, 3 ss.Va, peraltro, notato che l'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. rimette la fissazione della misura coercitiva indiretta al giudice dell'ottemperanza, mentre secondo l'art. 614-bis c.p.c. è il giudice della cognizione che condanna l'obbligato alla corresponsione di una somma di denaro: l'art. 34, comma 1, lett. e), sembra comunque rendere possibile che a disporre l'astreinte sia il giudice della legittimità (v. L. Viola, Le astreintes nel processo amministrativo e la pretesa incompatibilità con le obbligazioni pecuniarie della p.a., in Foro amm. - Tar, 2012, 815 ss.). (191) Adesso addirittura positivizzati dall'art. 114, comma 4, lett. a), c.p.a. (192) Rileva in maniera condivisibile G.F. Ricci, Principi, cit., 191, che « nel campo amministrativo, particolarmente deboli si presentano i mezzi per ottenere l'esecuzione del giudicato ». AZIONE DI ANNULLAMENTO, RICORSO INCIDENTALE E PERPLESSITÀ APPLICATIVE DELLA MODULAZIONE DEGLI EFFETTI CADUCATORI Dir. proc. amm., fasc.2, 2013, pag. 428 ANDREA CARBONE Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - Ricorso incidentale e domanda riconvenzionale Sommario: 1. Il ruolo dell'azione di annullamento nel nuovo quadro processuale e la modulazione degli effetti caducatori della pronuncia di annullamento: la sentenza Cons. St. n. 2755/2011. — 2. Le ragioni addotte dal Consiglio di Stato: critica. — 3. Modulazione degli effetti di annullamento o condanna autonoma ad un facere? — 4. Successivi sviluppi giurisprudenziali: l'applicabilità del principio al ricorso incidentale c.d. escludente. — 5. Conclusioni. 1. La scelta compiuta dal Codice del processo amministrativo, di improntare la tutela giurisdizionale ad una pluralità di azioni esperibili, impone una riflessione sul ruolo che nel nuovo assetto processuale è destinato ad essere ricoperto dall'azione di annullamento. Sul punto, pur non negandosi che il tradizionale rimedio impugnatorio continui a rappresentare il principale strumento a disposizione del privato anche nell'attuale quadro della giustizia amministrativa (sia in termini quantitativi che qualitativi) (1), non può parimenti revocarsi in dubbio che esso assume caratteri peculiari nel momento in cui si viene ad inserire in un contesto caratterizzato da differenti forme di tutela. Si pone quindi la necessità di esaminare le modalità con cui tale rimedio si coniuga con le altre azioni, per verificare se il Codice, nel suo ‘salto in avanti' verso il superamento del precedente sistema processuale, non abbia lasciato delle zone d'ombra con cui l'interprete sia costretto a confrontarsi. La nostra riflessione non riguarderà, è bene precisare fin da subito, la vexata quaestio relativa alla pregiudiziale amministrativa, già ampiamente analizzata in sede dottrinale. Avrà ad oggetto, invece, il rapporto tra l'azione di annullamento e l'accertamento dell'invalidità dell'atto che prescinde dalla sua caducazione: in particolar modo, si vuole valutare in che limiti sia possibile per il giudice conoscere dell'illegittimità di un provvedimento laddove ciò sia strumentale all'accoglimento di una pretesa sostanziale che non trova nell'annullamento un rimedio satisfattivo. In alcune ipotesi, invero, è lo stesso Codice a rispondere a tale quesito, prevedendo espressamente che l'effetto caducatorio possa venir meno allorché il ricorrente non tragga da esso più alcuna utilità. Così, a norma dell'art. 34, co. 3, c.p.a., il sopravvenuto difetto di interesse all'annullamento non rende improcedibile il ricorso laddove permanga l'interesse all'accertamento dell'illegittimità del provvedimento a fini risarcitori (2): in questo caso, l'azione di annullamento si converte in azione di accertamento, secondo il modello della Fortsetzungsfeststellungsklage (c.d. azione di accertamento in continuazione), proprio dell'ordinamento tedesco (3). Si tratta, tuttavia, di un'ipotesi in cui il venir meno dell'ef fetto caducatorio è collegato alla conversione dell'azione da costitutiva a dichiarativa, conversione esplicitamente disciplinata dalla legge e connessa alla sopravvenuta carenza di interesse. La giurisprudenza, invero, ha ritenuto di poter disporre dell'effetto caducatorio di una pronuncia di annullamento anche in mancanza di una formale conversione dell'azione e a prescindere da un'espressa previsione in tal senso; ha ritenuto, più nello specifico, che il giudice amministrativo possa, in particolari ipotesi, modulare gli effetti caducatori di una decisione che accerti l'illegittimità dell'atto impugnato o attraverso una limitazione parziale della retroattività degli effetti stessi, ovvero con la loro decorrenza ex nunc, ovvero ancora escludendo del tutto gli effetti dell'annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi. Questo indirizzo è stato inaugurato dalla ormai nota decisione del Consiglio di Stato n. 2755/2011 (4), e ha poi trovato successiva applicazione — anche al di fuori dei presupposti fatti propri da tale pronuncia, come si vedrà — in alcune sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali (5). In particolare, nel caso deciso dai giudici di Palazzo Spada, si discuteva della validità di un piano faunistico venatorio regionale per gli anni 2009-2014, impugnato da parte di un'associazione ambientalista in ragione del mancato espletamento della procedura di valutazione ambientale strategica. Il Consiglio di Stato, riformando sul punto la sentenza di primo grado, ha rilevato l'illegittimità della procedura; tuttavia, a ciò non ha fatto conseguire l'annullamento dell'atto viziato. Secondo il Supremo Consesso amministrativo, infatti, se all'accoglimento delle censure prospettate dal ricorrente avesse fatto seguito il venir meno del piano si sarebbe avuta la conseguenza paradossale di eliminare qualsiasi prescrizione relativa allo svolgimento della caccia (6), in palese contrasto non solo con le esigenze di tutela sottese alla normativa di settore, ma (quel che più conta ai nostri fini) anche con lo stesso interesse posto alla base dell'impugnazione. Obiettivo dell'associazione ambientalista non era difatti la rimozione degli atti impugnati, bensì l'accertamento della loro illegittimità per l'inadeguatezza della tutela da essi garantita, in ragione del mancato esperimento della valutazione ambientale strategica. In considerazione di ciò, la Sesta Sezione si è limi tata a statuire il solo effetto conformativo della pronuncia di annullamento, disponendo che gli atti viziati avrebbero conservato i loro effetti sino alla modifica o alla sostituzione del piano da parte dell'Amministrazione (da espletarsi comunque nel termine di dieci mesi, pena, in mancanza, l'esercizio da parte del Collegio dei poteri sostitutivi propri del giudice dell'ottemperanza). Tale decisione ha dato luogo a commenti contrastanti: da un lato si è infatti evidenziato come « l'ingegneria processuale » (7) del giudice amministrativo si fosse, in questa occasione, spinta oltre le « colonne d'Ercole » (8) poste idealmente ai limiti delle sue funzioni (9); dall'altro, al contrario, si è giustificata questa innovativa presa di posizione sulla base del principio dell'effettività della tutela che, con una sentenza « di buon senso » (10), il Consiglio di Stato si sarebbe premurato di garantire. Senza anticipare ciò che sarà oggetto di compiuta analisi nei successivi paragrafi, preme tuttavia sottolineare come, a nostro avviso, si debba aderire a quella posizione secondo cui il principio stabilito nella pronuncia in esame potrebbe (il condizionale è d'obbligo, come si vedrà) trovare accoglimento a patto che venga inquadrato in un'ottica diversa da quella propria del giudizio impugnatorio. Tale impostazione, che può sembrare una mera precisazione di carattere teorico in ragione di una particolare visione del nuovo assetto del processo amministrativo, assume invero rilievo fondamentale alla luce della successiva giurisprudenza che ha fatto riferimento alla modulazione degli effetti dell'annullamento, la quale, secondo quanto si avrà modo di spiegare, si è discostata da quei presupposti che, a nostro avviso, costituiscono il reale fondamento della pronuncia n. 2755/2011. Procedendo con ordine, si analizzeranno, in primo luogo, i motivi per cui le ragioni addotte dal Consiglio di Stato non possono costituire un fondamento valido per affermare la disponibilità degli effetti caducatori della sentenza; in ragione di ciò, si cercherà di dare un inquadramento più consono alla vicenda. Tali rilievi saranno poi necessari per analizzare le decisioni che dall'indirizzo in esame hanno preso le mosse, così da valutarne la compatibilità con l'opzione interpretativa da noi prospettata. 2. Per giustificare la scelta di « non annullare » il provvedimento amministrativo di cui è stata accertata l'illegittimità, il Consiglio di Stato si è basato, in sostanza, su tre ordini di ragioni che, tuttavia, non sembrano andare esenti da critiche. In primo luogo, la Sesta Sezione ha ritenuto che il giudice amministrativo possa senza dubbio derogare alla regola generale della irretroattività degli effetti laddove la sua applicazione risulti in contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale. In questo caso, come si è già avvertito, il giudice potrebbe disporre la decorrenza ex nunc degli effetti di annullamento ovvero disporre esclusivamente effetti conformativi: nessuna norma, sostanziale o processuale, statuisce in senso contrario, ed anzi vi sono disposizioni che espressamente prendono in considerazione la possibilità che un atto, pur illegittimo, non venga annullato, come l'art. 21-nonies l. n. 241/1990. Sennonché, così opinando, il Consiglio di Stato sembra aver posto sullo stesso piano l'effetto ripristinatorio della sentenza — che, come ben si è notato, è sempre disponibile, pur entro determinati limiti (11) — e l'effetto caducatorio, che invece è conseguenza tipica e necessaria della statuizione di annullamento (12). In altre parole, ciò che può essere disposto dal giudice sono gli effetti che dalla caducazione dell'atto derivano, sia in relazione all'interesse della parte, sia alla situazione di fatto che si è determinata in concreto (vale sempre la regola factum infectum fieri nequit), non già l'effetto demolitorio in sé e per sé. Da questo punto di vista, non giova neppure il richiamo all'art. 21-nonies, perché tale norma disciplina un potere discrezionale della P.A., di carattere amministrativo, avente presupposti del tutto differenti da quello esercitato dal g.a. nello svolgimento della sua funzione giurisdizionale. Al contrario, potrebbe rilevarsi che il legislatore, ogniqualvolta ha voluto escludere l'annullamento di un atto illegittimo, l'ha fatto espressamente, come nel caso dell'art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990, il quale, peraltro, non si è sottratto a dubbi di legittimità costituzionale (13). Non vi è, invece, alcuna norma esplicita che attribuisca al giudice un potere di carattere generale avente ad oggetto la determinazione dell'effetto caducatorio dell'atto; norma da ritenersi necessaria in ragione del disposto dell'art. 113, co. 3, Cost., secondo cui gli effetti dell'annullamento devono essere determinati dalla legge (14). In secondo luogo, vengono richiamati gli artt. 121 e 122 c.p.a., in forza dei quali è attribuito al giudice amministrativo, nel caso in cui sia annullata l'aggiudicazione e sia richiesta l'attribuzione del contratto di appalto, il potere di scelta — sulla base dei criteri stabiliti dalla legge — tra la dichiarazione di inefficacia del contratto (in via retroattiva ovvero ex nunc) e il mantenimento dello stesso con contestuale disposizione del risarcimento dei danni (15). Tali poteri, tuttavia, sono da considerarsi del tutto speciali, al pari del rito corrispondente, e quindi insuscettibili di applicazione analogica (16); tanto più che, avendo ad oggetto il rapporto tra annullamento dell'aggiudicazione e inefficacia del contratto, essi sembrano fare riferimento ad una situazione del tutto diversa da quella che si delinea in relazione agli effetti caducatori, i quali, invece, fanno capo direttamente al provvedimento amministrativo (17). In altri termini, secondo quanto si è correttamente rilevato, nell'ipotesi descritta dagli artt. 121 ss. c.p.a. l'effetto caducatorio, relativo all'aggiudicazione, rimarrebbe fermo, mentre ciò che verrebbe ‘modulato' sono le conseguenze sul contratto, che rientrano nell'ambito dell'effetto conformativo della sentenza (18). Rimane da ultimo il riferimento alla giurisprudenza comunitaria, che, sulla base dell'art. 264, par. 2, TFUE (ex art. 231, par. 2, TCE) (19), ha da tempo ammesso la derogabilità del principio dell'efficacia ex tunc dell'annullamento (20). Riferimento che parrebbe tanto più necessitato in ragione del fatto che la materia ambientale è oggetto di competenza concorrente tra Unione Europea e Stati membri, per cui gli standard della tutela giurisdizionale non potrebbero essere diversi a seconda che gli atti regolatori siano emessi in sede comunitaria o nazionale. Tuttavia, al riguardo è stato da più parti correttamente notato che in quell'ordinamento vi è appunto una norma espressa che disciplina un potere siffatto, di talché potrebbero semmai ricavarsi, a contrario, elementi per supportare la tesi dell'insussistenza, in capo al giudice amministrativo, di un analogo potere. Il richiamo ai principi comunitari al fine di garantire l'effettività della tutela non può allora trovare giustificazione (21), perché, come ben si è detto, « qui non si tratta di recepire principi del diritto comunitario, ma di voler applicare una disposizione dettata per un giudizio ad altro giudizio » (22). Del resto, pure non è sfuggito come in molti casi i giudici europei abbiano utilizzato il potere di modulare gli effetti dell'annullamento non al fine di assicurare la tutela effettiva della situazione dedotta in giudizio dalla parte, ma per garantire un interesse generale di particolare rilevanza, limitando, quindi, le aspettative di tutela giurisdizionale; circostanza che ha imposto alla Corte di Giustizia particolare cautela nel ricorrere all'art. 264 TFUE (23). 3. Se dunque si aderisce ai rilievi sollevati dalla dottrina, appare chiaro come l'impostazione assunta dal Consiglio di Stato non possa trovare condivisione. I problemi maggiori derivano, a nostro avviso, dal presupposto, fatto proprio dalla sentenza n. 2755/2011, che la vicenda possa essere risolta nell'ottica dell'azione di annullamento e che quindi qualsiasi risultato debba essere necessariamente raggiunto attraverso la modulazione degli effetti conformativi, ripristinatori e finanche dello stesso effetto caducatorio, propri della relativa pronuncia. L'impostazione tradizionale del processo amministrativo, del resto, favorisce una lettura in tal senso anche dopo l'importante intervento di codificazione, giacché, come ben si è avvertito, è propria dell'interprete la tendenza a leggere fenomeni nuovi attraverso i vecchi strumenti concettuali a sua disposizione (24). Il rischio è allora quello di una forzatura delle regole processuali al fine di assicurare risultati sostanziali che altrimenti non potrebbero essere perseguiti. Questa impostazione, che poteva trovare giustificazione quando alla giurisprudenza era demandato il compito di garantire la pretesa effettiva del privato sulla base di uno strumentario processuale del tutto risalente e, in definitiva, limitato per lo più al rimedio impugnatorio, non sembra più ammissibile nel momento in cui il giudizio amministrativo viene (ri)fondato sul principio della pluralità delle azioni e dei rimedi accordabili dal giudice. Ciò, si badi, non solo e non tanto per un formale rispetto della coerenza teorica del sistema, ma anche e soprattutto perché — come si vedrà nel paragrafo successivo — l'elaborazione di un principio su basi diverse da quelle sue proprie può presentare complicazioni non indifferenti laddove si voglia poi estendere il principio stesso a fattispecie diverse. In questo senso, il richiamo — come ben si è detto, fin troppo disinvolto (25) — all'effettività della tutela rischia di risultare fuorviante, in quanto lo sforzo del giudice non dovrebbe avere quale fine primario quello di piegare le regole processuali, ma dovrebbe essere invece diretto a garantire la pretesa del privato all'interno dell'operatività delle stesse (26). Cercare di risolvere la questione in esame nell'ottica dell'annullamento, sembra essere, insomma, il limite fondamentale di quest'orientamento. Limite che a nostro avviso non viene completamente superato neppure valorizzando l'ampio spettro di pronunce adottabili dal giudice ai sensi dell'art. 34 c.p.a. (tra cui, in particolare, la lettera c), nella parte in cui prevede la possibilità per il giudice amministrativo di accordare « le misure idonee a tutelare la situazione giuridica dedotta in giudizio »), se questa valorizzazione rimane strettamente ancorata alle logiche dell'impugnazione (27). In questa prospettiva, infatti, si lega il contenuto ordinatorio della sentenza alla statuizione di annullamento, che tuttavia non viene pronunciata, così in definitiva rimettendosi completamente al giudice la scelta delle misure da adottare, giacché, come si è ricordato, l'effetto conformativo della sentenza può essere costruito e indotto dal ricorrente, ma rimane nella disponibilità del giudice (28). In altri termini, configurare un'eventuale statuizione di condanna come completamento della tutela costitutiva — quale, cioè, esplicitazione dell'effetto conformativo, che per questa via si renderebbe autonomo (29) — pur cogliendo pienamente gli effettivi termini della questione decisa dalla Sesta Sezione, rischia di lasciare insoddisfatti perché costringe a sostenere che le richieste delle parti possano essere ricavate anche implicitamente dalle conclusioni da esse formulate (30), così tuttavia prestando il fianco all'obiezione che la domanda giudiziale viene, in concreto, articolata dal giudice (in violazione, sembrerebbe, dell'art. 99 c.p.c., nonché dell'art. 34, co. 1, c.p.a., a detta del quale il giudice amministrativo dispone sì il contenuto della sentenza, ma « nei limiti della domanda » (31)). E se, nell'ipotesi in esame, l'apporto costruttivo del g.a. può aver portato a conclusioni soddisfacenti per l'interesse della parte, ciò, come si vedrà, non è sempre garantito (32). Il vero è che l'obiettivo perseguito dal ricorrente nel caso di specie non era l'annullamento dell'atto impugnato, bensì la dichiarazione di invalidità dello stesso ai soli fini della condan na della P.A. alla emanazione di un provvedimento che effettivamente tutelasse — in ragione dello svolgimento della VAS che era invece mancato — l'interesse di cui l'associazione ambientalista era portatrice. Si è quindi nell'ambito proprio delle azioni di condanna ad un facere specifico (33), all'interno del quale l'annullamento può svolgere un ruolo soltanto indiretto, di rimozione dell'atto illegittimo (34); e, a ben vedere, nel caso di specie, non ne svolge alcuno, atteso che, come più volte si è ripetuto, il venir meno dell'atto contrastava con l'interesse sotteso alla pretesa sostanziale del ricorrente (35). Tali rilievi, se idonei a superare le perplessità sollevate dalla possibilità di modulazione dell'effetto caducatorio da parte del giudice, non risolvono tuttavia l'ulteriore problematica relativa all'ammissibilità di un'azione di condanna così configurata. Il Codice del processo amministrativo non sembra infatti offrire uno strumentario adeguato per far fronte ad una domanda di parte che si articoli come condanna e prescinda dall'annullamento di un atto: l'art. 30, co. 1, c.p.a., nel disciplinare l'azione di condanna, sancisce la sua autonomia solo per le ipotesi di giurisdizione esclusiva ovvero per l'azione risarcitoria, così lasciando intendere che l'azione di condanna ad un facere, tra cui in particolare l'azione di adempimento, debba essere esperita contestualmente ad altra azione; e il d. lgs. n. 160 del 14 settembre 2012 (c.d. Secondo Correttivo al Codice del processo amministrativo), modificando l'art. 34, lett. c), c.p.a., ha espressamente previsto che l'azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto vada proposta « contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio ». L'azione di condanna « pubblicistica » si configura, dunque, come azione a struttura ‘complessa', nel senso che è richiesto, per la sua proposizione, il contestuale esperimento di altra azione, la quale costituisce il presupposto (logico, nonché normativo, giacché previsto dagli artt. 30, co. 1, e 34, lett. c), c.p.a.) per la domanda di condanna in senso stretto. Di talché, anche seguendo l'impostazione in questa sede prospettata, potrebbe risultare problematico accogliere i risultati a cui è pervenuta la Sesta Sezione. Da questo punto di vista, non sembrano convincere del tutto le proposte che per ovviare a tali limitazioni sono state avanzate da parte di quella dottrina che pure ha inquadrato la fattispecie in esame nell'ambito di un'azione di condanna. Così, postulare la dichiarazione di carenza di interesse per la domanda di annullamento, al fine di ottenere una pronuncia solo sulla condanna (che deve essere esplicitamente richiesta) (36), si espone all'obiezione, sollevata da altra parte della dottrina, di un'alterazione tra questioni di rito e questioni di merito, in violazione dell'art. 276, co. 2, c.p.c., richiamato dall'art. 76, co. 4, c.p.a. (37). Neppure affermare l'improcedibilità dell'azione di annullamento per sopravvenuta carenza di interesse a conseguire la relativa sentenza costitutiva (con conseguente limitazione del sindacato cognitorio del giudice all'accertamento dell'illegittimità ai fini della condanna, in analogia a quanto disposto dall'art. 34, co. 3, c.p.a. per l'azione risarcitoria) (38) sembra condivisibile, atteso che, nelle ipotesi che si prendono in considerazione, la mancanza di interesse non sopravviene nel corso del giudizio, ma è invece originaria (39). Invero, il tentativo di configurare un'azione autonoma di condanna dovrebbe forse tenere conto della differenza, difficilmente contestabile, tra un'azione volta ad ottenere il provvedimento richiesto e dalla P.A. implicitamente o esplicitamente negato e la diversa azione avente ad oggetto la condanna dell'Amministrazione all'adozione di un atto che essa avrebbe dovuto emanare a prescindere da qualsiasi richiesta di parte (e che invece non ha adottato, ovvero che ha adottato, ma in difformità da quanto prescritto dalla legge). In disparte la terminologia utilizzata (se, cioè con il nome di azione di adempimento si voglia indicare solo la prima tipologia delle due azioni descritte, ovvero se in tale denominazione si preferisca ricomprendere tutti i tipi di condanna provvedimentale, da contrapporre alle azioni di condanna pubblicistica di natura non provvedimentale, quale ad es., l'accesso agli atti), appare chiaro, infatti, che solo per la prima, e non per la seconda, la struttura complessa dell'azione risponde ad esigenze di carattere logico, in quanto funzionale al superamento di un diniego o di un silenzio-inadempimento (40). Nel caso in cui non vi sia invece alcun legame procedimentale tra la parte ricorrente e il provvedimento lesivo (caso tipico: atti a contenuto generale), allora neppure vi sarà un'istanza rimasta disattesa, in relazione alla quale l'azione di annullamento o il ricorso avverso il silenzio rinvengono la loro ragion d'essere. Tale impostazione sembra confermata, seppur soltanto implicitamente, dalla recente pronuncia Cons. St., Sez. V, n. 6002 del 27 novembre 2012, la quale ha ammesso un'azione di condanna (nella specie, all'indizione delle elezioni del Consiglio regionale entro i termini stabiliti dalla legge) proposta contestualmente ad un'azione atipica di accertamento dell'illegittimità dell'inerzia. Quest'ultima, che trova cittadinanza nel nostro ordinamento alla luce del principio dell'atipicità delle forme di tutela (41), consentirebbe di prescindere dal perfezionamento di un rifiuto in senso tecnico, che, in un caso in cui l'istanza del privato non è presupposto per l'adozione dell'atto, costringerebbe il ricorrente ad avviare, in maniera del tutto artificiosa, un apposito procedimento solo per vedersi decorrere infruttuosamente il termine per provvedere (quasi a riproporre surrettiziamente l'istituto della diffida ad adempiere) (42). Se si aderisce a tali considerazioni, risulta evidente che il problema di un'azione autonoma di condanna può porsi (e a ben vedere, si è posto) solo in relazione ad un provvedimento la cui emanazione prescinda da un'istanza del privato. D'altro canto, un'indicazione in senso favorevole al valore concettuale della distinzione tra i due tipi di condanna provvedimentale si ricava anche dal testo codicistico, che subordina al contestuale esperimento di un'azione di annullamento o avverso il silenzio solo l'azione di condanna « al rilascio di un provvedimento richiesto » (art. 34, lett. c), c.p.a.), non di qualsiasi provvedimento dovuto. È bene tenere a mente, tuttavia, che a prescindere dalla norma appena richiamata, anche un'altra disposizione sancisce il divieto di un'azione autonoma di condanna ad un facere, senza distinguere, in questo caso, l'oggetto dell'attività richiesta. Ci si riferisce all'art. 30, co. 1, c.p.a., che, pur non richiamando l'azione di annullamento o il ricorso avverso il silenzio, impone che l'azione di condanna (salvo quella risarcitoria e nei casi di giurisdizione esclusiva) debba essere proposta contestualmente ad altra azione. Ora, in un caso come quello deciso dalla sentenza n. 6002/2012, ove il provvedimento dovuto non era stato adottato nel termine previsto dalla legge, tale limitazione è facilmente aggirabile facendo ricorso ad un'azione atipica di accertamento (43) (proposta, è da dire, al solo fine di rispettare la prescrizione della normativa processuale). Non così nel caso in cui si sia in presenza di un atto esplicito (non di diniego, non essendovi alcuna istanza, ma semplicemente) difforme da quello prescritto dalla relativa normativa (quale, appunto, un piano faunistico venatorio di cui si lamenta l'illegittimità): in questa ipotesi, infatti, l'esperibilità di un'azione di accertamento dell'illegittimità del provvedimento incontra un limite insuperabile nell'art. 34, co. 2, c.p.a., il quale (salve le deroghe dalla medesima disposizione espressamente indicate) vieta al giudice di conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare per mezzo dell'azione di annullamento (ché, del resto, se così non fosse, l'illegittimità del provvedimento potrebbe essere fatta valere anche oltre il termine decadenziale proprio dell'impugnazione). In definitiva, alla luce di tali considerazioni, sembrerebbe doversi ammettersi che neppure la chiave ricostruttiva propo sta in questa sede risulti idonea a dare piena giustificazione alle conclusioni raggiunte dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2755/2011. Tuttavia, nonostante questi rilievi critici, proprio le ragioni da ultimo addotte per evidenziare l'esigenza di ‘svincolare', in taluni casi, la statuizione di condanna dai limiti di cui agli artt. 30, co. 1, e 34, lett. c), c.p.a. impongono, a nostro avviso, di guardare con favore ad ogni sforzo interpretativo volto ad ottenere un risultato analogo a quello che si avrebbe in presenza di un'azione autonoma di condanna ad un facere, così da concedere al privato la possibilità di articolare la sua pretesa processuale in conformità con il suo interesse sostanziale, senza rimandare al giudice il compito, che non gli è proprio, di ricavare tale pretesa in via interpretativa dalle doglianze addotte dalla parte. Sotto questo profilo, è sicuramente da auspicare — de iure condendo — un intervento legislativo volto ad ammettere, almeno per la seconda delle due tipologie di situazioni sopra individuate, un'azione autonoma di condanna con contestuale accertamento dell'invalidità dell'atto, purché — si badi — da un lato essa sia sottoposta allo stesso termine previsto dall'art. 29 c.p.a. (44), di modo da evitare possibili elusioni della regola di cui all'art. 34, co. 2, ult. parte, c.p.a.; dall'altro, siano contestualmente specificati gli effetti che l'accertamento dell'illegittimità sarebbe idoneo a produrre sul provvedimento negativo: in mancanza, infatti, si potrebbe porre il rischio di una contestuale presenza di due situazioni incompatibili tra loro, aventi ad oggetto la medesima fattispecie concreta. Non può però rimanere sottaciuto che, dopo l'adozione di un Codice e di due decreti correttivi, la necessità di invocare un ulteriore intervento legislativo costituisca ben più di quel « paradosso nel paradosso » già a suo tempo rilevato dalla dottrina (45). 4. Le conclusioni raggiunte nel paragrafo precedente hanno dunque posto in evidenza la necessità di inquadrare la vicenda decisa dal Consiglio di Stato in maniera differente rispetto al semplice « non annullamento » dell'atto e alla modulazione degli effetti caducatori. In ragione di ciò, importa valutare quali implicazioni ha avuto l'orientamento della Sesta Sezione sulla successiva giurisprudenza. In altre parole, dovrà verificarsi se anche le ulteriori pronunce che hanno aderito a tale prospettazione possano essere ricondotte nell'ambito delle decisioni di condanna, ovvero se la modulazione degli effetti dell'annullamento sia stata utilizzata al di là di questa ratio, così ponendosi del tutto al di fuori delle logiche (e delle regole) proprie del processo amministrativo. Sotto questo aspetto, delle decisioni sopra richiamate, merita particolare approfondimento quella del TAR Lazio, sez. II ter, n. 6418 del 13 luglio 2012, ove il potere di modulare gli effetti di annullamento è stato utilizzato per fini affatto diversi dall'ottenimento di una decisione di condanna ad un facere. In particolare, la pronuncia in questione aveva ad oggetto l'impugnazione dell'aggiudicazione di un appalto pubblico con contestuale proposizione, da parte dell'aggiudicatario, di un ricorso incidentale c.d. escludente, volto, cioè, a contestare la legittima partecipazione alla gara dell'impresa ricorrente e, conseguentemente, la sua legittimazione ad impugnare il provvedimento di aggiudicazione. La vicenda, quindi, si inseriva nell'ambito della vexata quaestio del rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale e, come si dirà, ha tratto dalla teoria della modulazione degli effetti caducatori elementi per concludere nel senso di poter procedere all'esame di entrambi i ricorsi. Sul punto, pur trattandosi di questioni del tutto note, gio verà ricordare come due siano i principali orientamenti che si fronteggiano in giurisprudenza. Secondo una prima tesi, una volta accolto il ricorso incidentale c.d. escludente, il ricorso principale non potrebbe essere esaminato, in quanto inammissibile per difetto di legittimazione (46). In altri termini, l'accoglimento del ricorso incidentale, determinando l'esclusione dell'impresa non aggiudicataria, ne farebbe venire meno la partecipazione alla gara, e quindi la legittimazione ad impugnare l'aggiudicazione. Il ricorso incidentale, in questa ipotesi, non persegue infatti il medesimo fine di quello principale, ma ha come scopo quello di paralizzare quest'ultimo, escludendo la legittimazione del suo proponente; esso concerne quindi una questione prettamente pregiudiziale, che, come tale, deve essere esaminata anteriormente alle questioni di merito e, se accolta, è idonea a precludere il loro esame. Tale orientamento, pacifico fino a tempi relativamente recenti, è stato successivamente disatteso — sulla base di uno spunto suggerito da un noto obiter dictum (47) — da una parte della giurisprudenza (48), con un indirizzo fatto poi proprio dall'Adunanza Plenaria n. 11 del 10 novembre 2008. In questo senso si è affermato che, pur dovendosi previamente procedere all'analisi del ricorso incidentale, l'accoglimento di questo non determinerebbe in ogni caso l'inammissibilità del ricorso principale. Laddove siano state ammesse due sole offerte ed entrambi i ricorsi vertano sulla legittimità dell'ammissione della controparte, verrebbe infatti in rilievo l'interesse strumentale alla ripetizione della gara (49), per cui, anche nel caso di accoglimento del ricorso incidentale, il ricorrente principale, secondo classificato, manterrebbe comunque l'interesse a che venga indetta una nuova procedura, per mezzo della quale ha una nuova possibilità di conseguire il bene della vita a cui aspira (50). Questa pronuncia, pur trovando talune adesioni in dottrina (51), è stata contestata sia per ragioni di ordine prettamente processuale — in quanto, opinando nel senso appena descritto, di fatto si prescindeva dalla sussistenza del requisito della legittimazione a ricorrere — sia perché una soluzione siffatta tendeva, in sostanza, a condurre verso un sindacato di tipo oggettivo, volto, cioè, a valutare la legittimità della gara in sé piuttosto che a tutelare posizioni giuridiche soggettive. Ciò ha portato l'Adunanza Plenaria a tornare sui suoi passi stabilendo che, in caso di fondatezza del ricorso incidentale escludente, l'esame del ricorso principale debba ritenersi precluso per il venir meno della legittimazione a ricorrere, da considerarsi quale requisito autonomo e distinto dall'interesse processuale (il quale pur potrebbe avere ad oggetto, in ipotesi, un'utilità strumentale) (52). Tuttavia, neppure tale ultima presa di posizione è stata accolta pacificamente da parte della successiva giurisprudenza: così, pochi mesi più tardi, il TAR Piemonte ha rimesso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la questione pregiudiziale circa la compatibilità dell'assetto delineato dalla Plenaria con i principi di parità delle parti, di non discriminazione e di tutela della concorrenza nei pubblici appalti (53). Analoghe perplessità sono state sollevate, sia pure attraverso un obiter dictum, da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, innanzi alle quali la pronuncia della Plenaria n. 4 del 2011 era stata impugnata (54). Anche la dottrina ha dedicato importanti riflessioni a tali tematiche, soffermandosi sia sul valore del ricorso incidentale quale strumento di difesa, sia sull'ordine di esame tra ricorso principale e incidentale (55). Aderendo all'impostazione che ravvisa nel ricorso inciden tale l'impugnazione di un atto (56), un primo orientamento ha ritenuto che lo stesso debba essere sottoposto ai medesimi canoni di valutazione di quello principale, cosicché, laddove il ricorrente principale e quello incidentale contestino le rispettive ammissioni, nessuno dei due gravami avrebbe priorità logica sull'altro (57): nel caso di due sole imprese partecipanti (58), i due ricorsi, se fondati, meriterebbero quindi entrambi accoglimento, con il conseguente annullamento dell'intera procedura di gara (59). Autorevole dottrina ha però contestato tale assunto (60), evidenziando come, a prescindere dalla natura che si attribuisce al ricorso incidentale (61), l'ordine logico delle questioni risulti rigidamente imposto dalla circostanza che il ricorrente incidentale introduce una questione pregiudiziale di rito (62), non rilevando, in tal senso, l'accessorietà del ricorso incidentale rispetto a quello principale, che, come ben si è notato, è caratteristica diversa dal condizionamento (63). Avverso tali conclusioni non varrebbe neppure sostenere che ciò che si contesta, in entrambi i ricorsi, è la legittimazione della controparte, di talché le due questioni non potrebbero che essere esaminate contestualmente (64). A differenza del ricorrente incidentale, infatti, quello principale vuole ottenere, attraverso l'esclusione dell'aggiudicatario dalla procedura di gara, l'annullamento dell'aggiudicazione, che costituisce la questione di merito oggetto del giudizio e, come tale, potrà essere esaminata solo se chi la propone è legittimato a ricorrere (65). In sostanza, secondo questa tesi, la posizione dell'aggiudicatario ricorrente incidentale solo apparentemente sarebbe assimilabile a quella del ricorrente principale (entrambi contestano gli atti di gara), perché ciò a cui mira il ricorrente incidentale è — e non potrebbe essere altro che — la dichiarazione di inammissibilità del ricorso principale; non, quindi, l'annullamento di un provvedimento, in realtà solo fittizio, ma la sottrazione « alle conseguenze negative che potrebbero derivargli dall'accoglimento del ricorso principale » (66). Tanto premesso — pur nell'estrema sintesi della presente trattazione — in ordine ai termini della questione, può ora analizzarsi la decisione del TAR Lazio di cui si è fatta inizialmente menzione. In tale pronuncia i giudici di primo grado, pur aderendo al principio generale formulato dalla Plenaria n. 4/2011 secondo cui per la sussistenza della legittimazione a ricorrere è necessario aver legittimamente partecipato alla procedura, si sono poi parzialmente discostati dalle conclusioni di quest'ultima, affermando che una siffatta impostazione non può essere applicata in modo soddisfacente a tutte le ipotesi che potrebbero in concreto verificarsi. Richiamando l'orientamento della sentenza Cons. St., n. 2755/2011, il TAR ha pertanto reputato incongruo, « in ragione della piena simmetria dei concorrenti ricorrenti », disporre l'annullamento ex tunc dell'atto di ammissione alla gara del ricorrente principale con conseguente esclusione della sua legittimazione a ricorrere. Per il pieno rispetto del principio di effettività della tutela, si preferisce invece optare per un annullamento ex nunc, che, permettendo di mantenere la posizione del ricorrente principale differenziata e qualificata (perlomeno in relazione al conseguimento di una nuova aggiudicazione), non fa venire meno, in capo a questi, la legittimazione a ricorrere. In definitiva, il TAR Lazio, sfruttando le potenzialità derivanti dalla modulazione dell'annullamento dell'atto, ha ritenuto di poter decidere quali effetti far scaturire dall'accoglimento del ricorso incidentale, superando, per questa via, le regole di carattere processuale che gli avrebbero impedito di esaminare il ricorso principale e giustificando tale assunto sulla necessità di garantire una tutela effettiva, possibile, a suo avviso, solo attraverso l'esame di entrambe le censure riguardanti la legittimità dell'ammissione delle imprese partecipanti. Tale impostazione, tuttavia, non sembra poter trovare condivisione, perché fa riemergere, surrettiziamente, una parificazione delle posizioni dei due ricorrenti, già esclusa dalla Plenaria, e che, a nostro modo di vedere, non trova riscontro né nel dato processuale, né in quello sostanziale, atteso che l'aggiudicatario, in ogni caso, non ricerca lo stesso risultato del ricorrente principale. Se infatti il compito del giudice amministrativo è quello di valutare la fondatezza delle doglianze dedotte dalle parti al fine di garantire le loro posizioni sostanziali così come si sono venute delineando a seguito dello svolgimento della gara (secondo la regola generale di cui all'art. 34, co. 2, c.p.a., che impone di fare riferimento ad un potere amministrativo già svolto), in nessun caso la posizione dell'aggiudicatario (a cui il bene è stato attribuito) potrà essere posta sullo stesso piano di quella del concorrente secondo classificato (che all'attribuzione del medesimo bene invece aspira) (67). In altri termini, in un processo di natura soggettiva, che abbia ad oggetto la tutela delle situazioni giuridiche dedotte in giudizio in relazione ad un potere amministrativo che necessariamente deve già essere stato esercitato, il sindacato non può atteggiarsi a controllo oggettivo sullo svolgimento della gara, ma deve comunque tenere conto delle posizioni delle parti che richiedono tutela, cosicché rimane imprescindibile la circostanza che in tanto potrà giudicarsi sulla legittimità della procedura, in quanto vi sia un soggetto legittimato a richiedere tale giudizio (68). A differenza del caso deciso dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2755/2011, dunque, la modulazione dell'effetto caducatorio non è stata, in questa ipotesi, utilizzata per modellare l'istanza giudiziale sulla pretesa effettiva della parte, per perseguire, in altri termini, l'interesse sostanziale del ricorrente (pur implicito, con tutti i limiti che ne conseguono in relazione al principio della domanda); essa è servita, invece, per attuare un sindacato il più esteso possibile sulla gara, che, tuttavia, ha avuto l'effetto di limitare la tutela a favore del ricorrente incidentale, giacché l'esito positivo delle sue doglianze non gli ha permesso di conseguire lo scopo per cui il suo ricorso era stato posto in essere. A tal proposito, giova ancora una volta ripetere che il principio dell'effettività della tutela, invocato dalla decisione del TAR per giustificare la sua posizione, non può essere inteso in maniera del tutto generica (69), così in definitiva legittimando il giudice a qualsiasi intervento, ma deve porsi necessariamente nei termini propri del processo amministrativo, il cui scopo — costituzionalmente stabilito — è quello di garantire le situazioni giuridiche soggettive dedotte in giudizio (70). Se così è, l'impostazione del TAR Lazio non può essere accolta, perché utilizza un principio elaborato ad altri fini — e con applicazione incerta anche in relazione a quelle ipotesi — per uno scopo del tutto diverso, a dire quello di superare l'indirizzo della Plenaria senza formalmente porsi in contrasto con i principi dalla stessa sanciti. Viene in evidenza, dunque, l'obiezione fondamentale che alla teoria del « non annullamento » dell'atto illegittimo è stata mossa, che, cioè, in forza di essa al giudice è lasciata piena autonomia sugli effetti da ricondurre ad una domanda giudiziale, con palese violazione del principio di cui all'art. 99 c.p.c. Il non corretto inquadramento della fattispecie dedotta in giudizio dinanzi al Consiglio di Stato, risolta nell'ambito del rimedio impugnatorio — pur comprensibile in quel caso, come si è detto — palesa dunque il limite della ricerca dell'effettività della tutela attraverso schemi che non gli sono propri; limite che viene in evidenza con l'estensione del medesimo principio a fattispecie del tutto diverse, con risultati — a nostro modo di vedere — contrari a quelli originariamente perseguiti. 5. L'analisi compiuta nei paragrafi precedenti permette di trarre alcune conclusioni in merito all'indirizzo inaugurato dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato con la sentenza n. 2755/2011, sulla modulazione dell'effetto di annullamento in relazione all'interesse posto a base dell'impugnazione e all'effettività della tutela giurisdizionale. Si è detto, a tal proposito, come la necessità di rapportare la decisione alla pretesa sostanziale della parte costituisca un'esigenza del tutto condivisibile, ma non possa essere perseguita attraverso la disposizione, da parte del giudice, del potere di annullamento, in quanto, opinando in tal senso, ci si pone inevitabilmente in contrasto con il principio della domanda e si rischia, legando tale disponibilità ad una valutazione di opportunità operata dal g.a., di sfociare in un sindacato non del tutto aderente al carattere soggettivo della giurisdizione amministrativa (71). Così è avvenuto nella pronuncia del TAR Lazio n. 6418/2012, ove il giudice amministrativo si è discostato da quei presupposti che, pur con più di una perplessità, giustificavano, nel caso di specie, l'operazione compiuta dalla Sesta Sezione, a dire la necessità di pronunciare una decisione di condanna autonoma da una statuizione di annullamento. Proprio il confronto tra le due decisioni rende però possibile precisare quali siano gli effettivi termini entro i quali il principio di modulazione degli effetti dell'annullamento può ritenersi compatibile con il nostro ordinamento processuale. In primo luogo, si deve ribadire che il fondamento della pronuncia del Consiglio di Stato va ricercato nella necessità di raccordare la domanda processuale del ricorrente alla sua pretesa sostanziale, che, nel caso deciso dalla sentenza n. 2755/2011, si poneva in contrasto con un annullamento ex tunc dell'atto impugnato. Il giudice amministrativo, anche seguendo questa impostazione, non avrebbe quindi una piena disponibilità dell'effetto caducatorio, ma potrebbe solo conformare l'interesse del privato al rimedio processuale da questi esperito. Se si condivide tale assunto, appare chiaro che la modulazione degli effetti di annullamento non può mai porsi in contrasto con la pretesa del ricorrente, come è invece avvenuto nella decisione del TAR Lazio (dove il ricorrente incidentale, pur vittorioso, si è visto in parte negare il risultato utile dell'accoglimento delle sue doglianze). Inoltre, se il presupposto per derogare all'effetto caducatorio dell'annullamento deve essere funzionale al concreto atteggiarsi della pretesa sostanziale del ricorrente, occorre necessariamente che tale pretesa, per quanto è possibile, trovi riscontro nella domanda giudiziale, non potendo in ciò sopperire il potere interpretativo del giudice. Se quanto detto si rapporta all'attuale quadro processuale, in cui è assente la previsione di un'azione autonoma di condanna ad un facere, potrebbe allora reputarsi non del tutto incongruo applicare il principio del « non annullamento » ai soli casi (e nei limiti) in cui sia funzionale ad una statuizione di condanna, purché quest'ultima — a differenza di quanto è accaduto nella decisione n. 2755/2011 — sia puntualmente dedotta in giudizio tramite rituale proposizione della relativa domanda (72); ché, altrimenti, il disposto dell'art. 99 c.p.c. risulterebbe inevitabilmente violato. Ciò, si badi, non rappresenta un'incondizionata adesione al principio statuito dalla Sesta Sezione — sulle cui possibili obiezioni si è già dato ampiamente riscontro — ma indica piuttosto il limite entro il quale, a nostro avviso, l'« ingegneria processuale » (73) del Consiglio di Stato può dirsi strumentale al perseguimento dell'effettività della tutela senza per questo derogare ad un modello giurisdizionale che si caratterizzi in senso soggettivo. Abstract: L'indirizzo inaugurato dalla ormai nota sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2755 del 10 maggio 2011, sulla possibilità per il giudice amministrativo di modulare gli effetti caducatori delle proprie pronunce, continua a destare perplessità alla luce della sua applicazione da parte della successiva giurisprudenza che, in forza di esso, ha ritenuto di poter superare il principio stabilito dall'Adunanza Plenaria n. 4/2011 sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale c.d. escludente. Nello scritto si evidenzia come, per una corretta comprensione del problema, sia a nostro avviso necessario inquadrare la vicenda decisa dalla Sesta Sezione non all'interno del tradizionale giudizio impugnatorio, bensì in quello di condanna ad un facere specifico. In quest'ottica, le peculiarità della pronuncia vanno ricercate nella mancanza, nel nostro processo amministrativo, di un'azione autonoma di condanna ad un facere, la quale — in tutti quei casi ove la domanda giudiziale sia volta ad ottenere non il provvedimento richiesto alla P.A. e da questa implicitamente o esplicitamente negato, quanto piuttosto la condanna dell'Amministrazione all'adozione di un atto che essa avrebbe dovuto emanare d'ufficio — premette di prescindere da un annullamento non sempre conforme all'interesse sostanziale del ricorrente. Su queste basi si cerca quindi di dimostrare che il principio del “non annullamento” può trovare cittadinanza nel nostro ordinamento processuale solo se lo si ricollega a quella che è la ratio della sentenza n. 2755/2011; solo laddove, cioè, vi sia la necessità di modellare l'istanza giudiziale sulla pretesa effettiva della parte, non trovando questa nei mezzi messi a disposizione dal Codice un corrispettivo adeguato. Nell'attuale quadro processuale, ove è assente la previsione di un'azione autonoma di condanna ad un facere, la modulazione degli effetti caducatori andrebbe allora limitata ai soli casi in cui essa sia funzionale ad una statuizione di condanna, la quale peraltro deve essere puntualmente dedotta in giudizio tramite rituale proposizione della relativa domanda, in conformità a quanto sancito dagli artt. 99 e 112 c.p.c. Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin: 10px 10px;"> Note: (1) Costituisca, cioè, la « regina delle azioni », per usare le parole di M. Clarich,Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, in Giorn. dir. amm., 2010, 1127. (2) Secondo l'indirizzo giurisprudenziale che ormai si sta affermando come maggioritario, tale disposizione deve essere intesa nel senso che l'interesse risarcitorio debba astrattamente sussistere, non anche che la relativa domanda debba già essere stata proposta: così Cons. St., Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817 annotata da R. Proietti, Inutilità dell'annullamento dell'atto e accertamento dell'illegittimità del provvedimento, in Urb. app., 2011, 1347 ss.; Cons. St., Sez. IV, 18 maggio 2012, n. 2916; nonché Tar Toscana, sez. I, 30 maggio 2012, n. 1047 ove si è tuttavia precisato che per procedere all'accertamento vi deve essere un'esplicita richiesta in tal senso da parte dell'interessato. ContraTar Lombardia, Milano, sez. IV, 5 ottobre 2011, n. 2352 secondo cui laddove l'azione risarcitoria non sia stata proposta nel medesimo o in separato giudizio, o non sia dimostrato che il ricorrente fosse in procinto di promuoverla, il giudice non potrebbe accertare l'illegittimità dell'atto. (3) Prevista dal § 113, abs. 1, della Legge processuale amministrativa tedesca (Verwaltungsgerichtsordnung - VwGO). (4) Cons. St., Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755 con note e commenti di A. Travi, Accoglimento dell'impugnazione di un provvedimento e « non annullamento » dell'atto illegittimo, in Urb. e app., 2011, 936 ss.; P. Quinto, La specificità della giurisdizione amministrativa ed una sentenza di « buon senso », in Giustamm.it, 2011; M. Sapio, Un caso di sospensione degli effetti caducatori del giudicato amministrativo in applicazione della rilevanza del diritto europeo sul diritto processuale amministrativo nazionale, ivi; M. Macchia,L'efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: prove di imitazione, in Giorn. dir. amm., 2011, 1310 ss.; E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, in Giur. it., 2012, 439 ss.; E. Loria,Accertata l'illegittimità dell'atto impugnato il giudice può decidere della non retroattività, in Guida dir., 26/2011, 103 ss.; G. Fonderico,Nota a Cons. St., sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755, in Guida dir. Dossier, 9/2011, 32; R. Politi,Atipicità delle azioni e chirurgia giurisprudenziale dell'azione di annullamento: la « sovrascrittura del programma », in Foro amm.Tar, 2011, 1071 ss.; C. Feliziani, Oltre le Colonne d'Ercole. Può il giudice amministrativo non annullare un provvedimento illegittimo?, in Foro amm.-CdS, 2012, 427 ss.; C. E. Gallo,I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, in questa Rivista, 2012, 280 ss.; A. Giusti,La « nuova » sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, ivi, 293 ss.; L. Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di annullamento amputata dell'effetto eliminatorio?, ivi, 1128 ss.; F. CaringellaIl sistema delle tutele dell'interesse legittimo alla luce del codice e del decreto correttivo, in Urb. e app., 2012, 17 ss.; R. Dipace, L'annullamento tra tradizione e innovazione: la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, in questa Rivista, 2012, 1273 ss.; M. Fornaciari,Ultimissime dal Consiglio di Stato: l'annullamento ... che non annulla!, ivi, 1662 ss. (5) In particolare, Tar Abruzzo, Pescara, n. 693 del 13 dicembre 2011, con nota di S. Foà,Annullamento ex nunc e condanna dell'amministrazione ad un facere specifico, in Urb. e app., 2012, 707 ss. (analoga a Tar Abruzzo, Pescara, nn. 695700/2011); Tar Lazio, sez. II ter, n. 6418 del 13 luglio 2012; Tar Lazio, sez. I, n. 1432 del 13 febbraio 2012. (6) Ma sul punto si veda il fondamentale rilievo di A. Travi,Accoglimento dell'impugnazione di un provvedimento e « non annullamento » dell'atto illegittimo, cit., 937, secondo cui l'esercizio della caccia finirebbe comunque per non essere sanzionabile « perché — come insegna la Cassazione — ai fini della applicazione di una sanzione per la violazione di un divieto elemento del divieto della fattispecie è anche la legittimità del divieto. (...) E nel nostro caso lo stesso Consiglio di Stato ha accertato l'illegittimità dell'atto ». (7) Come definita da E. Follieri, cit. nel titolo della sua nota. (8) Si fa riferimento al titolo della nota di C. Feliziani, cit. (9) Critici, in particolar modo, A. Travi, Accoglimento dell'impugnazione di un provvedimento e « non annullamento » dell'atto illegittimo, cit., 938; E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 440-442. Forti obiezioni sulla pronuncia sono state sollevate anche da parte di F.G. Scoca, Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da provvedimento amministrativo, in Corr. giur., 2011, 989; R. Villata, Ancora « spigolature » sul nuovo processo amministrativo?, in questa Rivista, 2011, 1516, a detta dei quali, seguendo l'impostazione della sent. n. 2755/2011, il giudice finirebbe per valutare l'opportunità dell'azione proposta, in tal modo non rispettando il principio della domanda di parte. (10) Così il titolo della nota di P. Quinto, La specificità della giurisdizione amministrativa ed una sentenza di « buon senso », cit. (11) E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 440-441, alla cui bibliografia si rimanda in merito all'effetto ripristinatorio e in generale agli effetti della pronuncia di annullamento. (12) Così E. Follieri,op. loc. ult. cit.; A. Travi, Accoglimento dell'impugnazione di un provvedimento e « non annullamento » dell'atto illegittimo, cit., 937; R. Villata, Ancora « spigolature » sul nuovo processo amministrativo?, cit., 1516. (13) Si vedano, su tutti, i rilievi sollevati da C. Volpe, La non annullabilità dei provvedimenti amministrativi illegittimi, in questa Rivista, 2008, spec. 340 ss. Sulla invalidità del provvedimento amministrativo per vizi formali si rimanda, in generale e senza alcuna pretesa di completezza, a F. Luciani,Il vizio formale nella teoria dell'invalidità amministrativa, Torino, 2003; V. Cerulli Irelli,Considerazioni in tema di sanatoria di vizi formali, in V. Parisio (a cura di), Vizi formali, procedimento e processo amministrativo, Milano, 2004, 101 ss.; F.G. Scoca,I vizi formali nel sistema delle invalidità dei provvedimenti amministrativi, ivi, 56 ss.; D.U. Galetta,Giudice amministrativo e vizi formali, ivi, 77 ss.; A. Romano Tassone,Vizi formali e vizi procedurali, in Giustamm.it, 2005; A. Police,L'illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra c.d. vizi formali e vizi sostanziali, in Dir. amm., 2003, 735 ss.; D. Corletto,Vizi « formali » e poteri del giudice amministrativo, in questa Rivista, 2006, 43 ss.; G. Morbidelli,Invalidità e irregolarità, in AnnuarioAispa, Milano, 2003, 79 ss.; D. Marrama,Brevi riflessioni sul tema dell'irregolarità e dell'invalidità dei provvedimenti amministrativi, in questa Rivista, 2005, 359 ss.; R. Giovagnoli,I vizi formali e procedimentali, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, 2011, 950 ss. (14) In tal senso A. Travi,Accoglimento dell'impugnazione di un provvedimento e « non annullamento » dell'atto illegittimo, cit., 938. Si vedano, tuttavia, i rilievi di M. Macchia,L'efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo, cit., 1314, il quale nota come la formula dell'art. 113 Cost. sia stata introdotta per ripartire i compiti tra le giurisdizioni, sicché scopo della legge sarebbe quello di « determinare i casi in cui è possibile annullare, mentre resta indifferente stabilire quando tale annullamento non è necessario ». Per un'analisi dell'art. 113 Cost., sia consentito limitarci al richiamo di C. Volpe, op. loc. ult. cit.; nonché di G. Berti, Commento all'art. 113 Cost., in Commentario della costituzione a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1987, 85 ss. (15) Sugli artt. 120 ss. c.p.a. (e, prima della codificazione, sul d.lgs. n. 53 del 20 marzo 2010) si vedano, tra gli altri, E. Follieri,I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120-124 del codice del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2010, 1067 ss.; V. Lopilato, Categorie contrattuali, contratti pubblici e i nuovi rimedi previsti dal decreto legislativo n. 53 del 2010 di attuazione della direttiva ricorsi, in Dir. proc. amm., 2010, 1326 ss.; A. Bartolini, S. Fantini, F. Figorilli, Il decreto legislativo di recepimento della direttiva ricorsi, in Urb. app., 2010, 638 ss.; F. Cintioli, In difesa del processo di parti. Note a prima lettura del parere del Consiglio di Stato sul « nuovo » processo amministrativo, in Giustamm.it, 2010; M. Lipari,L'annullamento dell'aggiudicazione e gli effetti sul contratto: poteri del giudice, in Giustamm.it, 2010; Id.,Il recepimento della « direttiva ricorsi »: il nuovo processo super-accelerato in materia di appalti e l'inefficacia « flessibile » del contratto, in Giustamm.it, 2010; A. Angiuli, Contratto pubblico e sindacato del giudice amministrativo, in Dir. amm., 2010, 865 ss.; E. Sticchi damiani,Annullamento dell'aggiudicazione e inefficacia funzionale del contratto, in questa Rivista, 2011, 240 ss.; R. De Nictolis,Artt. 121-124, in A. Quaranta, V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, 1013 ss.; G. Chiné, D. Fata, M. Sanino, Le sorti del contratto stipulato a seguito di aggiudicazione illegittima, in M. Sanino (a cura di), Codice del processo amministrativo, Torino, 2011, 539 ss.; P. Carpentieri, Sorte del contratto (nel nuovo rito sugli appalti), in questa Rivista, 2011, 664 ss.; A. Police,Attualità e prospettive della giurisdizione di merito del giudice amministrativo, in Studi in onore di Alberto Romano, II, Napoli, 2011, 1437 ss.; R. Chieppa, Il nuovo processo amministrativo dopo il correttivo al Codice, Milano, 2012, 632 ss. (16) In questo senso si vedano A. Giusti,La « nuova » sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, cit., 307-309; C. Feliziani, Oltre le Colonne d'Ercole. Può il giudice amministrativo non annullare un provvedimento illegittimo?, cit., 450. (17) Sul punto, giusto il rilievo di R. Dipace,L'annullamento tra tradizione e innovazione, cit., 1377-1378, secondo cui « se è vero che il giudice può operare alcune valutazioni in ordine alla inefficacia o meno del contratto, la circostanza rilevante è che alla base di tale valutazione vi è sempre una sentenza di annullamento. Infatti, la valutazione della sorte del contratto interviene solo a seguito dell'eliminazione retroattiva della aggiudicazione, ossia un annullamento giurisdizionale con efficacia retroattiva ». (18) In questi termini A. Giusti,Il contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo, Napoli, 2012, 207, la quale fa riferimento a quanto stabilito da Cons. St., ad. plen., n. 9 del 30 luglio 2008. (19) Secondo cui « ... la Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi ». (20) Sul punto Corte giust. Ue, 5 giugno 1973, in causa C-81/1972, Commissione c. Consiglio (Staff salaries), sulle retribuzioni e sulle pensioni dei dipendenti di ruolo delle allora Comunità europee, una volta rilevata l'invalidità dell'atto impugnato, ha stabilito che « onde evitare ogni discontinuità nel regime delle retribuzioni, è opportuno applicare l'art. 174, 2º comma, del Trattato [art. 264, par. 2, Tfue], di guisa che gli articoli annullati continueranno ad avere effetto fino a che il consiglio non abbia adottato un nuovo regolamento, in ossequio alla presente sentenza »; ancora, Corte giust. Ue, 25 febbraio 1999, cause riunite C164/97 e 165/97, Parlamento c. Consiglio, ove si afferma che « se l'annullamento dei regolamenti nn. 307/97 e 308/97 producesse pienamente i suoi effetti, ciò potrebbe pregiudicare gravemente la realizzazione di azioni intraprese negli Stati membri, con il sostegno della Comunità, per la protezione dell'ambiente. Occorre quindi che la Corte si avvalga del potere conferitole dall'art. 174, secondo comma, del Trattato e statuisca che gli effetti dei regolamenti annullati saranno integralmente conservati fintantoché il Consiglio non adotti, entro un termine ragionevole, nuovi regolamenti aventi lo stesso oggetto ».In dottrina, può rimandarsi ad A.H. Türk, Judicial Review inEuLaw, Cheltenham, 2009, 151 ss.; P. Craig, EuAdministrative Law, Oxford, 2006, 757- 758; T.C. Hartley,The foundations of European Union Law, Oxford, 2010, 437439; M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2011, 578-579; A. Nocerino Grisotti, Effetti ex nunc dell'annullamento di atti comunitari e principi dell'ordinamento italiano, in Dir. com. scambi internaz., 1988, 421 ss.; L. Azzena,Corte costituzionale e Corte di giustizia Cee a confronto sul tema dell'efficacia temporale delle sentenze, in Riv. trim. dir. pubbl., 1992, 688 ss.; P. Manzini, Ricorso di annullamento: riforma e controriforma, in Dir. Unione europea, 2002, 717 ss.; G. Parodi, Gli effetti temporali delle sentenze di annullamento e di invalidità della Corte di giustizia delle comunità europee, in Quaderni regionali, 2007, 319 ss. (21) Non sarebbero queste, in altre parole, le modalità attraverso cui l'ordinamento europeo influenza quello processuale nazionale. Al riguardo può rimandarsi, tra gli altri, a D. de Pretis,Il processo amministrativo in Europa, Trento, 2000, passim, spec. 24 ss.; Id.,La tutela giurisdizionale amministrativa europea e i principi del processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2002, 683 ss.; Id.,La tutela giurisdizionale amministrativa in Europa fra integrazione e diversità, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2005, 1 ss., spec. 12 ss.; R. Caranta,Giustizia amministrativa e diritto comunitario: studio sull'influsso dell'integrazione giuridica europea sulla tutela giurisdizionale dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, Napoli, 1992; Id.,La tutela giurisdizionale (italiana, sotto l'influenza comunitaria), in M.P. Chiti, G. Greco,Trattato di diritto amministrativo europeo. Parte generale, II, Milano, 2007, 1031 ss., spec. 1062 ss.; W. Van Gerven, Bridging the gap between Community and National Laws: Towards a Principle of Homogeneity in the Field of Legal Remedies?, in Common Market L. Rev., 1995, 679 ss.; nonché, più in generale, a G. Morbidelli,La tutela giurisdizionale dei diritti nell'ordinamento comunitario, Milano, 2001. (22) Così E. Follieri, L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 442. (23) Per questi rilievi, ampiamente, A. Giusti,La « nuova » sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, cit., 318-320. (24) S.R. Masera, Il risarcimento in forma specifica nel processo amministrativo, Padova, 2006, 147. (25) Così C. Feliziani, Oltre le Colonne d'Ercole. Può il giudice amministrativo non annullare un provvedimento illegittimo?, cit., 445. Nello stesso senso, R. De Nictolis,Ordine di esame del ricorso principale e incidentale: la posizione della Cassazione, nota a Cass., sez. un., n. 10294 del 21 giugno 2012, in Urb. app., 2012, 1025, che parla dell'effettività come di « una formula vuota atta a tutto giustificare e tutto consentire ». Si vedano sul punto anche gli ampi rilievi di R. Villata,Dodici anni dopo: il Codice del processo amministrativo, in B. Sassani, R. Villata (a cura di), Il Codice del processo amministrativo, Torino, 2012, 57, il quale richiama quanto sostenuto da G. Verde,Diritto processuale civile, I, Bologna, 2010, 40. (26) Sul punto, si vedano i rilievi di G. Romeo,L'effettività della giustizia amministrativa: principio o mito?, in questa Rivista, 2004, 653 ss., che nota come nella giustizia amministrativa il principio di effettività si sia affermato come principio precettivo, piuttosto che come criterio di valutazione degli istituti processuali. Sull'effettività della giustizia amministrativa può rimandarsi, in generale, a M.P. Chiti,L'effettività della tutela giurisdizionale tra riforme nazionali e influenza del diritto comunitario, in questa Rivista, 1998, 499 ss.; M. Clarich,L'effettività della tutela nelle sentenze del giudice amministrativo, ivi, 523 ss.; G. Greco, Effettività della giustizia amministrativa nel quadro del diritto europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 997 ss.; M. Renna.Giusto processo ed effettività della tutela in un cinquantennio di giurisprudenza costituzionale sulla giustizia amministrativa: la disciplina del processo amministrativo tra autonomia e « civilizzazione », in G. Della Cananea, M. Dugato (a cura di) Diritto amministrativo e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 505 ss.; L. Torchia,I principi generali, in Giorn. dir. amm., 2010, 1117 ss.; R. Caponigro,Il principio di effettività della tutela nel codice del processo amministrativo, in www. giustiziaamministrativa.it; M. Mengozzi,Giusto processo e processo amministrativo. Profili costituzionali, Milano, 2009; S. Tarullo, Il giusto processo amministrativo: studio sull'effettività della tutela giurisdizionale nella prospettiva europea, Milano 2004; Id., Giusto processo (dir. proc. amm.), in Enc. dir., Ann., II, 1, Milano, 2008, 377 ss. (27) Secondo l'impostazione fatta propria da C.E. Gallo,I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, cit., 286 ss. (28) E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 441. (29) Così C.E. Gallo,I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, cit., 288. (30) In questo senso, ancora, C.E. Gallo,I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, cit., 292, il quale afferma che poiché il processo amministrativo è un processo di parti, il giudice amministrativo non può adottare pronunzie se non su richiesta della parte, che, tuttavia, « possono essere richieste esplicite o implicite, richieste cioè individuate espressamente dalle parti medesime o implicitamente desumibili dalle conclusioni dalle medesime articolate, laddove ciò non sia ». (31) In maniera non dissimile sembra concludere anche E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 442, il quale rilevando (come si vedrà subito infra nel testo) che, nel caso di specie, è stata in definitiva emanata una sentenza di condanna, afferma che il giudice può pronunziare, a norma del Codice del processo amministrativo, una condanna ad un facere specifico « qualora il ricorrente abbia proposto la relativa domanda ». (32) Si veda infra paragrafo successivo. (33) L'azione di condanna ad un facere specifico (altrimenti definita come azione di condanna « pubblicistica ») come è noto, era stata disciplinata, nelle forme dell'azione di adempimento, dal testo approvato dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato per la redazione del Codice del processo amministrativo (artt. 40 e 45, co. 1, lett. c), e co. 2, del testo definitivo licenziato dalla Commissione), ma fu successivamente espunta, in sede di approvazione del decreto delegato, da parte del Consiglio dei Ministri. Pur mancando nel Codice una disposizione espressa, tale azione è stata tuttavia ammessa da parte di Cons. St., ad. plen., n. 3 del 23 marzo 2011 e n. 15 del 29 luglio 2011, nonché, tra le altre, da Tar Lombardia, Milano, sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428, con note di L. Torchia,Condanna e adempimento nel nuovo processo amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2011, 1187 ss., e di A. Carbone,Fine delle perplessità sull'azione di adempimento, in Foro amm.Tar, 2011, 1499 ss.; Tar Lazio, Sez. I, 19 gennaio 2011, n. 472 (poi tuttavia riformata da Cons. St., Sez. IV, n. 3858 del 27 giugno 2011, annotata da D. Vaiano, L'azione di adempimento nel processo amministrativo: prime incertezze giurisprudenziali, in Giur. it., 2012, 714 ss.); Tar Puglia, Bari, Sez. III, 25 novembre 2011, n. 1807; Cons. St., Sez. V, n. 6002 del 27 novembre 2012, con un nostro breve commento in Giustamm.it. Tale indirizzo ha trovato riscontro nel d.lgs. n. 160 del 14 settembre 2012 (c.d. Secondo Correttivo al Codice del processo amministrativo), il quale ha aggiunto all'art. 34, lett. c), c.p.a. la seguente proposizione: « L'azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31, comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o all'azione avverso il silenzio ». In dottrina si vedano, in particolare, E. Follieri, Le azioni di annullamento e di adempimento nel codice del processo amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2011, 457 ss.; M. Clarich,Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, cit., 1121 ss.; R. Gisondi, La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010; R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo alla ricerca dell'effettività della tutela, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010; Id.,Azione di condanna, in V. Lopilato, A. Quaranta (a cura di) Il processo amministrativo, cit., 276 ss.; F. Patroni Griffi, Riflessioni sul sistema delle tutele nel processo amministrativo riformato, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010; P. Zerman, L'effettività della tutela nel Codice del processo amministrativo, ivi; L. Torchia, Le nuove pronunce nel Codice del processo amministrativo, ivi; M.A. Sandulli,Anche il processo amministrativo ha finalmente un codice, in Foro amm.Tar, 2010, LXV ss.; M. Ramajoli,Le tipologie delle sentenze del giudice amministrativo, in R. Caranta (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Torino, 2011, 573 ss.; S. Raimondi, Le azioni, le domande proponibili e le relative pronunzie, in questa Rivista, 2011, 913 ss.; S. Varone,Azioni di cognizione, in M. Sanino (a cura di), Codice del processo amministrativo, cit., 151; V. Cerulli Irelli,Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni, in questa Rivista, 2012, 481 ss.; F. Luciani,Processo amministrativo e disciplina delle azioni: nuove opportunità, vecchi problemi e qualche lacuna nella tutela dell'interesse legittimo, ivi, 511 ss.; I. Pagni,L'azione di adempimento nel processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 2012, 328 ss.; A. Giusti,Il contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo, cit., 185 ss.; nonché A. Carbone,L'azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012. In senso contrario all'ammissibilità di un'azione di condanna, nell'assetto processuale precedente al Secondo correttivo, si veda A. Travi,La tipologia delle azioni nel nuovo processo amministrativo, in La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali. Atti del LVI Convegno di studi amministrativi di Varenna del 23-25 settembre 2010, Milano, 2010, 75 ss. Dopo il correttivo, i dubbi permangono per quella parte della dottrina secondo cui l'interesse legittimo non sarebbe situazione giuridica idonea, per il suo contenuto sostanziale, ad essere tutelata tramite un'azione di condanna all'emanazione del provvedimento, senza che per questo risulti violato il principio di effettività della tutela, che proprio al contenuto della situazione giuridica deve essere rapportato: così R. Villata,Dodici anni dopo: il Codice del processo amministrativo, cit., 41 ss., spec. 53 ss. e 63 ss. Sulla base del medesimo percorso argomentativo secondo cui il principio di effettività non può essere utilizzato come canone generico, ma deve essere connesso al bisogno di tutela che la situazione giuridica fatta valere in giudizio può esprimere, si è tuttavia pervenuti a opposte conclusioni in L'azione di adempimento nel processo amministrativo, cit., peraltro ampiamente e generosamente richiamato dallo stesso R. Villata,op. loc. ult. cit. In generale, per una discussione sull'argomento, si vedano pure i commenti di M. Clarich; C.E. Gallo; E. Follieri; F. Merusi; G. Verde; A. Romano Tassone; S. Menchini; B. Sassani; L. Ferrara, A. Di Marco, in Guida dir. Dossier, 9/2011, 82 ss. (34) Come si era già rilevato in A. Carbone,L'azione di adempimento nel processo amministrativo, cit., 197 ss., e come, del resto, affermato anche da E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 442; F. Luciani,Processo amministrativo e disciplina delle azioni, cit., 522-524; L. Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di annullamento amputata dell'effetto eliminatorio?, cit., 1134 ss.; M. Fornaciari,Ultimissime dal Consiglio di Stato: l'annullamento ... che non annulla!, cit., 1666 ss. M. Macchia,L'efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo, cit, 1315, invece, risolve la questione facendo riferimento ad un'azione di accertamento che, espunta dalla versione definitiva del Codice, sopravvivrebbe (prendendo a prestito l'espressione da M. Clarich,op. cit.) « sotto traccia »; ma si vedano sul punto le critiche di L. Bertonazzi,op. ult. cit., 1136, n. 14. (35) Volendo usare l'enfatica ed efficace espressione di M. Fornaciari,Ultimissime dal Consiglio di Stato: l'annullamento ... che non annulla!, cit., 1667, può dirsi che la sentenza n. 2755/2011 « condanna la p.a. senza condannarla, tramite un annullamento che non annulla ». (36) Come proposto da E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 442. (37) Secondo quanto affermato da L. Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di annullamento amputata dell'effetto eliminatorio?, cit., 1140, n. 22. (38) Così L. Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di annullamento amputata dell'effetto eliminatorio?, cit., 1135 ss. (39) Nella tesi prospettata da L. Bertonazzi, infatti, la carenza di interesse all'annullamento sopravverrebbe una volta esaminata nel merito ed accolta la relativa azione, non per cause ulteriori, ma proprio quale effetto dell'accoglimento della domanda giudiziale: il che equivale a dire, se non si è in errore, che la carenza di interesse è originaria; ma, se così è, dovrebbe cadere anche l'azione di condanna, che in quella di annullamento trova il presupposto per il suo esperimento. Né vale, in senso contrario, il richiamo all'art. 34, co. 3, c.p.a. sulla conversione dell'azione di annullamento in azione di accertamento laddove sussista l'interesse ai fini risarcitori (op. ult. cit., 1137-1139), atteso che quest'ultima disposizione fa riferimento ai casi in cui l'interesse alla caducazione dell'atto venga effettivamente meno nel corso del giudizio. (40) Invero, potrebbe seriamente dubitarsi che quanto detto valga anche per l'azione avverso il silenzio, poiché essa si configura già, di per sé, come azione di adempimento, sì che la necessità di proporre insieme ricorso avverso il silenzio e azione di condanna, secondo quanto prescritto dall'art. 34, lett. c), sembra solo un'inutile duplicazione (foriera di dubbi, peraltro, in relazione al rito applicabile). Tuttavia, proprio in ragione della lettera della norma appena richiamata, le conclusioni riportate nel testo appaiono obbligate. (41) Si veda in proposito Tar Lazio, sez. II bis, n. 6564 del 18 luglio 2012, nonché, in generale, Cons. St., ad. plen., n. 15/2011, cit., e, precedentemente, Cons. St., Sez. V, n. 717 del 9 febbraio 2009. (42) Così almeno sembrano doversi leggere i passaggi della pronuncia in cui si afferma che « non merita accoglimento neanche il secondo motivo d'appello con il quale si deduce l'inammissibilità dell'azione pubblicistica di adempimento mettendo in evidenza la mancata formulazione, da parte dei ricorrenti in prime cure, di una richiesta indirizzata alla Regione Lazio per l'adozione dell'atto di indizione delle elezioni e il mancato perfezionamento di un rifiuto ad opera del Presidente della Regione. La Sezione osserva che il ricorso di prime cure conteneva un'azione dichiarativa dell'illegittimità dell'inerzia dell'Amministrazione intimata rispetto al comportamento ad essa imposto dalla vigente normativa, con la connessa domanda di condanna ad un facere doveroso. (...) L'ammissibilità dell'invocata tutela schiettamente dichiarativa trova conferma nel condivisibile insegnamento dell'Adunanza Plenaria di questo Consiglio (cfr. decisioni 23 marzo 2011, n. 3 e 29 luglio 2011, n. 15). Secondo tale orientamento interpretativo l'assenza di una previsione legislativa espressa non osta all'esperibilità di un'azione di mero accertamento quante volte detta tecnica di tutela sia l'unica idonea a garantire una protezione adeguata ed immediata dell'interesse legittimo (...). Va soggiunto che non osta alla praticabilità del rimedio in esame la dedotta assenza di una richiesta, da parte dei ricorrenti originari, di indizione delle elezioni e la formazione del correlativo silenzio amministrativo secondo la procedura di cui al combinato disposto dell'articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e degli artt. 31 e 117 del codice del processo amministrativo, in quanto viene nella specie in rilievo l'omessa adozione di un atto nei tempi imposti dalla legge, ex se idonea a ledere l'interesse dei ricorrenti e a legittimare alla proposizione del generale rimedio volto ad ottenere una pronuncia che imponga all'amministrazione l'esercizio doveroso del potere ». (43) Ciò, ben inteso, nei casi in cui la legge disponga un termine per l'emanazione dell'atto, ché, in mancanza, non si vede altra possibilità se non richiedere all'Amministrazione di provvedere, di modo da far maturare, laddove l'istanza rimanga senza risposta, il silenzio-inadempimento. (44) Seguendo il suggerimento di L. Bertonazzi,op. ult. cit., 1138. (45) Il riferimento è alla penetrante espressione utilizzata da M. Clarich,Azione di annullamento, in A. Quaranta, V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, cit., 272, in relazione alla necessità di « dover confidare ancora nella giurisprudenza pretoria del giudice amministrativo già all'indomani di un evento di portata storica quale la prima codificazione delle regole del processo amministrativo ». (46) Ex multis Cons. St., Sez. IV, n. 3765 del 27 giugno 2007; Cons. St., Sez. IV, n. 8265 del 30 dicembre 2006, entrambe annotate da A. Reggio d'Aci, La IV Sezione del Consiglio di Stato ribadisce che l'effetto « paralizzante » del ricorso incidentale non può subire deroghe neanche nel caso in cui vi siano due soli concorrenti alla gara pubblica. Rimangono, però, non esaminate alcune tematiche che potrebbero suggerire un ragionevole ripensamento di questo nuovo orientamento, in questa Rivista, 2008, 215 ss. (47) Cons. St., Sez. V, n. 2468 dell'8 maggio 2002 (c.d. sentenza Lipari, dal nome del suo estensore), la quale pur aderendo alla posizione sopra richiamata, ha incidentalmente osservato che, ove si versi nell'eventualità di una gara con due soli concorrenti, « potrebbe apparire più congrua una decisione che, disponendo l'annullamento degli atti contestati, determini il rinnovo delle operazioni concorsuali ».Già precedentemente, ad ogni modo, Cons. giust. amm. reg. sic., n. 388 del 22 dicembre 1995 aveva sostenuto che il ricorso incidentale, avendo carattere accessorio e condizionato, poteva essere preso in esame solo in caso di accoglimento del ricorso principale: si veda sul punto, l'annotazione critica di G. Acquarone,In tema di rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale, in questa Rivista, 1997, 555 ss., il quale riteneva che tale impostazione avrebbe potuto « porre nuovamente in discussione la natura stessa del processo amministrativo ». (48) Tra le altre, Cons. St., Sez. V, n. 5583 del 23 agosto 2004. (49) Sull'interesse strumentale si veda, tra gli altri, la nota di G. Tropea,L'interesse strumentale a ricorrere: una categoria al bivio?, in questa Rivista, 2010, 664 ss., il quale evidenzia peraltro — richiamando a tal fine la voce di R. Ferrara,Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Dig. disc. pubbl, VIII, Torino, 1993, 468 ss. — come vi sia una progressiva emersione dell'interesse processuale ad assumere il ruolo di fattore di legittimazione, a fronte del carattere sempre più tenue delle posizioni sostanziali legittimanti. In argomento si vedano anche P. Duret,La legittimazione ex lege nel processo amministrativo Torino, 1996; B. Spampinato,L'interesse a ricorrere nel processo amministrativo, Milano, 2004; L.R. Perfetti,Diritto di azione ed interesse ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2004; nonché, in generale, le due voci di R. Villata,Legittimazione processuale. II) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990, e Interesse ad agire. II) Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., XVII, Roma, 1989. (50) Cons. St., ad. plen., n. 11 del 10 novembre 2008, con note, tra gli altri, di G. Tropea,La plenaria prende posizioni sui rapporti fra ricorso principale e ricorso incidentale (nelle gare con due soli concorrenti), in Foro amm.-CdS, 2008, 3309 ss.; G. Sigismondi,Nota, in Foro it., 2009, III, 1 ss.; A. Squazzoni, Il rebus del presunto effetto paralizzante del ricorso incidentale nelle gare d'appalto ove anche il ricorrente principale contesti la mancata esclusione del vincitore, in questa Rivista, 2009, 151 ss.; G. Pellegrino,Ricorso incidentale e parità delle parti. La svolta della Plenaria, in Riv. giur. ed., 2008, 1423 ss. (51) Si veda in particolar modo G. Pellegrino,Ricorso incidentale e parità delle parti, cit., 1423 ss. (52) Cons. St., ad. plen., n. 4 del 7 aprile 2011, con note, tra gli altri, di A. Squazzoni, Ancora sull'asserito effetto paralizzante del solo ricorso incidentale c.d. escludente nelle controversie in materia di gare. La Plenaria statuisce nuovamente sul rebus senza risolverlo, in questa Rivista, 2011, 1063 ss.; A Giannelli, Il revirement della Plenaria in tema di ricorsi paralizzanti nelle gare a due: le nubi si addensano sulla nozione di interesse strumentale, ivi, 1119 ss.; F. Follieri, Un ripensamento dell'ordine di esame dei ricorsi principale ed incidentale, ivi, 1151 ss.; M. Marinelli, Ancora in tema di ricorso incidentale « escludente » e ordine di esame delle questioni, 1174 ss.; G. Pellegrino,La Plenaria e le « tentazioni » dell'incidentale, in Giustamm.it, 2011. Cfr. anche R. Villata,Annotando gli annotatori, in questa Rivista, 2011, 1183 ss. (53) Tar Piemonte, sez. II, ord. n. 208 del 9 febbraio 2012, con nota di M. Protto,Ordine di esame del ricorso principale e incidentale in materia di appalti pubblici: la parola al giudice comunitario, in Urb. app., 2012, 437 ss. Secondo i giudici piemontesi nel caso in cui residui in capo al ricorrente principale — nonostante l'accertata fondatezza del ricorso incidentale — l'ulteriore interesse alla rinnovazione della gara, reso evidente dalla fondatezza dei motivi mediante i quali si è contestata la legittimità della partecipazione alla procedura selettiva da parte dell'impresa aggiudicataria, quell'interesse dovrebbe poter trovare ingresso nella disamina giurisdizionale « pena altrimenti l'attribuzione di una ingiustificata posizione di vantaggio (sia processuale sia sostanziale) all'impresa che è, sì, aggiudicataria ma che lo è diventata (così come dimostrato dalla fondatezza del ricorso principale) in modo non corretto o non legittimo ». Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia era già stato richiesto, ma senza successo: Cons. St., sez. VI, n. 3655 del 15 giugno 2011. In maniera non dissimile anche Tar Lazio, sez. I ter, n. 197 del 10 gennaio 2012 (con note di G. Pellegrino, Ricorso incidentale: i nodi tornano al pettine, e di P. Quinto,A.P. n. 4/2011, sentenzaTarLazio n. 197/2012, art. 35 decreto Monti: quali prospettive?, entrambe in Giustamm.it, 2012), la quale, pur non rimettendo la questione alla Corte di Giustizia, si è posta in sostanziale contrasto (come evidenziato da R. Villata,Ricorso incidentale escludente ed ordine di esame delle questioni: un dibattito ancora vivo, in Dir. proc. amm., 2012, 363 ss.) con la posizione dell'Adunanza Plenaria n. 4/2011. (54) Cass., sez. un., n. 10294 del 21 giugno 2012, con note adesive di G. Pellegrino,Aggiudicatario iperprotetto. Il monito delle Sezioni Unite sull'incidentale, e di C. Varrone,L'oggetto del processo amministrativo e suoi riflessi sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale: i motivi del contrasto tra le SS.UU. della Corte di Cassazione e l'A.P. del Consiglio di Stato, entrambe in Giustamm.it, 2012, e critica di R. De Nictolis,Ordine di esame del ricorso principale e incidentale, cit., 1017 ss. La Corte, pur rigettando le censure sollevate — in ragione del fatto che si contesta, attraverso di esse, la bontà o meno di una particolare interpretazione e, dunque, viene in rilievo un errore di diritto, come tale non deducibile in Cassazione avverso una sentenza del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 111 Cost. — precisa però incidentalmente che la posizione della Plenaria lascia comunque perplessi, in ragione del fatto che « l'aggiudicazione può dare vita ad una posizione preferenziale soltanto se acquisita in modo legittimo » e che « la realizzazione dell'opera non rappresenta in ogni caso l'aspirazione dell'ordinamento ».Da ultimo, la questione è stata rimessa nuovamente alla Plenaria, in relazione a taluni particolari profili, da Cons. St., Sez. V, ord. n. 2059 del 15 aprile 2013. (55) La letteratura sul punto è amplissima. Sia consentito rimandare alle opere citate in nota (e alla bibliografia ivi richiamata), tra cui soprattutto la fondamentale monografia di G. Tropea,Il ricorso incidentale nel processo amministrativo, Napoli, 2007. (56) Così G. Pellegrino, Effetto paralizzante del ricorso incidentale. Necessità di un ripensamento, in Giustamm.it, 2006, il quale, riprendendo la tesi di S. Baccarini,L'impugnazione incidentale del provvedimento amministrativo tra tradizione e innovazione, in questa Rivista, 1991, 639-640, afferma che il ricorso incidentale deve essere considerato come un'azione impugnatoria, giacché, se si accedesse alla qualificazione dello stesso come mera eccezione, dovrebbe poi ammettersi una disapplicazione dell'atto amministrativo di cui il ricorso incidentale contesta la legittimità, disapplicazione, come noto, non ammessa dalla giurisprudenza amministrativa.La natura e la funzione del ricorso incidentale sono state a lungo dibattute in dottrina. L'impostazione tradizionale, basandosi sul modello delle impugnazioni incidentali proprie del processo civile (la cui analogia poteva trovare giustificazione in relazione all'originaria concezione del processo dinnanzi al Consiglio di Stato quale giudizio cassatorio), riteneva che caratteristica del ricorso incidentale fosse quella di inserirsi in un rapporto processuale già istaurato, di essere proposto, cioè, successivamente a quello principale: così E. Capaccioli,In tema di ricorso incidentale nel processo amministrativo, in Giur. compl. cass. civ., 1951, II, 1013 ss.; nonché A. Piras, Interesse legittimo e processo amministrativo, I, Milano, 1962, 204 ss., il quale, a differenza del Capaccioli, considerava, in quel caso, necessaria la forma incidentale. Successivamente, tale tesi fu messa in discussione da F. Lubrano,L'impugnazione incidentale nel giudizio amministrativo, in Rass. dir. pubbl., 1964, 756 ss., a detta del quale il ricorso incidentale si sarebbe caratterizzato per essere del tutto accessorio a quello principale; sarebbe stato, quindi, un mezzo di « difesa attiva », attraverso il quale far valere una questione il cui interesse fosse determinato dall'eventuale accoglimento del ricorso principale. Si vedano, sul punto, anche i rilievi di W. Catalozzi,Note sulle impugnazioni incidentali nel processo dinanzi ai giudici amministrativi ordinari, in Studi per il centocinquantenario del Consiglio di Stato, III, Roma, 1981, 1759 ss.; Id.,Ricorso incidentale (diritto amministrativo), in Enc. giur., XXXI, Roma, 1991, 1 ss. Sulla base di questa impostazione, divenuta nettamente maggioritaria (soprattutto a seguito della generalizzazione del doppio grado di giurisdizione, che mise definitivamente in crisi l'assimilazione tra ricorso incidentale e appello incidentale), si è distinto tra chi ha configurato lo strumento processuale in esame quale domanda incidentale (tra gli altri, S. Baccarini,L'impugnazione incidentale del provvedimento amministrativo tra tradizione e innovazione, cit., 633 ss.) e chi come eccezione in senso proprio (si veda soprattutto G. Vacirca,Appunti per una disciplina dei ricorsi incidentali nel processo amministrativo, in questa Rivista, 1986, 57 ss.), mentre è rimasta nettamente minoritaria la posizione secondo cui esso costituirebbe il mezzo per proporre un'eccezione riconvenzionale (un richiamo in tal senso è fatto da F. La Valle,L'impugnazione incidentale del provvedimento amministrativo, in Riv. dir. proc., 1968, 555; ma si veda ora anche il suggerimento di R. Villata,Riflessioni in tema di ricorso incidentale nel giudizio amministrativo di primo grado, in questa Rivista, 2009, 303). Per una più ampia ricostruzione, si rimanda a G. Tropea,Il ricorso incidentale nel processo amministrativo, cit., spec. 61 ss. e 251 ss.; nonché a R. Villata,Riflessioni in tema di ricorso incidentale, cit., 285 ss.; F. Gaffuri, Il ricorso incidentale nel giudizio amministrativo di primo grado: alcune note sulla sua natura e sul rapporto con il ricorso principale, in questa Rivista, 2009, 1047 ss. Sui concetti di eccezione e di domanda riconvenzionale nel processo amministrativo si vedano le monografie di M. Di Renzo,L'eccezione nel processo amministrativo, Napoli, 1968, e di A. Di Giovanni,La domanda riconvenzionale nel processo amministrativo, Padova, 2004. (57) G. Pellegrino,op. ult. cit., secondo cui non appare condivisibile « l'assunto che il ricorso incidentale avrebbe in sé priorità, nella sua idoneità a privare il ricorrente principale di un presupposto legittimante l'azione. E ciò in quanto anche il ricorrente principale impugna l'atto di ammissione del ricorrente incidentale, con azione specularmene idonea a privarlo della sua analoga legittimazione. Inoltre le diverse posizioni nel giudizio dipendono direttamente dall'atto amministrativo che ha chiuso il procedimento (aggiudicazione), che a sua volta (come è nella maggior parte dei casi) può risultare censurato dal ricorrente principale, anche per vizi propri ». (58) Per il caso di più imprese partecipanti G. Pellegrino,op. ult. cit., conclude per la sopravvenuta improcedibilità di entrambe le contrapposte domande. (59) G. Pellegrino,op. ult. cit. (60) Ci si riferisce a R. Villata,Riflessioni in tema di ricorso incidentale, cit., 285 ss., ma già prima Id.,In tema di ricorso incidentale e di procedure di gara cui partecipano due soli concorrenti, in questa Rivista, 2008, 931 ss.; Id.,L'Adunanza Plenaria interviene sui rapporti tra ricorso principale e ricorso incidentale, ivi, 1186 ss. (61) Così R. Villata,Riflessioni in tema di ricorso incidentale, cit., 303-304. (62) R. Villata,op. ult. cit., 317. Si vedano, inoltre, gli importanti rilievi di M. Marinelli,Ricorso incidentale e ordine di esame delle questioni, in questa Rivista, 2009, 619 ss.; Id.,Ancora in tema di ricorso incidentale « escludente » e ordine di esame delle questioni, cit., 1176 ss. (63) Sulla differenza tra accessorietà e condizionamento e per un paragone con il ricorso incidentale condizionato in Cassazione, si veda G. Tropea,Il ricorso incidentale nel processo amministrativo, cit., 190 ss. e 651 ss.; nonché M. Marinelli,Ricorso incidentale e ordine di esame delle questioni, cit., 617 ss.; R. Villata,op. ult. cit., 318 ss. (64) Così G. Pellegrino,op. ult. cit., nel passo riportato supra in nota. In proposito, si vedano anche A. Squazzoni, Ancora sull'asserito effetto paralizzante del solo ricorso incidentale c.d. escludente nelle controversie in materia di gare, cit., 1092 ss.; F. Follieri, Un ripensamento dell'ordine di esame dei ricorsi principale ed incidentale, cit., spec. 1157-1161 i quali, rilevando come pure il ricorrente incidentale debba essere legittimato a ricorrere, sostengono che, laddove anche il ricorrente principali denunci l'illegittima ammissione alla gara dell'aggiudicatario, entrambi i ricorsi (principale e incidentale) sarebbero volti a contestare la legittimazione, cosicché nessuno dei due avrebbe la priorità logica sull'altro. Dubbi in tal senso si registrano anche da parte di F.G. Scoca,Onere di decisione, ricorso principale e ricorso incidentale, in Corr. giur., 2012, 114. (65) Così R. Villata,Annotando gli annotatori, cit., 1186 ss.; nonché Id.,Ricorso incidentale escludente ed ordine di esame delle questioni, cit., 366. (66) In questi termini A. Romano Tassone,Il ricorso incidentale e gli strumenti di difesa nel processo amministrativo, cit., 587, il quale afferma che se l'omologazione del ricorso incidentale e di quello principale risulta logicamente possibile, « essa offre tuttavia una rappresentazione distorta (ed una sistemazione inadeguata) del ricorso incidentale ». (67) Non sembra dunque accoglibile la diversa prospettazione di G. Pellegrino, Effetto paralizzante del ricorso incidentale, cit.; nonché, di A. Squazzoni, Ancora sull'asserito effetto paralizzante del solo ricorso incidentale c.d. escludente nelle controversie in materia di gare, cit., 1075; e di E.M. Barbieri,Ricorsi reciprocamente « escludenti » ed ordine di esame delle questioni proposte, in questa Rivista, 2012, 751, sulla assoluta identità sostanziale dei due ricorrenti. Sul punto si veda, per tutti, W. Catalozzi,Ricorso incidentale (diritto amministrativo), cit., 3, che distingue tra la situazione del ricorrente principale, il quale certat de lucro captando, e quella del l'aggiudicatario ricorrente incidentale, il quale invece certat de damno vitando. (68) Giusto il rilievo di A. Giannelli,Il revirement della Plenaria in tema di ricorsi paralizzanti nelle gare a due, cit., 1150, secondo cui « la puntualizzazione sull'imprescindibilità del rigoroso accertamento dei requisiti dell'azione non risponde di certo ad un approccio conservatore e formalistico, ma, al contrario, funge da estremo baluardo avverso i riflussi oggettivizzanti che ciclicamente interessano il processo amministrativo, mettendone a rischio, in modo subliminare e apparentemente impalpabile, l'autentica natura giurisdizionale. Il revirement compiuto dal Supremo Consesso deve pertanto essere considerato come il frutto maturo di un percorso di autoconsapevolezza, mediante il quale il giudice amministrativo, spogliandosi delle incrostazioni del recente passato, finalmente individua nell'erogazione della tutela la sua esclusiva e totalizzante vocazione ». (69) Cfr. quanto già detto supra. (70) Al riguardo, può richiamarsi il punto 28 della decisione dell'Adunanza Plenaria n. 4/2011, ove si legge che « la piena attuazione dei canoni essenziali di parità delle parti e di imparzialità del giudice non contraddice affatto l'esigenza logica di definire il corretto ordine di esame delle questioni. L'affermazione o la negazione delle richieste di tutela formulate dalla parte attrice, infatti, deve conseguire, all'esito del completo confronto processuale delle parti, al puntuale riscontro della esistenza dei prescritti requisiti della domanda. L'alterazione della corretta sequenza dei punti sottoposti allo scrutinio del giudice rappresenterebbe, all'evidenza, proprio la contraddizione del principio di parità delle parti, snaturando la regola della equidistanza rispetto alle posizioni espresse dai litiganti ». (71) Si vedano in proposito i rilievi, a cui si aderisce, di R. Dipace,L'annullamento tra tradizione e innovazione, cit., 1371, secondo cui « concepire la disponibilità degli effetti dell'annullamento come giustificata da una valutazione di opportunità operata dal giudice amministrativo e ancorata alla tutela dell'interesse pubblico appare, quindi, del tutto dissonante rispetto ai principi ormai acquisiti e consolidati nell'ambito della giurisdizione amministrativa ». (72) Ci sembra, in tal modo, di raggiungere risultati non dissimili da quelli di F.G. Scoca, Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da provvedimento amministrativo, cit., 989; e di R. Dipace,L'annullamento tra tradizione e innovazione, cit., 1388, i quali ritengono che l'esatta soluzione potrebbe essere individuata nel riconoscere al g.a., in tali casi, il potere disapplicazione di provvedimenti generali (a tal proposito, Dipace fa espresso riferimento alla posizione sostenuta da Cons. St., ad. plen., n. 9 del 4 maggio 2012 sulla disapplicazione delle clausole escludenti di un bando di gara; posizione, tuttavia, che ha destato molte perplessità: si vedano in tal senso le obiezioni di R. Villata,Ancora ‘spigolature' sul nuovo processo amministrativo?, cit., 1517; nonché dello stesso R. Dipace,op. ult. cit., 106 ss., i quali sottolineano come l'Adunanza Plenaria, per sostenere la sua tesi, ha implicitamente ritenuto che il bando di gara avesse natura regolamentare, il che è invece affatto da escludersi), senza peraltro incorrere nella critica che a tali posizioni muove L. Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di annullamento amputata dell'effetto eliminatorio?, cit., 1134, n. 9, a detta del quale la tesi della disapplicazione non potrebbe essere accolta in ragione del fatto che l'atto generale, nel caso di specie, formava l'esclusivo oggetto di impugnazione: se all'impugnazione si accompagna una domanda di condanna, infatti, l'accertamento incidentale dell'invalidità dell'atto ben potrebbe essere ad essa funzionale. (73) Il riferimento è, ancora, al titolo della nota di E. Follieri, cit. AZIONE DI ADEMPIMENTO E DISCREZIONALITÀ TECNICA (ALLA LUCE DEL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO) (*) Dir. proc. amm., fasc.2, 2013, pag. 385 PAOLO CARPENTIERI Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - Obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato amministrativo o ordinario (GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA) - - adempimento spontaneo della pubblica amministrazione Sommario: 1. Azione di adempimento tra tipicità e atipicità delle azioni nel codice del processo amministrativo. — 2. Rescindente e rescissorio. — 3. L'atto vincolato. — 4. Il problema del sindacato sulla discrezionalità tecnica. — 5. Da un punto di vista logico. — 6. Pronuncia di adempimento e non annullabilità dell'atto ex art. 21-octies della legge n. 241 del 1990: due facce della stessa medaglia. — 7. Giudice amministratore e separazione dei poteri; effettività, satisfattività, o eccesso di giurisdizione? 1. Il tema dell'azione di adempimento nel processo amministrativo riguarda essenzialmente l'ammissibilità di un'azione di cognizione (1), nell'ambito della giurisdizione di legittimità (2), diretta alla condanna dell'amministrazione ad un facere specifico consistente nell'adozione di un atto satisfattivo della pretesa sostanziale fatta valere (3). Il codice del processo amministrativo — entrato in vigore il 16 settembre 2010 e (sia pur in minima parte) modificato dal primo decreto correttivo n. 195 del 2011 — reca poche disposizioni riferibili al tema dell'azione di adempimento, distribuite tra gli articoli 30, 31, 34 e 117. L'impressione è che il legislatore del codice non abbia inteso prendere una posizione definitiva ed esplicita sull'ammissibilità dell'azione di adempimento nel giudizio di cognizione e abbia lasciato tracce sparse, frammenti di norma non sistemati in un disegno coerente e unitario, ma rimessi al lavorio della giurisprudenza e alle proposte della dottrina. In tal senso il legislatore delegato del 2010 ha fatto un uso accorto della delega prevista nella legge n. 69 del 2009, il cui art. 44, comma 2, lettera b), numero 4) prevedeva la disciplina delle azioni e delle funzioni del giudice “[4) prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”]. Resta il fatto che il testo finale del codice approvato dal Governo non reca più l'elenco delle azioni, pure proposto dalla Commissione redigente istituita presso il Consiglio di Stato. La discussione è aperta (4). Parte della dottrina ritiene che i suddetti “frammenti sparsi” di norme, che sembrano postulare l'azione di adempimento, possano essere “illuminati” dall'efficacia diretta degli artt. 24 e 111 Cost., espressivi dei principi di effettività e satisfattività. Altra parte della dottrina ritiene comunque necessaria, invece, l'interpositio legislatoris, si dichiara scettica sull'idea dell'atipicità delle azioni (5) e sulla possibilità di una forgia solo pretoria del tipo di tutela erogabile (non senza osservare che l'art. 111 Cost. è di regola declinato in diritto processuale in termini di rito — forme e termini del processo — piuttosto che di tutela sostanziale, ossia di azioni ammissibili, tema, quest'ultimo, che in diritto civile attiene per l'appunto al diritto sostanziale, più che a quello processuale in senso stretto) (6). La semplice lettura delle disposizioni sopra richiamate rende subito evidente il legame di stretta continuità del codice con la tradizionale tematica della tutela in caso di silenzio della p.a. e l'ancoraggio al concetto di “attività vincolata”, che costituisce a un tempo l'area elettiva e il limite per una possibile manifestazione del fenomeno dell'azione di adempimento. Sembra che il legislatore delegato non abbia voluto decampare dal sentiero già ben tracciato della giurisprudenza tradizionale formatasi in tema di azione avverso il silenzio a seguito delle modifiche normative introdotte dal decreto legge n. 35 del 2005 (7). Già nel 2005 si era ravvivata la questione se il nuovo meccanismo processuale avesse introdotto una vera e propria azione di condanna o di adempimento alla stregua della Verpliflichtungsklage di cui al par. 42, comma 2), della legge sul processo amministrativo tedesca (VWGO del 21 gennaio 1960) (8). Ciò premesso, se l'attività vincolata dell'amministrazione delimita il campo di applicazione dell'azione di adempimento, allora assume un rilievo strategico il tema della definizione di questa nozione (di attività interamente vincolata della p.a.). Ed è proprio intorno alla possibilità che il giudice si sostituisca (sin dalla fase di cognizione) all'amministrazione, ordinandole di adottare un determinato atto, che si avvolge il nodo problematico più importante e interessante in tema di azione di adempimento nel diritto processuale amministrativo. L'ampliamento degli strumenti di tutela nel nuovo processo amministrativo e la (ri)affermazione dei principi di effettività e satisfattività della tutela, ormai piena (comprensiva del risarcimento del danno) ed estesa alla cognizione del rapporto, oltre l'atto, con ricchezza di mezzi istruttori, pongono il tema dell'impatto sulla “riserva” di amministrazione e il problema del non eccesso di giurisdizione, ossia del rispetto del limite esterno e del principio di divisione dei poteri (9). La questione dei rapporti tra giurisdizione e amministrazione, oggi “tornata di viva attualità”, anche nei suoi riflessi sui “rapporti fra processo soggettivo e di parti e processo oggettivo” (10), nella direzione di un modello di “integrazione” piuttosto che di separazione, nel suo aspetto specifico relativo alla sindacabilità della discrezionalità tecnica, deve comunque confrontarsi con il tema della legittimazione del potere (11). Soprattutto da questo angolo di visuale, la separazione dei poteri (giurisdizionale e amministrativo), lungi dal potersi dire risolta o superata (sotto la spinta delle assiomaticamente ritenute prevalenti ragioni dell'ampliamento e della pienezza della tutela), rivela in realtà tutta la sua perdurante attualità e importanza. Il principio di separazione resiste all'urto espansivo del controllo giurisdizionale (sempre più penetrante) poiché restano valide e attuali tutte e tre le ragioni giustificative che lo sorreggono: distribuzione equilibrata del potere sovrano e bilanciamento dei poteri, specializzazione tecnica e legittimazione politico-democratica (12). Sotto i primi due profili appare chiaro che un frettoloso sacrificio del principio di separazione sull'altare della “effettivitàsatisfattività” della tutela giurisdizionale dell'individuo, in una giurisdizione che ha ad oggetto la funzione pubblica, spingerebbe inevitabilmente verso esiti indesiderati di giurisdizione di tipo oggettivo, in cui il giudice si fa amministratore e assume il governo ultimo della cosa pubblica; sotto il terzo, connesso, profilo, resta ed emerge in tutta la sua ineludibilità il problema che una siffatta amministrazione giudiziaria della cosa pubblica si collocherebbe al di fuori di qualsiasi canale di legittimazione/controllabilità politico-democratica. E questo trend verso il giudice-amministratore, che esonda dall'ambito della garanzia della posizione soggettiva lesa del cittadino per espandersi nella direzione di una “riamministrazione” (in secondo grado) di tutto ciò che sia oggetto di lite, si pone paradossalmente in contraddizione con la stessa genesi e causa prima, tutta processualcivilsitica, che ha innescato questo processo e lo ha spinto verso questi risultati assolutizzanti: dall'assolutizzazione della tutela del cittadino che ricorre all'assolutizzazione (involontaria) della giurisdizione, che finirebbe per soverchiare il principio dispositivo e per operare come sostituzione (e non più solo correzione in funzione di garanzia di legalità) dell'amministrazione. Riassumendo, un primo profilo problematico riguarda, dunque, il mutamento in atto nei rapporti tra cognizione ed esecuzione, nel quadro del potenziamento dei poteri cognitori del giudice. Il secondo profilo che merita discussione attiene poi al tema dell'atto vincolato e dei limiti del sindacato giurisdizionale sulla scelta tecnico-discrezionale. La difficoltà del primo argomento si lega alla mancata considerazione della speciale natura dell'oggetto della cognizione giurisdizionale amministrativa, che non è un rapporto paritetico tra privati, ma è la razionalità del regolamento dell'affare amministrativo dato dal provvedimento (nell'interesse generale). La difficoltà del secondo argomento deriva, da un lato, dalla discussione (recente e piuttosto confusa) sulla reinterpretazione del provvedimento in un linguaggio civilistico (sollecitata dal nuovo comma 1-bis dell'art. 1 della legge n. 241) e dalla spinta della semplificazione (d.i.a., s.c.i.a., silenzio-assenso), dall'altro lato dalla perdurante confusione sulla nozione stessa di “discrezionalità tecnica”, da taluni declinata restrittivamente, in contrapposizione dialettica alla discrezionalità amministrativa, e dunque essenzialmente come ambito di attività amministrativa (anch'essa) interamente vincolata, lì dove altri, invece, la articolano in termini molto più ampi, sulla falsariga del modello concettuale tedesco della fattispecie indeterminata descritta dal legislatore mediante l'uso di concetti giuridici indeterminati, che fondano, in realtà, un ampio potere di scelta in capo all'amministrazione, di integrazione del precetto incompleto della legge e di determinazione di ciò che è legge e di ciò che è interesse pubblico nel caso concreto trattato. E poiché la discrezionalità tecnica pervade ampi campi dell'agire amministrativo (poiché moltissime leggi disciplinano poteri amministrativi attribuendo poteri tecnico-discrezionali) (13), la scelta di campo sulla nozione di discrezionalità tecnica è decisiva ai fini della delimitazione del raggio di azione dell'azione di adempimento. La domanda implica la nota questione sul tipo di sindacato — forte (sostitutivo) o debole (indiretto) — praticabile su questo genere di provvedimenti. E si connette alla questione — parallela — dell'ammissibilità della consulenza tecnica d'ufficio volta a sostituire il giudizio dell'amministrazione con quello del consulente del giudice (problema in qualche modo “riaperto” dalla locuzione usata dall'art. 63, comma 4, c.p.a., ove si parla, a proposito della verificazione e della consulenza tecnica d'ufficio, non solo di “accertamento di fatti”, ma anche di “acquisizione di valutazioni”). Questioni tutte, queste, che mettono in gioco la scelta di fondo, la visione stessa della giurisdizione amministrativa, nell'alternativa tra un modello correttivo della funzione pubblica (14) e un modello processualcivilistico attributivo di spettanza, interamente sostitutivo della funzione pubblica. 2. Il primo profilo problematico riguarda la (con)fusione tra cognizione ed esecuzione, come (asserita) evoluzione del tema del vincolo conformativo al riesercizio della funzione imposto all'attività amministrativa dalla sentenza di annulla mento (15). Lo schema logico-giuridico tradizionalmente proprio della sequenza “annullamento - riesercizio conforme”, infatti, costituisce, per certi versi, una sorta di azione di adempimento in negativo o in implicito, già insita nello schema duale rescindente-rescissorio tipico dell'azione di annullamento. Discutere dell'ammissibilità e dello spazio applicativo di un'autonoma azione amministrativa di adempimento vuol dire, invece, evidentemente, voler andare oltre questo schema tradizionale e immaginare una condanna al rilascio del provvedimento (in positivo e in esplicito e in un'unica fase di giudizio). In realtà la teoria bifasica del giudicato a formazione progressiva aveva fornito un assetto armonico ed elegante alla tutela, nella valorizzazione della distinzione delle fasi rescindente del giudizio di cognizione (annullatorio) e rescissoria (del riesercizio della funzione amministrativa o dell'esecuzione del giudicato), una teoria di grande qualità epistemica e rispettosa della separazione dei poteri, che andrebbe, forse, rivalutata (16). Riguardo al tema dell'effetto conformativo della sentenza di annullamento è bene precisare che il vincolo al riesercizio non va confuso con il vincolo (originariamente) proprio, già nella norma d'azione, dell'attività amministrativa “vincolata”, che viene in rilievo e che è utile oggetto di azione di adempimento. È d'altra parte evidente che i temi sono connessi, poiché la via più diretta e radicale per ammettere in via generale l'azione di adempimento nel processo amministrativo è forse quella che punta ad esaurire nel giudizio di cognizione (sul rapporto) l'intera discrezionalità amministrativa residua, così da svuotare di contenuto ed evitare del tutto la fase del riesercizio della funzione (17). A questa tesi — secondo cui tutta la tutela deve essere concentrata nella sola fase della cognizione, che deve sempre esaurire tutta la discrezionalità residua dell'amministrazione e deve perciò condurre alla condanna a un adempimento interamente vincolato pienamente satisfattivo della pretesa sostanziale dedotta, senza che sia più possibile alcuna fase rescissoria di riesercizio conforme della funzione (seguita dall'eventuale giudizio di ottemperanza) — devono muoversi le seguenti obiezioni fondamentali: a) essa trasforma l'intera giurisdizione amministrativa in una giurisdizione estesa al merito (ciò che non sembra ancora autorizzato dal codice); b) con l'obiettivo di assolutizzare la tutela soggettiva della parte che ricorre (in una visione tutta processualcivilistica del giudizio), essa finisce involontariamente per assolutizzare la giurisdizione, che diviene di tipo oggettivo e fagocita la funzione amministrativa per sostituirla integralmente (e per trasformare il giudice amministrativo in giudice amministratore); c) rende la funzione amministrativa un dato occasionale ed eventuale, nel senso che, a discrezione del singolo destinatario di un atto amministrativo, l'affare può essere devoluto, in tutti i suoi contenuti, integralmente al giudice, come sostituto dell'amministrazione (con il conseguente rischio di soluzioni eterogenee, “a macchia di leopardo”, a seconda dei casi e per l'incerta e occasionale circostanza che sia stato o meno proposto ricorso (18));d) tradisce il senso proprio e profondo della giurisdizione amministrativa, che è garanzia di legalità in chiave correttiva della funzione pubblica, non amministrazione di secondo grado, di tipo sostitutivo; e) costringe, infine, il giudice amministrativo a sostituirsi all'amministrazione in carenza assoluta di strutture tecniche idonee a far fronte a un simile compito (i consulenti tecnici, non disciplinati dal codice né per i loro requisiti minimi di professionalità, né nelle modalità di selezione e di scelta e neppure sotto il profilo della loro remunerazione, non possono certo essere ritenuti una risposta seria a tale carenza di strutture tecniche, indispensabili se si ritiene che il giudice debba sostituirsi normalmente e sistematicamente all'amministrazione) (19). Più ragionevole e meno problematica pare la diversa linea argomentativa che valorizza soprattutto il profilo del progressivo esaurimento della discrezionalità residua dell'amministrazione (anche attraverso il dialogo infraprocessuale della fase interinale, mediante pronunce cautelari propulsive e di riesame), piuttosto che la tesi radicalmente sostitutoria (del giudice della cognizione all'amministrazione) (20). Questa impostazione, dunque, valorizza al massimo grado l'effetto conformativo tradizionale, nel senso di chiarire che sussiste una preclusione logica e cronologica per l'amministrazione che, seconda buona fede oggettiva e correttezza nei rapporti sociali e giuridici, non può “riservarsi” nuovi e ulteriori motivi ostativi di diniego e utilizzarli “a rate”, nei diversi e successivi episodi provvedimentali che possono seguire precedenti contenziosi, ma ha un preciso obbligo giuridico di esaurire, almeno nella sede del primo riesercizio della funzione, seguente un primo annullamento, tutte le ragioni sfavorevoli e le obiezioni possibili, in modo da evitare il protrarsi della lite per un tempo indeterminato. Questo approccio, pur suggestivo, incontra anch'esso un limite, costituito dal generale potere di autotutela e dalla continuità e indefettibilità della funzione, obbediente al principio di legalità: nel caso in cui un soggetto domanda un titolo abilitativo o autorizzativo a svolgere una determinata attività, ma è privo di requisito idoneativo, non potrà comunque escludersi il rilievo successivo, da parte dell'amministrazione, di tale carenza impeditiva, né potrà ammettersi, in un caso del genere, una preclusione di tipo quasi processuale che inibisca all'amministrazione la doverosa cura dell'interesse generale di assicurare che quella determinata attività sia svolta solo da chi è effettivamente in possesso dei titoli richiesti dalla legge (altrimenti si correrebbe il rischio di una strumentalizzazione della stessa lite giurisdizionale allo scopo illecito di precostituire titoli inappropriati per l'esercizio di attività riservate). 3. Venendo alla seconda area tematica rilevante ai fini della presente trattazione, riguardante la nozione di atto vincolato, due sembrano essere i profili di maggiore interesse: la linea argomentativa diretta a reinterpretare il provvedimento in chiave di adempimento (vincolato) o a risolverlo in formule accertatrici e dichiarative imposte dalla semplificazione (silenzio-assenso, d.i.a., s.c.i.a., etc.); la linea argomentativa diretta a ridurre la discrezionalità tecnica ad attività ricognitiva dei presupposti di fatto (che sarà trattata nel paragrafo successivo). Vedremo come, in realtà, né l'una, né l'altra impostazione paiano consentire un ampliamento del campo applicativo dell'azione di adempimento (conducendo, anzi, al risultato contrario). Muovendo dalla prima linea argomentativa (adempimento vincolato e formule di accertamento/dichiarative legate alla semplificazione, silenzio-assenso, d.i.a., s.c.i.a., etc.), essa non sembra portare acqua utile al mulino dell'azione di adempimento perché, per un verso, nei casi di d.i.a., s.c.i.a., autocertificazione, etc. l'autorità compare solo in via successiva ed eventuale e l'azione di adempimento potrebbe tutt'al più essere invocata (non già da chi chiede, facendo valere un interesse pretensivo, bensì solo) da chi si oppone (facendo valere un controinteresse sostanzialmente oppositivo); per altro verso nella fase anteriore liberalizzata di start up non sussiste alcun interesse a proporre l'azione di adempimento (preclusa, inoltre, dal divieto di pronuncia con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati — art. 34, comma 2, c.p.a.). A fronte di queste nuove figure semplificatrici e acceleratorie verrebbe al più in maggiore rilievo, piuttosto, l'azione di accertamento (ancorché nella sua connotazione prossima a un'azione di condanna, dove l'accertamento non è puramente dichiarativo, ma costitutivo dell'obbligo di provvedere in conformità delle statuizioni operate dal giudice, come evidenziato dalla pronuncia della plenaria n. 15 del 2011). L'azione di adempimento è poi naturalmente incompatibile con il silenzio-assenso. Esiste, poi, una linea di pensiero più radicale, che tende, su di un piano più generale, a tradurre il provvedimento amministrativo in negozio privatistico e a configurare il rapporto amministrativo nei termini di un rapporto debito-credito. Se si accogliesse questa tesi, forse, potrebbe rinvenirsi una vasta area di utile applicabilità dell'azione di adempimento. Sennonché, a ben vedere, queste teorie si rivelano, nelle loro migliori e più importanti formulazioni, come traduzioni in un nuovo linguaggio degli stessi concetti già tradizionalmente propri del diritto amministrativo. Esse, in realtà, hanno un valore soprattutto nominalistico, ma non toccano la sostanza delle questioni. Superata la teoria dell'atto favorevole come atto non autoritativo (assimilabile allo schema contrattuale di adempimento) (21), occorre soffermarsi brevemente sulle tesi che propendono a ricostruire la pretesa (negativo-oppositiva o positivopretensiva) nei confronti dell'amministrazione nei termini di uno schema obbligatorio di stampo paritetico-civilistico. Ora, mi sembra sufficiente rilevare in proposito come questa impostazione, anche nelle sue migliori formulazioni (22), deve in fondo ammettere che il “vincolo giuridico” che lega l'amministrazione al “titolare del diritto” non è predefinito dall'autonomia delle parti, ma è condizionato dalla definizione che in concreto verrà data, nel procedimento e dal provvedimento, di ciò che è conforme a legge e all'interesse generale nello specifico episodio provvedimentale. La tesi, dunque, a ben vedere, appare perfettamente traducibile nei termini classici dei limiti interni ed esterni all'esercizio dei poteri funzionali dell'amministrazione (dovere di imparzialità, efficienza, efficacia, trasparenza/pubblicità, logicità, proporzionalità, ragionevolezza, minimo sacrificio della posizione del privato, lealtà e correttezza, coerenza istruttoria e adeguatezza ai fatti, etc.), ossia nei termini classici della legittimità sostanziale della funzione, senza invero dover scomodare la figura del diritto soggettivo e del vinculum juris di tipo obbligatorio verso un creditore, che non sussiste nella funzione pubblica e che è sbagliato voler a tutti i costi inventare (23). Né a diverse conclusioni ha condotto il dibattito fiorito intorno al nuovo comma 1bis aggiunto nell'art. 1 della legge n. 241 del 1990 dalla legge n. 15 del 2005 (24), che ha contribuito a riproporre la questione degli atti vincolati, guardando peraltro soprattutto al campo degli atti favorevoli, su istanza di parte, ovvero, in definitiva, anche in questo caso, all'area delle ipotesi di autocertificazione (d.i.a), secondo il nuovo art. 19 della legge n. 241 del 1990, oppure all'area degli atti unilaterali della p.a., cui sarebbe applicabile l'art. 1324 c.c., ritenuti atti non autoritativi assimilabili all'atto paritetico, come atto essenzialmente esecutivo vincolato, ma comunque espressione di un potere unilaterale, cui si correla non già un mero interesse legittimo o un diritto soggettivo perfetto, bensì un “diritto soggettivo dell'ordinamento amministrativo” (25). Secondo questi indirizzi, nell'ambito applicativo del comma 1-bis ricadrebbero, dunque, gli atti paritetici di gestione del rapporto di pubblico impiego privatizzato, gli assensi vincolati sottoposti a d.i.a., forse anche quelli in parte discrezionali sottopoti a silenzioassenso, gli atti esecutivi di un previo accordo pubblicistico, ex art. 11, le pretese indennitarie conseguenti a revoca o recesso, le sovvenzioni. Si tratterebbe, grosso modo, dell'area delle pretese predefinite dalla legge (26). Questa congerie di atti non abbisognerebbero del procedimento, non vi sarebbe partecipazione, né motivazione, ma diretta applicabilità delle disposizioni del Libro IV del codice civile; la tutela del terzo verrebbe assicurata con l'azione di nullità — ora ammessa dall'art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 — in relazione alla impossibilità giuridica dell'attribuzione del beneficio (dell'atto favorevole), da parte della p.a., a un soggetto diverso da quello cui sarebbe legalmente spettato. Questa impostazione troverebbe, infine, una sua conferma nella dequotazione del vizio formale-procedurale introdotta dall'art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, che dimostrerebbe il fatto che le pretese del cittadino sono sempre trattate sul piano sostanziale della spettanza del bene e dell'adempimento da parte della p.a., piuttosto che sotto il profilo della scelta discrezionale amministrativa e dell'esercizio dell'autorità. Si tratta di un groviglio di idee — non sempre chiarissime — che andrebbero ulteriormente approfondite e studiate. Ma non ne è questa la sede. Ciò che mette conto qui di osservare è che, in ogni caso, queste teorie non appaiono utili ai fini del tema dell'azione di adempimento. Se prese alla lettera, esse dovrebbero condurre al giudice unico e all'abolizione del giudice della funzione (e, quindi, all'assorbimento della funzione nella giurisdizione). Se invece le interpretiamo, come detto, come una variante linguistica più “moderna” di concetti tradizionali, allora esse non possono, evidentemente, portare a conclusioni nuove sull'azione di adempimento. D'altra parte, il ritrarsi della funzione lascia al diritto privato aree sempre più ampie nelle quali — come è naturale — riemerge il diritto comune dei privati e non c'è bisogno di alcuna azione di adempimento dinanzi al giudice amministrativo, soccorrendo le azioni di condanna del diritto processuale civile dinanzi al giudice civile (27). Delle due, l'una: se si elimina il provvedimento e si pretende di tradurlo in linguaggio civilistico (negozio, contratto, credito), allora non c'è più potere amministrativo e non c'è più giudice amministrativo, ma giudice ordinario. Se si ritiene, invece, come è imposto dalle cose e dalla logica, che resiste comunque un potere funzionale, allora, al di là dei diversi vocabolari e nominalismi preferiti, resta, sul lato giurisdizionale, la sostanza di un riesame di razionalità dell'esercizio della funzione (non vincolata), non riducibile nel “letto di Procuste” dell'azione di adempimento. Dove la liberalizzazione lascia spazio solo ad autocertificazioni e la riespansione del mercato amplia l'area dell'erogazione di beni e servizi all'utente finale, basta il giudice ordinario, ma ciò proprio perché si tratta di aree dove la legge ha eliminato il potere funzionale e ci sono solo diritti soggettivi. Dove resta un (qualche) potere funzionale, invece, la giurisdizione resta correttiva (sul modello cassatorio di riesame della determinazione amministrativa nella sua complessa validità/razionalità) e non attributivodistributiva. Si rivela peraltro tautologica la tesi che, ribaltando il rilievo (giusto) della riduzione dello spazio applicativo dell'azione di adempimento per effetto dell'ampliamento dell'area della semplificazione autocertificante, pretende di affermare, a mo' di compensazione, la necessità di ammettere la sindacabilità “forte” e l'ammissibilità dell'azione di adempimento anche (e soprattutto) per le materie così dette “sensibili”, escluse dall'ambito di operatività dell'art. 19 della legge n. 241 del 1990 (28). È vero esattamente il contrario: le materie “sensibili”, se ed in quanto connotate da discrezionalità tecnica, si sottraggono, per i motivi che tratteremo nel prossimo paragrafo, all'azione di adempimento e tale tipo di azione tende a essere relegata, nel diritto amministrativo, pertanto, ai soli casi di attività interamente vincolata, che non sia stata ancora degradata dal legislatore ad autocertificazione o a silenzio-assenso (29). Merita infine di essere rilevato come la tesi contenutistico-sostanziale dell'interesse legittimo come vinculum juris che astringe l'amministrazione (non solo alla legalità, ma anche) al risultato utile satisfattivo della pretesa (positiva o negativo-oppositiva) del privato direttamente coinvolto nell'affare, si lega (non a caso) alla tesi rimediale-risarcitoria che tende a negare — dopo l'affermazione della risarcibilità dell'interesse legittimo — la sopravvivenza stessa di tale figura giuridica, che sarebbe ormai in tutto identificabile con lo stesso diritto soggettivo (30). La questione — come è stato bene osservato — è di diritto sostanziale, poiché si tratta di capire se e in che misura l'interesse legittimo, pur nella sua indubbia consistenza sostanziale, possa configurarsi, prima e indipendentemente dall'esercizio del potere, come fonte (adeguata e sufficiente) di determinazione del bene della vita da attribuire attraverso la richiesta condanna dell'amministrazione, lì dove, invece, “diversamente dal diritto civile, il diritto amministrativo sostanziale non seleziona gli interessi, ma demanda all'azione amministrativa, sia pur sottoponendola ad una serie di condizioni, l'individuazione e la scelta dell'interesse che deve prevalere nel caso concreto” (31). Contro queste tesi innovative, che si sforzano in tutti i modi di assimilare il rapporto amministrativo a quello civilistico tra privati, pare sufficiente, peraltro, il richiamo della considera zione per cui in diritto pubblico non vi è una vera e propria “autonomia” dell'amministrazione, ma tutt'al più discrezionalità nello svolgimento della funzione istituzionale. L'amministrazione, infatti, si muove comunque in un ambito di eteronomia, secondo il principio di legalità, e la sua azione di cura degli interessi pubblici (funzione) è sempre attività esecutiva (32). 4. Veniamo, adesso, all'esame della seconda linea argomentativa di indagine intorno all'atto vincolato, come ambito di esplicazione dell'azione di adempimento, ossia la linea argomentativa diretta a ridurre la discrezionalità tecnica ad attività ricognitiva dei presupposti di fatto. Il tema è, grosso modo, quello dell'ammissibilità di un controllo giurisdizionale “forte” o sostitutivo sulla discrezionalità tecnica, al di là del tradizionale sindacato di tipo “debole” o estrinseco, con i conseguenti riflessi in tema di istruttoria, di ammissibilità di c.t.u. e, naturalmente, di azione di adempimento (33). Muovendo da una nozione processualistico-decisoria del provvedimento amministrativo, su uno sfondo teorico gradualista, in cui essenzialmente l'atto (discrezionale) è decisione pubblica di ciò che è interesse generale e di ciò che è legge nel caso concreto, completando la catena precettiva di regolazione dei fatti, ho già svolto, in un precedente contributo (34), alcune considerazioni critiche sulla tesi, pure ampiamente diffusa e molto autorevolmente sostenuta, che riduce la discrezionalità tecnica all'attività vincolata dell'amministrazione (35). Il punto, come ho anticipato, riveste un'importanza strategica per delimitare il campo di applicazione dell'azione di adempimento. La tesi che identifica la discrezionalità tecnica con l'area dell'atto interamente vincolato poggia sulla nozione equivoca di “atti a presupposto vincolato” che, secondo questa lettura, occuperebbe e assorbirebbe la gran parte dell'area della discrezionalità tecnica. In realtà questa tipologia di atti a presupposto interamente vincolato, come già indicato nel par. 3, sta fuori dall'ambito del provvedimento amministrativo e riguarda solo spazi residuali di accertamenti, misurazioni tecniche, atti meramente dichiarativi o atti di erogazione di beni e servizi all'utente finale, che di regola spettano alla giurisdizione ordinaria involgendo diritti soggettivi e meri adempimenti della p.a., mentre l'area della discrezionalità tecnica — ovvero quella delle norme di azione che descrivono in modo incompleto la fattispecie usando concetti giuridici indeterminati — si identifica con quella della discrezionalità interpretativa della p.a., che è massimamente decisione, precetto, accertamento di ciò che è legge nel caso concreto, e fonda, conseguentemente, la cognizione del G.A. rispetto a pretese soggettive di mera legalità e logicità, ragionevolezza, proporzionalità (legittimità sostanziale), esclusa ogni pretesa di spettanza e di attribuzione. Con la conclusione che la gran parte di questi “atti vincolati alla sola verifica dei presupposti” ricade, a ben vedere, nello schema triadico (capaccioliano) “norma — potere (integrativo della fattispecie) — fatto” e non in quello binario “normafatto”. La tesi — qui contestata — dell'ascrizione di questa categoria di atti (asseritamente a presupposto interamente vincolato, benché descritti da norme generiche e incomplete) all'area dell'attività interamente vincolata della p.a. discende dal l'assunto per cui l'accertamento dell'esistenza del presupposto, in tali casi, deve avvenire in via di interpretazione e non di ponderazione di interessi. Questa tesi poggia sull'assioma (di impostazione gianniniana) secondo cui c'è discrezionalità solo lì dove c'è ponderazione di interessi. Essa nega l'esistenza di una discrezionalità ermeneutica. Appare, invece, evidente che, oggi, con una normazione sempre più penetrante, ma sempre più incerta e disordinata, l'area della discrezionalità amministrativa (politica) da un lato, e quella dell'attività interamente vincolata, dall'altro, si vadano sempre più restringendo, mentre sempre maggiore spazio è acquisito dalla discrezionalità interpretativa, che non è solo appannaggio del giudice, ma è criterio applicativo della legge posto in essere in primo luogo e immediatamente dall'amministrazione. Oggi la maggior parte della discrezionalità esercitata dall'amministrazione non è “pura”, ma, per l'appunto, “tecnica”, ossia di completamento del precetto di legge mediante l'uso di scienze e conoscenze metagiuridiche, comunque non sostituibili dal giudice (36). In questa logica il giudizio sull'azione dell'amministrazione (giudizio sull'atto o sul rapporto, poco cambia) è inevitabilmente giudizio correttivo di logicità e razionalità della decisione, è dunque giudizio di tipo cassatorio, di annullamento, diretto in primis a riorientare il giudizio di primo grado (qui, dell'amministrazione, racchiuso nel provvedimento impugnato) in vista di un riesercizio del potere conforme alla norma agendi dettata in sentenza. Il momento rescissorio è e resta (almeno logicamente) distinto dal rescindente. Il giudice, nella cognizione, corregge l'azione dell'amministrazione (nelle forme, nel procedimento, nell'applicazione della legge, nella completezza e accuratezza della ricognizione del fatto, nella logicità, proporzionalità e ragionevolezza degli apprezzamenti discrezionali e nell'interpretazione della legge incompleta). L'idea di base dell'impostazione restrittiva della nozione di discrezionalità tecnica è che occorre « distinguere gli elementi che costituiscono il presupposto (di fatto) rispetto all'oggetto del potere onde evitare di qualificare come “discrezionali” accertamenti, valutazioni ed apprezzamenti che esulano dal contenuto del potere stesso e che attraverso la “tecnica” non vi possono rientrare » (37). Questo approccio non considera che, nei casi di discrezionalità tecnica, “oggetto del potere” è anche (e soprattutto) la determinazione degli elementi di fatto che di volta in volta costituiscono il presupposto per l'esercizio di quel potere (e non solo la scelta, essa sì vincolata dalla legge, su cosa fare nell'interesse generale/pubblico una volta ricostruito il presupposto). Quando, ad esempio, il soprintendente decide di dichiarare il notevole interesse pubblico paesaggistico di ampie aree dell'Agro romano (così limitandone l'edificabilità invece prevista dal piano regolatore comunale di Roma), il potere di tutelare ciò che è “paesaggio”, ancorché finalisticamente predeterminato (e vincolato) dall'art. 9 Cost. e dal codice di settore del 2004, si sostanzia e si risolve in realtà proprio nella decisione di ciò che, di volta in volta, costituisce o non costituisce “paesaggio”, e ciò non solo nella definizione (deduttiva) del presupposto di fatto (il notevole interesse paesaggistico delle aree) descritto solo genericamente dalla legge per l'esercizio di quel potere, ma anche nella stessa definizione ricostruttiva (induttiva) della nozione di “paesaggio” usata dalla legge. La discrezionalità, in un caso del genere, non consiste nel decidere se accordare o meno tutela al paesaggio, ciò che è deciso in modo vincolante dalla legge, ma consiste esattamente nel ricostruire e nell'inventare, di volta in volta, a un tempo, in uno schema dialettico deduttivo/induttivo, i presupposti di fatto cui la legge riconnette il potere dispositivo e la definizione legale stessa di quei presupposti. E l'esercizio di questo potere — che si estrinseca nella valutazione ricostruttiva dei presupposti della legge — ha una connotazione intrinsecamente “politica”, che impinge, sia pur indirettamente, alla linea della responsabilità politica che dal funzionario conduce all'indirizzo del Ministro e, quindi, al Governo e, infine, al Parlamento (38). Se è vero — come è vero — che sin dal d.lgs. n. 29 del 1993 (art. 3, ora del d.lgs. n. 165 del 2001), il nostro ordinamento, sul piano organizzatorio della distribuzione delle competenze, è improntato al principio della separazione tra funzioni di indirizzo politico, appartenenti al vertice elettivo dell'amministrazione, e funzioni di gestione, spettanti alla dirigenza, è anche vero che proprio quelle pregnanti funzioni di indirizzo politico legano l'operatività concreta degli uffici alla responsabilità amministrativo-politica, nella linea “gestione (esecuzione della legge) - indirizzo politico di governo - assemblee elettive - popolo sovrano” che fonda la nostra democrazia parlamentare. A fronte di questo ostacolo istituzionale-politico fondamentale — nonché a fronte degli ostacoli logici, qui già accennati e che saranno meglio sviluppati nel paragrafo successivo — paiono minusvalenti e recessivi gli argomenti pure spendibili, sulla base di un'esegesi lessicale o sistematica del c.p.a., a favore dell'estensione del sindacato “forte” e dell'ammissibilità dell'azione di adempimento anche riguardo ai provvedimenti connotati da discrezionalità tecnica. Si dice, in proposito, che l'atipicità e l'ampiezza del rimedio cautelare (art. 55 c.p.a.), ammesso senza limiti nei confronti di tutti gli atti impugnati, secondo un principio di continenza della fase interinale provvisoria in quella decisoria finale, postulerebbero una pari atipicità e ampiezza delle pronunce possibili nella sede della sentenza conclusiva del processo. La tesi dà per dimostrato ciò che è da dimostrare, poiché non è affatto vero che nella fase cautelare il giudice amministrativo possa rifare le valutazioni tecnico-discrezionali riservate all'amministrazione. È vero, anzi, esattamente il contrario. In ogni caso, una maggiore ampiezza e atipicità della misura cautelare trova una sua giustificazione proprio nella natura del tutto provvisoria e interinale di tale rimedio, nel quale può in taluni casi prevalere l'interesse conservativo dell'integrità della res judicanda. Si fa poi riferimento all'ampiezza dei poteri del commissario ad acta, ma questo argomento sconta la dimostrazione — tutta da discutere — dell'avvenuta fusione unificatrice del modello diadico tradizionale “cognizione-ottemperanza” e l'assorbimento “normale” della tutela estesa al merito — ottemperanza (in cui è normale la sostituzione) — in quella di legittimità. Si fa anche richiamo all'ampiezza della cognizione propria dell'azione risarcitoria, necessariamente riferita a tutta la condotta dell'amministrazione e alla fondatezza della pretesa nel merito (a fini di quantificazione del danno). Ma si tratta di argomento non pertinente, stante la peculiarità dell'azione risarcitoria e la maggiore ampiezza del suo oggetto, specialmente se raccordato, come s'usa fare, al modello aquiliano. Si aggiunge che l'estensione indifferenziata dei poteri istruttori del giudice dimostrerebbe l'avvenuta estensione del sindacato. Questo argomento è più serio, ma non è risolutivo. Certo, il c.p.a. — art. 63, comma 4 — ha ammesso la c.t.u. non solo per l'accertamento di fatti, ma anche per l'acquisizione di valutazioni che richiedono particolari com petenze tecniche. Ora, questa aggiunta in effetti si presta a una lettura “aperturista”, ma consente senz'altro anche un'interpretazione coerente con il sistema, che ne riservi l'applicazione alle mere attività estimative (ai fini, ad esempio, del risarcimento del danno, o per la definizione di indennizzi vari previsti dalla legge), o agli accertamenti tecnici, in un'accezione ristretta di “valutativo” come “misurazione di un valore” (secondo una scala predefinita). Non deve peraltro credersi che la tesi “restrittiva”, qui sostenuta, possa compromettere l'effettività della tutela e restringere eccessivamente gli spazi di intervento del giudice. L'opinabilità della valutazione, infatti, non basta di per sé ad attribuire un potere riservato all'amministrazione, ma è necessario che possa evincersi una volontà in tal senso della legge (39). Ove tale volontà non risultasse, sarebbe ammesso il sindacato forte anche in presenza di valutazioni opinabili. Inoltre, la sostituzione del giudice, a mezzo di una c.t.u., resta naturalmente sempre possibile, anche nell'ambito di un sindacato di eccesso di potere su provvedimenti tecnico-discrezionali, allorquando sia in contestazione il presupposto di fatto oggetto di valutazione (ad es., il fatto storico che determinati reperti archeologici siano stati effettivamente rinvenuti, che abbiano o non abbiano una determinata forma, consistenza materica e dimensione; il fatto che, con indagini fisiche e chimiche, possano o meno essere datati ad una certa epoca; il fatto che una determinata architettura sia attribuita dalla prevalente letteratura a un determinato architetto; il fatto che alcuni documenti storici d'archivio attestino determinati eventi come accaduti prima di una certa data; il fatto storico che un determinato immobile sia stato abitato da un illustre personaggio; il fatto che un determinato volume sia “utile”, in termini edilizi, ai fini dell'inammissibilità della sanatoria paesaggistica; il fatto che un certo intervento edilizio — un soppalco — metta a rischio la statica dell'edificio storico, etc.). In tutte queste ipotesi, allorquando l'amministrazione tecnica preposta abbia già enunciato le sue valutazioni non sostituibili (il pregio architettonico, il notevole interesse paesaggistico, la compatibilità dell'alterazione con il valore culturale del bene) e la causa dipenda, a questo punto, esclusivamente dalla risoluzione del punto controverso in fatto, potrà ammettersi — così come la c.t.u. e il sindacato “forte” — anche una domanda (e un'annessa pronuncia) di adempimento e di condanna dell'amministrazione al rilascio dell'autorizzazione. Resta in piedi, di converso, un altro argomento testuale-processuale contro l'ammissibilità dell'azione di adempimento (se legata, come di norma avviene, al guscio formale dell'azione avverso il silenzio), nel campo della discrezionalità tecnica: la particolare celerità del rito avverso il silenzio, costretto entro i tempi ristretti del rito camerale, chiaramente inadatto ad accertamenti di lunga indagine (c.t.u., etc.). È argomento non recente, già speso dalla prevalente giurisprudenza (sia anteriore che posteriore alle novità normative del 2005) per limitare l'accesso all'accertamento della fondatezza della pretesa nel merito. Ma si tratta, tutto sommato, come gli argomenti a favore dell'ammissibilità, poco sopra passati in rapida rassegna, di un argomento formale, legato al dato occasionale del rito e alle contraddizioni interne del codice del processo amministrativo; argomenti, dunque, che, lungi dal chiarire le questioni, costituiscono il frutto della confusione e della contraddizione terminologica e concettuale che ancora caratterizza negativamente il dibattito. Il codice, come è naturale, è un compromesso tra diverse idee e visioni del processo amministrativo. Al suo interno è possibile dunque trovare frasi, parole, scampoli di norme che possono essere usati senz'altro nell'un senso come nell'altro. Ma non è su questo piano di stretta ermeneutica del testo normativo vigente che può trovare una soluzione appagante il tema in discussione. 5. Ma l'argomento principale a sostegno dell'esclusione del sindacato sostitutivo del giudice (e, perciò, dell'azione di adempimento) si trae dall'esame della struttura logica del sillogismo giuridico nei casi di discrezionalità tecnica. Muoviamo dall'assunto — largamente condiviso, pur nel suo semplicismo — che la decisione amministrativa tecnico-discrezionale rechi ed esibisca una struttura di tipo sillogistico (40). Alla premessa maggiore — il diritto — si lega la premessa minore — il fatto, che viene sussunto nel diritto e determina la conseguenza dispositiva (la conclusione). Ora, il sillogismo non è che un argomento che determina e spiega il significato della conclusione (che è, di regola, una proposizione predicativa) ed è costituito da una sequenza di asserzioni intorno a classi (con cui si afferma o si nega che una classe sia inclusa in tutto o in parte in un'altra classe). La conclusione predica degli attributi (nella logica modale, il comando, il permesso o il divieto) di un oggetto particolare (il termine minore) sussumendolo nella classe designata dal termine maggiore (che designa il concetto generale, ossia la qualità o lo stato predicati dell'argomento, l'insieme entro il quale l'individuo deve essere classificato) (41). Orbene, secondo la legge di variazione inversa (42), quanto maggiore è la connotazione del termine universale, tanto minore è la denotazione del particolare, ma tanto più forte è il potere individuativo della categoria generale. Un termine universale povero di elementi qualificanti comprende, come una ripresa fotografica con grande apertura di campo focale, un grande numero di oggetti particolari denotati, ma con un'immagine poco circostanziata (sfocata). Un termine universale ricco di elementi connotanti e specificativi, invece, comprende, come una ripresa fotografica che stringe la messa a fuoco sull'obiettivo, un numero molto limitato di oggetti o un solo oggetto particolare (ma con ampio e ben definito dettaglio di particolari). Ne consegue che, in questo ultimo caso, il termine universale enunciato nella premessa maggiore, esplicando un forte potere individuativo, lascia all'interprete, a valle, un compito meramente applicativo, del tutto automatico e vincolato. Nel primo caso, invece, il termine universale enunciato nella premessa maggiore lascia a valle, all'interprete applicatore, un compito ben diverso, che è di selezione e ulteriore specificazione dell'oggetto (particolare) dell'argomento. Nel caso, frequente, in cui la norma attributiva di potere tecnico-discrezionale rinvia a standard valutativi metagiuridici (43), entrano in gioco i così detti concetti etici spessi, caratterizzati da un intreccio profondo di fatti e valori, che descrivono e valutano nello stesso tempo e hanno un intrinseco contenuto normativo, concetti che descrivono proprietà che non si possono semplicemente percepire o misurare “senza averle comprese e aver appreso a identificarle grazie a una particolare capacità di valutazione di tipo immaginativo” (44). In questi casi il sillogismo presenta una particolare struttura circolare. Dall'universale si passa al particolare, ma la premes sa minore si riverbera specularmene sulla maggiore contribuendo alla sua stessa costruzione e connotazione. Certo, in generale, ogni occorrenza (token) di un universale (type) contribuisce alla conferma della sua definizione. Ma, nel caso dei concetti giuridici indeterminati, questa capacità dell'occorrenza particolare di confermare (inverandone il contenuto definitorio) la categoria universale trasmoda in una progressiva ridefinizione precisante dello stesso concetto generale. In questo senso la “ricognizione del fatto”, che attiene alla posizione della premessa minore, interferisce direttamente con la stessa costruzione della premessa maggiore. L'atto di discrezionalità tecnica è (gradualisticamente) atto creatore di norme giuridiche particolari, ma nel senso speciale di “riformulare” per ogni occorrenza il tipo categoriale incompleto della norma generale e astratta. Ne deriva che, nel giudizio sillogistico di qualificazione del fatto, in un caso di discrezionalità tecnica, la posizione del fatto (questo è “paesaggio” o è “bene storico-artistico”) interagisce sul diritto (45). Come già anticipato al par. 4, si assiste, in questi casi, a un processo logico dialettico che incrocia dinamicamente il momento deduttivo (dal diritto al fatto) con il momento induttivo (dal fatto al diritto), per cui il diritto (il termine generale, nella sua indeterminatezza e scarsa connotazione, ovvero scarsa capacità identificativa e individuativa del fatto) è descritto e definito (di volta in volta) dall'occorrenza concreta del fatto, per come “valutata” in sede applicativa. La valutazione, dunque, non predica solo determinati attributi del fatto, ma predica anche riguardo allo stesso termine generale (premessa maggiore), nel senso che ne integra e ridetermina la nozione. In conclusione, la natura — valutativa (discrezionale) o solo descrittiva (vincolata) — del giudizio espresso nel provvedimento non solo non può essere riferita solo alla (e ricercata solo nella) parte dispositiva del sillogismo giuridico di cui si compone il provvedimento, ma deve essere estesa sia alla premessa minore (al “fatto”) che (dialetticamente) alla premessa maggiore (il diritto). In sostanza, nella discrezionalità tecnica vi è un'area del “diritto”, ossia della stessa descrizione in astratto e in generale dei presupposti di fatto dell'esercizio del potere, che non è predefinita dalla legge, ma riservata alla statuizione dell'amministrazione, che muovendo dall'analisi delle singole fattispecie produrrà una casistica sintetica di completamento del precetto indeterminato. L'attingimento agli standard valutativi e alle regole “tecniche” desunte da scienze e conoscenze non giuridiche (l'economia, l'arte, la storia, la cultura), infatti, opera anche nell'area del “diritto”, ossia della definizione tipologica del type e non solo nella ricognizione dei token di volta in volta rinvenibili nei fatti. Dall'analisi e dall'acquisizione dei fatti l'attività ermeneutica risale alla sintesi costitutiva del diritto. A ben vedere nel fenomeno della discrezionalità tecnica opera una sorta di scissione tra riferimento e predicazione, poiché la legge nomina i fatti potenzialmente idonei a costituire il presupposto dell'effetto, ma lascia all'amministrazione la definizione induttiva del loro significato (mediante la selezione degli attributi che li qualificano e la sintesi di standard valutativi). In questo senso la definizione del significato del predicato è riservata al completamento proposizionale dell'amministrazione. L'enunciato normativo, dunque, non ha ancora un significato completo, nell'unitarietà della proposizione (come affermazione o negazione come esistente di un singolo fatto (46)). Si limita a nominare dei presupposti (riferimento), ma opera una predicazione solo parziale, poiché non esprime in modo completo la qualificazione distintiva del fatto, ossia non completa la sua descrizione mediante predicazione di termini generali attributivi di proprietà e di relazioni. Appare pertanto evidente — tornando a Capaccioli — che la valutazione del carattere lussuoso di un bene o l'affermazione della sussistenza in concreto del presupposto del mercato rilevante, oppure la valutazione del notevole interesse paesaggistico di un'area, costituiscono esempi di discrezionalità interpretativa a fronte dei quali non possono che esservi interessi legittimi, nello schema logico: norma - potere (valutativo e integrativo della fattispecie) - fatto (47). 6. Così precisato il (ristretto) ambito applicativo di una (possibile) azione amministrativa di adempimento (con riferimento all'attività interamente vincolata della p.a.), può essere utile svolgere alcune considerazioni sui riflessi applicativi che sarebbero legati alle tesi favorevoli alla dilatazione applicativa di questo strumento, in un'ottica di estensione dell'oggetto del giudizio dall'atto al rapporto. Ed invero, in questo quadro e con riferimento all'attività interamente vincolata della p.a., la pronuncia di adempimento e la non annullabilità dell'atto per vizi formali e procedurali, ex art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, si pongono come le due facce della stessa medaglia. In caso di fondatezza nel merito della pretesa azionata, in accoglimento dell'azione di adempimento, vi potrà essere la condanna dell'amministrazione ad adottare il provvedimento favorevole (o, meglio, la dichiarazione diretta, da parte del giudice, della spettanza ex lege, senza reale intermediazione di un potere, del “diritto” amministrativo del soggetto). Di conseguenza, in caso di accertamento dell'infondatezza nel merito della pretesa azionata, gli eventuali vizi formali e procedurali (tra cui occorrerà, in una logica di spettanza e di accesso al merito, includere anche il difetto di motivazione) non consentiranno l'annullamento dell'atto, a questo punto reso inutile per effetto della cognizione diretta del rapporto operata dal giudice (sicché la figura della non annullabilità ex art. 21-octies si colloca nel quadro processuale dell'inammissibilità per carenza di interesse). Il punto di ricaduta effettuale importante di questo discorso, per essere chiari, è che non si può avere, per così dire, “la botte piena e la moglie ubriaca”: se oggetto del giudizio — in caso di attività vincolata della p.a. — è il rapporto e la fondatezza della pretesa e non più l'atto, allora così come, da un lato, si deve poter ammettere che il giudice consegni direttamente alla parte il bene della vita, allo stesso modo si deve coerentemente ammettere, dall'altra parte, la fine delle censure formali e procedurali, in quanto tali del tutto inammissibili al di fuori di una prova della fondatezza della pretesa nel merito. Se vi è azione di adempimento, deve esservi inammissibilità delle censure di difetto di comunicazione di avvio del procedimento, di mancato preavviso di diniego, di omesso esame delle controdeduzioni, di difetto di motivazione, etc. Non è possibile consentire, da un lato, il superamento del filtro dell'atto, in caso di esito positivo dell'accertamento, e dall'altro lato, in caso di esito sfavorevole di tale accertamento, rifugiarsi dietro lo schermo dell'atto impugnato, nell'alibi dell'interesse strumentale al riesercizio comunque della funzione a seguito di annullamento dell'atto per vizi formali. 7. Non vi è dubbio, come già accennato, che i temi trattati mettono in gioco le linee portanti identificative del modello di giustizia amministrativa che si intende prediligere. Si tratta, come sempre, di trovare un punto di equilibrio (48). Una lettura delle recenti novità processuali orientata al solo criterio della effettivitàsatisfattività, sempre e comunque, della pretesa individuale azionata, che intenda ammettere l'azione di adempimento anche a meri fini di “certezza” del privato, mediante domanda di rilascio di atti dichiarativi del diritto a intraprendere una determinata attività (ancorché regolata con d.i.a., s.c.i.a., autocertificazione, silenzio-assenso), o a fini di condanna dell'amministrazione all'adozione di provvedimenti favorevoli, anche discrezionali, o che ammetta il sindacato “forte” — e l'azione di adempimento — anche a fronte di attività tecnico-discrezionali riservate all'amministrazione, condurrebbe ad un sistema a “governo dei giudici” e a un diverso equilibrio istituzionale, in cui la decisione finale di gestione amministrativa sarebbe in definitiva riservata al potere giurisdizionale, non solo nei suoi aspetti formali-procedurali (di controllo di legalità) e logico-razionali (di non eccesso di potere, logicità, proporzionalità, ragionevolezza), ma anche nei suoi aspetti decisori (discrezionali e valutativi) riservati all'esecutivo (49). C'è nel sistema un punto (di equilibrio istituzionale) al di là del quale l'opposizione e la pretesa del singolo devono essere fatti valere non più in termini di azione giurisdizionale, ma in termini di azione civica di partecipazione democratica ai meccanismi decisionali pubblici. La dilatazione della tutela giurisdizionale sposta questo punto di equilibrio istituzionale e, assolutizzando il reclamo giudiziario individuale, affievolisce le tutele partecipative democratiche, che rivengono nel rispetto della decisione pubblica assunta dagli organi e dai funzionari competenti, secondo il principio di legalità, la garanzia di cura imparziale dell'interesse generale. In quest'ottica (e in disparte la questione, che qui non rileva, dell'interpretazione “estensiva” della locuzione “motivi inerenti alla giurisdizione” dell'ultimo comma dell'art. 111 Cost.) appare condivisibile il sindacato di non eccesso di giurisdizione svolto dalla Corte di cassazione (ribadito di recente con la sentenza delle sezioni unite 17 febbraio 2012, n. 2312 (50)), che individua come limite esterno alla giurisdizione, ossia come limite alla tutela erogabile, la persistenza di un nucleo di potere amministrativo non sostituibile. La tesi del “cambio di paradigma” presenta, nel suo accento troppo processualcivilistico, il non secondario inconveniente di dimenticare che l'oggetto del giudizio amministrativo è, innanzi tutto, il modo di esercizio del potere funzionale, che implica di regola un rapporto necessariamente plurilaterale che coinvolge, direttamente e indirettamente, una pluralità di consociati (controinteressati, cointeressati, soggetti indirettamente incisi, portatori di interessi collettivi diffusi, etc.), cui si riferisce l'interesse generale, che è la ragion d'essere della funzione (e della giustizia amministrativa), e che rischia di essere il “convitato di pietra” (51) nelle ricostruzioni processualcivilistiche del processo amministrativo. Il rapporto amministrativo, che ben può essere, se si vuole, l'oggetto del (nuovo) processo amministrativo, è, dunque, un rapporto affatto particolare, un rapporto plurilaterale che necessariamente intercetta l'interesse generale, che è poi l'oggetto della decisione pubblica amministrativa (ossia del provvedimento), sicché, a ben vedere, dire che l'oggetto del giudizio amministrativo è il provvedimento amministrativo non significa affatto restringere il cono visivo del giudice o negare qualsiasi cognizione del rapporto, ma significa esattamente il contrario, ossia che l'oggetto del giudizio amministrativo è (per l'appunto) il rapporto amministrativo, che è, però, il rapporto che riguarda tutti i soggetti coinvolti dall'affare pubblicistico e giammai soltanto l'attore che chiede e ricorre e l'amministrazione convenuta (come invece avverrebbe se si accettasse la riduzione del processo amministrativo entro lo stampo ristretto — bilaterale — del processo civile). D'altra parte, anche nel processo civile, quando sono coinvolti interessi generali, di gruppi organizzati, o vengono comunque in gioco poteri funzionali, si devia dal modello puramente attributivo tutto concentrato sulla pretesa dell'attore per spaziare panoramicamente, con più ampia visione di gioco, con tecniche di tipo correttivo, sugli interessi collettivi e di classe (dove, non a caso, si assiste ad azioni di tipo impugnatorio volte al ripristino della legalità e degli equilibri violati da deliberati o da atti commerciali “illegittimi”). Ma, evidentemente, questa è la sensazione, si vuole che nel processo amministrativo sia possibile pretendere dall'amministrazione e contro l'amministrazione molto di più di quanto non sia possibile pretendere contro un normale convenuto in un processo civile tra privati cittadini. Abstract: L'affermarsi dell'idea della atipicità delle azioni nel processo amministrativo e l'ammissibilità dell'azione di adempimento, rafforzata dal secondo correttivo del codice, ritualizzata la discussione sul regime della discrezionalità tecnica e sui limiti del sindacato consentito al Giudice amministrativo (tra sindacato “estrinseco” e sindacato “intrinseco”, “forte” o “debole”, secondo la terminologia risalente a Cons. Stato, n. 601 del 1999). Il contributo mira a evidenziare come il modello tradizionale della giurisdizione generale di legittimità (modello correttivo di tipo cassatorio avente ad oggetto la razionalità della decisione amministrativa, articolato nelle due fasi della cognizione — fase rescindente — e dell'ottemperanza — fase rescissoria) garantisca tutt'ora una tutela più intensa e piena, assicurando nel contempo il rispetto del principio della separazione dei poteri, evitando di ridurre il Giudice amministrativo a un amministratore di secondo grado costretto a conoscere — alla stessa stregua di quello civile — il solo rapporto litigioso bilaterale tra ricorrente e amministrazione intimata, senza alcuna considerazione dell'affare amministrativo nella sua intrinseca complessità e plurisoggettività, in quanto episodio di gestione dell'interesse generale. In quest'ottica lo scritto propone una nuova nozione di “estensione dell'oggetto del giudizio dall'atto al rapporto”, dove per “rapporto” si deve intendere il “rapporto amministrativo”, un rapporto plurilaterale che necessariamente intercetta l'interesse generale, che è poi l'oggetto della decisione pubblica amministrativa (ossia del provvedimento) oggetto di impugnazione. Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin: 10px 10px;"> Note: (*) Il testo costituisce una rielaborazione dell'intervento al Convegno di studi “L'azione di adempimento nel codice del processo amministrativo”, organizzato dal Centro di Studi sulla Giustizia presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Milano, svoltosi il 24 maggio 2012. (1) Non quella di esecuzione del giudicato, che appartiene alla giurisdizione estesa al merito, nel cui ambito è pacifico che il giudice si possa fare amministratore e rilasciare egli stesso, tramite il suo commissario, il provvedimento favorevole domandato dalla parte (o disporre la rimozione degli effetti, per quanto possibile, di quello sfavorevole opposto). Uno dei temi fondamentali implicati dalla discussione sull'azione di adempimento è costituito proprio dal suo riverbero sulla costruzione tradizionale “bifasica” della tutela amministrativa e sul ruolo dell'ottemperanza, con l'ingresso progressivo di elementi di ottemperanza già nella fase della cognizione [indotti dalla generalizzazione, contenuta nella lettera d) del comma 1 dell'art. 34, della nomina di un commissario ad acta sin dalla fase di cognizione, ciò che prima del codice era ammesso dalla giurisprudenza solo per il giudizio avverso il silenzio ex art. 21-bis della legge n. 1034 del 1971, mentre oggi potrebbe essere ammesso in ogni tipo di ricorso e in ogni tipo di giudizio]. Un altro argomento addotto nella direzione della progressiva confusione tra cognizione ed esecuzione viene individuato anche nel fatto che nella lettera a) del comma 1 dell'art. 34 non è stata riprodotta la formula “salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa” (art. 45 del r.d. n. 1054 del 1924), dal che, in uno al rilievo dell'abrogazione del r.d. del 1907, senza che sia stata ripresa dal codice la previsione dell'art. 88, in base alla quale “l'esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa eccetto che per la parte relativa alle spese”, potrebbe derivarsi l'idea del superamento del divieto di condanna all'emanazione di un provvedimento (M. Clarich, Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, al sito http://www.giustizia-amministrativa.it, 11 novembre 2010, nonché in Giorn. dir. amm., 2010, 1121 ss.). (2) Inclusiva dell'azione avverso il silenzio. Se per certi aspetti sembra che il c.p.a. abbia unificato il regime processuale dei tre tradizionali comparti di giurisdizione — di legittimità, esclusiva ed estesa al merito — prevedendo di regola, salve eccezionali distinzioni, un rito unitario (si vedano, soprattutto, gli articoli del Libro II sull'istruttoria), e pur tralasciando le previsioni degli artt. 133 e 134, resta il fatto che nel fondamentale art. 7 la tradizionale tripartizione è rimasta e continua oggettivamente a rilevare, sia quanto al termine decadenziale dell'azione, sia quanto al tipo di azione e di pronuncia ammissibili (artt. 29 ss. c.p.a.). (3) La discussione riguarda soprattutto gli interessi pretensivi. Nel caso di d.i.a. — s.c.i.a. l'interesse (sostanzialmente) oppositivo del controinteressato si struttura formalmente comunque in termini pretensivi (pretesa di atto sanzionatorio e repressivo, o di riesame). (4) Il dibattito sull'azione di adempimento dopo il c.p.a. è stato di recente catalizzato dalla nota sentenza del Tar Lombardia, Milano, sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428, che ha ammesso l'azione di adempimento (innestandola su un'azione avverso il silenzio) in un caso concernente la domanda di un dipendente pubblico di trasferimento di sede per assistenza a familiari bisognosi di cure (in Foro amm. - T.A.R., 2011, 1491 ss., con nota di A. Carbone, Fine della perplessità sull'azione di adempimento; su questa sentenza cfr. altresì R. Caroccia, La “lunga marcia” dell'azione avverso il silenzio-inadempimento nel processo amministrativo: dal principio di concentrazione delle tutele al principio di effettività della tutela, in Giust.Amm.it, 7 maggio 2012; C. Benetazzo, L'azione « atipica » di condanna; caratteri, limiti e sua esperibilità nei casi di diniego di titoli abilitativi edilizi, ivi, 20 giugno 2012). Si vedano altresì gli interventi di A. Carbone, A. Di Mario, F. Merusi (27 giugno 2011), G. Verde (1 luglio 2011), E. Follieri (12 luglio 2011), L. Ferrara (9 settembre 2011), comparsi sulla rivista informatica Guida al Diritto de Il Sole 24 Ore, al sito http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto.html. Analoghe argomentazioni anche in Tar Campania, Napoli, Sez. VII, 15 dicembre 2011, n. 5829 (in Giurisdiz. amm., 2011, III, 2016 ss.), in una fattispecie, peraltro, di impugnazione di un annullamento ministeriale di nulla osta paesaggistico, nella quale, per la verità, l'annullamento sarebbe stato direttamente e immediatamente satisfattivo, senza alcuna necessità di operare remand all'amministrazione e pronunciare condanne di adempimento (ossia di conformazione). La tesi favorevole è sviluppata soprattutto da F. Merusi (Il codice del giusto processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 1 ss.), dove il perno argomentativo è costituito dal richiamo di diritto europeo al caso Hornby (15 febbraio 1997), nel quale “la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu) condannò la Grecia perché il processo amministrativo di quel Paese (del tutto analogo a quello italiano prima dell'emanazione del Codice del processo amministrativo) non prevedeva una sentenza satisfattiva della pretesa del cittadino ad ottenere un determinato provvedimento da parte della pubblica amministrazione, cioè perché non prevedeva quella che, in base alla terminologia introdotta dal diritto processuale amministrativo tedesco, viene chiamata azione di adempimento, id est la condanna della pubblica amministrazione ad emanare un determinato provvedimento nel caso ne esistano i presupposti accertabili da un giudice” (11 ss.). Per la tesi ampliativa cfr. M. Clarich, Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, cit.; M. Clarich, Rossi Sanchini, Linee evolutive del processo amministrativo: il lungo cammino (non ancora concluso) dal giudizio sull'atto al giudizio sul rapporto, in G. Amato e R. Garofoli (a cura di), Il Libro dell'anno, Diritto, Treccani, Roma, 2012. In tema si veda anche S. Raimondi, Le azioni, le domande proponibili e le relative pronunzie nel codice del processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 913 ss. Sulla tipologia delle azioni prima del nuovo codice in generale cfr. E. Follieri, La tipologia delle azioni proponibili, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, 3ª, Torino, 2009, 169 ss. Tra i commentari e i trattati sinora editi sul c.p.a., cfr. F. Caringella, sub art. 29 (approfondimento), in F. Caringella e M. Protto (a cura di) Codice del nuovo processo amministrativo, II ed., Trento, 2011, 395, che parla di azione di condanna pubblicistica o azione di esatto adempimento, valorizzando soprattutto il rescritto di Cons. Stato, Ad. plen., n. 3 del 2011; ivi cfr. anche V. Lopilato, sub artt. 31, 413, il quale ritiene che, ancorché “nel successivo iter che ha caratterizzato l'approvazione del Codice” sia “rimasta soltanto l'azione avverso il silenzio”, essa potrebbe essere ugualmente “qualificata quale azione di adempimento in presenza dei presupposti contemplati dalla legge”; favorevole alla configurabilità di un'azione di adempimento, nell'ambito dell'art. 31 c.p.a., sull'abbrivio della pronuncia della Plenaria ora richiamata, sembra anche M. Occhiena, sub art. 31, in R. Garofoli, G. Ferrari (a cura di), Codice del processo amministrativo, II ed., Roma-Lecce, 2012, 587; in senso positivo cfr. altresì R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010, 172 ss.; M. Ramajoli, Le tipologie delle sentenze del giudice amministrativo, in R. Caranta (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Torino, 2011, 580, ritiene che “sparsi in tutto il codice vi sono frammenti di azione di accertamento ... e di adempimento (nel caso di condanna all'adozione di misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, oppure nel caso di giudizio avverso il silenzio, quando il giudice si spinge a valutare la fondatezza della pretesa o nello speciale giudizio in tema di appalti pubblici)”. (5) Parte della processualistica odierna svaluta la tipicità delle azioni in favore del principio di atipicità della One form of action, quale declinazione atipica e mutevole dell'art. 24 della Costituzione, ciò che consentirebbe probabilmente un approccio deflazionista al tema dell'opzione del codice del processo amministrativo nel dilemma “tipicità-atipicità” delle azioni (B. Sassani, Riflessioni sull'azione di nullità, in questa Rivista, 2011, 269; Id., Arbor actionum. L'articolazione della tutela nel codice de processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 2011, 1356 ss.; nel senso della atipicità delle azioni nel nuovo codice anche L. Torchia, Le nuove pronunce nel Codice del processo amministrativo, relazione al 56º Convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 23-25 settembre 2010, in http://www.giustizia-amministrativa.it, 25 novembre 2010, nonché M. Ramajoli, Le tipologie delle sentenze del giudice amministrativo, cit., 589 e 615 ed E. Follieri, L'azione di nullità dell'atto amministrativo, in Giust.Amm.it, aprile 2012). Nel senso che il c.p.a. avrebbe aperto all'atipicità delle azioni, Cons. Stato, ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3, punto 3.1 della motivazione in diritto, nonché Id., 29 luglio 2011, n. 15, punti 6.4.1. e 6.5.1. della motivazione in diritto. Sul tema, con riferimento soprattutto ai profili della tutela in caso di silenzio-assenso e di s.c.i.a., E. Scotti, Tra tipicità e atipicità delle azioni nel processo amministrativo (a proposito di ad. plen. 15/11), in Dir. amm., 2011, 765 ss. I. Pagni, L'azione di adempimento nel processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 2012, 328 ss. (nonché in GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 11 giugno 2012), distingue tra atipicità del diritto di azione e atipicità delle forme di tutela. (6) Peraltro il nuovo progetto di decreto correttivo del codice processuale amministrativo, elaborato dalla medesima Commissione di studio (integrata) costituita presso il Consiglio di Stato, dovrebbe proporre l'aggiunta, in principio del capo II (Azioni di cognizione) del titolo III (Azioni e domande) del libro I (Disposizioni generali) del codice di un nuovo art. 28-bis, del seguente tenore: “Le parti possono proporre le azioni costitutive, dichiarative e di condanna idonee a soddisfare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”. Il che testimonia la perdurante incertezza del tema. (7) Si ricorda che l'art. 3, comma 6-bis, del decreto legge n. 35 del 2005, aggiunto dalla legge di conversione n. 80 del 2005, nel modificare l'art. 2 della legge n. 241 del 1990, vi aveva aggiunto un comma 5 del seguente tenore: “Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all'amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai predetti commi 2 o 3. Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza. È fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti”. L'art. 21-bis [poi abrogato dal n. 10) del comma 1 dell'art. 4 dell'allegato 4 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, a decorrere dal 16 settembre 2010], era stato inserito nella legge n. 1034 del 1971 dalla legge n. 205 del 2000. Su queste norme cfr. G. Fonderico, Il nuovo tempo del procedimento, la d.i.a. e il silenzio assenso, in Giorn. dir. amm., 10/2005, 1017 ss. (che richiama Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 21 luglio 2005, n. 1356). Si vedano altresì Tar Campania, Napoli, sez. I, 13 giugno 2005, n. 7817; Tar Toscana, sez. I, 20 giugno 2005, n. 3044; Tar Lazio, sez. II-bis, 11 gennaio 2006, n. 213, che restringe l'accesso al merito “alle sole ipotesi di manifesta fondatezza o infondatezza della pretesa sostanziale”; Tar Lazio, sez. II-ter, 20 gennaio 2006, n. 429, Id., II-quater, 23 maggio 2006, n. 3778; Tar Campania, Napoli, VI, 17 marzo 2006, n. 3099; Tar Latina, 12 aprile 2006, n. 249 (le decisioni citate sono tutte reperibili al sito http://www.giustizia-amministrativa.it). (8) Tema peraltro variamente frammisto o confuso, in quel dibattito, alla diversa questione, contigua ma distinta, della “reintegrazione in forma specifica” di cui all'articolo 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 e al nuovo testo dell'articolo 7 della legge n. 1034 del 1971 modificato dalla legge n. 205 del 2000, in tema di cd. “aggiudicazione sostitutiva”, disposta jussu judicis in favore del ricorrente vincitore (cfr., ad es., Tar Lombardia, Brescia, 23 aprile 2002 n. 787, in Urb. app., 2002, 1456 e ss.). Sulla distinzione tra reintegrazione in forma specifica (riconducibile all'art. 2058 c.c.), azione di adempimento ed esecuzione in forma specifica cfr. A. Travi, La reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo tra azione di adempimento e azioni risarcitorie, nota di commento a Cons. St., sez. VI, 18 giugno 2002 n. 3338, in questa Rivista, 2003, 208 ss.; Id., Processo amministrativo e azioni di risarcimento del danno: il risarcimento in forma specifica, ivi, 2003, 994 ss. Tale distinzione è bene tratteggiata in Cons. St., Sez. VI, 25 marzo 2003, n. 1551, 3 aprile 2003, n. 1716, 30 maggio 2008, n. 2621; Sez. IV, 12 gennaio 2005, n. 45. Un'ampia ricognizione su tali tematiche in G. Guidarelli, La reintegrazione in forma specifica nella tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo, in questa Rivista, 2006, 644 ss. Sull'azione di condanna del diritto tedesco cfr. A. Masucci, La legge tedesca sul processo amministrativo, Milano, 1991, 23, ove si osserva come “(la previsione dell'azione di condanna in diritto tedesco) riflette il superamento di una concezione della pubblica amministrazione come soggetto meramente autoritatitvo e la rilevanza che l'amministrazione ha acquisito come soggetto erogatore di servizi, come soggetto che promette utilità”. Osservazione rinvenibile anche in M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 4ª ed., 1994, 316. In generale, F. Liguori, La reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo, Napoli, 2003; L. Tarantino, L'azione di condanna nel processo amministrativo, Milano, 2003; I. Franco, Gli strumenti di tutela nei confronti della pubblica amministrazione. Dall'annullamento dell'atto lesivo al risarcimento, Padova, 2003; D. Vaiano, La pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, 644 ss.; M. Carrà, Risarcimento in forma specifica e Folgenbeseitigung: le frontiere mobili della responsabilità pubblica tra annullamento dell'atto e risarcimento per equivalente, in Dir. amm., 2004, 784 ss. Un'ampia ricognizione su tali tematiche in M. Clarich, L'azione di adempimento nel sistema di giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive ed orientamenti giurisprudenziali, in questa Rivista, 1985, 66 ss., nonché Id., con specifico riguardo alle novità normativa del 2005, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, ivi, 2005, 557 ss. (9) È noto che non esiste in diritto italiano una “riserva di amministrazione” nei confronti del legislatore, a differenza di quanto accade in Francia (art. 37 della Costituzione: Les matières autres que celles qui sont du domaine de la loi ont un caractère réglementaire). Nulla vieta al legislatore di introdurre provvedimenti (sul tema, da ultimo, cfr. N. Guasconi, Dalle pronunce sui calendari venatori nuove indicazioni in materia di leggi - provvedimento (nota a Corte cost., sent. nn. 20 e 105 del 2012), in GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 15 giugno 2012). Può invece affermarsi l'esistenza di una riserva di amministrazione nei confronti della giurisdizione, nel senso di un limite al sindacato del giudice in determinate aree riservate all'amministrazione, quali il merito amministrativo (e, in tesi, quel segmento della scelta tecnico-discrezionale non sostituibile con un sindacato “forte” da parte del giudice). Sul merito amministrativo cfr. G. Coraggio, voce Merito amministrativo, in Enc. Dir., XXVI, Milano, 1970, 130 ss. Sui rapporti tra legge, provvedimento e sentenze del giudice, nel sistema delle fonti produttive della normazione, in un contesto gradualista, cfr. R. Carré de Malberg, La teoria gradualistica del diritto, a cura di A. Chimenti, Milano, 2003, passim. Si rileva, tuttavia, che, prima di Montesquieu e della Rivoluzione francese, la separazione dei poteri riguardava solo l'esecutivo e il legislativo (tesi, come è noto, ripresa da H. Kelsen, Problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico, trad. it. di A. Carrino e G. Stella, Napoli, 1997, 562, nonché 492, nota 10; sulla radicale critica del Kelsen alla distinzione tra potere esecutivo e potere giudiziario, sull'assunto che le funzioni statali sono due e soltanto due, la funzione normativa e quella esecutiva: legis latio e legis executio, cfr. F. Modugno, voce Poteri (divisione dei), in Noviss. Dig. it., vol. XIII, Torino, 1957, 482 ss.). Il rapporto tra giudice amministrativo e amministrazione è indagato di recente da G. Tropea, L'ibrido fiore della conciliazione: i nuovi poteri del giudice amministrativo tra giurisdizione ed amministrazione, in questa Rivista, 2011, 965 ss. Il tema della riserva di amministrazione come limite esterno alla giurisdizione è ripreso da recenti pronunce delle Sezioni unite della Cassazione (Cass., ss.uu., 9 novembre 2011, n. 23302, in questa Rivista, 2012, 127 ss., con nota di G. Mari, nonché Cass., ss.uu., n. 3712 del 2012, richiamata nella parte finale di questo contributo, sub nota 50). (10) G. Tropea, L'ibrido fiore della conciliazione: i nuovi poteri del giudice amministrativo tra giurisdizione ed amministrazione, cit., 1031. (11) A. Romano Tassone, Sui rapporti tra legittimazione politica e regime giuridico degli atti dei pubblici poteri, in Studi in onore di L. Mazzarolli, I, Padova, 2007, 257 ss., nonché Id., Situazioni giuridiche soggettive e decisioni delle amministrazioni indipendenti, in Dir. Amm., 2002, 465; S. Civitarese Matteucci, Funzione, potere amministrativo e discrezionalità in un ordinamento democratico, in Dir. Pubbl., 2009, 739 ss. Su di un piano ancor più ampio cfr. N. Luhmann, Diritto e differenziazione, Bologna, 1990, dove la differenziazione nel diritto è vista, nell'ambito della teoria dei sistemi, nel rapporto con gli altri sistemi sociali (cfr., per es., 68 ss.) fino alla differenziazione tra Stato e società, nonché Id., Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Milano, 1995 (soprattutto cap. 3, La differenziazione funzionale, ove si riferisce della teoria della differenziazione funzionale dei sistemi sociali di Spencer e Durkheim). La divisione del lavoro secondo criteri di specializzazione e di professionalizzazione della burocrazia ha profonde radici nell'evoluzione storica delle società occidentali, soprattutto di quelle europeo-continentali (M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Torino, 1948). C. Schmitt, Dottrina della costituzione, trad. it. di A. Caracciolo, Milano, 1984, 178, rileva che “come Stato di diritto è considerato solo uno Stato, la cui attività sia completamente racchiusa in una somma di competenze esattamente circoscritte. La divisione e la distinzione dei poteri contiene il principio fondamentale di questa generale misurabilità di tutte le manifestazioni statali di potere ... La generale misurabilità è il presupposto della generale controllabilità”. (12) Sul tema cfr. G. Tropea, op. cit., 1023. (13) Osserva come la crisi della legge ampli il potere discrezionale dell'amministrazione, che, per disciplinare il fatto in modo razionale e proporzionato, è sempre più chiamata a compiere una complessa operazione ermeneutica tra le sempre più numerose fonti e norme concorrenti e nel bilanciamento dei valori L. Torchia, Le nuove pronunce e l'ambito di decisione del giudice, cit., 12 ss., in particolare nel par. significativamente intitolato La nuova legalità: amministrare è già giudicare. (14) G. Coraggio, Discorso di insediamento del 18 aprile 2012 (reperibile al sito http://www.giustizia-amministrativa.it), ha rilevato che “il processo amministrativo ... è volto in primo luogo a ricondurre a correttezza l'azione amministrativa” ed ha condivisibilmente chiarito come questa sua natura “è legata alla struttura stessa delle situazioni soggettive in gioco, struttura che lega indissolubilmente la soddisfazione della pretesa del privato alla corretta gestione del potere e quindi dell'interesse generale”. P. de Lise, Discorso di inaugurazione dell'anno giudiziario 2011 (ivi), ha considerato come “il processo amministrativo guarda innanzitutto al “fatto”, alla vicenda concreta in cui si attua la dialettica autorità-libertà, e su tale vicenda modella il giudizio, avvalendosi di un sindacato per clausole generali (correttezza, proporzionalità, ragionevolezza) che consente di salvaguardare la sfera giuridica del cittadino penetrando le logiche del potere pubblico”. (15) La centralità dell'effetto conformativo della sentenza di annullamento costituisce un'acquisizione pacifica già da decenni ed è ricollegabile anche alla nozione tedesca di “azzeramento della discrezionalità per assenza di alternative nel caso concreto”. La giurisprudenza già da anni aveva forgiato il principio — tutto pretorio — del limite alla reiterazione del diniego, dopo l'annullamento, per motivi nuovi e diversi mai esaminati nel rapporto amministrativo (Cons. Stato, Sez. IV, 5 agosto 2003, n. 4539; Sez. V, 28 giugno 2004, n. 4775; Sez. VI, 3 dicembre 2004, n. 7858; Sez. IV, 4 marzo 2011, n. 1415; sul tema cfr. M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, cit., 580, nota 47; G. Guidarelli, La reintegrazione in forma specifica, cit., 707; D. Vaiano, Sindacato di legittimità e “sostituzione” della pubblica amministrazione, sulla rivista di diritto pubblico on line GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 23 maggio 2012, nota 28 di p. 12). (16) C. Calabrò, voce Giudicato, diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., Roma, 2003; F. Satta, voce Giurisdizione esclusiva, in Enc. Dir., Aggiornamento, vol. V, Milano, 2001, 571 ss., soprattutto, 581 e nota 27. (17) G. Verde, Commento a TAR Lombardia, sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428, richiamato da I. Pagni, op. cit., 339, nota 24, nonché Id., Sguardo panoramico al libro primo e in particolare alle tutele e ai poteri del giudice, in questa Rivista 2010, 795 ss. (18) G. Coraggio, Discorso di insediamento, cit., rileva come “Quella di salvaguardare l'autonomia decisionale dell'amministrazione e la responsabilità delle sue scelte è un'esigenza pratica prima ancora che teorica: una cognizione invasiva la delegittima e sostituisce ad una visione che è — o dovrebbe essere — globale, la frammentarietà connaturata all'intervento giudiziale”. (19) Né vale obiettare contra che, già nello schema tradizionale bipartito, il giudice si sostituisce all'amministrazione con il commissario ad acta: è evidente che, in questo quadro, la sostituzione è l'eccezione, che pone rimedio alla doppia patologia dell'agire amministrativo (che, dopo aver adottato un atto illegittimo, persevera nell'errore, violando il giudicato); nella tesi, nuova, della fusione cognizione-esecuzione in un'unica fase, invece, la sostituzione diventerebbe la norma (e non più l'eccezione). (20) D. Vaiano, Sindacato di legittimità e “sostituzione” della pubblica amministrazione, cit., fa leva sulla “saldatura” delineata dall'art. 34 c.p.a. tra le fasi della cognizione e quella dell'ottemperanza e ipotizza un superamento della giurisdizione estesa al merito, ormai riassorbita nei più ampi e sostitutori poteri del giudice nella sua generale ed unitaria attribuzione di giurisdizione. L'A. condivisibilmente rileva (13) come “in questo caso, più che di una vera e propria sostituzione dell'amministrazione, ci si trovi piuttosto in presenza dell'affermazione di un principio di preclusione temporale che incombe sull'amministrazione la quale, in virtù dei sopra richiamati principi di ragionevolezza, adeguatezza della motivazione, completezza dell'istruttoria, etc., non può ritenere di poter continuamente riesercitare poteri discrezionali di valutazione di una domanda ad essa rivolta da un interessato, ma deve soggiacere a precisi limiti temporali entro i quali, se vi sono cause ostative all'accoglimento della stessa, debbono essere evidenziate. Altrimenti, si dovrà ragionevolmente concludere che legittimi motivi ostativi non ve ne siano”. (21) D. Sorace, C. Marzuoli, Concessioni amministrative, in Digesto IV, Disc. pubbl., IV, vol. III, Torino, 1989, 280 ss.; V. Cerulli Irelli, Diritto amministrativo e diritto comune: principi e problemi, in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, I, Milano, 1998, 558; da ultimo, F. Trimarchi Banfi, L'atto autoritativo, in Dir. amm., 2011, 665 ss. Sulla critica della qualificazione dell'atto favorevole su domanda in termini di atto non autoritativo — teoria solo descrittiva della struttura esteriore dell'atto e del rapporto, ma che oblitera la sua causa formale e finale — e per un'analisi del comma 1-bis dell'art. 1 della legge n. 241 del 1990, sia consentito, per mera sintesi, il rinvio a P. Carpentieri, La razionalità complessa dell'azione amministrativa come ragione della sua irriducibilità al diritto privato, in Foro Amm. - TAR, 2005, 2652 ss., nonché Id., La razionalità complessa dell'azione amministrativa. Note a margine del nuovo comma 1-bis dell'art. 1 della legge 241 del 1990, in P. Stanzione e A. Saturno (a cura di), Il diritto privato della pubblica amministrazione, Padova, 2006, 80 ss. (22) L. Iannotta, L'interesse legittimo nell'ordinamento repubblicano, in questa Rivista, 2007, 935 ss., 947 ss., che propone l'idea dell'interesse legittimo come diritto amministrativo, ossia l'idea della “riconduzione dell'interesse legittimo al diritto, vale a dire alla rivendicazione da parte di un soggetto di una res in quanto a lui dovuta, a lui spettante — da attribuire, concedere, lasciar utilizzare, valorizzare, non sottrarre, non attribuire ad altri, conformare in modo adeguato”, che “porta alla configurazione, in capo alla pubblica amministrazione — tenuta all'efficacia, all'economicità, alla pubblicità, alla trasparenza — di un vincolo giuridico riferibile al titolare del diritto”. (23) Anche G. Falcon, La responsabilità dell'amministrazione e il potere amministrativo, Torino, 2001, 247, osserva come “nell'interesse legittimo esiste dunque un profilo di spettanza, ma questa non forma il contenuto di una obbligazione che a priori stringa due soggetti, bensì il risultato dell'esercizio legittimo del potere, il quale lo definisce” (sul tema si veda anche Id., Giudice amministrativo e interesse legittimo, in Dir. amm., 2006, 273 ss.). Sottolinea bene la natura affatto speciale di questo “rapporto” amministrativo E. Scotti, Tra tipicità e atipicità delle azioni nel processo amministrativo (a proposito di ad. plen. 15/11), cit., 808. (24) N. Paolantonio, Articolo 1, comma 1-bis, Principi generali dell'azione amministrativa, in N. Paolantonio, A. Police, Zito, La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2006; F. Liguori, L'attività non autoritativa tra diritto privato e diritto pubblico. A proposito del comma 1 bis, in Giustamm.it, rivista informatica al sito http://www.giustamm.it, n. 11/2006; F. Trimarchi Banfi, L'atto autoritativo, cit., 669 ss. (25) L. Iannotta, L'adozione degli atti non autoritativi secondo il diritto privato, in Dir. amm., 2006, 353 ss., che richiama la nozione di “diritto soggettivo amministrativo” (A. Klitsche De Lagrange, F. Cammeo richiamati ivi, 363 e note 48-50). (26) Su cui si vedano anche L. Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento amministrativo, Padova, 1996; E. Boscolo, I diritti soggettivi a regime amministrativo, Padova, 2001; G. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001, 287 ss. che richiama la nozione di Rechte di cui al par. 42, comma 2, della legge processuale tedesca (VwGO), ovvero dei cd. “interessi pretensivi prognosticamente fondati”, o “finali”, o “a risultato garantito”, come descritto da altri commentatori. (27) È per certi versi curiosa la contraddizione cui conducono queste impostazioni: da un lato si mira a smantellare i controlli preventivi di funzione pubblica; dall'altro lato si propongono costruzioni elaborate e fantasiose per conservare comunque azioni amministrative di controllo sull'inerzia o sul modo di esercizio del potere (intanto abolito). Così si spiega il pasticcio della tutela del terzo in caso di d.i.a. o s.c.i.a. (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 15 del 2011, che aveva inventato l'impugnativa del “silenzio-diniego” di controllo successivo, contraddetta però dal decreto legge n. 138 del 2011, art. 6, comma 1, che ha previsto, invece, per tali casi, l'azione avverso il silenzio-inadempimento della p.a.). Su questi temi sia consentito il rinvio al mio La riforma dell'art. 41 della Costituzione e la tutela del patrimonio culturale, pubblicato sulla rivista di diritto pubblico on line GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 26 ottobre 2011, dove ho rilevato la riduzione del diritto amministrativo a diritto sanzionatorio, con uno slittamento della tutela dall'azione regolatrice preventiva dell'amministrazione (in funzione di cura dell'interesse generale) all'azione individuale successiva di diritto soggettivo a tutela della proprietà privata (secondo lo schema dei limiti alla proprietà del codice civile, posti solo a tutela del vicino e rimessi alla sua attivazione). Il tema della s.c.i.a. dopo la plenaria n. 15 del 2011 e l'art. 6 del d.l. n. 138 del 2011 è di recente trattato, con ampia sintesi, da R. Ferrara, La segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del giudice amministrativo, nota a Cons. Stato, ad. plen., 19 luglio 2011, n. 15, in questa Rivista, 2012, 171 ss., nonché da L. Bertonazzi, Natura giuridica della S.c.i.a. e tecnica di tutela del terzo nella sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 15/2011 e nell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/90, ivi, 215 ss., e M. Ramajoli, La s.c.i.a. e la tutela del terzo, ivi, 329 ss. Ravvisa spazi applicativi per formule atipiche di accertamento/condanna idonee a dare tutela effettiva al terzo E. Scotti, Tra tipicità e atipicità delle azioni nel processo amministrativo (a proposito di ad. plen. 15/11), cit., 781, 782, nonché 799 ss. (28) R. Caroccia, op. cit., pp. 5 e 6 del documento e nota 30. L'argomento è tautologico: posto il dogma assiomatico dell'estensione e del potenziamento della nuova azione di adempimento, di fronte al rilievo che l'attività vincolata è ormai quasi tutta “consegnata” all'autocertificazione e al silenzio assenso e che in questi casi — artt. 19 e 20 della legge n. 241 del 1990 — l'azione avverso il silenzio (che è il veicolo normale dell'azione di adempimento) non è esperibile — si vorrebbe pervenire alla conclusione per cui l'azione di adempimento deve essere ammessa proprio e soprattutto nelle materie “sensibili”, escluse dalla s.c.i.a. e dal silenzioassenso, ossia nelle materie in cui di regola maggiore è la presenza di discrezionalità tecnica. Restano da dimostrare sia l'assioma di partenza che la pretesa conclusione (che dequota la discrezionalità tecnica ad attività interamente vincolata). (29) Condivisibile appare dunque il rilievo di R. Giovagnoli, Liberalizzazioni, semplificazioni ed effettività della tutela, in GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 14 giugno 2012, par. 5, dal titolo La valorizzazione della discrezionalità e la necessità di riscoprire l'eccesso di potere, secondo cui “Un ulteriore elemento di interesse che emerge dai provvedimenti di liberalizzazione di cui ci occupiamo è la valorizzazione della discrezionalità amministrativa come forma normale di esercizio del potere pubblico. Il potere vincolato è certamente recessivo, perché laddove le condizioni di accesso sono rigidamente fissate dalla legge e si tratta solo di verificarne l'esistenza, il legislatore opta chiaramente per forme di liberalizzazione che vanno dalla totale eliminazione del titolo all'introduzione di titoli “leggeri” quali la d.i.a. o s.c.i.a., in cui il controllo della p.a. è eventuale e successivo. Laddove, invece, proprio la ricordata presenza di interessi costituzionalmente rilevanti richiede una valutazione comparativa da fare caso per caso, secondo il modello tipico di discrezionalità amministrativa, il ruolo dell'Amministrazione rimane ineliminabile. L'attività amministrativa quindi diventa sempre meno vincolata e sempre più discrezionale. E questo comporta, sul piano della tutela, la necessità di rimettere al centro la figura dell'eccesso di potere”. (30) A. Orsi Battaglini e C. Marzuoli, La Cassazione su risarcimento del danno arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell'interesse legittimo, in Dir. pubbl., 1999, 487 ss.; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003; F. Volpe, Norme di relazione, norme d'azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 269 ss. — che ipotizza un rapporto obbligatorio di fonte legale a contenuto non patrimoniale in cui sulla p.a. gravano contestualmente un obbligo di prestazione verso il privato e un dovere a presidio dell'interesse pubblico, posto da norme d'azione; A. Proto Pisani, Appunti sul giudice delle controversie tra privati e pubblica amministrazione, in Foro it., 2009, V, 369 ss. — secondo cui la figura dell'interesse legittimo sarebbe scomparsa e residuerebbe, nel confronto tra p.a. e cittadino, la sola, tradizionale coppia pretesa-obbligo. Secondo queste posizioni, dunque, verrebbe meno la distinzione tra dovere e obbligo, come tratteggiata da Santi Romano (Doveri, Obblighi, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1983, ristampa inalterata dell'opera del 1947, 98) e l'idea, ivi lumeggiata, di doveri — tipicamente quelli della funzione pubblica — non correlativi a specifici diritti soggettivi “e che quindi rimangono fuori l'orbita di ogni rapporto giuridico con singole cose o singole persone” (104). Del tutto condivisibile appare, dunque, riguardo a quelle tesi, la critica di R. Villata, Corte di cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in questa Rivista, 2009, 915 ss.). Un richiamo netto e chiaro ai principi in M. Mazzamuto, A cosa serve l'interesse legittimo?, in Dir. proc. amm., n. 1/2012, 46 ss. (31) I. Pagni, op. cit., 336, 337, dove si rammenta, altresì, la stretta similitudine con il diritto societario, nel quale, è utile sottolinearlo, sarebbe improponibile un'azione di un socio diretta alla condanna della società ad adottare una determinata delibera sociale, con i contenuti desiderati dall'attore. Ma, tant'è, come già avvenuto nella vicenda, per certi versi paradossale, dell'azione risarcitoria autonoma, i fautori dell'effettività-satisfattività pretendono contro l'amministrazione molto di più di quanto sia lecito a un privato chiedere a un altro privato in un rapporto di diritto civile. (32) F. Merusi, Il diritto privato della pubblica amministrazione alla luce degli studi di Salvatore Romano, in Dir. Amm., 2004, 649 ss., che richiama Salv. Romano (L'atto esecutivo nel diritto privato, Milano, 1958). (33) Sulla discrezionalità tecnica cfr. V. Bachelet, L'attività tecnica della pubblica amministrazione, Milano, 1967; F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull'amministrazione pubblica, in questa Rivista, 1983, 371 e ss., ora anche in F. Ledda, Scritti giuridici, Padova, 2002, 179 e ss.; C. Marzuoli, Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; F. Salvia, Attività amministrativa e valutazioni tecniche, in questa Rivista, 1992, 685 ss.; D. de Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative, Napoli, 1998. Per una recente trattazione di sintesi completa ed efficace, cfr. G.C. Spattini, Le decisioni tecniche dell'amministrazione e il sindacato giurisdizionale, in questa Rivista, 2011, 133 ss. Sulla discrezionalità in generale M. S. Giannini, Il potere discrezionale della Pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939 (oltre a Diritto amministrativo, Milano, 1970, 486); C. Mortati, voce Discrezionalità, in Noviss. Dig. it., vol. V, Torino, 1960, 1098 e ss.; A. Piras, Discrezionalità amministrativa, in Enc. Dir., Milano, 1964, 69 e ss.; G. Pastori, Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Foro amm., 1987, II, 3165 ss.; L. Benvenuti, La discrezionalità amministrativa, Padova, 1986; G. Azzariti, Dalla discrezionalità al potere, Padova, 1989; G. Berti, Procedimento, procedura, partecipazione, in Studi in memoria di Guicciardi, Padova, 1975; F.G. Scoca, Attività amministrativa, in Enc. Dir., IV, aggiornamento, Milano, 2002, 75 e ss.; A. Pubusa, Merito e discrezionalità amministrativa, in Dig. IV, Disc. Pubbl., vol. IX, Torino, 1994, 401 ss. Soprattutto sulle distinzioni tra sindacato “deboleestrinseco” e sindacato “forte-sostitutivo”, F. Cintioli, Consulenza tecnica d'ufficio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, in Cons. St., 2000, II, 2371 ss.; Id., Tecnica e processo amministrativo, in questa Rivista, 2004, 986 ss.; S. Baccarini, Giudice amministrativo e discrezionalità tecnica, in questa Rivista, 2001, 80 ss. (34) P. Carpentieri, Risarcimento del danno e provvedimento amministrativo, in questa Rivista, 2010, 857 ss. Spunti innovativi e importanti nel senso dello sviluppo di una teoria dell'azione amministrativa, oltre lo schema dell'atto, come “decisione a base (o legittimazione) oggettiva”, in quanto legata alla cura funzionale dell'interesse generale, al di là dell'imputazione soggettiva a un ente pubblico, in A. Romano Tassone, Esiste l'”atto amministrativo” della pubblica amministrazione? (in margine al recente convegno dell'AIPDA), in Dir. amm., 2011, 763. (35) F. Merusi, La teoria generale di Enzo Capaccioli nel dibattito amministrativo contemporaneo, in Dir. civ., 2009, 873 ss., soprattutto 880 ss., che riprende la nota declinazione tutta civilistica fornita riguardo agli schemi logici di Capaccioli da A. Orsi Battaglini - Attività vincolata e situazioni soggettive - Nota su alcuni temi di Enzo Capaccioli, in Studi in ricordo di Enzo Capaccioli, Milano, 1988, nonché in Riv. trim. dir. civ., 1988, 3 ss.. Secondo F. Merusi (op. cit., 882) “alla conclusione processuale fondata sull'identificazione inevitabile di un diritto soggettivo negli atti a presupposto vincolato” non potrebbero rimediare “né la teoria della fattispecie precettiva, né la teoria di una generale funzione di accertamento” del provvedimento amministrativo (tesi, questa, ribadita in Id., Giurisdizione e amministrazione: ancora separazione dopo il codice sul processo amministrativo? relazione al 56º Convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 2325 settembre 2010, nonché in Il codice del giusto processo amministrativo, cit., 2 ss.). Condivide un nozione “ristretta” di discrezionalità anche P. Lazzara, L'opera scientifica di Enzo Capaccioli tra fatto, diritto e teoria generale, ivi, 955 ss. (soprattutto 971 e 974), secondo il quale già nella impostazione del Capaccioli l'intera area della discrezionalità tecnica (nozione giudicata errata dall'Illustre A.) rifluirebbe nello schema “norma-fatto” (generando, dunque, attività interamente vincolata e, correlativamente, diritti soggettivi); in tal senso sarebbe interamente vincolata l'attività di apprezzamento del carattere “lussuoso” dei beni danneggiati dagli eventi di guerra — E. Capaccioli, Sulla natura della pretesa al risarcimento dei danni da guerra, in Id., Diritto e processo, scritti vari di diritto pubblico, Padova, 1978 — o, per guardare a fattispecie di più recente rilievo, la determinazione del mercato rilevante da parte dell'Autorità di regolazione del settore. Su questa linea riduttiva della discrezionalità tecnica ad attività vincolata è anche N. Paolantonio, Il sindacato di legittimità sul provvedimento amministrativo, Padova, 2000. (36) In tal senso restano del tutto condivisibili le tesi elaborate sul tema da C. Marzuoli (Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985, cit.) e D. de Pretis (Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995, cit.), bene richiamate di recente nella sintesi fornita da G.C. Spattini, Le decisioni tecniche dell'amministrazione e il sindacato giurisdizionale, cit., 148 ss. Per riflessi applicativi nella materia “paradigmatica” dei beni culturali cfr. S. Benini, La discrezionalità nei vincoli culturali e ambientali, in Foro it., 1998, III, 328. A. Rota, La tutela dei beni culturali tra tecnica e discrezionalità, Padova, 2002, soprattutto 69 e 260; A. L. Tarasco, Beni culturali e sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica. Nota a Tar Lombardia, Milano, sez. I, 17 giugno 2004, n. 2440, in Foro amm. - T.A.R., 2004, fasc. 9. Le posizioni sono compendiate in G. Tropea, Il vincolo etnoantropologico tra discrezionalità tecnica e principio di proporzionalità: “relazione pericolosa” o “attrazione fatale”?, nota a CGA, 10 giugno 2011, n. 418, in questa Rivista, 2012, 718 ss. (37) P. Lazzara, op. cit., 975. (38) Profilo bene evidenziato da C. Marzuoli, op. cit., 79 ss. Nello stesso senso F. Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell'atto amministrativo, in Dir. amm., 2008, 792 ss. (il quale pone giustamente l'accento sulla nozione di discrezionalità mista — ivi, 830 — ed esclude la c.t.u. sulla discrezionalità tecnica, che, sostiene, afferisce al merito amministrativo, poiché “anche la discrezionalità tecnica dà luogo ad una valutazione su interessi, non troppo dissimilmente dalla discrezionalità amministrativa”). Si veda anche Id., Il sindacato sulla discrezionalità tecnica tra vecchio e nuovo rito (considerazioni a margine della sentenza Cass. SS. UU., 17 febbraio 2012, n. 3712), in GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 28 febbraio 2012. (39) D. de Pretis, op. cit., ove sono indicati esemplificativamente gli indici cui fare riferimento per rinvenire una siffatta volontà della legge di riserva della valutazione all'amministrazione. (40) Sulla teoria logica del giudizio e la figura del sillogismo giudiziale cfr. B. Tonoletti, L'accertamento amministrativo, Padova, 2001, 17 e 75 ss. (ed ivi richiami). Evidenzia la struttura di tipo sillogistico del provvedimento G. Corso, Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. Dir., aggiorn., Milano, 2001, 776. In generale, F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, 1 ss., dove si pone l'accento sul contenuto precettivo del provvedimento, nonché R. Villata, M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006. Conforta questa impostazione, in teoria generale del diritto, l'indicazione desumibile da L. Ferrajoli, Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia. I. Teoria del diritto, Roma-Bari, 2007, 508 ss., che include il provvedimento amministrativo tra le decisioni, che si pongono a loro volta come la principale specie di atti precettivi. (41) I. Copi, Introduzione alla logica, Bologna, 1964, 197. (42) I. Copi, op. cit., 133. (43) Sul tema cfr. F. Roselli, Il controllo della Cassazione sull'uso delle clausole generali, Napoli, 1983; L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 5 ss., nonché, per una utile sintesi alla luce di recenti pronunce della Cassazione, sez. lavoro, in tema di “principi propri dell'ordinamento lavoristico costituenti il cd. diritto vivente della “civiltà del lavoro”, E. Fabiani, Norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, clausole generali, « standards » valutativi e principi generali dell'ordinamento, in Foro It., 1999, I, 3558 e ss., in nota a Cass., sez. lav., 13 aprile 1999 n. 3645. (44) H. Putnam, Etica senza ontologia, trad. it., di E. Carli, Milano, 2005, 105; Id., Fatto/valore; fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Roma, 2004, 39 ss. (45) Il punto è posto in luce da D. de Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, cit., 397 ss.: “ci possiamo anche chiedere se l'autorità preposta alla tutela delle cose di interesse storico e artistico che si accinge ad assumere un provvedimento di vincolo di un determinato bene abbia un potere di valutazione della fattispecie normativa astratta (e quindi un potere di stabilirne in astratto e a priori la portata, confrontando poi con essa una situazione di fatto data, rispetto alla quale ad essa non compete alcun intervento di valutazione) oppure abbia un potere di apprezzamento del fatto (e quindi un potere di rapportare quest'ultimo, come da essa accertato sulla base di una propria valutazione, ad una fattispecie normativa fissa) o ancora disponga di un vero e proprio potere di apprezzamento e di scelta su entrambi i versanti dell'operazione sillogistica di sussunzione del fatto nella norma. Così possiamo discutere se l'attività di valutazione — ancora prima di essere un potere — concerna la norma o il fatto concreto da sussumere nella norma; se essa riguardi, ad un tempo — e magari indistintamente entrambi gli aspetti; se essa si risolva nella mera attività di interpretazione della legge o se involga attività di accertamento del fatto concreto; se la pluralità di soluzioni applicative connesse con la norma imprecisa derivi dall'opinabilità della interpretazione della norma o dall'opinabilità del dato della realtà da sussumere in essa; e così via. Tuttavia, ciò che a noi interessa, nella prospettiva che ci siamo posti, che è quella di individuare un fenomeno valutativo al quale sia corretto assegnare un regime giuridico di affidamento riservato all'amministrazione (con la conseguenza della sua sottrazione ad un controllo pieno del giudice di legittimità) è di capire se l'amministrazione si trovi in relazione all'attuazione della norma che disciplina gli interventi amministrativi di vincolo a fini storici e artistici in una condizione di potere in ordine alla valutazione delle condizioni di particolare pregio artistico e storico del bene (che possiamo anche convenzionalmente chiamare potere di valutazione del fatto) o se la sua attività di valutazione costituisca mera attuazione della norma e possa essere come tale riesaminata in sede di sindacato di legittimità alla stregua di qualsiasi altra attività semplicemente applicativa della legge; e per comprendere questo non possiamo che risalire alla legge e definire, mediante l'attività interpretativa, se, alla stregua dei criteri di carattere soggettivo e di carattere sostanziale (...), siamo o meno in presenza di un'attribuzione di potere avente ad oggetto la valutazione del fatto”. (46) L'enunciato afferma la singolarità, in modo vero o falso. La proposizione diventa unità se afferma o nega l'esistenza di una singola entità con i suoi attributi (D. Davidson, Truth and Predication, 2005; trad. it. di S. Levi, Sulla verità, Roma-Bari, 2006, 83 e 89). Occorre riflettere sulla differenza tra riferimento e predicazione (o significato) di una proposizione (ossia del significato dell'enunciato che la esprime). Mentre la relazione tra nome e cosa nominata è ciò che dobbiamo conoscere per comprendere il nome, ma non qualcosa che l'enunciato esprima, la relazione fra una proprietà o una relazione e l'entità o le entità nominate deve venir espressa dall'enunciato. Mentre i nomi si riferiscono a entità i verbi connettono proprietà o relazioni alle entità nominate (D. Davidson, op. cit., 77, 78). (47) L'ulteriore contributo sul pensiero del Capaccioli rinvenibile nel citato n. 4/2009 della Rivista Dir. amm. — P. Russo, L'accertamento tributario nel pensiero di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, 1033 ss. — dimostra come l'idea “estesa” dell'attività vincolata trovi la sua più adeguata e coerente collocazione proprio con riferimento all'accertamento del rapporto di obbligazione tributaria, che è ricostruibile come dichiarazione e recupero di un credito e poco ha a che fare con il provvedimento amministrativo in senso proprio. (48) P. de Lise, nella Relazione sull'attività della Giustizia amministrativa per l'anno 2012, 1º febbraio 2012, reperibile al sito http://www.giustiziaamministrativa.it, ha osservato come “Il giudice amministrativo cura, ove possibile, le patologie dell'amministrazione; non ne demolisce le funzioni, ma fornisce insegnamenti e indirizzi per migliorarne l'esercizio”, ma ha nel contempo rilevato come “dopo gli obiettivi dell'effettività e della pienezza della tutela stiamo per raggiungere un più alto traguardo: quello della sua satisfattività, affinché l'effetto delle pronunce di accoglimento non sia più soltanto quello di “dare torto” all'amministrazione ma anche quello di “dare ragione” al privato, ovviamente nei limiti e con le garanzie delle tecniche processuali”. (49) Per un esempio pratico sia consentito il rinvio al mio contributo Diritto alla salute, localizzazione degli impianti e giudice ordinario, in Urb. App., 2007, 797 ss. (50) Su cui si veda il commento, del tutto condivisibile, di F. Volpe, Il sindacato sulla discrezionalità tecnica tra vecchio e nuovo rito (considerazioni a margine della sentenza Cass. SS.UU. 17 febbraio 2012, n. 2312), in Giust. amm., 28 febbraio 2012. Il tema del limite esterno della giurisdizione amministrativa, “cui non è consentito invadere arbitrariamente il campo dell'attività riservata alla pubblica amministrazione attraverso l'esercizio di poteri di cognizione e di decisione non previsti dalla legge” è di recente ripreso da Cass., Ss.uu., n. 23302 del 2011 (ed ivi richiami di precedenti in termini), qui citata in nota 12. Su Cass., ss.uu., 2312 del 2012, cfr. la critica — condivisibile — in rito (rispetto al parametro dell'art. 111 Cost.) di B. Sassani (Sindacato sulla motivazione e giurisdizione: complice la translatio, le Sezioni Unite riscrivono l'articolo 111 della Costituzione, in questa Rivista, 2012, 1589 ss.) e quella — non condivisibile — sui contenuti, rispetto al limite di sindacato della discrezionalità tecnica — di M. Allena (Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche complesse: orientamenti tradizionali versus obblighi internazionali, ivi, 1602 ss.). Riguardo a quest'ultimo contributo mette conto di evidenziare come esso, secondo un trend molti diffuso negli ultimi anni, ricorrendo all'argumentum ad auctoritatem della citazione delle varie Corti internazionali (qui è la CEDU), filtrato attraverso l'art. 117 Cost., tenda a sovvertire il sistema del diritto processuale amministrativo assegnando al G.A., in base a una lettura ampliativa del principio elaborato dalla CEDU della full jurisdiction, non più il ruolo di giudice di cassazione (di legittimità), rispetto all'azione amministrativa, bensì quello di “giudice di appello” (novum judicium, ivi, 1633), travolgendo anche il tradizionale limite dell'insindacabilità del merito della decisione amministrativa. Il che significa confondere il ricorso giurisdizionale con quello amministrativo gerarchico (ossia confondere, per l'appunto, giurisdizione e amministrazione). Ora, affermare i principi (del tutto condivisibili) di piena giurisdizione (come, tra l'altro, cognizione piena del fatto) e del contraddittorio processuale (come parità delle armi nel processo), non implica affatto l'imposizione al G.A. del ruolo di amministratore di secondo grado, che deve e può sostituire sempre il suo libero convincimento e il suo giudizio di attendibilità della ricostruzione dei fatti al giudizio (sia pur razionalmente e proporzionalmente) elaborato ed enunciato dall'amministrazione. Occorrerebbe una seria e approfondita riflessione sui limiti di senso di questo appello indiscriminato a queste Corti internazionali, usate come “grimaldelli” per ribaltare dall'esterno i sistemi processuali nazionali. La teoria della full jurisdiction come novum judicium esteso al merito fa il paio con la nota tesi, così detta, in gergo, del “one shot only” per l'amministrazione, secondo cui l'amministrazione, una volta pronunciatasi sull'affare con il suo provvedimento, in caso di impugnazione verrebbe immediatamente spogliata della funzione, assegnata da subito al giudice, chiamato a riprovvedere direttamente sull'affare, senza alcun remand all'amministrazione (ritenuta, in quanto parte in causa, non più imparziale e inadatta a pronunciarsi nuovamente sull'affare dedotto). Queste soluzioni hanno il lieve difetto di rendere il GA un duplicato autoreferenziale dell'amministrazione: la funzione pubblica non sarà più svolta dall'amministrazione, nel parametro dell'art. 97 Cost., ma — su semplice reclamo — dal Giudice amministrativo, dagli avvocati e dai loro consulenti tecnici. (51) Il rilievo è desunto da G. Coraggio, Discorso di insediamento, cit. PROCESSO AMMINISTRATIVO E DISCIPLINA DELLE AZIONI: NUOVE OPPORTUNITÀ, VECCHI PROBLEMI E QUALCHE LACUNA NELLA TUTELA DELL'INTERESSE LEGITTIMO Dir. proc. amm., fasc.2, 2012, pag. 503 FABRIZIO LUCIANI Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - Giudizio amministrativo - - in genere Sommario: 1. Premessa. — 2. Interessi giuridici come oggetti di pretesa sostanziale. — 3. Azione giurisdizionale e pretesa sostanziale. — 4. Pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale. — 5. Pienezza e effettività della tutela nel Codice del processo amministrativo. — 6. Processo amministrativo e atipicità delle azioni. — 7. Il difficile coordinamento tra l'azione di annullamento e l'azione risarcitoria. Ancora in tema di pregiudiziale amministrativa. — 7.1. L'art. 1227 c.c. e l'illecito da comportamento privato. — 7.2. L'art. 1227 c.c. e l'illecito da provvedimento amministrativo. — 8. Lacune e incertezze della normativa: l'azione di nullità. — 8.1. Sul termine dell'azione. — 8.2. Sulla legittimazione all'azione. — 8.3. Sulla rilevabilità d'ufficio del vizio di nullità. — 8.3.1. Tesi restrittive e ampliative sui poteri officiosi del giudice civile in tema di nullità. — 8.3.2. I poteri officiosi del giudice amministrativo in tema di nullità. 1. Nel presente saggio si analizzeranno alcuni aspetti della disciplina sulle azioni e sulle pronunce giurisdizionali che nel recente Codice del processo amministrativo è stata indubbiamente potenziata e arricchita (1). In particolare, si cercherà di verificare se a questa reale diversificazione di mezzi di tutela corrisponda maggiore garanzia giurisdizionale dell'interesse legittimo; soprattutto, una garanzia più calibrata sulle effettive esigenze che l'interesse legittimo ormai reclama a protezione di interessi sostanziali, a vario titolo coinvolti nell'esercizio del potere pubblico. Lo stretto rapporto che lega l'interesse giuridico ai rimedi per la sua tutela spiega come a bisogni sostanziali differenziati corrisponda una pluralità di strumenti di protezione; di qui l'opinione condivisa che “la funzione del processo è pur sempre di costituire un rimedio alla carenza di cooperazione” nei rapporti tra soggetti (2). Per questo motivo, prima di affrontare la disciplina del Codice del processo amministrativo per le anzidette finalità di indagine, sembra opportuno richiamare — in funzione meramente riepilogativa — alcune idee generali, sui contenuti sostanziali dell'interesse giuridico in rapporto agli strumenti per la sua piena ed effettiva protezione giurisdizionale. 2. Per comodità espositiva, si possono distinguere due categorie di interessi giuridici: a) interessi a conservare un'utilità già appartenente al soggetto; b) interessi a conseguire un'utilità alla quale il soggetto aspira (3). In ogni caso, l'interesse a conservare o a conseguire esprime la sua giuridicità in una relazione: tra soggetti (relazione di pretesa); ovvero tra soggetti e beni (relazione di appartenenza). Il diritto sostanziale individua il contenuto giuridico di tali interessi (quale bene e a che titolo deve essere conservato da Tizio; quale pretesa e a che titolo Tizio deve realizzare a favore di Caio); e ne stabilisce le forme e l'intensità della loro tutela. In questo modo, il diritto sostanziale detta la c.d. garanzia primaria dell'interesse giuridico. Le forme e le tecniche di tutela ascrivibili a questa garanzia primaria si differenziano in base al tipo di relazione intersoggettiva che coinvolge l'interesse. Nel caso di rapporti che si instaurano tra individui in posizione asimmetrica, nei quali un soggetto può unilateralmente sottrarre utilità già appartenenti ad altri ovvero soddisfare l'altrui aspirazione a conseguire nuove utilità (rapporti verticali), la tutela si realizza attraverso norme giuridiche che disciplinano l'esercizio del potere, condizionandone la legittimità. Nei rapporti verticali, la garanzia primaria avverso arbitrari esercizi di potere consiste nell'immediata condizione di invalidità dell'atto, che gli interessati dovrebbero spontaneamente constatare, orientando di conseguenza i propri comportamenti. Nel caso di rapporti paritetici (orizzontali), la garanzia primaria si realizza innanzi tutto attraverso l'imposizione di obblighi di cooperazione, aventi ad oggetto comportamenti positivi o negativi di contenuto materiale o giuridico. Rispetto all'eventuale inadempimento di tali obblighi, l'ordinamento fa fronte imponendo ulteriori obblighi di cooperazione che mirano alla spontanea rimozione delle conseguenze materiali o giuridiche di tale inadempimento (nei diversi casi, obblighi di restituire la cosa sottratta, di reintegrare in forma specifica la perdita subita, di adempiere coattivamente alla prestazione richiesta ovvero, in via residuale, di risarcire il danno per equivalente) (4). Nei rapporti orizzontali, la garanzia primaria si realizza, dunque, imponendo in sequenza obblighi di cooperazione e sanzionando come illecito il loro rispettivo inadempimento. Laddove si registri il fallimento della garanzia primaria — quando cioè nonostante l'invalidità dell'atto, non cessa l'esercizio del relativo potere; ovvero quando resta insoddisfatto anche il successivo obbligo sostanziale che avrebbe dovuto rimediare all'originario difetto di cooperazione — l'ordinamento attiva la garanzia secondaria che consiste, nella sua manifestazione più significativa, nella tutela giurisdizionale (5). Garanzia primaria dell'interesse giuridico e garanzia secondaria nelle forme della tutela giurisdizionale si incontrano, come subito si dirà, sul terreno della disciplina delle azioni processuali (e delle pronunce del giudice) (6). 3. Si descrive autorevolmente l'azione giurisdizionale come il complesso dei poteri, facoltà, oneri e doveri attribuiti all'individuo per consentirgli di avviare e proseguire una fase processuale e di ottenere dal giudice una pronuncia di merito, che sarà a lui favorevole nel caso in cui si dimostri fondata la pretesa sostanziale fatta valere (7); nel caso in cui, cioè, in esito al processo, il giudice riesca ad accertare che il ricorrente ha subito una concreta lesione del proprio interesse giuridico per effetto di un atto invalido (per violazione di norme sull'esercizio del potere) o di un comportamento illecito (per inadempimento di obblighi di cooperazione tra soggetti). Diritto di azione e pretesa sostanziale protetta sono, secondo una visione ormai tradizionale, in un rapporto di autonomia (8): da una parte, sta la legittimazione ad agire del ricorrente a difesa di un suo interesse (art. 24 Cost.), dall'altra, la sua legittimazione ad ottenere una sentenza di accoglimento della domanda. Il diritto di agire è riconosciuto al ricorrente per il solo fatto di essere titolare di un interesse giuridicamente rilevante, di cui si lamenta l'altrui violazione, e per il fatto di avere un concreto interesse ad una pronuncia giurisdizionale di accoglimento della sua domanda di protezione; queste sono le condizioni dell'azione, il cui difetto (accertato dal giudice) rende inammissibile l'esercizio dell'azione o il suo proseguimento (9). Tale legittimazione al processo consente al ricorrente di fare attività processuale fino alla sentenza di merito, che sarà di accoglimento se e quando l'accertamento finale della fondatezza della domanda legittimerà lo stesso ricorrente ad ottenere (e il giudice a concedere) l'accoglimento del ricorso. Rapporto di autonomia, dunque, tra diritto ad agire e situazione sostanziale da proteggere attraverso l'azione. Tuttavia, nonostante questa autonomia, la disciplina dell'azione processuale non viene elaborata a prescindere da quella situazione sostanziale che ne costituisce l'oggetto; anzi, le è costruita “su misura”, in funzione delle sue caratteristiche. L'interesse sostanziale da proteggere esprime bisogni di tutela rispetto ai quali occorre prevedere idonei rimedi di protezione e consentire al giudice adito — laddove ritenga fondata la pretesa dell'agente — di offrire tutte le misure necessarie alla sua garanzia. Il diritto sostanziale individua, come detto, i contenuti dell'interesse giuridico (esigenze di conservare o di conseguire utilità) e predispone strumenti iniziali per la tutela di tali interessi (qualificando invalido l'atto o illecito il comportamento lesivo); così la disciplina delle azioni processuali che mira successivamente alla protezione dei medesimi interessi contiene — oltre a norme di carattere prettamente processuale — regole di tipo più sostanziale (un “diritto giudiziario materiale”) (10), che individuano, se così si può dire, il “se”, il “cosa” della tutela, lasciando alle norme processuali soprattutto la disciplina del “come” (11). Non a caso, la disciplina delle azionidi cognizione contenuta nel Codice del processo amministrativo contiene molte norme provenienti, non da precedenti testi processuali ma da fonti del diritto amministrativo sostanziale che contribuiscono a qualificare il suddetto Codice “della giustizia amministrativa”, oltre che “del processo amministrativo” (12). La disciplina delle azioni, dunque, esprime innanzi tutto l'area giuridica sostanziale dei rapporti tra i soggetti, nella quale si manifesta il bisogno di tutela; si arricchisce delle norme tipicamente processuali e con una sorta di movimento circolare ritorna a tutela dell'interesse protetto, attraverso l'esercizio dell'attività giurisdizionale. 4. Nel suo complesso, la disciplina delle azioni processuali è formulata in vista del perseguimento di taluni obiettivi di fondo, giuridicamente rappresentati da principi generali ai quali quella disciplina deve ispirarsi. In questa sede ci basta indicare il principio di pienezza e il principio di effettività della tutela giurisdizionale. Pienezza della tutela indica che per un determinato interesse giuridico l'ordinamento mette a disposizione tutti gli strumenti di tutela idonei a garantirne la protezione. Effettività della tutela giurisdizionale indica invece la capacità del processo di rimediare ai fallimenti della tutela sostanziale (effettività della garanzia secondaria che corregge l'ineffettività della garanzia primaria). Quanto più si attenua lo scarto tra garanzia secondaria e primaria, tanto più la tutela giurisdizionale può dirsi effettiva (13). Risultati di pienezza e di effettività della tutela giurisdizionale non sono però in un rapporto di automatica e contestuale realizzazione. Una disciplina legislativa delle azioni processuali che ottiene il risultato della tutela piena non necessariamente approda anche al risultato dell'effettività. Anzi paradossalmente, molti rimedi previsti a garanzia di un interesse possono essere controproducenti laddove non siano opportunamente coordinati tra loro, secondo criteri di efficienza ed efficacia. Per semplificare il quadro si può sostituire la corrente terminologia processualistica con i modelli elaborati dall'analisi economica del diritto e distinguere tra rimedi di tutela “proprietari” e “di responsabilità” (14). Si ipotizzi un certo assetto distributivo che già attribuisca utilità ad un soggetto, nonché un assetto in fieri, che garantisca soltanto la pretesa a conseguire utilità future; e si ipotizzi la violazione di tali garanzie a conservare o a conseguire: è “proprietario” lo strumento di tutela che consente di rimediare a tale violazione in termini reali, recuperando l'utilità perduta o soddisfacendo in forma specifica l'aspirazione; è “di responsabilità” invece lo strumento che lascia intatto l'ingiustificato spostamento distributivo, ma fa pagare il prezzo all'autore della violazione. I rimedi proprietari sono dunque quelli che tutelano situazioni giuridiche ad appartenenza necessaria e possono individuarsi nei tradizionali rimedi costitutivi, restitutori, reintegrativi, coattivi all'adempimento; i rimedi di responsabilità, che garantiscono invece situazioni ad appartenenza mobile sono le pronunce di condanna al risarcimento del danno per equivalente. I rimedi proprietari e di responsabilità sono tra loro in rapporto di complementarietà e di alternatività (di fronte all'inadempimento contrattuale si può agire per l'adempimento del contratto, per il risarcimento del danno o attraverso entrambe le azioni). Chi stabilisce se l'interesse giuridico da tutelare in concreto è garantito in astratto secondo il regime dell'appartenenza necessaria o dell'appartenenza mobile, ovvero da entrambi gli strumenti, in via complementare? Provvede a tale scopo la c.d. regola di trasferibilità (Rule Inalienability) in base alla quale l'ordinamento stabilisce in via generale ed astratta se la tutela di un dato interesse ammetta o meno spostamenti ingiustificati di diritti o risorse; tale regola in certi casi la stabilisce il legislatore (15), in altri casi il giudice (16), residualmente la parte interessata che agisce in giudizio. Nelle prime due ipotesi, la regola di trasferibilità garantisce interessi pubblici o sovraindividuali e segue criteri di efficienza collettiva; nel secondo caso essa garantisce l'interesse individuale a scegliere il rimedio di tutela più idoneo in base alla convenienza personale. Anticipando argomenti che saranno esaminati nei successivi paragrafi, la disciplina dettata dal d.lgs. n. 53 del 2010 e confluita adesso in parte nel Codice del processo amministrativo (artt. 120 ss.) (17), manifesta integralmente questo modello di coordinamento tra rimedi di tutela proprietaria e di responsabilità. In alcuni casi, è il legislatore a prevedere che a seguito dell'annullamento dell'aggiudicazione debba derivare l'inefficacia del contratto pubblico nel frattempo stipulato ovvero debba ammettersi solo la tutela risarcitoria (artt. 121 e 125); in altri casi la scelta tra l'inefficacia del contratto o la conservazione della sua efficacia in cambio della misura risarcitoria è rimessa al giudice (art. 122); ferma restando comunque la possibilità dell'interessato di limitarsi alla richiesta risarcitoria, rinunciando al subentro nella posizione del precedente vincitore e alla dichiarazione di inefficacia del contratto (art. 124) (18). 5. Nel nuovo Codice del processo amministrativo si rappresenta un quadro, se non di compiuta pienezza, senz'altro di arricchimento della tutela degli interessi sostanziali coinvolti dall'azione delle amministrazioni pubbliche; e senz'altro di quelli protetti come interessi legittimi (19). Naturalmente è l'interesse legittimo la situazione soggettiva che attrae oggi l'attenzione dell'interprete; per il diritto soggettivo la tutela (almeno dal 1998) è affidata alle cure della “piena giurisdizione” esclusiva (equiparata per pienezza ed effettività alla giurisdizione ordinaria) (20). La tutela dell'interesse legittimo è oggi l'argomento in agenda fra gli studiosi del processo amministrativo, perché ad esso si riferiscono le maggiori trasformazioni contenute nella nuova disciplina delle azioni. L'interesse legittimo indica il punto di coesistenza tra l'interesse generale e l'interesse del privato coinvolto dall'esercizio della funzione amministrativa. Le regole di tale coesistenza misurano la protezione che l'ordinamento assegna a quest'interesse privato. Se cambiano quelle regole, cambia la qualità della protezione del singolo di fronte alle ragioni della sfera pubblica; cambia la garanzia primaria e la garanzia secondaria deve allinearsi. Sul piano della garanzia primaria, dopo il 1999, l'interesse legittimo si è trasformato, da strumento processuale finalizzato alla mera rimozione di atti amministrativi, in situazione soggettiva che rende giuridicamente pretendibile nei confronti del potere pubblico la conservazione o il conseguimento di utilità sostanziali e che guarda (soprattutto) al processo come alla sede idonea per soddisfare quelle pretese (21). Sul piano della disciplina processuale, dunque, occorreva intervenire con maggiore decisione per completare quella trasformazione, articolando rimedi di protezione adeguati alla nuova identità dell'interesse legittimo, che aspira adesso a far riconoscere dal giudice (tutte, ma proprio tutte) le ragioni sostanziali del ricorrente che ha ragione (22). Nella complessa area della giustizia amministrativa — specialmente su impulso del diritto comunitario che tende ad uniformare tra gli Stati membri la disciplina delle decisioni amministrative per arrivare all'uniformità della disciplina processuale (perché è lì che si realizza una tappa importante dell'integrazione) (23) — si delineano con maggiore nitidezza due diverse aree: a) quella del potere amministrativo discrezionale, nella quale all'amministrazione sono imposti, a tutela dei controinteressati (pubblici o privati), obblighi di giusto procedimento, che rappresentano l'unico reale parametro per valutare la scelta finale, fondata sulla ponderazione di interessi di per sé insindacabile; b) quella del potere amministrativo vincolato (che il Codice espressamente riconosce all'art. 31, a proposito dell'azione propulsiva contro l'inerzia della p.a. e che sarà la giurisprudenza a definire con maggior precisione) (24). In questa area, l'amministrazione arriva al risultato finale attraverso l'accertamento (tecnicamente più o meno complesso) di presupposti legali; in questi casi cioè, l'amministrazione sceglie, non selezionando interessi ma adempiendo ad obblighi legali di cooperazione imposti a tutela degli amministrati (25). In queste aree del potere discrezionale e vincolato, il cambiamento della garanzia primaria ha influito fortemente sulla garanzia secondaria. Dalla l. n. 241 del 1990 — e passando per le leggi n. 205 del 2000, n. 15 del 2005, n. 69 del 2009 — la tutela esperibile a favore dell'interesse legittimo si è arricchita di importanti strumenti (avverso il danno da provvedimento illegittimo o ritardato, avverso l'inerzia dell'amministrazione, avverso il diniego di accesso ai documenti), via via concentrati presso la giurisdizione amministrativa di legittimità. Il Codice del processo contiene significative novità, nella prospettiva di completezza ed effettività della tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo. In base all'art. 7, il giudice amministrativo cessa di essere semplicemente l'arbitro della legittimità degli atti o della liceità dei loro effetti, diventando il giudice della funzione pubblica. Al giudice amministrativo appartiene adesso la complessiva area delle controversie di diritto pubblico e su questo ambito di azione il giudice deve essere in grado di assicurare la tutela più ampia ed efficace possibile. Rispetto a un ventennio fa, in cui ci si domandava, al più, come il giudice potesse massimizzare la tutela dell'interesse legittimo attraverso l'unica azione disponibile, oggi il nuovo Codice offre agli interessati un catalogo di azioni disponibili: oltre che per l'annullamento dell'atto (art. 29), l'interessato può agire in sede giurisdizionale di legittimità contro il silenzio dell'amministrazione (con richieste di adempimento nel caso di provvedimenti vincolati: art. 31); per la dichiarazione di nullità dei provvedimenti (art. 31, comma 4); per la condanna dell'amministrazione al pagamento di somme di danaro, alla reintegrazione in forma specifica, al risarcimento del danno per equivalente (art. 30), nonché all'adozione di tutte le misure idonee a tutelare la propria situazione giuridica (c.d. condanna atipica: art. 34, comma 1, lett. c). La novità più evidente è proprio nello spostamento della prospettiva: dalla possibilità “creativa” della giurisprudenza pretoria, che tanto ha lavorato per rendere elastico l'impianto impugnatorio del processo amministrativo (sentenze di annullamento in funzione dichiarativa; in funzione conformativa a protezione di interessi pretensivi; in funzione propulsiva di fronte all'inerzia, ecc.), alla possibilità dell'interessato di disporre di una serie di azioni, tra loro coordinate e talora in un rapporto di dichiarata autonomia (nel caso dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento) (26). Ma soprattutto, l'ampia disciplina sulle azioni di condanna — che, coordinata con la disciplina dei poteri del giudice, sembrerebbe aperta a tutte le declinazioni ammesse per questo genere di tutela, segnatamente quanto all'area del potere vincolato — sottolinea il definitivo “assorbimento” nella giurisdizione amministrativa, della tutela “civile” dell'interesse legittimo; al giudice amministrativo si guarda ormai come al “giudice ordinario” dell'interesse legittimo (27). Anzi, la nuova disciplina delle azioni offre all'interprete una possibile chiave di lettura che traduce i problemi di coordinamento tra l'azione di annullamento e gli altri rimedi di tutela nella questione più generale del rapporto tra tutela demolitoria che rimuove il potere illegittimo e tutela che accerta la violazione di obblighi cooperazione e che condanna a dare, fare o risarcire il danno. Insomma, interpretare la disciplina delle azioni proponibili a tutela dell'interesse legittimo significa risolvere alcuni immancabili problemi di assestamento nei rapporti tra garanzia primaria e secondaria, conseguenti all'avvenuta “incorporazione” della tutela civile degli interessi sostanziali dentro la giurisdizione amministrativa (28). Letto in quest'ottica, il Codice rappresenta un indubbio passo avanti sulla strada della completezza della tutela attribuita all'interesse legittimo nei confronti del potere amministrativo; nonché sulla strada del razionale coordinamento tra azioni. Ma è sugli aspetti critici che l'interprete è chiamato soprattutto ad esprimersi, sottolineando lacune e reali esigenze correttive, opportunamente distinte dai falsi problemi generati dall'eccesso di aspettative che immancabilmente accompagna riforme di questa portata. Sotto questa lente critica, la nuova disciplina delle azioni contenuta nel Codice manifesta a giudizio di chi scrive almeno tre diverse questioni. a) La prima riguarda la mancata codificazione di alcuni tipi di azione, previsti nei testi preparatori e successivamente espunti dalla versione definitiva del Codice; come si dirà, si tratta di un problema apparente, collegato all'esigenza fisiologica della normativa di trovare nel tempo il giusto assestamento nel quotidiano lavoro dei tribunali. b) La seconda questione riguarda i rapporti di coesistenza (che talora sembrano veri e propri “rapporti di forza”) tra l'azione di annullamento e l'azione risarcitoria. Si tratta di una questione di coordinamento tra rimedi di tutela che il Codice affronta ma non risolve in modo soddisfacente, almeno secondo quei criteri di effettività in precedenza descritti (retro, par. 3); finendo per riaccendere la “antica” questione della c.d. pregiudizialità amministrativa. c) La terza questione ha ad oggetto incertezze e vere e proprie lacune della normativa che, specialmente nel caso dell'azione di nullità, lasciano l'interprete di fronte a serie difficoltà applicative. Nei paragrafi successivi si cercherà di valutare, dunque, la nuova disciplina delle azioni, distinguendo tra mere esigenze di assestamento, esigenze di miglior coordinamento ed esigenze di necessaria integrazione e/o correzione di tale disciplina. 6. Il Codice propone una serie di azioni che taluno avrebbe voluto più ricca, lamentando la “scomparsa” — rispetto ai testi dei lavori preparatori — dell'azione generale di accertamento e dell'azione di adempimento (29). In verità, s'è detto, la prassi giurisprudenziale e le riflessioni della scienza giuridica sapranno dirci in un futuro prossimo se la mancata previsione di tali azioni effettivamente costituisca una lacuna grave, un vuoto da colmare con un'integrazione legislativa; ovvero se quella mancanza possa essere sostanzialmente “coperta” a legislazione invariata. Per il momento, questa seconda possibilità ci sembra la più plausibile (come la più recente giurisprudenza amministrativa sembra confermare; v. infra) (30). Se si richiamano le precedenti considerazioni sull'affermata centralità dell'interesse legittimo e della sua tutela nella vicenda processuale, si può sostenere senza eccessivo sforzo che il Codice nasce avendo già recepito il principio di atipicità dell'azione (31). Il punto logico di partenza si è invertito; non più il rimedio codificato da norme proprietarie o di responsabilità, da applicare in modo rigido a tutela di specifiche tipologie di interessi, bensì il bisogno concreto di protezione che occorre garantire nelle diverse fattispecie, attraverso gli strumenti idonei ed atipici, purché compatibili con l'ordinamento. Non è un caso che, mentre l'amministrazione vede accentuare i contenuti vincolati della sua azione, di modo che sempre più la sua scelta legittima coincide con l'adempimento di puntuali obblighi di cooperazione, contestualmente il giudice amministrativo vede ampliata — soprattutto in quell'area di potere vincolato — la sua capacità di modulare la qualità della tutela dell'interesse legittimo (32). In questa possibilità attribuita al giudice amministrativo — di non limitarsi all'applicazione dei soli rimedi conformi alle norme processuali, ma di cercare anche ogni soluzione compatibile con il principio della domanda e con le altre regole generali di sistema — consiste invero l'aspetto più significativo della tutela giurisdizionale effettiva, ispirata al principio dell'atipicità dell'azione e al criterio del ubi remedium ibi ius (33). La legge delega per il riassetto della disciplina del processo amministrativo — anche sulla scorta di inequivoche ed importanti aperture della giurisprudenza (34) — ha sollecitato il Governo ad organizzare la tutela (segnatamente) dell'interesse legittimo intorno a “pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa” (35). Il Codice contiene delle norme che vanno senz'altro nella direzione della “atipicità della tutela” indicata dalla delega (36). L'art. 29, quanto all'azione di annullamento, sopprime l'inciso “salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità amministrativa” (di cui all'abrogato art. 45 r.d. n. 1054 del 1924); l'art. 34, comma 1, lett. e), consente al giudice di disporre nella sentenza di merito “le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese”. In combinazione tra loro, queste norme attribuiscono direttamente al giudice amministrativo il potere di individuare, già nel giudizio di cognizione, i rimedi di tutela più adeguati, per qualità ed intensità, rispetto alle esigenze espresse dall'interesse sostanziale. L'art. 34, comma 3 stabilisce che, quando nel corso del giudizio l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice può limitarsi ad accertare l'illegittimità dell'atto, di fatto convertendo l'azione di annullamento in azione risarcitoria. Ma soprattutto, l'art. 34, comma 1, lett. c), consente al giudice che intenda accogliere il ricorso, di condannare l'amministrazione “all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio” (37). Le norme sulle “azioni di cognizione”, combinate con la disciplina sulle “pronunce giurisdizionali”, sembrano capaci di costruire uno spazio di garanzia secondaria sufficientemente attrezzato per la effettiva protezione della pretesa sostanziale del ricorrente ed in grado di sopperire all'assenza di un'esplicita codificazione dell'azione di accertamento e di adempimento. Questo è, d'altra parte, l'orientamento espresso dal legislatore delegato che nella propria relazione sul Codice ha giustificato quelle “mancanze” (ed escluso la violazione della delega) “ritenendo adeguata e completa la tutela apprestata dalle azioni già previste dal Capo II”. Al di là di questi spunti ricostruttivi ed esegetici delle norme del Codice, la stessa giurisprudenza comincia a dare segnali tangibili di questo orientamento interpretativo. Quella capacità del giudice amministrativo di provvedere alla tutela dell'interesse sostanziale attraverso l'impiego di rimedi atipici, seppur compatibili con l'ordinamento, viene riconosciuta in alcune interessanti decisioni del Consiglio di Stato. L'Adunanza plenaria 29 luglio 2011, n. 15 qualifica la segnalazione certificata di inizio di attività (Scia) come un atto privato di colui al quale la legge direttamente consente di intraprendere una certa attività nel rispetto di taluni presupposti; resta all'amministrazione il controllo di tali presupposti ed il conseguente potere interdittivo che si ritiene “negativamente” esercitato, decorsi sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione (38). Si consideri adesso la questione dalla prospettiva dei controinteressati e dei mezzi di tutela esperibili da costoro. Il giudice amministrativo ritiene che i terzi, a completamento ed integrazione della domanda di annullamento del silenzio significativo negativo, possano agire anche con il rimedio “dell'azione di condanna pubblicistica (c.d. azione di adempimento), tesa ad ottenere una pronuncia che imponga all'amministrazione l'adozione del negato provvedimento inibitorio ove non vi siano spazi per la regolarizzazione della denuncia” (39). Nell'area del potere vincolato (com'è nella fattispecie), la condanna dell'amministrazione a provvedere (in questo caso, negativamente) è considerata dal giudice un rimedio pienamente compatibile con l'attuale sistema della giustizia amministrativa; così come, dal lato della domanda, il giudice ammette l'azione di adempimento, finalizzata a sollecitare quel tipo di pronuncia. Il Consiglio di Stato ritiene inoltre che, quando ancora non sia scaduto il termine per l'esercizio del potere interdittivo, il controinteressato possa chiedere l'accertamento dell'inesistenza dei presupposti legali dell'iniziativa oggetto di segnalazione; tale azione consente di ottenere misure cautelari, ancorché non possa concludersi con una sentenza dichiarativa in via principale, stante il diniego imposto dall'art. 34, comma 2, cod. proc. amm. (40). Quella richiesta di accertamento non è comunque destinata ad una pronuncia di inammissibilità: sarà dichiarata la cessazione della materia del contendere, qualora l'amministrazione finisca per interdire l'attività oggetto di segnalazione; viceversa, l'azione di accertamento si convertirà in azione di impugnazione della sopravvenuta negazione tacita di interdizione (41). Sul tema dell'atipicità dell'azione come garanzia di effettività della tutela si registra un'altra interessante decisione del giudice amministrativo (42). Un'associazione ambientalista ricorre avverso un piano faunistico venatorio regionale, lamentando (tra l'altro) la mancata attivazione del procedimento per la valutazione ambientale strategica, prevista dalla legislazione statale. Il giudice amministrativo accerta la fondatezza del motivo; tuttavia, benché ritenga che l'accoglimento dell'azione di annullamento comporti in genere la privazione degli effetti del provvedimento illegittimo, considera questa una regola non assoluta, potendo in certe fattispecie — come quella in esame — risultare incongrua e manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale. In queste ipotesi, lo stesso giudice amministrativo (anche sulla scorta del diritto europeo e della recente legislazione nazionale) (43) riconosce a se stesso il potere di differire o addirittura di escludere del tutto gli effetti di annullamento degli atti impugnati e risultati illegittimi, “statuendo [in tal caso] solo gli effetti conformativi, volti a far sostituire il provvedimento risultato illegittimo” (44). Insomma, nella fattispecie, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l'annullamento ex tunc del piano venatorio avrebbe comportato la gravissima e paradossale conseguenza di privare il territorio regionale di qualsiasi regolamentazione e di tutte le prescrizioni di tutela sostanziali contenute in quel piano (ancorché illegittimo); con evidente e irreparabile pregiudizio per gli stessi interessi sostanziali di cui è esponenziale l'associazione appellante. Di conseguenza, accogliendo il ricorso di annullamento, il giudice ha conservato temporaneamente gli effetti del piano illegittimo (una sorte di misura di salvaguardia), dichiarando contestualmente “il dovere della regione (...) di procedere alla rinnovata emanazione (...) del piano faunistico venatorio regionale”, in conformità alla normativa vigente (statale o regionale) sulla valutazione di impatto strategico. Benché il giudice amministrativo qualifichi il suo intervento come statuizione di “effetti conformativi (...) volti a far sostituire il provvedimento illegittimo”, la nuova disciplina del codice consente di qualificare quello in esame come un vero e proprio dispositivo di condanna, finalizzata alla corretta riedizione del procedimento e alla sostituzione ex nunc del provvedimento illegittimo. In ciò si ravvisa l'atipicità e l'idoneità della condanna come rimedio di tutela degli interessi ricorrenti: la pianificazione illegittima viene sostituita senza necessità del suo formale annullamento e della contestuale cancellazione retroattiva degli effetti (45). La decisione in esame dimostra consapevolezza di come le regole sui poteri del giudice si combinino con la disciplina delle azioni, secondo schemi atipici e non rigidamente prestabiliti. Domande e risposte di tutela giurisdizionale si incontrano in un punto mediano in cui, di volta in volta, quella tutela si dimostra effettiva rispetto alle esigenze dell'interesse protetto. 7. Il codice del processo amministrativo afferma espressamente l'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento (46). In via di principio, il legislatore certifica la fine del monopolio della tutela costitutiva e del rimedio proprietario “ad ogni costo”, anche nei casi in cui esso si dimostri palesemente insufficiente o addirittura inutile. Autonomia tra le azioni significa, infatti, che il Codice rimette all'interessato la scelta del rimedio di tutela più idoneo rispetto al bisogno di protezione espresso dal suo interesse sostanziale (naturalmente l'annullamento resta pregiudiziale rispetto ad altri rimedi “proprietari” come la reintegrazione in forma specifica o la “condanna atipica”, i quali presuppongono la preventiva rimozione dell'atto: art. 30 cod. proc. amm.) (47). L'autonomia tra azione di annullamento e azione risarcitoria conferma come la regola di trasferibilità ammetta, anche nell'area della giurisdizione amministrativa e di fronte all'esercizio del potere pubblico, l'utilizzo alternativo (o parzialmente combinato) dei rimedi di tutela proprietari e di responsabilità (retro, par. 3). A questo riguardo, anzi — nonostante alcune resistenze della giurisprudenza (48) — si può ritenere che il dibattito se il nuovo Codice attribuisca ancora una posizione di centralità all'azione di annullamento contenga un falso problema. L'azione di annullamento costituisce senza dubbio la tutela tipica dell'individuo contrapposto a situazioni di potere: segnatamente di fronte al potere pubblico autoritativo, l'interesse legittimo si difende attraverso la tutela costitutiva, rimuovendo gli atti contra legem. Tuttavia, quando l'individuo chiede protezione di fronte a comportamenti illeciti — nel caso in cui il provvedimento illegittimo rileva contestualmente come fatto illecito — la tutela è quella tipica delle relazioni orizzontali: azioni restitutorie, di accertamento, di condanna, ecc. Insomma, le diverse forme di tutela sono tra loro in una relazione non gerarchica bensì di competenza funzionale: intervengono lì dove sono necessarie, in alternativa o in modo complementare (per la pienezza ed effettività della tutela); senza vincoli di subordinazione (49). Si tratta a ben vedere, e come già anticipato, di considerazioni valide in via di principio, atteso che nei rapporti tra azione di annullamento e azione risarcitoria disegnati dal Codice restano alcuni motivi di attrito. In particolare, l'art. 30, comma 3 pone un problema interpretativo quando afferma che “nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e comunque esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti” (50). Dato anche l'irrigidimento del testo finale della norma, rispetto a quanto proposto dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato (51), è sembrata in qualche modo riaffiorare, sotto spoglie diverse, l'antica questione della pregiudizialità dell'azione di annullamento rispetto a quella risarcitoria (52). Nella decisione n. 3 del 23 marzo 2011, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato riconosce che l'art. 30, comma 3 cit. ha ormai superato la tesi dell'inammissibilità dell'azione risarcitoria esperita in assenza di una tempestiva azione di annullamento; d'altra parte, secondo il giudice amministrativo, la norma manterrebbe comunque una pregiudiziale di merito, nel senso che la mancata promozione della domanda impugnatoria “è idonea ad incidere sulla fondatezza della domanda risarcitoria” (53). Nella propria interpretazione dell'art. 30, comma 3, il Consiglio di Stato concentra la sua attenzione sull'omissione del privato (che non si attiva in sede giurisdizionale per la rimozione dell'atto e dei suoi effetti lesivi), richiamando lo schema di cui all'art. 1227, comma 2, c.c. secondo il quale “il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza” (54). L'impressione è che il giudice amministrativo, in tale ricostruzione, finisca per dilatare eccessivamente l'area dell'ordinaria diligenza imposta al privato. 7.1. L'interpretazione prevalente dell'art. 1227 c.c. distingue l'ipotesi del primo comma, in cui il creditore (o il danneggiato ex art. 2056 c.c.) concorre attivamente insieme al debitore (o al danneggiante) alla produzione del danno base (danno-evento); dall'ipotesi del secondo comma, in cui il danneggiato colpevolmente non si attiva per evitare i danni ulteriori (danni-conseguenze), derivanti dall'evento principale, già verificatosi ed imputabile al solo danneggiante (55). Il secondo comma dell'art. 1227 c.c. impone al danneggiato uno specifico dovere di cooperazione (coincidente con il dovere di lealtà e correttezza di cui all'art. 1175 c.c.), finalizzato a limitare la maggiore incidenza del danno cagionato dal (solo) danneggiante (56). La violazione di quest'obbligo di correttezza manifesta un abuso di diritto, che la giurisprudenza intende come “comportamento lesivo dell'interesse del debitore che esorbiti dal limite della ragionevole tutela dell'interesse del creditore” (57). Il danneggiato, attraverso il comportamento colpevolmente omissivo, altera lo schema formale del proprio diritto al risarcimento per conseguire utilità diverse e maggiori di quelle in vista delle quali quel diritto gli è stato attribuito. L'abuso del diritto segna, dunque, il punto in cui l'interesse del creditore (o del danneggiato) diviene recessivo rispetto alle istanze di solidarietà sociale. Nella sua attività di contemperamento degli opposti interessi, il giudice individua il limite oltre il quale l'omissione del danneggiato è colpevole e le conseguenze dannose evitabili sono irrisarcibili ex art. 1227, comma 2 c.c.. In generale, si afferma che l'ordinaria diligenza del danneggiato riguarda i danni ulteriori che possono essere evitati senza sforzo eccessivo (58). Ma soprattutto, riguarda i danni ulteriori che possono essere evitati esclusivamente dal danneggiato, la cui evitabilità, cioè, ricada sotto il suo “esclusivo controllo giuridico ed economico” (59). Solo per questi danni valgono gli anzidetti principi di diligenza e di buona fede che rendono esigibile l'intervento del danneggiato ex art. 1227, comma 2, interrompendo il nesso di causalità con il danno principale, imputabile al danneggiante. Va da sé che, qualora sui quei danni ulteriori potesse intervenire (anche) il danneggiante, si ripristinerebbe ex art. 1223 c.c. il nesso di causalità con il danno principale, venendo meno l'applicabilità dell'art. 1227 c.c. D'altra parte, ad applicare l'art. 1227, comma 2, c.c. anche ai danni ulteriori evitabili dal danneggiante, si finirebbe per qualificare l'obbligo di correttezza del danneggiato come un dovere assoluto, equiparato al dovere generale del neminem laedere violato dal danneggiante. Più in generale, si arriverebbe ad esigere dal creditore lo stesso grado di diligenza imposto al debitore per l'esecuzione dell'obbligazione; ad attribuire, cioè, “al creditore, in quanto tale, la posizione di obbligato nell'ambito dello stesso rapporto obbligatorio” (60). In questa complessa prospettiva, che tiene conto degli effettivi ruoli dei protagonisti attivi e passivi del rapporto obbligatorio (e dei rapporti tra l'esercizio del diritto e il rispetto dei vincoli di solidarietà sociale), la giurisprudenza prevalente — per quanto in questa sede interessa — non considera come omissione colpevole del danneggiato il non aver agito giudizialmente contro il danneggiante per l'adempimento o l'annullamento dell'atto lesivo (61); a maggior ragione, si direbbe, la colpevolezza dell'omissione non potrebbe rilevarsi qualora la rimozione del fatto lesivo non fosse nella esclusiva disponibilità del danneggiato (62). Passiamo ora ad esaminare, nella nostra materia, i possibili rapporti tra l'art. 30, comma 3 cod. proc. amm. e la disciplina di cui all'art. 1227 c.c. 7.2. Come anticipato, attraverso il richiamo dell'art. 1227, comma 2, c.c., la decisione della Plenaria n. 3/2011 stabilisce che la mancata promozione dell'azione di annullamento dell'atto illegittimo costituisce un motivo di infondatezza (non più una condizione di ammissibilità) dell'eventuale azione risarcitoria avente ad oggetto i danni cagionati dal provvedimento non rimosso. Secondo il giudice amministrativo, la scelta di non agire per l'annullamento del provvedimento illegittimo — scelta colpevole quando l'annullamento avrebbe plausibilmente evitato il danno in tutto o in parte — integra la “violazione dell'obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l'effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile”. In sostanza, l'omessa proposizione dell'azione per il risarcimento del danno, che avrebbe potuto (“più probabilmente che non”) essere evitato attraverso l'annullamento dell'atto, configura “un comportamento complessivo di tipo opportunistico, che viola il canone della buona fede e quindi, in forza del principio di autoresponsabilità cristallizzato dall'articolo 1227, co. 2, implica la non risarcibilità [di quel] danno conseguenza” (63). Si condivide ovviamente il richiamo del giudice amministrativo agli obblighi di solidarietà ed ai principi di diligenza e buona fede, che vigono anche nei rapporti obbligatori tra amministrazione e privati. D'altra parte, quando l'art. 30, comma 3, del Codice dichiara l'irrisarcibilità dei danni evitabili dal danneggiato con l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento di rimedi di tutela, il rinvio all'art. 1227, comma 2, c.c. è evidente. Quello che però non convince del tutto, nell'articolata tesi del Consiglio di Stato, è l'assoluta concentrazione sulla condotta omissiva del danneggiato (nonostante l'art. 30 chieda al giudice di valutare il “comportamento complessivo delle parti”); con conseguente dilatazione dell'area entro la quale l'impugnazione del provvedimento illegittimo finisce per rilevare a carico del danneggiato come comportamento ordinariamente esigibile. Un'estensione che appare eccessiva rispetto alle reali possibilità consentite dallo stesso art. 1227, comma 2, che — per le ragioni evidenziate — è applicabile ai danni-conseguenze che solo il danneggiato è in grado di evitare. L'amministrazione danneggiante, responsabile della sua azione, resta anche “arbitro” del danno cagionato, potendo rimuovere l'atto in autotutela. Di tal che, gli eventuali ulteriori danni conseguenti alla mancata rimozione dell'atto, devono imputarsi direttamente ex art. 1223 c.c. all'ingiustificata inerzia dell'amministrazione e non ex art. 1227, comma 2, c.c., alla mancata azione del privato. Insomma, per i danni da mancata rimozione del provvedimento lesivo, l'ingiustificata passività dell'amministrazione, rispetto ad un possibile intervento unilaterale su quella fonte di danno, esclude l'esigibilità dell'impugnazione giurisdizionale (64). D'altra parte, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, sul danneggiante incombe la prova della violazione del dovere di cooperazione e di intervento del danneggiato; la prova cioè di un fatto modificativo della pretesa risarcitoria dell'attore (art. 2697 c.c.) (65). Ma se l'amministrazione fosse in grado di dimostrare l'utilità dell'annullamento riesce difficile capire le ragioni per le quali essa stessa non vi abbia già provveduto in autotutela, alimentando il fondato dubbio che con la sua omissione essa abbia direttamente contribuito alla produzione di quei danni ulteriori che si imputano al danneggiato. A questo riguardo, una volta accertato (anche dal giudice ex officio) (66) che la rimozione dell'atto avrebbe evitato o mitigato il danno, non si vede perché il comportamento omissivo causalmente rilevante sia “per definizione” quello del danneggiato che non ha proposto l'azione di annullamento e non anche quello dell'amministrazione — che è pur sempre il soggetto danneggiante — che non ha agito in autotutela senza una motivazione plausibile. In definitiva, non è dato capire le ragioni per le quali, nell'economia del giudizio che pondera i contrapposti interessi tra chi deve dare e chi ha diritto di ricevere in sede risarcitoria, il peso specifico dell'omessa azione giurisdizionale sia così prevalente rispetto all'omesso annullamento d'ufficio. Né si dica che l'amministrazione deve essere sollecitata all'autotutela e, quindi, che l'art. 30, comma 3 del Codice presuppone un tale onere del danneggiato, analogamente a quanto espressamente prevede l'art. 243-bis d.lgs. n. 163 del 2006 per il settore degli appalti pubblici. Al di là della diversa formulazione tra le due norme — cui sembra corrispondere la consapevole intenzione legislativa di differenziare una lex specialis rispetto alla disciplina generale sull'azione risarcitoria — resta il fatto che lo stesso art. 243-bis impone al giudice di valutare, non solo l'omessa sollecitazione del privato, ma anche l'omesso esercizio dei poteri di autotutela dell'amministrazione. E comunque, con riguardo all'inerzia del privato, anche a voler attribuire all'art. 243-bis cit. una portata generale, il comportamento omissivo imputabile al danneggiato sarebbe di molto “alleggerito”, posto che coinciderebbe con la mancata sollecitazione all'autotutela e non addirittura con l'omesso avvio dell'azione giurisdizionale di annullamento. La tesi della pregiudizialità “di merito” tra azione di annullamento e azione risarcitoria, applicata a prescindere dalle ragioni del comportamento omissivo dell'amministrazione, finisce per alterare l'equilibrio tra i soggetti del rapporto risarcitorio; nonché il rapporto virtuoso tra garanzia primaria e secondaria, che il codice del processo si propone di garantire, puntando sulla completezza e sull'effettività della tutela. Nella transazione dei reciprochi obblighi di cooperazione e solidarietà — ed a parità di inerzia rispetto alla rimozione dell'atto illegittimo — l'amministrazione danneggiante “prende tutto” mentre il privato danneggiato “perde tutto”. Una transazione sbilanciata, soprattutto, se si considera l'asimmetria che caratterizza la nostra materia. Il richiamo agli obblighi di cooperazione e di buona fede nelle vicende tra privati si giustifica invero con il fatto che ciascun individuo può trovarsi di volta in volta a recitare ruoli diversi: oggi è il debitore che chiede, domani è il creditore che offre solidarietà, attivandosi per evitare i danni evitabili. Nelle vicende risarcitorie collegate all'esercizio del potere amministrativo, invece, si recita a soggetto fisso: l'amministrazione è comunque il danneggiante che invoca la buona fede dell'altro (senza dar conto delle ragioni della propria inerzia); il privato è comunque il danneggiato al quale si richiede di agire per l'annullamento dell'atto amministrativo illegittimo come condizione per la fondatezza della sua azione risarcitoria. In ogni caso, anche quando l'azione di annullamento possa considerarsi come una condotta esigibile ex art. 1227 c.c., l'interpretazione preferibile dell'art. 30, comma 3 ricollega alla colpevole inerzia del privato tutt'al più la rideterminazione del quantum risarcitorio, con esclusione dei (soli) danni che sarebbe stato possibile evitare attraverso gli strumenti di tutela; mentre riesce difficile ipotizzare l'infondatezza dell'azione risarcitoria, anche in relazione ai danni che sono conseguenza immediata e diretta dell'evento principale (imputabile all'amministrazione), rispetto ai quali l'omissione del privato non svolge alcuna rilevanza causale. Invero, questa distinzione tra danno-evento e danniconseguenze sembra sfumare un po' nei dispositivi che dichiarano la (generica) infondatezza della richiesta risarcitoria (67). Vi è poi un'ulteriore considerazione. La tesi della pregiudiziale di merito fondata sull'art. 1227, comma 2, appare principalmente riferibile alle ipotesi risarcitorie che coinvolgono gli interessi legittimi oppositivi, per i quali mantenere in vita l'atto significa propagarne gli effetti negativi sulla sfera giuridica del destinatario; per gli interessi oppositivi, cioè, al danno da adozione dell'atto ablatorio illegittimo possono aggiungersi i danni da mancata rimozione di quell'atto. Per gli interessi pretensivi lesi da un diniego illegittimo, la norma civilistica appare più difficilmente applicabile. Al di là del fatto che il diritto privato non riconosce gli atti negativi, gli è che l'illegittimità di tali dinieghi può produrre tutt'al più un danno da adozione ma non anche apprezzabili danni da mancata rimozione, posto che il diniego illegittimo lascia inappagata l'aspirazione iniziale dell'interessato rispetto al contenuto della sua istanza. In conclusione. La scadenza del termine per proporre l'annullamento rende l'atto intangibile per il privato, ma non per l'amministrazione che quello stesso atto può rimuovere in autotutela (68). L'ingiustificato mancato esercizio dell'autotutela rende l'amministrazione due volte responsabile: a) per aver adottato l'atto illegittimo (danno da adozione); b) per non averlo rimosso (danno da mancata rimozione). Nel rapporto di causalità con il danno da provvedimento amministrativo entrano in gioco una commissione e una omissione: comportamenti entrambi direttamente imputabili all'amministrazione che è responsabile dei rispettivi danni. Per le altre ipotesi, in cui i danni ulteriori siano invece in un esclusivo rapporto causale con l'inerzia colpevole del danneggiato (l'autotutela non poteva essere esercitata), si attiva la disciplina di rideterminazione-riduzione secondo le indicazioni dell'art. 30, comma 3, cod. proc. amm., che, entro questi limiti, effettivamente richiama l'art. 1227, comma 2, c.c. 8. I paragrafi finali di questo studio sono dedicati ad una parte della disciplina sulle azioni nel processo amministrativo, le cui difficoltà applicative non derivano da necessità di “rodaggio” della normativa, né da questioni di coordinamento tra i diversi rimedi i tutela; per l'azione di nullità, i problemi sembrano collegati all'eccessiva ellitticità della disciplina nonché all'assoluta novità del tema nella nostra materia e quindi anche ad una prassi giurisprudenziale piuttosto scarsa (69); circostanze, queste, che costringono l'interprete ad un arduo e complesso lavoro ricostruttivo, viste anche, come si dirà, talune difficoltà intrinseche ad applicare nel processo amministrativo le regole e l'esperienza del processo civile. La pagine che seguono affrontano, in particolare, le questioni del termine dell'azione, della legittimazione ad agire e della rilevabilità d'ufficio del vizio di nullità (70). 8.1. Innanzitutto, si chiarisce che il termine di decadenza semestrale previsto dall'art. 31, comma 4, cod. proc. amm., riguarda la giurisdizione amministrativa di legittimità e cioè lo schema provvedimento-nullità-interesse; per i rapporti paritetici, che collegano l'atto amministrativo nullo al diritto soggettivo, la regola applicabile resta ovviamente quella del codice civile (per le nullità da violazione ed esecuzione del giudicato, il termine è quello della prescrizione decennale prevista per l'actio iudicati) (71). L'apposizione di un termine decadenza all'azione di nullità può sembrare a prima vista un fatto singolare; sennonché l'invalidità e le sue regole — come già si ricordava autorevolmente quasi mezzo secolo fa (72) — non costituiscono una categoria logica, ma sono nella piena disponibilità del legislatore. Anche il diritto commerciale prevede d'altra parte talune ipotesi di decadenza per le azioni di nullità avverso delibere societarie (73). La verità è che — nei settori che più da vicino coinvolgono l'interesse dei terzi di fronte all'esercizio di potere unilaterale — l'ordinamento sceglie talora di porre un termine finale alle contestazioni, oltre il quale l'atto, ancorché nullo, è lasciato “al suo destino” (74). Il provvedimento nullo non impugnato nel termine — al di là delle conseguenze di carattere processuale che saranno descritte infra — resta ovviamente privo della sua efficacia tipica (primaria). Ma attenzione all'equivoco: l'atto nullo è comunque rilevante, e laddove non rimosso come fattispecie giuridicamente rilevante (ed apparentemente efficace), esso è in grado di essere eseguito ovvero di essere attratto come porzione elementare in altre fattispecie giuridiche che lo assorbono e se ne servono utilmente per produrre a loro volta effetti giuridici indiretti (75). Insomma, anche dopo 180 giorni, l'atto nullo resta una fattispecie giuridica tipicamente inefficace e tuttavia fonte di tutti gli (altri) effetti indiretti che è in grado di produrre, attraverso la sua esecuzione o l'integrazione di altre fattispecie. L'art. 31, comma 4 del Codice precisa che l'interessato decade dall'azione, ma la “parte resistente” può eccepire in ogni tempo la nullità. La norma si spiega come una scelta di compromesso rispetto alla soluzione del codice civile. Dopo 180 giorni, come s'è detto, l'atto amministrativo nullo va lasciato alla sua capacità di atto giuridicamente rilevante di ricevere comunque esecuzione e/o di interagire con altre fattispecie giuridiche. Ma se e quando questo atto viene al cospetto di terzi controinteressati, costoro potranno resistere ai suoi effetti indiretti, eccependone la nullità ed evitando che attraverso esso, altri possa acquisire vantaggi indebiti. Questo è il senso della norma: l'atto è lasciato “al suo destino”, se non rimosso nei termini, ferma restando la possibilità dei terzi interessati di difendersi in eventuali giudizi attraverso la proposizione di eccezioni che paralizzino la pretesa avversaria fondata su quell'atto, determinando il rigetto dell'azione (l'atto è in sostanza disapplicato). Insomma, per l'atto amministrativo nullo l'ordinamento, dopo un certo periodo, considera prevalente il valore della funzionalità rispetto a quello della stretta legalità; la quale tuttavia riacquista preminenza a tutela di talune categorie di soggetti (quelli coinvolti in giudizi in cui si pretende di far valere l'efficacia di un provvedimento nullo). Si tratta di un sistema “inutilmente complicato” (76) e rispetto al quale si pongono almeno due ordini di perplessità. a) In primo luogo, tra le parti resistenti, c'è l'amministrazione. Ma anche quella che ha adottato l'atto nullo e che avrebbe potuto eliminare l'atto in autotutela? L'esempio che si può fare è quello del concorso universitario nullo a seguito di una sentenza del giudice penale (77); nessun controinteressato ricorre avverso gli atti di quella procedura e il vincitore entra (invalidamente) nei ruoli dell'amministrazione universitaria, cominciando a svolgere le proprie funzioni. Sulla base di questo rapporto giuridico (invalidamente costituito), il professore chiede all'amministrazione l'adozione di un certo provvedimento favorevole alla sua carriera (siamo fuori del lavoro contrattualizzato). Di fronte al diniego, il professore ricorre e l'amministrazione, per paralizzarne la pretesa, eccepisce addirittura la nullità della nomina. L'ipotesi, ove ammessa, sarebbe assai singolare. L'eccezione prevista dall'art. 31, comma 4 del Codice va a vantaggio dei terzi che in un certo momento si imbattono nell'atto nullo che li sfavorisce e al quale essi non hanno in qualche modo dato causa; nell'esempio fatto, l'amministrazione che ha adottato l'atto non è una qualunque “parte resistente”. Possono esserlo le altre amministrazioni, ma non quella “padrona” dell'atto, che può agire per la sua rimozione in autotutela (78). In questo senso la norma dovrebbe essere interpretata. b) La seconda perplessità riguarda il fatto se tra i controinteressati ci possano essere anche coloro che avrebbero avuto l'onere di domandare in via principale, entro 180 giorni, l'accertamento della nullità dell'atto. Si ipotizzi un bando di concorso contenente una clausola escludente nulla (per difetto di attribuzione, per una nullità testuale, ecc.). L'interessato presenta comunque la domanda e l'amministrazione, non accorgendosi della clausola, non solo non lo esclude ma addirittura lo dichiara vincitore del concorso. Il controinteressato impugna la graduatoria e fa valere la clausola che avrebbe dovuto escludere il vincitore, il quale però ne eccepisce la nullità. Solo che in questo modo, dopo 180 giorni, il vincitore resistente, attraverso l'eccezione, disinnesca l'atto che avrebbe dovuto aggredire tempestivamente in via principale. Anche su questo punto è lecito nutrire qualche perplessità. 8.2. L'atto amministrativo nullo, s'è detto, non è affatto quella fattispecie del tutto inefficace ab origine, come spesso un po' troppo schematicamente si tende a ritenere. Salvo che le parti spontaneamente concordino sul regime effettuale dell'atto, fin quando non si pronuncia il giudice, l'assoluta inefficacia dell'atto nullo è tutta da accertare. L'interesse all'azione di nullità, dunque, è per l'accertamento negativo di tale efficacia nonché per la rimozione di situazioni di incertezza (oltre che di eventuale ripristino dello status quo) (79). Nel processo civile, la legittimazione estesa ex art. 1421 c.c. si spiega con le ragioni pubblicistiche della tutela: il vizio di nullità potrebbe essere trascurato dalle parti del negozio (che possono non avere interesse a farlo valere); allora il controllo di legalità si estende, legittimando all'azione una più ampia categoria di soggetti (terzi rispetto all'atto), i quali devono comunque avere interesse all'accertamento (alla sentenza che dichiara la nullità o che rigetta la domanda). Nel processo civile i (terzi) legittimati aumentano di numero poiché si riduce la distinzione tra situazione legittimante e interesse a ricorrere: la legittimazione coincide (pressoché) con l'interesse all'accertamento. Nel processo amministrativo, tradizionalmente, questa più estesa legittimazione dei terzi all'azione c'è già, poiché possono agire tutti coloro che siano interessati a far pronunciare il giudice sulla validità dell'atto. Di più non si può chiedere al processo amministrativo, a meno di non voler sfociare nell'azione popolare o in una sorta di “azione di classe” (che però ha tutt'altra disciplina e obiettivi) (80). Insomma, legittimati all'azione di nullità di fronte al giudice amministrativo sono il destinatario di un diniego nullo (titolare dell'interesse pretensivo); i controinteressati rispetto ad un provvedimento ampliativo nullo (interesse oppositivo); nonché qualunque terzo che sia comunque in grado di dimostrare la titolarità di uno specifico e differenziato interesse all'azione (81). Per quanto riguarda l'azione di nullità avverso atti elusivi o violativi del giudicato, la legittimazione è ristretta alle parti interessate all'esecuzione della sentenza. Ma la nullità in questo caso è una questione particolare, quasi eccentrica rispetto all'art. 21-septies legge 241/90; serve infatti, più che altro, a contrastare definitivamente il principio che l'atto contrario al giudicato debba essere impugnato entro il termine di decadenza. In realtà, più che nell'istituto delle nullità, tale fattispecie sembra inquadrarsi nel tema della forza del giudicato e della relativa azione di ottemperanza. Di qui giustamente, l'azione di nullità per contrasto al giudicato è disciplinata non dall'art. 31, co. 4º, ma dall'art. 114 cod. proc. amm. 8.3. Il profilo della rilevabilità d'ufficio del vizio di nullità da parte del giudice amministrativo entro certi limiti rafforza un'impressione. Quella che, al di là dei casi di nullità per contrasto al giudicato, le vicende processuali relative agli altri casi di nullità siano destinate a restare questione un po' di nicchia, di sicuro interesse teorico ma di scarsa rilevanza pratica. Infatti, oltre al ristretto termine di decadenza per promuovere l'azione — che di fatto scarica sulle eventuali eccezioni il compito di far valere la nullità dell'atto amministrativo — sulla vicenda influisce anche quell'interpretazione restrittiva sui poteri officiosi del giudice, che nel processo civile la Corte di cassazione giustifica in difesa del principio della domanda (artt. 99 e 112 c.p.c.), ma che — come si vedrà — nel processo amministrativo produce una singolare asimmetria a favore dell'amministrazione resistente. Sul tema della rilevabilità d'ufficio, l'art. 31, comma 4, coincide con l'art. 1421 c.c.; quindi i problemi della sua applicazione sembrano in parte comuni a quelli del processo civile. Proprio dal processo civile sarà opportuno, dunque, avviare la successiva analisi. 8.3.1. La posizione maggioritaria della giurisprudenza civile ritiene che il giudice possa rilevare d'ufficio la nullità solo quando il vizio di validità si ponga in un giudizio avente ad oggetto l'esecuzione di un atto; viceversa nega i poteri di rilevazione officiosa di fronte ad azioni mirate alla sua caducazione (risoluzione, rescissione, annullamento) (82). Una posizione giurisprudenziale minoritaria (83) ammette la rilevabilità d'ufficio del vizio di nullità di un atto impugnato anche ai fini della sua caducazione (risoluzione, rescissione, annullamento), suscitando però molte riserve laddove sembra favorire l'accoglimento della domanda del ricorrente, in violazione del principio di ultrapetizione. Tali critiche, a ben vedere, sono state alimentate da almeno due equivoci che hanno penalizzano oltre misura quella soluzione estensiva. a) Il primo equivoco è che l'accertamento d'ufficio potesse acquistare valore di giudicato; nel caso della richiesta di caducazione, questa soluzione si risolveva effettivamente in una modifica della domanda e in un vantaggio per l'attore. A questo primo equivoco ha contribuito, se così si può dire, proprio la nota sentenza della Cassazione n. 6170/2005, che ha distinto tra questioni pregiudiziali in senso tecnico (punti pregiudiziali che diventano questioni in quanto sono oggetto di una domanda di parte) e pregiudiziali in senso logico (punti pregiudiziali che non diventano questioni eppure condizionano logicamente la decisione), definendo l'accertamento incidentale sulla nullità (punto pregiudiziale in senso logico) come “idoneo a diventare giudicato”. Si è trattato di un'affermazione indubbiamente “forte” che la stessa Cassazione l'anno successivo ha riformulato, precisando che quel giudicato (sul punto pregiudiziale logico) non copre il “dedotto” e il “deducibile” (84). Quest'ultima affermazione fa giustizia delle reali possibilità ed intenzioni della soluzione estensiva e viene incontro alle posizioni più miti di una dottrina convinta che il giudice decide con effetto di giudicato sulla nullità, pronunciando su domanda di parte; mentre, in difetto di tale domanda, il giudice può rilevare la nullità d'ufficio (con ampiezza di poteri), attraverso però un accertamento meramente incidentale (85). b) La correzione sopra indicata consente di estendere i poteri officiosi del giudice senza violare il principio di domanda e finisce per svelare anche il secondo equivoco: l'accertamento d'ufficio della nullità (ancorché incidentale) non costituisce il presupposto per l'accoglimento della domanda di caducazione; semmai per il suo rigetto (e la sentenza di rigetto è destinata a fare stato in base alle regole applicabili a questo tipo di sentenza) (86). A questo punto però, per evitare ulteriori torsioni al sistema, la tesi estensiva — opportunamente precisata nel senso che l'accertamento ha valore meramente interno al processo e comunque serve tutt'al più al rigetto della domanda caducatoria — si articola a sua volta, ammettendo il potere officioso di rilevazione nei casi in cui la caducazione significhi risoluzione del contratto ed escludendola invece quando la caducazione equivalga all'annullamento o alla rescissione dell'atto. a) Nel caso di un'azione di risoluzione del contratto, il giudice deve accertare l'inadempimento come causa estintiva del contratto. Ma se rileva un motivo di nullità, individua una causa impeditiva della validità che precede logicamente; evidentemente cause impeditive ed estintive non possono coesistere, giacché rispetto ad un contratto nullo non si può accertare un inadempimento. E poiché la domanda di risoluzione presuppone un contratto valido, la nullità è rilevata incidenter ex art. 1421 c.c., per evitare al giudice di dover considerare valido un contratto che valido non è (cioè di negare un aspetto costitutivo della domanda) e comunque al solo scopo di rigettare la stessa azione di risoluzione. Ovviamente, nei casi in cui è ammessa, la rilevabilità d'ufficio deve comunque consentire il contraddittorio tra le parti interessate, pena la radicale nullità della c.d. sentenza “a sorpresa” (87). b) Nel caso di annullamento (o di rescissione), invece, nullità e annullabilità sono entrambe cause impeditive del negozio impugnato; la domanda di annullamento di per sé presuppone l'invalidità del medesimo negozio e quindi non richiede l'intervento difensivo del giudice per evitare che venga acquisita la validità di un atto che valido non è: in tal caso non occorre negare un aspetto costitutivo della domanda perché la validità del negozio è già contestata dal ricorrente che lo vuole annullare (88). In questo caso, si esclude il potere del giudice di rilevare ex officio la nullità, neppure incidentalmente e neppure come motivo di rigetto dell'azione di annullamento: altrimenti, si avvantaggerebbe troppo il convenuto che otterrebbe il rigetto dell'azione avversaria, con contestuale accertamento della validità di un atto di cui pur si è rilevata la nullità; paradossalmente l'accertata nullità ex officio sarebbe il motivo che — attraverso il rigetto dell'azione di annullamento — consentirebbe all'atto di essere definitivamente considerato valido. Di fronte all'azione di annullamento, il giudice che pure abbia rilevato un vizio di nullità dell'atto, passa oltre, all'esame della domanda di annullamento e su questa giudica in piena autonomia (89). 8.3.2. È facile immaginare come la questione della rilevabilità d'ufficio della nullità nell'ambito di azioni di annullamento, riguardi particolarmente da vicino il processo amministrativo. E la giurisprudenza amministrativa — piuttosto scarsa e formatasi prima dell'art. 21-septies l. n. 241 del 1990, per lo più sulle c.d. nullità testuali — si è orientata principalmente verso la tesi più restrittiva che, come detto, consente al giudice di rilevare d'ufficio la nullità solo al fine di paralizzare la pretesa del ricorrente. A questo proposito possono richiamarsi le seguenti pronunce: a) Consiglio di Stato, Sez. IV, 6 novembre 1996, n. 1190: rilevando d'ufficio la nullità di un atto, il giudice ha accolto l'appello e respinto il ricorso di primo grado. In quella sede è stata rilevata d'ufficio la nullità dell'inquadramento di alcuni lavoratori e considerato legittimo l'atto che ha impedito l'esecuzione di tale inquadramento; b) TAR Veneto, Sez. I, 12 febbraio 2009, n. 347: per evitare la restituzione dell'area o il risarcimento del danno a causa di un'occupazione abusiva per scadenza dei termini di espropriazione, l'amministrazione aveva fondato la propria eccezione su taluni atti di esproprio che avrebbero dovuto paralizzare la pretesa del ricorrente. Il giudice ha accertato però che quegli atti erano stati adottati fuori termine e quindi ha rilevato d'ufficio la loro nullità, paralizzando la domanda dell'amministrazione; c) TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 14 marzo 2005, n. 1534: alcuni lavoratori socialmente utili hanno impugnato una delibera che ritenevano peggiorativa di un precedente provvedimento che li avrebbe (a loro dire) stabilizzati nei ruoli dell'amministrazione. Il giudice, rilevando d'ufficio la nullità di tale stabilizzazione, ha dichiarato inammissibile l'azione di annullamento promossa avverso la seconda delibera. Non v'è dubbio che l'interpretazione restrittiva, applicata nel processo amministrativo, finisca per favorire l'amministrazione resistente nei giudizi di annullamento. D'altra parte, viste le precedenti considerazioni, non si può dire neppure che la tesi estensiva sia per definizione favorevole al ricorrente, essendo preordinata al rigetto del ricorso. La verità è che nel processo amministrativo non sembrano assorbibili tout court le tesi elaborate per il processo civile, nel quale le azioni costitutive sono quelle tipiche (art. 2908 c.c.) e si alternano alle altre, in modo da giustificare la distinzione tra casi di esecuzione e casi di caducazione dell'atto. Viceversa, nel processo amministrativo l'azione di annullamento è generale e quindi — con un certo distacco dalle tesi processulcivilistiche — occorre attentamente riflettere sull'effettiva capacità del giudice, nell'ambito di questi giudizi, di rilevare d'ufficio la nullità del provvedimento, ai sensi dell'art. 31, co. 4; pena altrimenti il rischio di una sostanziale inutilità di questa norma. L'esame della (scarsa) casistica dimostra che la giurisprudenza amministrativa non esclude la rilevabilità d'ufficio della nullità nell'ambito di giudizi di annullamento; e dimostra soprattutto che il giudice amministrativo segue, a questo riguardo, percorsi e “stili” differenti. a) Il primo “stile” può definirsi minimale, sulla scia delle tesi processualcivilistiche. Il Consiglio di Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 265, dopo aver accolto due motivi di annullabilità del provvedimento (riformando la sentenza del TAR), di fronte ad un motivo aggiunto ritenuto irricevibile per tardività dal TAR, ha rilevato d'ufficio la nullità dell'atto impugnato sotto quel profilo (il ricorrente lo ha censurato tardivamente, il giudice lo ha considerato nullo e ha superato la tardività). Ad ogni modo, tale accertamento è puramente incidentale e non lascia alcuna traccia, posto che la sentenza si conclude con l'accoglimento del ricorso di primo grado e con l'annullamento dell'atto impugnato. Un singolare fenomeno di annullamento dell'atto nullo, che però non suscita eccessivi problemi sul piano pratico, posto che la rilevazione d'ufficio resta interna al processo, che si conclude con l'annullamento dell'atto in accoglimento della domanda (90). b) Il secondo “stile” accentua i poteri officiosi del giudice amministrativo. Il TAR Lazio, Sez. I, 19 novembre 2010, n. 33666 affronta il caso di un magistrato della Corte dei conti, già consigliere comunale, che agisce per l'annullamento del diniego dell'autorizzazione a proseguire nell'incarico di amministratore locale. Il TAR, riformulando le doglianze del ricorrente, rileva d'ufficio un difetto assoluto di attribuzione, dichiarando in via principale la nullità del diniego. Il TAR in questa fattispecie, non solo non si disinteressa del vizio di nullità (come invece si teorizza per il processo civile) ma addirittura lo accerta in via principale, posto che la sentenza è dichiarativa della nullità del provvedimento di cui il ricorrente aveva chiesto l'annullamento; in questa fattispecie, il giudicato si forma sulla dichiarata nullità. Come si è già anticipato, la sensazione è che nel processo amministrativo non si possa essere drastici più di tanto rispetto a simili evenienze, se non si vuole depotenziare oltre il ragionevole la previsione dell'art. 31, co. 4, cod. proc. amm. Sembra quindi opportuno distinguere i casi in cui l'azione di annullamento è fondata rispetto alle altre ipotesi. Se l'azione di annullamento è comunque fondata, sostituire la pronuncia di nullità a quella di annullamento può forse considerarsi una forzatura teorica, che rende però giustizia al ricorrente, in un'ottica di effettività della tutela. Non si può invece utilizzare il mezzo della rilevazione d'ufficio per sanare azioni di annullamento irricevibili (per tardività), inammissibili (per mancata impugnazione dell'atto presupposto) o infondate. Nella fattispecie testé esaminata, la pretesa era manifestamente fondata, essendo l'azione amministrativa affetta da grave invalidità; e non dimentichiamo, peraltro, che in sede giurisdizionale di legittimità, il giudice amministrativo fa comunque il suo “mestiere”, che è quello di rimuovere i prodotti del potere esercitato extra ordinem. c) Il terzo “stile” massimizza i poteri officiosi del giudice amministrativo Si consideri la decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 1 marzo 2010, n. 1156 (91). A fronte del ricorso per la risoluzione del contratto di cessione azionaria (privatizzazione di una società comunale), il giudice ha respinto la tesi della risolubilità e ha rilevato d'ufficio la nullità del contratto (e dei precedenti atti della selezione pubblica). In questo caso, la sentenza, non solo non si limita all'accertamento incidentale della nullità, dichiarandola in via principale (92); ma addirittura, tale dichiarazione principale avviene dopo l'accertamento dell'infondatezza della domanda originaria del ricorrente (che aveva agito per la risoluzione del rapporto). Si tratta invero di una posizione “estrema”, che suscita qualche perplessità e rispetto alla quale sarà interessante osservare i futuri sviluppi giurisprudenziali. Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin: 10px 10px;"> Note: (1) Il c.d. Codice del processo amministrativo è stato adottato con il d.lgs. n. 104 del 2010 recante “Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo”. (2) A. di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 5; A. ProtoPisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 5 ss., 32 ss. (3) Per tutti, R. Nicolò, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1962, 11 ss. (4) Per questi argomenti, in termini generali, per tutti, A. diMajo, La tutela civile, cit., 55 ss. (5) Sulla distinzione tra garanzia primaria e secondaria, L. Ferrajoli, Garantismo e poteri selvaggi, in Teoria politica, XIV, 1998, 3, 15 ss.; Id., Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia, I, Bari, 2007, 668 ss. (6) Sul diritto di azione e sui rapporti tra diritto sostanziale e processo, per tutti, A. ProtoPisani, Lezioni di diritto processuale, cit., 51 ss., 196 ss. (7) E. Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1989, 399 ss. (8) Il diritto di azione non coincide con il diritto soggettivo da proteggere, ma corrisponde al “potere giuridico di porre in essere le condizioni per l'attuazione della legge”, secondo la nota definizione di G. Chiovenda, L'azione nel sistema dei diritti, in Saggi di diritto processuale civile (1900-1930), I, Roma, 1930, 6. (9) Sulla distinzione tra “legittimazione al ricorso” e “interesse al ricorso”, da ultimo, Cons. Stato, Ad. plen., 7 aprile 2011, n. 4. (10) J. Goldschmidt, Prozes als Rechtslage Eine Kritik des prozessualem, Berlin, 1925, 245. In termini riepilogativi, A. Bonsignori, Tutela giurisdizionale dei diritti. Tutela dei diritti, artt, 2907-2909, in Commentario del Codice civile ScialojaBranca (a cura di F. Galgano), 1 ss. Il codice civile contiene norme sostanziali di tutela dei diritti soggettivi, seppure discutibilmente concentrate nel VI Libro e disposte in modo piuttosto disomogeneo, anziché distribuite nei diversi settori di disciplina sostanziale del diritto; sul punto, tra gli altri, E. Fazzalari, Tutela giurisdizionale, in Enc. dir., Milano, 1992, 403. (11) Nella Relazione al Titolo IV del Libro VI (“Della tutela giurisdizionale dei diritti”) si precisa che la finalità non è quella di disciplinare modi e forme della tutela “bensì la natura e la figura dei provvedimenti con cui essa si attua, le condizioni sostanzialmente richieste per provocarne l'emanazione e infine gli effetti che quei provvedimenti producono in quanto operino o incidano sui rapporti e sulle situazioni sostanziali fuori del processo” (Relazione al Re, n. 1065). (12) Ad es. sul danno da ritardo (art. 2-bis l. n. 241 del 1990); sulla tutela avverso il silenzio della p.a. (art. 2 l. n. 241 cit.); sulla tutela avverso il diniego all'accesso ai documenti amministrativi (art. 25 l. n. 241 cit.). Sull'opportunità “di chiamare la legge delega non ‘codice del processo amministrativo', ma ‘codice della giustizia amministrativa' [in base all'insegnamento che] ‘niente è nel processo che non sia prima e fuori del processo”, Giovanni Pellegrino, Un codice della giustizia amministrativa (più che del processo), in Verso il codice del processo amministrativo, a cura di Gianluigi Pellegrino), Roma, 2009, 71 ss., spec. 76. Cfr. anche V. Carbone, Un ponte tra le giurisdizioni, in Verso il codice, cit., 219. (13) Sull'interazione tra effettività della garanzia primaria e secondaria, in termini generali, L. Ferrajoli, Principia juris, cit., 701. (14) Per approfondimenti e riferimenti bibliografici, si rinvia a F. Luciani, Funzione amministrativa, situazioni soggettive e tecniche giurisdizionali di tutela, in questa Rivista, 2009, 987 ss. (15) Per alcuni diritti della personalità, ad es., non si ammette il rimedio di tutela risarcitorio. (16) Ad es., secondo l'art. 2058 c.c., il giudice ordina la reintegrazione in forma specifica, salvo nei casi in cui tale rimedio sia eccessivamente oneroso per il debitore. (17) Si tratta, com'è noto, di una disciplina che recepisce le indicazioni del legislatore comunitario: cfr. dir. 2007/66/CE dell'11 dicembre 2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE del Consiglio per quanto riguarda il miglioramento dell'efficacia delle procedure di ricorso in materia d'aggiudicazione degli appalti pubblici. (18) Sulla nuova disciplina della sorte del contratto stipulato in base ad un'aggiudicazione successivamente annullata dal giudice amministrativo, per tutti, R. DeNictolis, Commento agli artt. 121-125, in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, Milano, 2011, 1012 ss. (19) Sulla disciplina contenuta nel Codice del processo amministrativo, tra gli altri, cfr. Codice del processo amministrativo, a cura di M. Sanino, Torino, 2011; Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2011; Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, cit.; Codice del nuovo processo amministrativo, a cura di F. Caringella e M. Protto, Roma, 2010; R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010; Codice del processo amministrativo, a cura di R. Garofoli e G. Ferrari, Roma, 2010. (20) Cfr. Corte cost. n. 140/2007; da ult. Cass., Sez. un., ord. 5 marzo 2010, n. 5290. Sulla completezza ed adeguatezza della tutela processuale amministrativa, anteriormente al Codice, S. Tarullo, Il giusto processo amministrativo, Milano, 2004, 153 ss.; F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, cit., 18 ss. (21) Sulla ricostruzione dell'interesse legittimo come situazione a garanzia di pretese sostanziali, con ampiezza di argomenti, da ultimo, Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3. Cfr. anche A. Romano Tassone, Risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, in Enc. dir. Aggiornamento, VI, Milano, 2002, part. 996 ss. (22) Parafrasando, l'affermazione di G. Chiovenda, “il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1912 (ristampa inalterata, Napoli, 1965), 81. (23) Sul punto, F. Merusi, Giurisdizione e amministrazione: ancora separazione dopo il codice amministrativo?, in www.giustamm.it, n. 10/2010. (24) L'art. 31, comma 3, invero, affianca ai casi di attività vincolata, le altre ipotesi di attività (astrattamente discrezionali) per le quali non residuano in concreto “ulteriori margini di esercizio della discrezionalità”, nonché le ipotesi di attività (tecnicamente complesse) per le quali “non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione”. (25) Nell'area del potere vincolato, all'obbligo di cooperazione dell'amministrazione corrisponde pur sempre un interesse legittimo del privato, secondo lo schema a suo tempo tracciato dal Cons. Stato, Ad. plen., 5 luglio 1999, n. 19. Sul ruolo dell'amministrazione che, di fronte al carattere sempre più dettagliato delle norme, al fine di risolvere il conflitto tra pretese in contrasto, “non attua la legge, ma sceglie — tra una pluralità di interessi — tenendo conto di tanti ed articolati principi e canoni di azione: l'imparzialità, la ragionevolezza, il contraddittorio, la proporzionalità la trasparenza”, cfr. però L. Torchia, Le nuove pronunce nel Codice del processo amministrativo, in www.giustiziaamministrativa.it, par. 3 ss. (26) Sull'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento, cfr. l'art. 7, comma 4; l'art. 30; l'art. 34 commi 2 e 3, cod. proc. amm.. In dottrina, tra gli altri, R. Gisondi, La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it. Per ulteriori approfondimenti su tale argomento, v. infra, par. 7 ss. (27) P. de Lise, sottolinea che “il giudice amministrativo è il ‘giudice ordinario' delle situazioni soggettive attribuite alla sua cognizione”, Dialogo tra le giurisdizioni partito da Lecce (Varenna del Sud), in Verso il codice, cit., 214. Sull'assorbimento della tutela civile dell'interesse legittimo in quella amministrativa, F. Satta, Giustizia amministrativa, in Enc. dir., Agg., Milano, 2002. Cfr. anche M. Clarich, Il processo amministrativo a “rito ordinario”, in Riv. dir. proc., 2002, 1075; Id., La « tribunalizzazione » del giudice amministrativo evitata: commento alla sentenza della Corte costituzionale 5 luglio 2004, n. 204, in Giorn. dir. amm., 2004, 969. In senso critico, A. Romano, La giurisdizione amministrativa esclusiva dal 1865 al 1948, in questa Rivista, 2004, 442. (28) L'efficace espressione è di F. Satta, Giustizia amministrativa, cit., 416-417, secondo il quale, con l'art. 7, comma 3 della legge TAR, modificato dalla legge n. 205 del 2000, “(...) cadeva la contrapposizione tra giurisdizione ordinaria e amministrativa, per sostanziale incorporazione della prima nella seconda, nelle controversie in cui parte è una pubblica amministrazione. Cadeva insomma il fondamento storico della giustizia amministrativa, secondo cui la tutela giurisdizionale variava in funzione del grado di intensità che la legge sembrava dare agli interessi dedotti in giudizio”. (29) Nel testo elaborato dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato, l'art. 36 disciplinava l'azione di accertamento (“chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza di un rapporto giuridico contestato con l'adozione delle consequenziali pronunce dichiarative”); l'art. 40 prevedeva espressamente l'azione di adempimento (“il ricorrente può chiedere la condanna dell'amministrazione all'emanazione del provvedimento richiesto o denegato [...]. L'azione è proposta contestualmente a quella di annullamento o avverso il silenzio entro i termini previsti per tali azioni”). (30) Al riguardo, cfr. già, Cons. Stato, Ad. plen., 29 luglio 2011, n. 15; Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755; Tar Puglia, Bari, Sez. III, 25 novembre 2011, n. 1807; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428; R. Chieppa, Commento all'art. 30, in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, cit., 278 ss. (31) Sul punto, F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, cit. 35; M. Clarich, Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, in www.giustizia-amministrativa.it.; L. Torchia, Le nuove pronunce, cit. Ritiene che la disciplina del Codice sia « ispirata ad un canone di tipicità “moderata” », A. Travi, La tipologia delle azioni nel nuovo processo amministrativo, in AA.VV., La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzaivi e riforme strutturali (Atti del LVI Convegno di studi di scienza dell'amministrazione), Milano 2011, 87. (32) Cfr. l'art. 29 (nella parte in cui sopprime l'art. 88 r.d. n. 642/1907), l'art. 31 e l'art. 34, comma 1, lett. c) del Codice. La giurisprudenza amministrativa sembra confermare questo orientamento: “il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa o tecnica, l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto” (Cons. Stato, Ad. plen., n. 15/2011 cit., par. 6.4.1.). (33) Il passaggio è chiaramente avvertito dalla giurisprudenza secondo la quale “il giudice amministrativo, nel determinare gli effetti delle proprie statuizioni, deve ispirarsi al criterio per cui esse, anche le più innovative, devono produrre conseguenze coerenti con il sistema (e cioè armoniche con i principi generali dell'ordinamento, e in particolare con quello di effettività della tutela) e congruenti (in quanto basate sui medesimi principi generali, da cui possa desumersi in via interpretativa la regula iuris in concreto enunciata)”: Cons. Stato, Sez. VI, 2755/2011 cit., sulla quale v. anche infra. (34) Sull'esistenza di una generale azione di accertamento, cfr. Cons. Stato, 717/2009; più recentemente, Cons. Stato, Ad. plen., n. 15/2011 cit. (35) Cfr. art. 44, comma 2, lett. b), n. 4), l. n. 69 del 2009. (36) Sul punto, in particolare, Cons. Stato, Ad. plen., n. 3/2011 e n. 15/2011 citt. (37) Non si scorgono, invero, particolari preclusioni a considerare la condanna atipica un rimedio attivabile a tutela dell'interesse legittimo. D'altra parte, non si vede perché il giudice possa conoscere la fondatezza della pretesa a fronte dell'inerzia dell'amministrazione (art. 31 cod. proc. amm) e non anche a fronte di un diniego. Come è stato giustamente sottolineato (F. Caringella, Il giudice amministrativo conquista il bene della vita, in Verso il codice, cit., 56), il legislatore, che nel 2005 ha certificato l'esistenza di casi in cui l'annullamento di provvedimenti illegittimi è una misura di tutela superflua (art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990), nel 2010 sembra ammettere la possibilità che in altre circostanze l'azione di annullamento possa essere un rimedio di tutela insufficiente (art. 34 cod. proc. amm.). In particolare, per gli interessi pretensivi contrapposti ad attività vincolata non dovrebbe operare il principio di separazione di poteri, prospettandosi piuttosto un obbligo dell'amministrazione a cooperare ad un facere giuridico. (38) Con l'art. 6, comma 1, lett. c) del d.l. n. 138 del 2011, conv. in l. n. 148 del 2011 il legislatore è però intervenuto su questa materia in senso contrario a tale orientamento giurisprudenziale; aggiungendo il comma 6-ter all'art. 19 l. n. 241 del 1990 ha stabilito che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104”. In sostanza, si esclude che il mancato intervento dell'amministrazione configuri un silenzio significativo negativo direttamente impugnabile dai controinteressati, per i quali resta la strada dell'espressa sollecitazione dell'amministrazione all'intervento interdittivo e in caso di ulteriore inerzia la via dell'azione propulsiva avverso il silenzio inadempimento. (39) Cons. Stato, Ad. plen., n. 15/2011 cit., par. 6.4.2. La recente integrazione legislativa dell'art. 19 l. 241 del 1990, illustrata nella nota precedente, ancorché metta in discussione tale ricostruzione giurisprudenziale (quanto alla qualificazione sostanziale da dare al mancato intervento repressivo dell'amministrazione e quanto ai mezzi di tutela esperibili dai controinteressati), non cancella però l'importanza di questa apertura del giudice amministrativo a favore della rinvenibilità nel Codice del principio di atipicità delle azioni. (40) Secondo tale norma, “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”. (41) “(...) in forza del principio di economia processuale, l'azione di accertamento, una volta maturato il termine per la definizione del procedimento amministrativo, si converte automaticamente in domanda di impugnazione del provvedimento sopravvenuto. (...) il giudice potrà pronunciarsi sul merito del ricorso senza che sia all'uopo necessaria la proposizione, da parte del terzo ricorrente, di motivi aggiunti, ex art. 43 cod. proc. amm. poiché oggetto dell'accertamento invocato con l'azione iniziale non può essere solo la mera sussistenza o insussistenza dei presupposti per svolgere l'attività sulla base di una semplice denuncia ma, in coerenza con i caratteri della giurisdizione amministrativa come giurisdizione avente ad oggetto l'esercizio del potere amministrativo, la sussistenza o l'insussistenza dei presupposti per l'adozione dei provvedimenti interdittivi doverosi, e, quindi, la fondatezza dell'interesse pretensivo all'uopo azionato del terzo”: Cons. Stato, Ad. plen., n. 15/2011 cit. (42) Cons. Stato, Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755. (43) Viene richiamato l'art. 264 TFUE; nonché, Corte di Giustizia, 5 giugno 1973, Commissione c. Consiglio, in C-81/72; Corte di Giustizia, 25 febbraio 1999, Parlamento c. Consiglio, in C-164/97 e 165/97. In ambito nazionale, cfr. gli artt. 121 e 122 cod. proc. amm. (44) Cons. Stato, Sez. VI, n. 2755/2011 cit. (45) Sull'atipicità delle statuizioni di condanna ammissibili nel nostro ordinamento e sul confronto con l'azione di adempimento prevista nell'ordinamento tedesco, R. Chieppa, Commento all'art. 30, in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, cit., 276 ss.; A. Masucci, La legge tedesca sul processo amministrativo, Milano, 1991; M. Clarich, L'azione di adempimento del sistema di giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive e orientamento giurisprudenziale, in questa Rivista, 1985, 60 ss. (46) Oltre all'art. 30, comma 1, cfr., in particolare, l'art. 7, comma 4 e l'art. 34, commi 2 e 3, del Codice. (47) Autonomia di scelta riconosciuta, oltre che dal legislatore (cfr. artt. 121-125 del Codice), anche dal giudice amministrativo secondo il quale “spetta al ricorrente (...) la scelta tra il conseguimento degli effetti della tutela demolitorioconformativa e della tutela risarcitoria, nel caso in cui comunque il bene della vita controverso sia ormai conseguibile solo in parte; (...) del resto, la possibilità di optare per il risarcimento per equivalente e di rifiutare l'esecuzione, ormai solo parziale, del giudicato deriva anche dall'applicazione del principio di carattere generale, desumibile dall'art. 1181 c.c., secondo cui il creditore può sempre rifiutare l'offerta di un adempimento parziale rispetto all'originaria configurazione del rapporto obbligatorio” (Cons. Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2008, n. 213). (48) Non senza una qualche contraddizione, invero, con il principio dell'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento, il Consiglio di Stato giudica come irragionevole la “duplicazione di offerta di tutele a fronte di un atto illegittimo, alternative o concorrenti a piacimento e con scelta rimessa alla mera scelta di convenienza del destinatario dell'atto (...)”; ciò che “innalzerebbe l'azione risarcitoria a rimedio facilmente prescelto per neutralizzare gli effetti di un atto lesivo, svilendo così lo strumento preminente di tutela contro le illegittimità amministrative, che è l'apposita azione di annullamento” (Cons. Stato, Sez. VI, 31 marzo 2011, n. 1983). (49) Correttamente si sostiene che “finché il processo amministrativo manterrà la sua impostazione tradizionale, non superata dal Codice, di processo sull'atto, anziché di processo sul rapporto nel quale l'impugnazione dell'atto illegittimo costituisce solo l'occasione per accertare nella sua interezza il modo di essere del rapporto (...) ragioni logiche prima ancora che giuridiche, porranno al centro dell'universo processuale l'azione di annullamento: al carattere imperativo del provvedimento corrisponde di necessità il carattere costitutivo della sentenza del giudice amministrativo”: M. Clarich, Commento all'art. 29, in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, cit., 272 ss. Resta il fatto che, quando il Codice afferma l'autonomia dell'azione risarcitoria, l'indubbia centralità che l'azione di annullamento mantiene anche nel sistema vigente dovrebbe manifestare una prevalenza quantitativa (nel senso che di fronte all'esercizio del potere autoritativo la tutela dell'interesse sostanziale si realizza per lo più con l'eliminazione dell'atto illegittimo); non una preminenza logica, ben potendo la tutela di quell'interesse prescindere interamente dalla rimozione dell'atto. In concreto, però, la questione non è affatto così nitida, giacché si collega all'altra questione, particolarmente incerta, dell'effettivo grado di autonomia che, interpretando l'art. 30 del Codice, può riconoscersi dell'azione risarcitoria; sul punto, v. infra. (50) In dottrina si rileva che questa formulazione dell'art. 30, comma 3, chiaramente ispirata alla regola di cui all'art. 1227, comma 2, c.c., conferma che il Codice, ancorché escludendo il vincolo di pregiudizialità, ha risolto la questione dei rapporti tra impugnazione dell'atto e domanda risarcitoria secondo un rapporto di prevalenza e non di indifferenza (della prima sulla seconda); una soluzione comunque idonea “a far finalmente cessare i contrasti tra le due giurisdizioni sulla questione della pregiudiziale”, cfr. R. Chieppa, Commento all'art. 30, in Il processo amministrativo, cit., 295 ss. Altri Autori sottolineano invece come la formulazione dell'art. 30 del Codice smentisca, in realtà, la tesi della piena autonomia dell'azione risarcitoria, lasciando dubitare che tale disciplina “risulti in linea con la legge delega che poneva come criterio il rispetto degli orientamenti delle giurisdizioni superiori visto che la Corte di cassazione, proprio con la sentenza del 2008 delle Sezioni unite [n. 30254], si era attestata su una posizione certamente avanzata rispetto a quella accolta nel codice e che, più in generale, essa sia conforme al principio costituzionale dell'effettività della tutela (...)”: M. Clarich, Commento all'art. 29, cit., 270. (51) Nel proprio testo, la Commissione, oltre al termine di 180 giorni per la proposizione dell'azione risarcitoria, aveva anche previsto che, per la determinazione del risarcimento, “il giudice (...) può escludere i danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esercizio dei mezzi di tutela o l'invito all'autotutela”. (52) Al momento dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, lo stato dell'arte in tema di pregiudizialità amministrativa vedeva la giurisprudenza amministrativa contrapposta alle tesi della Corte di Cassazione. In estrema sintesi, l'Adunanza plenaria n. 12/2007 del Consiglio di Stato aveva condizionato l'ammissibilità dell'azione risarcitoria alla previa proposizione dell'azione di annullamento in quanto: a) l'azione risarcitoria non sarebbe stata autonoma ma consequenziale rispetto all'azione di annullamento; b) sarebbe esistita una presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo; c) al giudice amministrativo sarebbe stato precluso l'accertamento incidentale dell'illegittimità dell'atto; d) non ci sarebbe stato danno ingiusto a fronte di un provvedimento divenuto inoppugnabile; e) il giudice non avrebbe potuto neppure disapplicare quel provvedimento. Di contro, le Sezioni unite della Suprema Corte (23 dicembre 2008, n. 30254) avevano cassato tale decisione per violazione delle regole sulla giurisdizione, ritenendo che il giudice amministrativo (dal 2000, arbitro della risarcibilità dell'interesse legittimo) non potesse evitare sistematicamente ed in via di principio di pronunciarsi sul merito di istanze risarcitorie autonome rispetto all'impugnazione del provvedimento lesivo (da ult., ord. 2 luglio 2010, n. 15689). In termini ricostruttivi, R. Garofoli, La pregiudiziale: per un superamento regolato, in Verso il nuovo processo, cit., 79 ss. (53) Cons. St., Ad. plen., n. 3/2011 cit., par. 6. (54) Il fatto che la regola contenuta nell'art. 30, comma 3, non sia innovativa ma ricognitiva del principio generale espresso dall'art. 1227, comma 2, c.c., fa sì che quella regola sia ritenuta applicabile “anche ai giudizi proposti innanzi al giudice amministrativo prima dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo” (Cons. St., Sez. VI, n. 1983/2011 cit.). (55) Per la distinzione tra danno-evento e danni-conseguenze, quanto all'applicazione dell'art. 1227 c.c., P. Rescigno, Studi per Asquini, IV, Padova, 1965, 1646; A. di Majo, Obbligazioni e contratti. L'adempimento dell'obbligazione, Bologna, 1993, 244; F.D. Busnelli, Illecito civile, in Enc. giur., Roma, 1989, 16. In giurisprudenza, Cass. 30 ottobre 1965, in Mass. Foro it., 1965, 2319; più recentemente, tra le altre, Cass. 26 marzo 2010, n. 7344; 24 aprile 2007, n. 9864. Per una diversa ricostruzione, che non limita l'applicazione dell'art. 1227, comma 2, ai soli danni ulteriori, C.M. Bianca, Dell'inadempimento delle obbligazioni. Artt. 1218-1229, in Commentario del Codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca), Bologna-Roma, 1967, 338 ss.; in giurisprudenza, Cass., 13 febbraio 2002, n. 2067 che assegna al comma 1 la disciplina dei rapporti tra colpa ed evento ed al comma 2 la disciplina dei rapporti tra evento e danno (nel quale può rientrare anche il c.d. danno base). (56) “L'esigenza che qui si manifesta è quella di una cooperazione secondo correttezza del titolare dell'interesse leso, al fine di limitare il contenuto della responsabilità del danneggiante”: C.M. Bianca, Dell'inadempimento, cit., 335; C. Rossello, Il danno evitabile. La misura della responsabilità tra diligenza ed efficienza, Padova, 1990, 67 ss.; V. Carbone, Il fatto dannoso nella responsabilità civile, Napoli, 1969, 336 ss. In giurisprudenza, Cass., 30 marzo 2005, n. 6735; 19 gennaio 1992, n. 320; 4 maggio 1990, n. 3279. (57) Cass., 28 agosto 2004, n. 17205; Cass., 18 settembre 2009, n. 20106. La nozione di abuso di diritto è stata elaborata, oltre che in relazione all'inosservanza dei doveri di lealtà e correttezza di cui all'art. 1175, anche con riguardo a tematiche diverse, come ad esempio il diritto di recesso (Cass., 16 ottobre 2003, n. 15482) e l'amministrazione del bene comune (Cass., 4 giugno 2008, n. 14759). Sul concetto di abuso del diritto, per gli aspetti teorico-generali, F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1946, 63, che lo qualifica come concetto “finitimo a quello di eccesso di potere” e lo intende come “esercizio dell'autonomia privata, in cui lo svolgimento dell'interesse in conflitto non sia temperato dal senso della solidarietà sociale”. Nella letteratura più recente, tra gli altri, F. Borghi, Osservazioni sulla figura dell'abuso di diritto, in Dir. e giur., 2004, 525; E. Bergamo, L'abuso del diritto ed il diritto di recesso, in Giur. it., 2004, 2065. (58) Fra le altre, cfr. Cass., 5 luglio 2007, n. 15231; 10 ottobre 1997, n. 9874. (59) C.M. Bianca, Dell'inadempimento, cit., 359. La giurisprudenza sottolinea che l'applicabilità dell'art. 1227, comma 2, “presuppone che il comportamento del danneggiato sia stato unica causa efficiente del predetto evento e si riferisce alle ulteriori conseguenze dannose che, a causa del mancato uso della ordinaria diligenza, abbiano aggravato il danno diretto”: Cass. 15 marzo 1989, n. 1306. (60) C.M. Bianca, Dell'inadempimento, cit.; Cass., 13 dicembre 1980, n. 6430. Sul diverso grado di diligenza esigibile dal creditore rispetto a quello richiesto al debitore nell'esecuzione dell'obbligazione, A. Venchiarutti, Art. 1227, in Commentario al codice civile, a cura di P. Cendon, Milano, 2009, 1187. (61) Fra le altre, cfr. Cass., 21 agosto 2004, n. 16530 (“il dovere di correttezza imposto al danneggiato dall'art. 1227 c.c. presuppone un'attività idonea, con certezza, a evitare o ridurre il danno e non implica l'obbligo di iniziare un'azione giudiziaria, non essendo il creditore tenuto ad un'attività gravosa e comportante rischi e spese”); 29 luglio 1999, n. 8231; 21 aprile 1993, n. 4672; Cons. Stato, Sez. V, 19 maggio 2009, n. 3066. In senso contrario, Corte App., Milano, 25 novembre 2009, in Riv. crit. dir. lav., 2009, 1039. (62) Cfr., ad es., Corte cost., n. 308/1999, secondo la quale “l'onere di diligenza che questa norma [l'art. 1227 c.c.] fa gravare sul creditore non si estende alla sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore, tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione”. (63) Nella decisione della Sez. VI, n. 1983/2011 cit., il Consiglio di Stato ha precisato che “la pretermissione, da parte del danneggiato da un atto dell'amministrazione, della previa domanda di giustizia contro l'atto stesso non costituisce sempre e comunque una violazione del canone di ordinaria diligenza ai sensi dell'art. 1227, cpv., cod. civ.; infatti, una tale pretermissione può impedire, o limitare, il sorgere del diritto al risarcimento se, in concreto, emerge che: a) la mancata azione giudiziale è caratterizzata da colpevolezza (secondo una concreta e ordinaria esigibilità); b) fra la pretermissione e l'insorgenza del danno sussiste un nesso di conseguenzialità diretta, perché il secondo non si sarebbe verificato se l'interessato avesse debitamente svolto l'azione di annullamento “. Cfr. anche Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 21 marzo 2011, n. 759. (64) Non a caso l'art. 124 del Codice, a differenza dell'art. 30, espressamente richiama l'applicazione dell'art. 1227 c.c. in danno del privato che non domanda di conseguire l'aggiudicazione o di subentrare nel contratto. L'obiettivo dell'art. 124 è, infatti, l'irrisarcibilità (ex art. 1227 c.c.) di quei danni che esclusivamente il danneggiante poteva evitare attraverso una (diversa) scelta personale ed infungibile. (65) Occorre in altri termini “che il danneggiante provi la sussistenza dello specifico dovere del danneggiato di evitare il danno [ed occorre anche la prova] della certa o probabile utile incidenza che l'intervento avrebbe avuto nel senso di limitare la produzione del danno”; per tutte, Cass, 2 marzo 2007, n. 4954; 27 giugno 2007, n. 14853; 16 ottobre 2007, n. 21619; 28 luglio 2004, n. 14235; 20 novembre 2001, n. 14592. In dottrina, C.M. Bianca, Dell'inadempimento, cit., 374. (66) La Plenaria n. 3/2011 cit. ha ritenuto che “sulla base di principi già desumibili dal quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall'art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, il Giudice amministrativo sia chiamato a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed acquisendo anche d'ufficio gli elementi di prova all'uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento e dell'utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in parte il danno”. Cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, n. 1983/2011 cit. (67) Nella decisione 2 dicembre 2011, n. 636, la III Sez. del Consiglio di Stato ha diminuito l'ammontare del risarcimento liquidato dal Tar, ritenendo che il danneggiato “avrebbe dovuto azionare i rimedi giurisdizionali previsti dall'ordinamento al fine di ottenere, nelle more dell'esaurimento del giudizio di appello, l'esecuzione delle favorevoli statuizioni contenute prima nell'ordinanza interlocutoria cautelare e poi nella sentenza del Tar (...)”. Anche quando, come nella fattispecie, il giudice distingue tra danno-evento e danno-conseguenza, la sua valutazione resta però concentrata sulle omissioni del danneggiato senza approfondimento anche delle regioni dell'inerzia dell'amministrazione danneggiante. (68) A questo riguardo non bisogna sovrapporre la stabilità irreversibile tipica del giudicato alla condizione di semi-stabilità tipica dell'atto amministrativo inoppugnabile. Il punto era già stato sottolineato con grande chiarezza dalla dottrina meno recente; cfr. M. Bracci, L'atto amministrativo inoppugnabile e i limiti dell'esame del giudice civile, in Studi in onore di Federico Cammeo, Padova, 1933, 151 ss. (69) Questa ellitticità della disciplina del Codice sull'azione di nullità si riscontra anche nella mancata coordinazione tra azione di nullità ed azione risarcitoria; nella mancata previsione della nullità dell'aggiudicazione come una delle ipotesi di cui agli artt. 120 ss.; nella mancata previsione della dichiarazione di nullità, tra le sentenze di merito elencate all'art. 34. (70) Su queste tematiche, cfr. anche E. Follieri, L'azione di nullità dell'atto amministrativo, in www.giustamm.it, 2012; A. Carbone, Dubbi e incertezze sull'art. 31 del Codice del processo amministrativo in, Foro amm.-Tar, 2011, 1111 ss. (71) Cfr. l'art. 114, comma 1, cod. proc. amm. (72) M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. dir. proc., 1963, 536 ss. (73) Cfr. ad es. l'art. 2379-ter c.c. (74) Sembrano plausibili, d'altra parte, le perplessità manifestate di fronte alla previsione di un termine di decadenza per l'impugnazione di atti amministrativi la cui nullità, ai sensi dell'art. 21-septies l. n. 241 del 1990 deriva da patologie particolarmente gravi (segnatamente, il difetto assoluto di attribuzione); cfr. V. Lopilato, Commento all'art. 31, in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, cit., 321 ss. (75) L'assoluta inefficacia ed inesecutività dell'atto nullo sono un mito fuorviante dal quale la dottrina più attenta mette in guardia: “il vero è che tutte le pronunce dei giudici, rese sui contratti invalidi, non possono esercitare la loro concreta funzione di tutela che nel momento in cui vengono rese. Per il periodo anteriore, tanto il negozio nullo come quello che si definisce annullabile produrranno tutti gli effetti di cui sono capaci. Potranno ad es. legittimare esecuzioni spontanee o coatte, esecuzioni che dovranno essere ex post eliminate quando il negozio verrà dichiarato invalido”, A. diMajo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 378. Inoltre, il fatto che la fase dell'esecuzione sia in grado di condizionare fortemente il profilo effettuale degli atti nulli è una circostanza conosciuta e sottolineata in modo altrettanto autorevole: “in tema di nullità ciò che è determinante è l'esecuzione o no del contratto. Se vi è stata esecuzione non è vero che l'azione di nullità sia imprescrittibile, giacché le azioni di ripetizione possono essere fatte valere entro il termine decennale di prescrizione; solo se non vi è stata esecuzione non sussiste prescrizione alcuna a far valere l'inesistenza delle situazioni sorte dal contratto nullo”, A. ProtoPisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2002, 186. Su questi aspetti della rilevanza e dell'efficacia indiretta dell'atto amministrativo nullo, sia consentito rinviare anche a F. Luciani, Contributo allo studio del provvedimento amministrativo nullo, Torino, 2010, 13 ss.; 137 ss. (76) Così V. Lopilato, Commento all'art. 31, cit., 322. (77) Sulla nullità degli atti di un concorso per professore universitario a seguito dell'intervento del giudice penale, cfr. Tar Campania, Sez. II, 30 settembre 2005, n. 15772. (78) In una recente decisione il Consiglio di Stato esclude, tuttavia, che la nullità possa essere “rilevata ex officio dalla pubblica amministrazione” posto che tale prerogativa sarebbe demandata dal Codice del processo amministrativo “al solo giudice” (Sez. IV, 28 ottobre 2011, n. 5799). (79) Sul tema (e sul successivo), M. Ramajoli, Legittimazione ad agire e rilevabilità d'ufficio della nullità, in questa Rivista, 2007, 999 ss. (80) Cfr. il d.lgs. n. 198 del 2010, sulla c.d. class action nel settore dei servizi pubblici. (81) Cfr. Tar Lazio, Sez. I, 5 gennaio 2006, n. 100. In questa fattispecie, alcuni cittadini residenti in un comune (ed utenti del servizio di igiene urbana) avevano agito per la nullità di una delibera con cui si disponeva la privatizzazione dell'azienda municipale, precedente titolare del servizio. Il giudice ha qualificato i cittadini ricorrenti come portatori di “un interesse di mero fatto alla legittimità dell'azione amministrativa” ed ha conseguentemente dichiarato il difetto di legittimazione dei cittadini poiché “l'azione di nullità non esime l'attore dal dimostrare il proprio concreto interesse all'agire, per cui l'azione stessa non è proponibile in mancanza della prova, da parte dell'attore, della necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica” (la citazione corrisponde alla massima della Corte di Cassazione, 15 aprile 2002, n. 5420). (82) Più recentemente, cfr. Cass., 28 maggio 2007, n. 12398; 28 novembre 2008, n. 28424; 26 giugno 2009, n. 15093. (83) Per tutti Cass., 22 marzo 2005 n. 6170, in Corr. giur., 2005, 957 ss., con nota critica di V. Mariconda; in dottrina, M. Mantovani, Le nullità ed il contratto nullo, IV, Rimedi, Trattato del Contratto, diretto da V. Roppo, Milano, 2006, 92. (84) Secondo Cass., 16 maggio 2006, n. 11356, in Corr. giur., 2006, 1418 ss. con nota di C. Consolo, la circostanza che il giudicato possa estendersi anche ai punti logici pregiudiziali (oltre che alle questioni pregiudiziali in senso tecnico, ex art. 34 c.p.c.) “può condurre a risultati eccessivi”. (85) Tra gli altri, cfr. R. Sacco, Trattato di diritto civile, a cura di Id., Torino, 1993, 2, 531 ss.; F. Corsini, Rilevabilità d'ufficio della nullità contrattuale, principio della domanda e poteri del giudice, in Riv. dir. civ., 2004, 683 ss.; A. Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, 36 ss. (86) Cfr. C. Consolo, Poteri processuali e contratto invalido, in Eur. dir. priv., 2010, 959. (87) Cfr. l'art. 101, co. 2, c.p.c.; nonché Cass., Sez. un., n. 20935/2009. Per il processo amministrativo, v. adesso l'art. 73, co. 3, cod. proc. amm. (88) Non che la nullità sia in tale ipotesi irrilevante: essa può essere oggetto di eccezioni tese al rigetto della pretesa avversaria (previo coinvolgimento dell'attore chiamato a controdedurre): in tal caso l'attore potrà proporre, lui stesso, una questione preliminare di nullità ex art. 34 c.p.c. e (sperare di) ottenere una dichiarazione di nullità con efficacia esterna al processo; in caso negativo, comunque otterrebbe il rigetto nel merito della sua domanda di annullamento. (89) Su questi aspetti, per tutti, C. Consolo, Poteri processuali, cit., 962 ss. (90) Non che la rilevazione incidentale della nullità (pronunciata in primo grado) sia inutiler data, posto che in appello, le parti potrebbero trasformarla in proprie eccezioni difensive; tuttavia, in mancanza di appello o di riforma della sentenza (come nel caso in esame), il giudicato si forma comunque su una statuizione di annullamento. (91) La decisione ha confermato la sentenza del TAR Lazio, Sez. II-ter, 20 luglio 2007, n. 7119. (92) Non v'è dubbio che il giudicato si forma sulla dichiarata nullità della cessione azionaria dal Comune alla società A (e da questa alla società B), se è vero che in sede di ottemperanza il Comune ha chiesto — e ottenuto — il recupero delle azioni, secondo la sentenza, mai uscite dal suo patrimonio; sul giudizio di ottemperanza, cfr. TAR Lazio, Sez. II, 1 giugno 2011, n. 4982. GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA E PLURALITÀ DELLE AZIONI (DALLA COSTITUZIONE AL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO) (*) Dir. proc. amm., fasc.2, 2012, pag. 436 VINCENZO CERULLI IRELLI Classificazioni: GIURISDIZIONE CIVILE Giurisdizione ordinaria e amministrativa - - in genere Sommario: 1. La giurisdizione amministrativa nella Costituzione. — 2. Il modello di riparto e l'ambito della giurisdizione ordinaria nelle controversie di diritto pubblico. — 3. Su alcune problematiche della giurisdizione amministrativa a fronte dei principi costituzionali. La giurisdizione “esclusiva”. — 4. L'azione risarcitoria. — 5. La “specialità” del giudice e del modello organizzativo. — 6. Il nuovo assetto della tutela giurisdizionale delle situazioni protette nei rapporti di diritto pubblico. — 7. Giusto processo e pluralità delle azioni. — 8. Azioni intese a rimuovere o a ottenere un atto amministrativo anche mediante condanna. — 9. Azione intesa a rimuovere l'inerzia dell'Amministrazione (e ancora sulla c.d. azione di adempimento). Su altre forme della tutela di condanna. — 10. Ancora sull'azione risarcitoria. — 11. La tutela del giudice amministrativo avverso i “comportamenti”. — 12. La tutela esecutiva. — 13. Azioni tipiche e atipiche ed effettività della tutela. “Il momento del “giudizio” è veramente il momento culminante dell'ordinamento, almeno in un ordinamento di uomini uguali, il momento in cui l'ordinamento celebra il rito della sua giuridicità” R. Orestano, Azione, voce Enc. Dir., IV, 1959 1.1. La nostra Costituzione, unica tra le principali Costituzioni europee, contiene molteplici norme sulla giurisdizione amministrativa. La Costituzione tedesca, all'art. 19, 4º co., stabilisce, com'è noto, il principio generale che chiunque venga leso “nei suoi diritti dal potere pubblico” possa “adire l'autorità giudiziaria”, senza specificare di quale autorità giurisdizionale si tratti. E la norma aggiunge, come una sorta di clausola di chiusura, che laddove “non vi sia una diversa competenza” (cioè la competenza di un'altra autorità giudiziaria, come appunto quella amministrativa) “è competente l'autorità giudiziaria ordinaria”. E al successivo art. 95 stabilisce il principio dell'unità delle giurisdizioni. Analogamente, la Costituzione spagnola, all'art. 106, dispone che “i tribunali controllano il potere regolamentare e la legalità dell'azione amministrativa, come la sottoposizione di essa ai fini che la giustificano”. Anche qui il riferimento è generico e non specifico a un tipo di giurisdizione. E agli artt. 117 ss., stabilisce il principio dell'unità della giurisdizione “come principio base dell'organizzazione e del funzionamento dei tribunali”. La Costituzione spagnola, chiaramente echeggiando quella italiana, afferma il principio che ogni persona abbia “il diritto di ottenere protezione effettiva dei tribunali per esercitare i suoi diritti e interessi legittimi, senza che in alcun caso questa protezione gli possa essere rifiutata” (art. 24): principio generale sulla tutela giurisdizionale, del tutto analogo al nostro, dove il riferimento agli interessi legittimi, chiaramente indica la protezione anche nei confronti dell'azione amministrativa. La Costituzione francese tace del tutto sul punto, e non contiene neppure questi principi generali. Per cui, il Conseil constitutionnel, nel Paese d'origine del contenzioso amministrativo, ha dovuto espressamente affermare come rientrante tra i « principes fondamentaux réconnus par les lois de la République » (sulla base del Preambolo), quello secondo il quale appartiene alla giurisdizione amministrativa « l'annullation ou la réformation des décisiones prises, dans l'exercise des prérogatives de puissance publique, par les autorités administratives » (Cons. const., 23 gennaio 1987, successivamente confermata) (1). L'art. 24 della nostra Costituzione afferma il principio generale della tutela (giurisdizionale) sia dei diritti che degli interessi legittimi (dove, per interessi legittimi indiscutibilmente si intendono le situazioni soggettive protette nei rapporti con le pubbliche amministrazioni). L'art. 100, 1º co., individua il Consiglio di Stato come organo “di consulenza giuridico-amministrativa” nonché “di tutela della giustizia nell'amministrazione” (dove per “tutela della giustizia” si intende sia la tutela di carattere giustiziale, ad esempio quella esercitata in sede consultiva nei ricorsi al Presidente della Repubblica, sia quella propriamente giurisdizionale). E l'art. 117, 2º co., nel testo riformato con legge cost. n. 3/01, comprende la “giustizia amministrativa” tra le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato (l'espressione è da intendere allo stesso modo della precedente). L'art. 125 prevede l'istituzione presso ciascuna Regione di “organi di giustizia amministrativa di primo grado” (gli “altri organi di giustizia amministrativa” che, insieme al Consiglio di Stato, esercitano, secondo l'art. 103, la giurisdizione amministrativa) (2). L'art. 103, 1º co., l'art. 113, 1º e 2º co., e l'art. 111, ult. co., individuano l'ambito della giurisdizione amministrativa come quella intesa alla “tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi” (così, l'art. 103, 1º co.). Tutela che non può essere “esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti” (così, l'art. 113, 2º co.). Essa, come quella che ha ad oggetto segnatamente “gli atti della pubblica amministrazione”, è sempre ammessa, tanto se abbia ad oggetto diritti, quanto interessi legittimi, con la distinzione, tuttavia, che nel primo caso essa ha sede presso gli “organi di giurisdizione ordinaria”, nel secondo caso presso gli organi di giurisdizione “amministrativa” (così l'art. 113, 1º co.). Mentre l'art. 111, ult. co., stabilisce un limite al controllo in Cassazione delle decisioni assunte in sede di giurisdizione amministrativa dal Consiglio di Stato (come organo di giustizia amministrativa di secondo grado: cfr. art. 125), come delle decisioni della Corte dei conti, nel senso che il ricorso avverso tali decisioni è ammesso “per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”. L'art. 113, ult. co., consente alla legge di determinare “quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti stabiliti dalla legge stessa”. Non solo perciò agli organi della giurisdizione amministrativa è riservato tale potere, secondo gli antichi principi derivanti dalle leggi rivoluzionarie francesi e da noi ribaditi dalle due leggi fondamentali del 20 marzo 1865, n. 2248, all. e), e del 31 marzo 1889, n. 5992. Ma è il legislatore a stabilire a quali organi di giurisdizione esso spetta: e perciò, in via di principio anche agli organi della giurisdizione ordinaria. D'altra parte, l'art. 111 (modificato dalla legge cost. n. 2/99) stabilisce ai primi due commi (di applicazione generale a tutte le giurisdizioni) i principi del giusto processo: contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, terzietà e imparzialità del giudice, ragionevole durata del processo (3). 1.2. Si tratta, in larga misura, di principi consolidati nel sistema positivo (a parte la modifica dell'art. 111) quale si era formato attraverso una tormentata evoluzione nei decenni anteriori alla Costituzione (4). Da ciò l'affermazione corrente quanto infondata, che le norme costituzionali sulla giustizia amministrativa, rappresentino una pedissequa recezione del sistema anteriore, come quello nel quale le controversie con le pubbliche amministrazioni sono affidate alla cognizione di due ordini giurisdizionali, a seconda che esse coinvolgano questioni di diritti o di interessi legittimi, sulla base dell'assetto normativo delineato dalle due leggi fondamentali sopra citate. Assetto successivamente definito da una giurisprudenza della Corte di cassazione che sin dall'inizio (a partire da Cass., Sez. un., 24 giugno 1891, n. 460, caso Laurens) stabilì la rigidità del sistema del riparto come quello fondato sulla distinzione tra controversie concernenti diritti e controversie concernenti interessi, le une e le altre fornite di un sistema proprio e differenziato di tutela giurisdizionale esercitata dall'uno o dall'altro ordine giurisdizionale (5). Tale assetto si è successivamente modificato, com'è noto, in virtù della svolta giurisprudenziale, iniziata a partire da decisioni degli anni '20, ma consolidatasi solo negli anni '40 (Cass., Sez. un., 4 luglio 1949, n. 1657), secondo la quale a fronte dell'esercizio di poteri amministrativi di carattere discrezionale o comunque autoritativo, le situazioni soggettive di diritto vengono tutelate nella forma propria degli interessi legittimi, cioè davanti al giudice amministrativo (c.d. dottrina della degradazione); perciò riducendo l'ambito della giurisdizione ordinaria nelle controversie amministrative a casi marginali (6); assetto toccato nella sua sostanza dal legislatore soltanto con la legge del 1923 (r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840) istitutiva della giurisdizione esclusiva, di una giurisdizione cioè affidata al giudice amministrativo in determinate materie (segnatamente: pubblico impiego) con oggetto sia controversie concernenti diritti che interessi legittimi. E invero, il testo costituzionale conferma la duplicità delle giurisdizioni, il criterio di riparto fondato sulla distinzione tra situazioni soggettive, la possibilità che in determinate materie il giudice amministrativo conosca anche delle controversie concernenti diritti; e si spinge sino a stabilire il limite del controllo in Cassazione delle decisioni del Consiglio di Stato ai motivi attinenti alla giurisdizione, secondo quanto stabilito dall'antica legge del 31 marzo 1877, n. 3761. Ma il testo costituzionale contempla principi innovativi dell'antico sistema; segnatamente su due punti. Anzitutto, in quello che possiamo denominare il principio della pienezza della tutela giurisdizionale nei confronti delle pubbliche amministrazioni, principio che emerge dall'art. 24, laddove la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi è equiparata a quella dei diritti, come tutela piena, capace di utilizzare tutti gli strumenti previsti dall'ordinamento; e nell'art. 113, 2º co., laddove si stabilisce che questa tutela non possa essere esclusa a fronte di determinati atti o limitata a particolari mezzi di impugnazione, secondo quanto, viceversa, veniva praticato nell'anteriore legislazione. A fronte dell'esercizio del potere pubblico, tutte le situazioni protette (rappresentate dal dittico “diritti e interessi legittimi” dell'art. 24), a prescindere dalla loro intima natura, sono allo stesso modo tutelate. Principio questo, dal quale derivano importanti conseguenze anche sul piano sostanziale, oltre che in ordine alla tutela giurisdizionale; verso un ordinamento nel quale l'esercizio del potere pubblico avviene nell'ambito di rapporti giuridici nei quali i soggetti si scontrano in posizione sostanzialmente paritaria, essendo ciascuno (pubblico o privato) portatore di situazioni protette, in differente modo, dalla legge, e operanti nello spazio a ciascuno riservato dalla legge (7). Il secondo punto di innovazione è dato dall'affermazione del principio di cui all'art. 113, ult. co., che il legislatore possa determinare quali organi di giurisdizione abbiano il potere di annullare gli atti della pubblica amministrazione, superando in ciò l'antico divieto di cui all'art. 4 della legge del 1865. 1.3. Su questi principi, nell'ambito dell'Assemblea Costituente si era sviluppato un ampio dibattito; le cui soluzioni, alle quali alla fine si pervenne, non erano affatto “scontate”, anzi in alcuni aspetti fortemente contestate e frutto perciò di un confronto dialettico assai vivace (8). Punto centrale, fu quello dell'unità o pluralità delle giurisdizioni: se sopprimere le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e affidare perciò la cognizione delle controversie con le pubbliche amministrazioni senz'altro alla giurisdizione ordinaria (semmai prevedendo Sezioni specializzate nell'ambito di essa), secondo la nota proposta dell'on. Calamandrei. Egli riteneva che le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato “avessero esaurito storicamente il loro compito”. Le ragioni che avevano portato nel 1889 all'istituzione della IV Sezione per colmare il buco di tutela apertosi nell'ordinamento dopo la legge del 1865 potevano considerarsi esaurite al momento in cui le controversie con le pubbliche amministrazioni, di ogni tipo, avevano acquistato un carattere prettamente giuridico e gli organi chiamati a conoscerle, un carattere prettamente giurisdizionale. Il testo che Calamandrei propose, avrebbe conferito all'autorità giudiziaria una tutela veramente piena nell'ambito di ogni controversia con le pubbliche amministrazioni: il cittadino avrebbe potuto “ricorrere alla autorità giudiziaria ordinaria non soltanto per chiedere la reintegrazione del proprio diritto soggettivo violato da un atto della pubblica amministrazione, ma anche per chiedere l'annullamento o la modificazione per i motivi di legittimità o di merito stabiliti dalla legge, dell'atto amministrativo lesivo del suo interesse”. A questa posizione si opposero gran parte dei membri della Commissione e successivamente essa fu rigettata dall'Assemblea. Ma il principio della pienezza della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, in essa così fortemente echeggiato, resta acquisito nel testo costituzionale. La maggior parte dei Costituenti ribadirono con forza le ragioni per la permanenza della duplicità delle giurisdizioni; del Consiglio di Stato e della sua giurisdizione, chiamata a “valutare la discrezionalità della pubblica amministrazione che nello svolgimento della sua attività libera, ma tuttavia discrezionale (libertà, cioè, e non arbitrio), può ledere l'intereresse di un cittadino”; come quella costituita “a difesa dello Stato e dei cittadini anche contro lo Stato”, per cui mezzo “il cittadino diventa uno strumento di quella che con frase felicissima è stata detta la giustizia dell'amministrazione” (on. Bozzi). E la stessa commistione nel Consiglio di Stato di funzioni consultive e di funzioni giurisdizionali fu considerata positivamente rappresentando queste due funzioni “due manifestazioni di un'unica funzione, che non è suscettibile di divisione”, come quella intesa al controllo complessivo della pubblica amministrazione. Il principio della pienezza della tutela emerge fortemente nelle discussioni che portarono alla formulazione dell'art. 113, 2º co., nel testo attuale (nel progetto, commassato nell'art. 103, 1º co.): il principio cioè del divieto della limitazione della tutela verso gli atti della pubblica amministrazione a particolari categorie di atti (qui si fermava il testo del progetto) o a particolari mezzi di impugnazione (aggiunta questa in Aula in esito ad un emendamento dell'on. Mortati). Sul punto l'on. Ruini ricordava “l'abitudine di privare del ricorso giurisdizionale molte categorie di atti dell'autorità amministrativa lesive di interessi e di diritti dei privati”, durante il Fascismo. Da qui l'esigenza di non “togliere ai cittadini per segmenti di materie e di atti la garanzia del ricorso giurisdizionale”. Il progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione conteneva norme in parte diverse da quelle tradotte nel testo. E così, l'art. 95, 2º co., del progetto (corrispondente, in parte, all'art. 103, 1º co.), prevedeva che al Consiglio di Stato spettasse “la giurisdizione nelle materie e nei limiti stabiliti dalla legge”. E l'art. 103 del progetto (corrispondente, in parte, all'art. 113, 1º e 2º co.) prevedeva: “La tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi verso gli atti della pubblica amministrazione è disposta in via generale dalla legge e non può essere soppressa o limitata per determinate categorie di atti”. E l'art. 102 del progetto (corrispondente, in parte, all'art. 111, ult. co.) prevedeva “il ricorso per Cassazione secondo le norme di legge” contro ogni sentenza o decisione pronunciata dagli organi giurisdizionali sia ordinari che speciali. Queste norme del progetto recepivano perciò l'orientamento, maggioritario in Commissione, di mantenere la duplicità delle giurisdizioni e di conservare in capo al Consiglio di Stato sia le funzioni giurisdizionali che quelle consultive. Ma in esse non compariva il criterio di riparto fondato sulla distinzione tra diritti e interessi legittimi; e, innovando rispetto al sistema tradizionale, si rinviava alla legge per la definizione dell'ambito e dei contenuti della giurisdizione amministrativa, e in conseguenza per la definizione del criterio di riparto. La distinzione tra diritti e interessi legittimi come criterio di riparto delle giurisdizioni, compare nel testo finale approvato dall'Aula negli artt. 103, 1º co. e 113, 1º co., come anche la menzione delle “particolari materie” nelle quali il giudice amministrativo possa conoscere anche di diritti soggettivi. L'art. 103, 1º co., deriva da un emendamento (all'art. 95 del progetto) presentato in Assemblea dagli on.li Conti ed altri: “Il Consiglio di Stato e gli organi di giustizia amministrativa, hanno giurisdizione per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, degli interessi legittimi, ed anche per la tutela di diritti soggettivi, nelle particolari materie determinate dalla legge”. Mentre il testo finale dell'art. 113, 1º co., viene formulato dal Comitato di redazione cui era stato affidato il compito della revisione e del coordinamento di una serie di norme via via approvate dall'Assemblea. Proprio la nuova dizione della norma, formulata dal Comitato, è quella che stabilisce in maniera vincolante il criterio di riparto come quello fondato sulla distinzione tra controversie concernenti diritti e controversie concernenti interessi legittimi, che non compariva né nel testo approvato dalla Commissione né in quello approvato dall'Assemblea (incredibile ma è così!). E nessuna spiegazione, su questo punto, fu fornita all'Assemblea né richiesta (!). La questione del potere di annullamento degli atti amministrativi, poi tradotta nell'art. 103, ult. co., viene anch'essa affrontata nella parte finale dei lavori dell'Aula; anche come frutto di una mediazione intesa ad accogliere almeno in parte la posizione dell'on. Calamandrei. Secondo l'on. Ruini questa posizione era da respingere: l'on. Calamandrei “vorrebbe che, quando un giudice ritiene che un atto amministrativo violi un diritto privato, può annullare e anche modificare l'atto amministrativo” (“un semplice pretore potrebbe nonché annullare, rifare esso, decreti e provvedimenti di governo di estrema importanza. Non è troppo?”). Ma il Comitato, spiegava ancora Ruini, ha cercato di trovare la soluzione del problema prospettato da Calamandrei, “dando modo di giungere, anche in tema di violazione di diritti, a quell'annullamento di atti amministrativi, che è consentito, con determinate cautele, per violazione di interessi legittimi”. E così nella riformulazione del testo dell'art. 113, viene aggiunta la dizione, con riferimento agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa, che essi “possono annullare gli atti dell'amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”. Quanto al ricorso in Cassazione, la limitazione ai “soli motivi inerenti alla giurisdizione” fu introdotta in Aula in base alla considerazione, illustrata dall'on. Leone, che fosse necessario, una volta mantenute le giurisdizioni speciali deputate al controllo della pubblica amministrazione (che “incidono con la loro attività nell'atto amministrativo”), escludere il motivo di violazione di legge “che si radica sull'essenza, sulle finalità ... che ispirano l'atto amministrativo”. Una sorta di riserva di giurisdizione (peraltro con qualche contraddizione rispetto all'art. 113, ult. co., introdotto contestualmente). 1.4. Questo è il quadro estremamente sintetico dei lavori dell'Assemblea Costituente sulle norme in materia di giustizia amministrativa. Da essi emerge una forte consapevolezza circa le scelte di politica costituzionale sottese ad alcune di queste norme (e segnatamente, sul principio della pienezza della tutela giurisdizionale tanto dei diritti quanto degli interessi legittimi, entrambe situazioni giuridicamente protette nei confronti della pubblica amministrazione: art. 24, art. 113, 2º co.; sulla permanenza in vita della Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, e della giurisdizione amministrativa in genere, come eccezione nell'ambito di un sistema improntato al principio dell'unità della giurisdizione, in considerazione della specificità delle controversie con le pubbliche amministrazioni che giustifica la specialità del giudice: art. 100, 1º co., art. 102, 1º co., art. 103, 1º co.; sulla necessità di spezzare l'antico divieto di annullamento degli atti amministrativi da parte dei giudici ordinari, lasciando al legislatore la scelta circa il giudice cui conferire detto potere: art. 113, ult. co.; sulla limitazione ai motivi inerenti alla giurisdizione della ricorribilità in Cassazione delle decisioni del Consiglio di Stato, oltre che di quelle della Corte dei Conti: art. 111, ult. co.). Ma appare una certa trascuratezza circa l'impatto che altre norme avrebbero avuto sul sistema positivo e segnatamente, circa quelle di cui all'art. 103, 1º co., e all'art. 113, 1º co., laddove cristallizzano l'antico sistema di riparto fondato sulla distinzione tra diritti e interessi legittimi, anziché rinviare alla legge, come proposto dalla Commissione, l'individuazione delle controversie da sottoporre all'una o all'altra giurisdizione; e la stessa previsione inserita all'ultimo momento, circa le “particolari materie” di giurisdizione esclusiva. Nel testo costituzionale perciò c'è molto, e anche di innovativo nella nostra materia. E in esso scompaiono alcuni vecchi idola residuati dalla esperienza precedente (alcuni tuttavia hanno continuato a vivere nella esperienza applicativa, sino ad oggi). Non c'è, lo si è appena visto, il divieto per il giudice ordinario di annullare atti amministrativi, legato alla antica idea della divisione dei poteri (come se l'amministrazione come azione concreta di governo non fosse in toto soggetta alla giurisdizione!). E non si rinviene in Costituzione alcun riferimento al curioso principio consolidatosi in giurisprudenza della c.d. degradazione dei diritti soggettivi a fronte del potere amministrativo. Questa dottrina, infondata sul piano teorico (ché come ci insegnano i civilisti, la vicenda, ad esempio, del diritto di proprietà di fronte al potere espropriativo è del tutto ragguagliata alla vicenda dello stesso diritto di proprietà di fronte alla azione esecutiva del creditore, cedevole in entrambi i casi) (9), trova una smentita nell'affermazione ripetuta dal testo costituzionale, che il diritto soggettivo è tutelato davanti al giudice ordinario a fronte del potere amministrativo, salvi i casi eccezionali in cui i diritti soggettivi sono tutelati davanti al giudice amministrativo, nelle materie di giurisdizione esclusiva previste dalla legge. Quest'ultima prescrizione invero non avrebbe senso, lo stabilire cioè che il giudice amministrativo tuteli in questi casi oltre che interessi legittimi anche diritti soggettivi, laddove la Costituzione avesse voluto affermare che i diritti soggettivi di fronte all'esercizio del potere amministrativo si configurano sempre come interessi legittimi. Tuttavia, questa dottrina, nata per ragioni eminentemente pratiche, ha continuato a vivere nella prassi giurisprudenziale, com'è noto, e anzi si è sviluppata e consolidata nell'applicazione, sino a divenire, come si mostra subito appresso, la matrice stessa della nozione di controversie di diritto pubblico, oggi dominante. 2.1. Il modello di giustizia amministrativa fissato dalla Costituzione si è venuto consolidando, nei decenni successivi, senza rilevanti scosse, fino alla svolta degli ultimi anni '90. Ovviamente si fa riferimento all'assetto del sistema quale delineato dalle norme costituzionali, e non anche alla disciplina processuale e all'organizzazione del settore, che, soprattutto a seguito dell'entrata in vigore della l. n. 1034 del 1971 istitutiva dei TAR, ha avuto una evoluzione importantissima. Talché le dimensioni della giustizia amministrativa ed il suo impatto nella vita di relazione dei cittadini italiani nei confronti dello Stato, dopo cinquant'anni di esperienza costituzionale non è in alcun modo confrontabile con quella di allora (10). Il sistema di riparto tra le due giurisdizioni, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, si è consolidato secondo gli orientamenti precedentemente emersi. Grosso modo, possiamo affermare che il contenzioso con le pubbliche amministrazioni relativo a controversie aventi ad oggetto episodi di esercizio del potere amministrativo (controversie di diritto pubblico) è stato attratto nell'ambito della giurisdizione amministrativa attraverso il consolidarsi della dottrina della degradazione pur estranea, in quanto tale, appunto, ai principi costituzionali. E immediatamente dopo l'entrata in vigore della Costituzione, si consolida definitivamente, con la citata sentenza n. 1657 del 1949 delle Sezioni unite, la dottrina della carenza di potere (come vizio che produce la nullità dei relativi atti) che viene a stabilire l'effettivo criterio di riparto. Laddove si litiga circa le modalità di esercizio del potere, anche se lesivo di diritti soggettivi, è competente il giudice amministrativo. Laddove si litiga circa l'esistenza del potere la tutela dei diritti soggettivi resta affidata al giudice ordinario (11). L'applicazione di questo criterio, riduce l'ambito di cognizione delle controversie con le pubbliche amministrazioni da parte del giudice ordinario. Restano invero affidate a questa giurisdizione alcune categorie di controversie che possono essere ricondotte grosso modo a quattro gruppi, nell'ambito dei quali tuttavia la giurisprudenza resta oscillante: laddove si tratta di atti lesivi di diritti soggettivi, di cui si predica la nullità (art. 21-septies l. n. 241/90) e segnatamente di atti emanati in carenza di potere (o difetto assoluto di attribuzione, secondo la norma ult. cit.); laddove si tratta di atti emanati nell'esercizio di poteri amministrativi del tutto vincolati, a fronte dei quali resta ferma la tutela del diritto soggettivo; di controversie circa l'attività materiale di pubbliche amministrazioni e soggetti equiparati, che si manifesta nell'abusivo spossessamento (o occupazione) di beni privati, nei casi in cui il fatto non trova il suo presupposto di legittimazione in un potere in concreto attivabile; di controversie circa la lesione di diritti ritenuti fondamentali e perciò non disponibili (“degradabili”) nell'esercizio di poteri amministrativi (12). Restano ovviamente affidate alla giurisdizione ordinaria le controversie con le pubbliche amministrazioni a carattere privatistico; circa le quali, invero, almeno in principio, un problema di riparto della giurisdizione non si è mai posto. Nell'esperienza più recente, la giurisdizione ordinaria nelle controversie con le pubbliche amministrazioni si è tuttavia rafforzata attraverso l'attribuzione per via legislativa a questa giurisdizione di importanti categorie di controversie nelle quali essa si esercita come giurisdizione “piena”, cioè senza i limiti di cognizione e di decisione posti dalla legge del 1865, segnatamente in ciò che riguarda il potere di annullamento degli atti amministrativi (in attuazione del principio di cui all'art. 113, ult. co., Cost.). Invero, il criterio di riparto tra le giurisdizioni è ormai ampiamente segnato da specifici interventi legislativi che hanno riservato alla giurisdizione ordinaria controversie che per loro natura rientrerebbero almeno in parte nell'ambito della giurisdizione amministrativa (13). 2.2. Sul criterio di riparto, una svolta decisiva, che consolida e chiarisce l'orientamento via via delineatosi in giurisprudenza, è venuta dalla Corte costituzionale, che con alcune sentenze a partire dalla ben nota n. 204/04, ha individuato le controversie riservate alla competenza del giudice amministrativo come quelle che, a tutela di situazioni protette, hanno ad oggetto l'esercizio del potere amministrativo. In questa sentenza, a proposito dei limiti della giurisdizione amministrativa esclusiva, di cui subito appresso, la Corte ha individuato il carattere essenziale di tali controversie, come quelle che possono essere affidate alla cognizione del giudice amministrativo, in ciò, che “la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo, ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà, la quale, tuttavia presuppone l'esistenza del potere autoritativo”; e nella seguente sentenza n. 191/06, la Corte ha riconosciuto, riecheggiando direi l'impostazione del sistema francese, il giudice amministrativo come “giudice naturale della legittimità dell'esercizio della funzione pubblica”, al quale il legislatore conferisce “poteri idonei ad assicurare piena tutela” delle situazioni protette (con specifico riferimento all'azione risarcitoria di cui subito appresso). E ancora più di recente, la Corte ha riconosciuto, come si è accennato, la legittimità di disposizioni legislative intese a concentrare davanti al giudice amministrativo “l'intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica”, come giudice pienamente “idoneo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell'esercizio della funzione amministrativa” (Corte cost. n. 140/07). Il ricorso alla vieta formula della “degradazione” viene abbandonato per il più corretto concetto del potere amministrativo come quello che caratterizza le controversie di diritto pubblico (allineando il sistema italiano ai modelli europei). Ma quella formula, come s'è accennato, resta necessaria al fine di superare, interpretandola, la distinzione tra diritti e interessi legittimi come criterio di riparto (distinzione che viceversa non è conosciuta negli altri sistemi europei). Sulla base di questa giurisprudenza, la cui impostazione di fondo appare ormai consolidata, si può affermare come conforme a Costituzione, il sistema di riparto tra le due giurisdizioni, nelle controversie con le pubbliche amministrazioni, fondato sul discrimine dato dall'oggetto della controversia come quello concernente l'esercizio del potere amministrativo; salvi i residui spazi alla giurisdizione ordinaria per tali tipi di controversie limitatamente ai casi che si sono indicati. La dizione del testo costituzionale derivante dalla tradizione, laddove fa riferimento alla “tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi”, come quella che caratterizza la giurisdizione amministrativa, va intesa come tutela nei confronti della pubblica amministrazione (da intendere: le pubbliche amministrazioni e i soggetti equiparati) delle situazioni giuridicamente protette che siano state lese dall'esercizio del potere amministrativo; salvi sempre i casi nei quali permane la giurisdizione ordinaria. 3. La giurisdizione amministrativa non solo si consolida come giurisdizione generale sulle controversie concernenti l'esercizio del potere amministrativo (controversie di diritto pubblico); giurisdizione dotata di tutti i caratteri, anche organizzativi, resi necessari dall'esercizio della funzione, secondo i principi costituzionali (14). Ma si consolida anche mediante il rafforzamento delle sue attribuzioni in sede esclusiva, come giudice anche di diritti soggettivi secondo l'art. 103 Cost. Le materie di giurisdizione esclusiva vengono estese con sempre maggiore ampiezza dalle leggi; mentre il giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva acquista poteri cognitori e decisori propri del giudizio ordinario, in virtù della giurisprudenza della Corte Costituzionale (15). Questo sviluppo della giurisdizione esclusiva rivela una tendenza del legislatore, che poi si consolida negli ultimi sviluppi, a superare il criterio di riparto tra le due giurisdizioni fondato sulla distinzione tra diritti e interessi legittimi, affidando al giudice amministrativo, al di là della formula usata, la giurisdizione su interi blocchi di materie (con i limiti costituzionali fissati dalla Corte). L'orientamento del legislatore a favore della giurisdizione esclusiva ebbe una svolta decisiva alla fine degli anni '90 con l'adozione degli artt. 33 ss. del d.lgs. 80/98 attuativo della delega di cui all'art. 11, 4º co., lett. g), della l. n. 59/97; articoli poi novellati mediante l'inserimento nell'art. 7 della l. n. 205/00. In queste norme effettivamente la giurisdizione esclusiva aveva acquistato un'estensione precedentemente inusitata sia mediante la previsione tra le materie che ne sono oggetto, dei “servizi pubblici” (art. 33), sia attraverso l'estensione della giurisdizione esclusiva in materia di urbanistica ed edilizia, anche alle controversie concernenti “comportamenti” delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle stesse equiparati (art. 34). Queste norme alle quali non ha fatto seguito una modifica costituzionale che forse sarebbe stata necessaria (16), sottoposte allo scrutinio di costituzionalità (Corte cost., n. 204/04) sono state ridimensionate nella loro portata innovativa. Allo stesso tempo, l'ambito della giurisdizione esclusiva è stato ridefinito, nella sua compatibilità con i principi costituzionali. Le materie di giurisdizione esclusiva possono essere soltanto, secondo la Corte, materie nell'ambito delle quali le controversie sarebbero in ogni caso attribuite alla competenza del giudice amministrativo, come giudice generale della legittimità dell'azione amministrativa. L'ascrizione di queste materie alla giurisdizione esclusiva consente di portare davanti al giudice amministrativo anche controversie che coinvolgono questioni di diritto soggettivo in quanto dai provvedimenti impugnati davanti al giudice amministrativo, anche diritti soggettivi siano lesi. Ma resta fermo, secondo la Corte, che deve comunque trattarsi di controversie concernenti l'esercizio del potere, e, appunto per ciò, coinvolgenti anzitutto interessi legittimi. Non può invece aprirsi l'ambito della giurisdizione esclusiva a tipi di controversie che, applicando i generali principi, spetterebbero comunque alla giurisdizione ordinaria perché coinvolgenti esclusivamente diritti soggettivi. L'art. 103 Cost. conferisce al legislatore, secondo la Corte, soltanto il potere “di indicare particolari materie nelle quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe anche diritti soggettivi” (e la sottolineatura della Corte cade sull'‘anche'); materie “particolari rispetto a quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità”, ma tali da “partecipare della loro medesima natura... contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come autorità, nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice amministrativo”. Questa argomentazione della Corte, se presa alla lettera, riporterebbe la giurisdizione esclusiva a quella tradizionalmente configurata (pur tra contrasti) anteriormente alla svolta giurisprudenziale del 1939 (Cons. Stato, Sez. V, 1 dicembre 1939; Cons Stato, Ad. plen., 18 dicembre 1940): configurazione che aveva trovato una limpida sistemazione nell'opera di Ranelletti (17), poi superata. Secondo questa impostazione, pur nell'ambito delle materie di giurisdizione esclusiva, e segnatamente nel pubblico impiego, la giurisdizione ordinaria restava ferma laddove si fosse trattato non dell'impugnativa di atti amministrativi (provvedimenti lesivi di situazioni soggettive di terzi) ma della cognizione di rapporti a carattere obbligatorio. Nella gran parte dei casi, le controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, riguardano episodi di esercizio di poteri amministrativi, provvedimenti o accordi, i quali producono effetti su situazioni soggettive di terzi, ascrivibili alle categorie dei diritti ovvero degli interessi legittimi, ciò che diventa appunto irrilevante ai fini della giurisdizione. E così, ad esempio, per citare casi della legislazione più recente, vengono attribuiti alla giurisdizione esclusiva i ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi adottati dalla Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia di tutela della concorrenza (art. 33 l. 287/90), nonché in materia di pubblicità ingannevole (d.lgs. 74/92); i ricorsi avverso i provvedimenti dell'Autorità per la vigilanza dei lavori pubblici che comminano sanzioni amministrative nelle materie di propria competenza (art. 4 l. n. 109/94); i ricorsi avverso i provvedimenti dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nelle materie di propria competenza (art. 1 l. n. 249/97); oltre a quelli sopra citati. E in materia di accordi, che costituiscono, come noto, a seguito della legge n. 241/90 una delle modalità di chiusura del procedimento amministrativo, vengono attribuite al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi stessi (art. 11 l. cit.). E gli accordi conclusi tra Amministrazioni pubbliche “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune” (art. 15 l. cit.) sono a loro volta attratti nell'ambito cognitivo della giurisdizione amministrativa esclusiva. Ma le controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva non sono solo di questo tipo, come è ben noto. Alcune delle “materie indicate dalla legge” (art. 103 Cost.), e soprattutto dalla legge originaria del 1923, che a sua volta aveva recepito legislazioni più antiche, nascondono controversie che non hanno queste caratteristiche; ché in esse non si controverte affatto circa l'esercizio di poteri amministrativi lesivi di diritti o di interessi legittimi, ma di rapporti a carattere obbligatorio intercorrenti tra l'Amministrazione ed un terzo ovvero tra pubbliche Amministrazioni. Si tratta delle azioni di accertamento (18) circa l'adozione o il contenuto di atti c.d. paritetici o più esattamente di atti di adempimento, secondo la sistemazione di Giannini, che l'Amministrazione è tenuta ad adottare in esito a suoi obblighi o a vere e proprie obbligazioni (19). Controversie queste, che sarebbero pacificamente, di competenza della giurisdizione ordinaria se non vi fosse l'espressa attribuzione legislativa delle “relative “materie” alla competenza del giudice amministrativo. Invero, appare equivoco ritenere, come sembra ritenere la Corte, che per effetto della legislazione del 1998/2000, si sarebbe verificata l'estensione della giurisdizione esclusiva a controversie di puro diritto soggettivo (diciamo così); ché viceversa, da tempo remoto, e dal 1939 con piena consapevolezza della giurisprudenza, è ben noto che la giurisdizione esclusiva si estende a controversie a carattere puramente obbligatorio, in ordine alle quali le regole della giurisdizione amministrativa subiscono una modificazione in senso civilistico (20). Invero, la giurisdizione esclusiva non può senz'altro coincidere, come viceversa sembra ritenere la Corte, con la giurisdizione generale di legittimità, in quanto alle materie che rispettivamente ne sono oggetto. Occorre affacciare una configurazione delle “particolari materie” di cui all'art. 103 Cost., che pur non così estesa come voleva il legislatore della riforma del 1998, consenta tuttavia di salvare l'ambito delle precedenti attribuzioni e l'impostazione della nostra tradizionale giurisprudenza. Si potrebbero fare salvi, anzitutto, i rapporti (e le convenzioni) tra pubbliche Amministrazioni ed enti pubblici, peraltro espressamente previsti dall'art. 15 della l. 241/90 (che espressamente richiama l'art. 11, dalla Corte riconosciuto conforme a Costituzione) dove il carattere particolare della materia controversa è evidente: mediante codesti rapporti si amministrano interessi pubblici di pertinenza rispettiva delle Amministrazioni e degli enti. Ciò consentirebbe di mantenere in vita le antiche previsioni di cui all'art. 29 T.U. di cui si è detto. Mentre nei rapporti tra l'Amministrazione e i cittadini (i terzi) potrebbero essere fatti salvi, data anche la loro evidente “particolarità” quelli nascenti da provvedimento amministrativo, ciò che in qualche modo conferisce alla pubblica amministrazione una posizione di supremazia nell'ambito del rapporto; e così, ad esempio, i rapporti di pubblico impiego delle categorie che hanno conservato la disciplina pubblicistica (art. 3 d.l.vo 165/01). Mentre l'esclusione dall'ambito della giurisdizione amministrativa delle controversie “concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi” resterebbe limitata (non si comprende invero perché) ai rapporti concessori con oggetto pubblici servizi, secondo il testo “riscritto” dell'art. 33, e con oggetto beni pubblici secondo l'art. 5 della l. n. 1034/71. 4. La scelta legislativa circa l'attribuzione della controversia risarcitoria al giudice amministrativo in ogni materia di sua giurisdizione si poneva in contrasto con l'orientamento emerso in Cassazione con la sentenza n. 500/99, che aveva riconosciuto in via di principio la risarcibilità degli interessi legittimi da esercitare tuttavia mediante azione ordinaria, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. (in base alla considerazione che il danno prodotto injure in capo ad un soggetto portatore di una situazione giuridicamente protetta desse luogo comunque a lesione di diritto soggettivo, il diritto al risarcimento del danno, appunto). Sul punto, si deve ricordare che una volta acquisita da parte del legislatore (anche sulla base della sentenza della Cassazione n. 500/99) l'esigenza di dare pienezza alla tutela dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, attribuendo loro anche la disponibilità dell'azione risarcitoria, si ponevano tre possibili soluzioni legislative. La prima soluzione era quella prospettata dalla Cassazione nella citata sentenza. E cioè che l'azione risarcitoria (nei confronti della pubblica amministrazione, come di ogni altro soggetto dell'ordinamento) si configuri come azione a tutela di diritti (il diritto al risarcimento del danno derivante da una azione od una omissione compiuta injure da un soggetto terzo). E perciò sia che la situazione soggettiva del danneggiato fosse configurabile come un diritto soggettivo, o come un interesse legittimo o come una aspettativa o quant'altro, in ogni caso, la competenza a conoscere della relativa azione risarcitoria spetterebbe al giudice ordinario come giudice dei diritti soggettivi. Salve ovviamente le materie di giurisdizione esclusiva, una volta caduta la riserva del vecchio art. 30. La seconda soluzione, che poi è stata quella adottata dal legislatore, era nel senso di ritenere che l'azione risarcitoria non fosse altro che una delle modalità della tutela giurisdizionale sia dei diritti che degli interessi legittimi. E visto che l'art. 24 Cost. stabilisce il principio della pienezza della tutela delle une e delle altre situazioni soggettive, diveniva naturale attribuire alla cognizione del giudice amministrativo le azioni risarcitorie a tutela degli interessi legittimi (mentre al giudice ordinario quelle a tutela di diritti soggettivi, salve appunto le materie di giurisdizione esclusiva). Ma questa seconda soluzione presenta una variante, dalla quale appunto emerge la terza soluzione. Infatti, una volta stabilito che il giudice amministrativo sia competente a conoscere delle azioni risarcitorie a tutela di interessi legittimi (nonché di quelle a tutela di diritti nelle materie di giurisdizione esclusiva), si pone il problema di stabilire a quale giudice spetti la competenza a conoscere delle azioni risarcitorie a tutela di diritti soggettivi già lesi (o “degradati”) per effetto di atti ablativi, una volta ottenuto l'annullamento da parte del giudice amministrativo di questi atti. Si tratta, come è noto, dei casi nei quali l'azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione è stata sempre ritenuta sussistente e attribuita, sulla base della legge del 1865, alla competenza del giudice ordinario (in seconda “battuta”, dopo aver ottenuto l'annullamento dell'atto lesivo). La cognizione di queste azioni poteva essere lasciata alla competenza del giudice ordinario, con la conseguenza, sicuramente non positiva in termini di effettività e di concentrazione della tutela, di costringere il soggetto agente a promuovere due processi, il primo davanti al giudice amministrativo mediante l'esercizio di azione di annullamento, il secondo davanti al giudice ordinario, mediante azione risarcitoria, una volta ottenuto l'esito favorevole del primo processo. Ma la soluzione che il legislatore ha ritenuto preferibile è stata quella viceversa di affidare al giudice amministrativo la cognizione “di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”, con riferimento a tutto “l'ambito della sua giurisdizione” (art. 35, comma 4). Perciò laddove il giudice amministrativo è competente in ordine a un certo tipo di controversie, anche concernenti provvedimenti ablatori incidenti su diritti soggettivi (espropriazioni, requisizioni, provvedimenti di espulsione), in virtù della nota giurisprudenza sulla “degradazione”, allo stesso giudice è conferita, altresì, la competenza a conoscere delle relative azioni risarcitorie; restando irrilevante, ai fini del riparto di giurisdizioni, “la circostanza che la pretesa risarcitoria abbia, o non abbia, intrinseca natura di diritto soggettivo” (Corte cost., n. 191/06). Questo modello, confermato e perfezionato dalla Corte costituzionale, si è successivamente consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione (21). L'idea, pure emersa in dottrina e in qualche decisione giurisprudenziale, che l'azione risarcitoria possa considerarsi in quanto tale, una materia attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, è stata rigettata: il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, “anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto” non costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia” attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica amministrazione. Dall'altra parte, viene confermata la legittimità dell'attribuzione di questa competenza al giudice amministrativo (“conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato”), che “affonda le sue radici nella previsione dell'art. 24 Cost. il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri”; nonché la legittimità della scelta del legislatore di concentrare in unico giudice la cognizione dell'azione di annullamento e di quella risarcitoria, superando la precedente regola “che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno”. Ciò, secondo la Corte, “costituisce null'altro che attuazione del precetto di cui all'art. 24 Cost.”. 5. Si è ricordato all'inizio come l'Assemblea Costituente fosse stata ferma e decisa nel ribadire la presenza nell'ordinamento italiano della giurisdizione amministrativa come separata da quella ordinaria, sia sul piano soggettivo, cioè come giurisdizione attribuita ad un corpo di magistrati separato e distinto rispetto alla magistratura ordinaria, sia sul piano funzionale come giurisdizione cui sono riservate controversie di un certo tipo (cioè quelle che nella dizione del testo costituzionale vengono menzionate con riferimento al tipo di situazione soggettiva protetta) nei confronti delle pubbliche amministrazioni. E ancora, si è visto come l'Assemblea Costituente intese ribadire la particolarità organizzativa di questa giurisdizione facente capo al Consiglio di Stato come organo allo stesso tempo deputato alla consulenza giuridico-amministrativa del Governo e alla tutela della giustizia nell'amministrazione (art. 100): espressione quest'ultima da intendere (anche) come giurisdizione amministrativa. Sul punto, si deve ricordare che nel contesto dei grandi Paesi europei, solo l'Italia e la Francia hanno un sistema di giurisdizione amministrativa organizzato in tal modo, cioè facente capo ad un organo di vertice dalla duplice natura; mentre la gran parte degli altri Paesi seguono il modello organizzativo di tipo tedesco, nel quale la giurisdizione amministrativa è attribuita bensì ad un corpo di magistrati separato dalla magistratura ordinaria (ma dotati di uno status del tutto identico a quello di quest'ultima), un corpo tuttavia dove si accede esclusivamente per concorso e si progredisce nella carriera, dalla base al vertice, in ordine a criteri fondati sulla anzianità o sul merito tecnico da valutare all'interno del corpo stesso. In questi sistemi l'organo giurisdizionale di vertice, come gli organi giurisdizionali dei gradi inferiori, è deputato esclusivamente all'esercizio della giurisdizione. Ancora di recente, nella dottrina francese si è posto il problema se sia ancora opportuno conservare la particolarità del modello “francese” (e aggiungiamo: italiano), derivante da ragioni storiche o viceversa non sia il caso di allinearsi ad una organizzazione giurisdizionale di tipo tedesco (22). Ma da noi, a differenza che in Francia, detta particolarità organizzativa è prevista in Costituzione, all'art. 100, e perciò non è disponibile dal legislatore ordinario. Un tentativo di riforma fu fatto nell'ambito della Commissione Bicamerale D'Alema, di cui alla legge cost. n. 1/1997 (v. art. 119 del testo della Commissione, AC 3931/A) che tuttavia, com'è noto, non riuscì a portare a termine i suoi lavori. Successivi tentativi di riforma non si conoscono né allo stato sono prevedibili. Invero, sulla commistione tra funzioni giurisdizionali e funzioni consultive in capo al Consiglio di Stato, da più parti viene riconosciuta la razionalità e l'opportunità della scelta costituente, tenuto conto che essa assicura da una parte una maggiore autorevolezza della funzione consultiva (affidata ad un organo che in quanto avente natura giurisdizionale gode di tutte le prerogative della giurisdizione) e dall'altra parte arricchisce l'esercizio della funzione giurisdizionale dell'esperienza amministrativa che all'esame dell'organo perviene nell'esercizio della funzione consultiva. Ovviamente la compresenza nell'organo delle due funzioni necessita di adeguate misure organizzative che impediscano la cognizione di controversie giurisdizionali da parte degli stessi magistrati che in sede consultiva hanno conosciuto di affari ad essi connessi. Rimane punto problematico in ordine a questa esigenza di separazione tra le due funzioni, la partecipazione di tutti i magistrati del Consiglio di Stato all'Adunanza Generale che è organo esclusivamente consultivo cui vengono portate le principali questioni (23). Si pongono poi, com'è noto, problemi in ordine al particolare status dei consiglieri di Stato, che presenta aspetti di differenziazione rispetto alla magistratura ordinaria e agli stessi magistrati amministrativi dei Tribunali di primo grado. Problemi analoghi (e anche di maggiore intensità) si pongono in Francia. Invero, si tratta di problemi connaturati al modello; ché la doppia natura dell'attribuzione dell'organo, pur garantito nella sua indipendenza dal Governo ai sensi dell'art. 100, produce necessariamente alcune commistioni con gli apparati di Governo. E analoghi problemi si pongono peraltro a proposito della Corte dei conti (24). Si pone innanzitutto il problema della legittimità costituzionale delle nomine dei consiglieri di Stato, che per una percentuale (adesso corrispondente a un quarto di tutti i membri dell'Istituto) sono riservate al Governo. E al Governo sono altresì riservate le nomine dei presidenti di Sezione e dello stesso presidente del Consiglio di Stato (artt. 21 e 22, l. n. 186/82). In realtà rispetto al precedente sistema normativo, la legge appena citata, anche sulla base della importante (ma da più parti contestata) sentenza della Corte cost. n. 177/73, ha stabilito una disciplina sufficientemente garantistica in merito all'idoneità delle nomine e all'esigenza di limitare le scelte del Governo. Infatti, è previsto che i consiglieri nominati dal Governo debbono essere prescelti tra categorie di personale dotate di caratteristiche tali, almeno in principio, da assicurarne la competenza (professori ordinari, avvocati con lungo stato di servizio, dirigenti generali, etc.). Ed è previsto che il Governo deliberi previo parere del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, nel quale sia valutata la “piena idoneità all'esercizio delle funzioni di consigliere di Stato sulla base dell'attività e degli studi giuridicoamministrativi compiuti e delle doti attitudinali e di carattere”. Inoltre la nomina è soggetta a controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti, e può esser impugnata per illegittimità davanti allo stesso giudice amministrativo. Inoltre occorre considerare, come la Corte ebbe a sottolineare nella citata sentenza n. 177/73, che i soggetti nominati, una volta entrati nell'Istituto, acquisiscono in toto lo status di magistrati del tutto equiparato a quelli dei consiglieri provenienti dalla carriera interna o dal concorso e sono garantiti dall'inamovibilità dell'ufficio. Analogo procedimento è previsto per la nomina a presidente di Sezione e a presidente di TAR (tenendo conto “in ogni caso dell'attitudine all'ufficio direttivo ed all'anzianità di servizio”). Il presidente del Consiglio di Stato, sulla base della l. n. 186/82, è nominato dal Governo sentito il parere del Consiglio di presidenza (che nella prassi di questi anni è stato formulato preventivamente, come una sorta di proposta) ma è prescelto tra i presidenti di Sezione dell'Istituto. Quindi, è stata soppressa l'antica disciplina che prevedeva la nomina del presidente anche fra personalità esterne. La legge del 1982 ha dato compimento alla configurazione voluta dalla Costituzione della magistratura amministrativa (TAR e Consiglio di Stato) come corpo indipendente dal Governo, quanto all'organizzazione interna e alla disciplina degli incarichi e delle carriere; in modo analogo a quanto previsto dalla stessa Costituzione per la magistratura ordinaria, attraverso l'istituzione come si è accennato, del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa composto da componenti interni e da alcuni componenti esterni, in posizione minoritaria, eletti dal Parlamento prescegliendoli tra categorie professionalmente garantite (professori ordinari e avvocati con lungo corso professionale). L'ordinamento, complessivamente inteso, della magistratura amministrativa, pur con le sue peculiarità rispetto a quello della magistratura ordinaria (peculiarità riconosciute dalla Corte costituzionale come giustificate dalle funzioni di competenza, nella loro duplicità prevista dalla Costituzione), a seguito della vigente legislazione, innovativa rispetto al passato, pur presentando ancora alcuni punti critici, a volte enfatizzati in dottrina, appare nella sostanza conforme a Costituzione; come quello inteso a realizzare il requisito dell'indipendenza imposto dalla Costituzione, tenendo conto della particolare natura dell'organo. Invero, le ripetute critiche emerse in dottrina, anche in tempi recenti (segnatamente nell'ambito della scuola fiorentina), si riferiscono piuttosto al modello in sé, auspicandone il superamento o verso l'unicità della giurisdizione, o verso un ordinamento della giurisdizione amministrativa e della magistratura ad essa preposta, di tipo tedesco (25). Ma, in entrambe le direzioni, l'ordinamento potrebbe muoversi soltanto sulla base di una modifica costituzionale che allo stato non è prevedibile, né, da parte della maggioranza degli autori e degli operatori, auspicata. Invero, non può essere ignorato, al fine della comprensione della scelta costituente circa il particolare carattere della giurisdizione amministrativa come quella incentrata sul Consiglio di Stato, il fondamentale apporto che la giurisprudenza di questo consesso ha dato alla elaborazione del diritto amministrativo moderno (allo stesso modo che in Francia). Il diritto amministrativo, fino a tempi recentissimi (orientativamente, fino alla legge generale sul procedimento n. 241/90, e alla incisiva integrazione con l. n. 15/05) è stato caratterizzato da una parte generale di fonte esclusivamente giurisprudenziale. Un'opera gigantesca che costituisce uno dei fattori fondanti dello Stato di diritto, sempre intesa ad ampliare la tutela dei cittadini, a fronte del potere amministrativo. Una giurisprudenza che, al di là delle singole controversie soggette al suo esame, ha sempre guardato all'elaborazione di principi che a loro volta entrano nell'ordinamento e vengono seguiti dagli altri giudici e dalle pubbliche amministrazioni (una funzione nomofilattica in senso pieno). E, nell'elaborazione dei principi, ha svolto, come è noto, un ruolo determinate l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, organo previsto sin dalla antica legge del 1907 (n. 642, artt. 70 ss.) come quello al quale possono essere dirottate le controversie laddove si rileva “che il punto di diritto” sottoposto all'esame della singola Sezione, “ha dato luogo o possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali”; ma ampiamente rafforzato, nella sua funzione nomofilattica, dal Cod. proc. amm. (art. 99). La remissione all'Adunanza plenaria avviene con ordinanza su richiesta delle parti o anche d'ufficio. Ed è previsto che il presidente del Consiglio di Stato, anche d'ufficio, possa deferire all'Adunanza plenaria qualunque controversia per “ risolvere questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere contrasti giurisprudenziali”. Con il Codice la funzione nomofilattica del Consiglio di Stato si è rafforzata attraverso la previsione di una sorta di vincolo del precedente posto da principi di diritto enunciati dall'Adunanza plenaria. Ai sensi dell'art. 99, 3º co., la Sezione cui la controversia è assegnata, se ritiene di non condividere un principio di diritto enunciato dall'Adunanza plenaria (anche su tutt'altro tipo di controversie) è tenuta a rimettere “a quest'ultima con ordinanza motivata, la decisione del ricorso“ (26). E, ancora, è previsto, come anche a proposito della Corte di cassazione (art. 363 c.p.c.), che l'Adunanza plenaria possa comunque enunciare il principio di diritto nell'interesse della legge, anche nei casi in cui il ricorso, perché irricevibile o inammissibile, non giunga alla decisione del merito 6. L'itinerario riformatore iniziato alla fine degli anni '90 e confermato nella sostanza dalla giurisprudenza costituzionale di cui s'è detto, ha avuto di recente un importante sbocco normativo, a carattere organico, nel d.lgs. n. 104/2010 (Cod. proc. amm.), attuativo della delega di cui all'art. 44 l. n. 69/2009, che contiene importanti principi innovativi (per alcuni aspetti più avanzati rispetto all'attuazione di essi da parte del legislatore delegato). Nel Cod. proc. amm. sono state anche inserite le norme attuative della delega di cui all'art. 44 l. n. 88/2009, in materia di contenzioso dei contratti pubblici, a sua volta attuativo di Direttive comunitarie, che modifica molto incisivamente questo contenzioso, rilevantissimo tra quelli affidati alla giurisdizione amministrativa, e attribuisce al giudice amministrativo anche compiti di valutazione di assetti contrattuali. Il mutamento dell'assetto della nostra giustizia amministrativa è stato rilevante. Ha acquistato un volto quasi irriconoscibile se comparato con quello anteriore. E contestualmente, è mutato lo stesso diritto amministrativo come diritto sostanziale che regola detti rapporti e stabilisce l'ambito delle situazioni protette che nei confronti dell'esercizio del potere emergono alla tutela dell'ordinamento. E non potrebbe essere diversamente; ché attiene al diritto sostanziale la previsione dei mezzi di tutela (le azioni) di cui le situazioni protette usufruiscono alla stregua dell'ordinamento, attraverso i quali esse, appunto, rilevano come situazioni protette (o situazioni giuridiche soggettive) piuttosto che come meri interessi di fatto. E dal diritto sostanziale viene individuato il livello di protezione delle diverse situazioni, delle une rispetto alle altre, livello che può essere differente nella valutazione dell'ordinamento, nei limiti consentiti dai principi costituzionali. 6.1. Si può affermare che in questo nuovo assetto del sistema di tutela, le situazioni soggettive protette nei rapporti di diritto pubblico (raggruppate nel genus degli interessi legittimi: art. 24 Cost.) tendono all'equiparazione rispetto alle situazioni protette nell'ambito dei rapporti di diritto comune (raggruppate nel genus dei diritti soggettivi: art. 24 Cost.), come quelle capaci di usufruire di tutti i mezzi di tutela riconosciuti dall'ordinamento. Questo nuovo assetto è non solo conforme ai principi costituzionali ma di essi senz'altro attuativo e trova la sua base nelle affermazioni della Corte costituzionale, di cui s'è detto, segnatamente nella sentenza n. 204/04, secondo l'impostazione che ha condotto al “salvataggio” dell'azione risarcitoria nell'ambito della giurisdizione amministrativa; dopo un lungo periodo in cui il nostro sistema di giustizia amministrativa era rimasto fondamentalmente lo stesso rispetto a quello anteriore alla Costituzione (salvi gli avanzamenti spesso incisivi prodotti dalla giurisprudenza). E attuativo anche (ma invero non si tratta di attuazione in senso tecnico) dei principi di tutela giurisdizionale elaborati in sede europea: nella giurisprudenza della Corte di Giustizia U.E., che in ordine alle controversie nelle quali si applica il diritto comunitario detta principi vincolanti per gli Stati membri (i quali tuttavia hanno una forza espansiva, si direbbe, anche al di là di tali controversie); nella giurisprudenza della C.E.D.U., i cui principi sono vincolanti per gli Stati aderenti alla Convenzione, sia pure in misura diversa dai primi, come quelli che definiscono l'ambito di protezione giurisdizionale che gli Stati devono assicurare ai loro cittadini (27). Questi principi si possono esprimere nel dittico “pienezza ed effettività della tutela”, che in termini generali (nelle sue differenziate applicazioni) significa: tutte le situazioni protette debbono poter usufruire di tutti i mezzi di tutela (azioni) riconosciuti dall'ordinamento, i quali, dato il tipo di situazione protetta e il tipo di rapporto nel quale si colloca (date perciò le particolarità che i diversi tipi di rapporti presentano), siano necessari al fine di assicurarne la protezione; e che questi mezzi di tutela (azioni) siano disciplinati in maniera tale (ciò che attiene propriamente alla disciplina processuale) da assicurare che la protezione sia effettiva, cioè capace di tradursi sul piano pratico nella soddisfazione sostanziale degli interessi che delle situazioni protette costituiscono, appunto, il substrato sostanziale. Ma l'estensione di questi principi (generalissimi) alla tutela giurisdizionale nell'ambito dei rapporti di diritto pubblico presuppone (ciò che rileva piuttosto nell'ordinamento interno che in ambito europeo) l'equiparazione del trattamento giuridico delle situazioni protette, diritti e interessi legittimi (art. 24 Cost.), come situazioni sostanziali (che rispondono a interessi sostanziali, pretese da soddisfare, del soggetto) anche nei rapporti di diritto pubblico; cioè che esse siano riconosciute dall'ordinamento come tali. In questi rapporti emerge, come è noto, la peculiarità che la soddisfazione dell'interesse è frutto nei casi concreti dell'esercizio del potere, la cui doverosità è modulata diversamente, è più sfuggente, rispetto alla doverosità forte che caratterizza l'obbligo nei rapporti di diritto comune. Il riconoscimento della natura pienamente sostanziale dell'interesse legittimo (da intendere come genus di tutte le situazioni protette, nelle loro varie specie, che vengono riconosciute come tali a fronte dell'esercizio del potere), si traduce perciò nella previsione (che diviene doverosa alla luce dell'art. 24 Cost. come correttamente inteso) di una pluralità di azioni; perché differenti possono essere e in concreto lo sono, le esigenze di soddisfazione che nella pluralità dei casi si rappresentano; e diverse sono le possibilità di soddisfazione offerte dall'ordinamento, tenendo conto del tipo di rapporto di cui si stratta, caratterizzato volta a volta dal tipo di potere in ordine al quale il rapporto si instaura. La limitazione della tutela solo ad alcuni degli strumenti (azioni) possibili non consentirebbe (come non consentiva nel precedente sistema: basti pensare all'inammissibilità della tutela risarcitoria degli interessi legittimi) la pienezza della tutela stessa. Del resto, altra norma della nostra Costituzione, l'art. 113, 2º co, già letta restrittivamente (con riferimento al mero superamento delle vecchie norme che limitavano l'impugnazione degli atti amministrativi, in determinati casi, ad alcuni solo dei vizi deducibili) a sua volta impone che la tutela giurisdizionale nei confronti delle pubbliche amministrazioni non possa “essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione”, cioè (si può correttamente intendere) a particolari azioni (art. 113, 2º co.). 6.2. Fermo restando che ogni situazione protetta (e perciò, ogni interesse legittimo) presuppone che sia assicurata una qualche forma di soddisfazione (che altrimenti non si tratterebbe di una situazione soggettiva protetta), modi e forme (ed entità) della soddisfazione variano a seconda del tipo di rapporto. Ciò può essere affermato, sia nell'ambito dei rapporti regolati dal diritto privato, sia nell'ambito dei rapporti regolati dal diritto amministrativo. L'impresa che partecipa ad una gara d'appalto presentando la migliore offerta gode (dovrebbe godere) di una protezione piena (deve vincere la gara); e il proprietario di un'area destinata in piano regolatore ad un certo tipo di edificazione, che presenta un progetto ad essa conforme, gode a sua volta di una protezione piena (deve ottenere il permesso di costruire richiesto). Ma lo stesso proprietario si trova in una posizione del tutto diversa nell'ambito del rapporto che si instaura con le autorità comunali al momento in cui si avvia il procedimento per la redazione del piano regolatore; ché in tal caso la soddisfazione della sua pretesa (ad esempio quella di ottenere una certa destinazione economicamente proficua) non può essere come tale assicurata, ma solo gli può essere assicurato che le sue buone ragioni vengano prese correttamente in considerazione (ma non che vengano senz'altro esaudite). Ma non diversamente, si pongono le esigenze di tutela nei rapporti di diritto comune che, a loro volta, si presentano del tutto diversificati quanto alla capacità di soddisfare le pretese del soggetto attivo (del titolare, presunto, del diritto a fronte degli obbligati) nelle diverse situazioni. Diversa è la posizione di colui che pretende il pagamento di una somma di denaro (credito assistito o meno da garanzia reale o personale) a fronte dell'inadempimento dell'obbligato. Diversa è la posizione del socio che esercita l'azione sociale di responsabilità verso gli amministratori per presunta mala gestio. Diversa è la posizione del lavoratore che si ritiene ingiustamente licenziato. E così via. Casi questi, del tutto rapportabili ai primi, variando la posizione dell'obbligato (presunto) quanto al tasso di “doverosità” della sua azione od omissione, e in conseguenza, variando la possibilità di soddisfazione del (presunto) titolare del diritto; come, nei primi casi, la possibilità di soddisfazione di cui in concreto può usufruire il titolare del (presunto) interesse legittimo. E in conseguenza, variano le azioni esperibili davanti al giudice rispettivamente competente, e variano le concrete possibilità di soddisfazione delle rispettive pretese, che il giudice può assicurare attraverso la cognizione delle azioni stesse e l'adozione dei conseguenti provvedimenti giurisdizionali. In un quadro istituzionale, nel quale tutte codeste situazioni vengono configurate come di contenuto sostanziale (sottintendendo le une e le altre, un interesse del quale l'ordinamento, in misura differenziata nel diverso atteggiarsi dei rapporti nei quali le une e le altre si collocano, assicura la soddisfazione) sfuma del tutto la distinzione tra diritti e interessi legittimi; come la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare nella citata sentenza n. 191/06. Sul piano processuale la distinzione resta apparentemente rilevante, ma invero, come adesso chiarisce il Codice, la nozione di controversie nelle quali si fa questione di interessi legittimi è del tutto rispondente a quella di controversie delle quali l'oggetto è la legittimità (contestata) dell'esercizio del potere. Emerge quindi la nozione di controversie di diritto pubblico come quelle di competenza del giudice amministrativo (salvi marginali casi di controversie di questo tipo ascritte alla giurisdizione ordinaria). Questa definizione, in asse con la giurisprudenza costituzionale, acquista dunque ruolo determinante ai fini del riparto della giurisdizione e alla luce di essa vanno lette le norme costituzionali. 7. Il Codice, pur nell'ambiguità di alcune sue espressioni e con qualche reticenza, è impostato su questi principi e costituisce perciò una svolta fondamentale nel nostro ordinamento, chiudendo la fase della riforma del sistema (sopra richiamata nei suoi momenti essenziali) e aprendo la fase dell'elaborazione giurisprudenziale (28). Sul piano processuale, dal Codice il processo amministrativo è senz'altro collocato (ma invero non se ne dubitava) nell'ambito dei principi che reggono la funzione giurisdizionale in tutte le sue manifestazioni. Anzitutto, come s'accennava, i principi del giusto processo, di cui all'art. 111 Cost., 1 e 2 co. (che si applicano ad ogni tipo di processo), e all'art. 6 C.E.D.U, come elaborati dalle rispettive Corti, a fronte dei quali il nostro sistema (al di fuori della disciplina del Codice) presenta ancora dei punti critici che via via dovranno essere sanati; segnatamente, sul versante dell'organizzazione della magistratura, cui si è accennato, e su una (ancora persistente) commistione tra diverse funzioni affidate ai magistrati amministrativi. Ma ancora, vi sono controversie di diritto pubblico (del tutto rapportabili alle altre come quelle nelle quali si fa questione della legittimità dell'esercizio del potere) dislocate al di fuori della giurisdizione, e affidate alla cognizione di organi interni che non garantiscono la terzietà della funzione (c.d. autodichia) (29). Al di là di questi aspetti che restano problematici, la tutela giurisdizionale delle controversie di diritto pubblico affidata al giudice amministrativo appare senz'altro impostata sui principi del giusto processo, che diventano, come principi di rango costituzionale, vincolanti l'interpretazione, e a fronte di essi occorre stabilire la legittimità delle norme e degli istituti (come quelli ai quali si è appena fatto riferimento). Ed essi si estendono, al di là dell'esercizio della funzione giurisdizionale in sé (lo statuto del giudice, la posizione reciproca delle parti, la scansione delle fasi della procedura), nel campo (di diritto sostanziale piuttosto che processuale) delle azioni esperibili, come quelle necessarie al fine della tutela (piena ed effettiva, appunto) delle situazioni protette che si presumono violate. L'esigenza della pluralità delle azioni a tutela delle situazioni protette nell'ambito dei rapporti di diritto pubblico acquista, dunque, valore costituzionale. In mancanza, come s'accennava, quei principi non sarebbero rispettati. Sul punto, si può aggiungere che lo stesso riconoscimento del carattere sostanziale delle situazioni protette nei confronti dell'esercizio del potere (quelle che noi raggruppiamo sotto l'etichetta dell'interesse legittimo) comporta che gli interessi ad esse sottesi devono avere soddisfazione, di diversa misura ed entità, a seconda del tipo di rapporto di cui si tratta. E perciò, il riconoscimento di detto carattere, sul piano sostanziale, si traduce necessariamente, sul piano processuale, nella previsione di una pluralità di azioni esperibili davanti al giudice competente, ché altrimenti la soddisfazione dell'interesse non potrebbe avvenire. Insomma, il pieno riconoscimento del carattere sostanziale degli interessi legittimi si identifica con i principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale e perciò con la necessaria pluralità delle azioni (30). Invero, nei rapporti di diritto pubblico, come si accennava, si configura una diversa tipologia di interessi protetti (dal punto di vista della qualità ed intensità della protezione) che se violati (laddove si presumono violati dal soggetto cui pertengono) necessitano per essere soddisfatti di differenti strumenti di tutela. 8. Si possono configurare alcune situazioni tipiche alle quali rispondono azioni tipiche. Il potere amministrativo in esito al procedimento si traduce in un atto giuridico (provvedimento o accordo) produttivo di effetti che possono essere lesivi della sfera protetta di interessi di determinati soggetti: lo stesso destinatario dell'atto, ovvero soggetti terzi che indirettamente ne subiscono effetti o conseguenze pratiche lesive (si sa che in diritto amministrativo la posizione dei terzi è tutelata di fronte all'esercizio del potere). In tali casi la prima esigenza di tutela è quella che consente la rimozione dell'atto lesivo e perciò il ripristino della situazione giuridica qua ante. Perciò l'azione di annullamento o l'azione di nullità (in diritto amministrativo poste sullo stesso piano: si tratta pur sempre di rimuovere un atto che ha prodotto o sta producendo effetti lesivi) sono capaci di soddisfare questa prima esigenza di tutela. Il Cod. proc. amm. le prevede entrambe, secondo diversa disciplina, ma entrambe sottoposte, quanto al relativo esercizio, a termine di decadenza (artt. 29 e 31, 4º co.) (31). L'effetto sostanziale (che si produce con la rimozione dell'atto lesivo, ciò da cui consegue il ripristino della situazione soggettiva che l'atto stesso, accertato come illegittimo, aveva modificata o estinta) è prodotto dalla sentenza del giudice, secondo la nota tecnica di produzione degli effetti sostanziali norma-potereeffetto (32); ma avrebbe anche potuto prodursi per atto di autotutela della stessa pubblica amministrazione, anche su richiesta di parte. Non si tratta perciò, per stare alla sistematica della migliore dottrina processualistica, di effetto ricollegato al necessario accertamento giudiziale, il quale è necessario soltanto laddove l'effetto stesso non si sia prodotto sul piano sostanziale (33). Queste due azioni sono previste nell'ambito del processo amministrativo con norme di portata generale, cioè a fronte di ogni atto amministrativo (presunto) lesivo di situazioni protette affidate alla tutela del giudice amministrativo. Per contro, l'azione di annullamento di atti amministrativi è ammessa davanti al giudice ordinario (laddove la presunta lesione incida su situazioni protette, diritti soggettivi, la cui tutela è affidata a detto giudice) solo nei casi espressamente previsti dalla legge (alcuni si sono ricordati) ai sensi dell'art. 113, ult. co., Cost. Non così l'azione di nullità, che davanti al giudice ordinario è sempre ammessa a fronte di atti lesivi di diritti soggettivi, affetti dai vizi di cui all'art. 21-septies, l. n. 241/90 (ciò perché, com'è noto, in questi casi, secondo l'impostazione seguita in giurisprudenza, non avverrebbe il c.d. effetto di degradazione). Se l'atto lesivo è di contenuto negativo (ha negato una misura richiesta, ad esempio un'autorizzazione che si presume dovuta) il mero annullamento (o la dichiarazione di nullità) dello stesso, non è sufficiente ad assicurare soddisfazione dell'interesse che si presume leso. Ché il ripristino della situazione qua ante riporta il soggetto alla sua originaria aspirazione ad ottenere un bene che non gli è stato riconosciuto e che egli ritiene debba essergli riconosciuto (e il cui disconoscimento è stato sanzionato dal giudice mediante l'annullamento del diniego). Allora è evidente che in questi casi occorre qualcosa di più perché il titolare dell'interesse leso possa ottenere soddisfazione; cioè occorre uno strumento procedurale (un'azione) che consenta al soggetto di ottenere la misura rifiutata una volta accertato che essa fosse viceversa dovuta. Da qui l'esigenza di un'azione di condanna strettamente connessa (o contestuale, come vuole l'art. 30, 1º co. Cod. proc. amm.) all'azione di annullamento, attraverso la quale si possa chiedere al giudice, una volta annullato l'atto lesivo e accertato che un atto positivo doveva essere adottato, di ordinare all'Amministrazione l'adozione di codesto atto. Secondo il Cod. proc. amm., è l'azione di condanna all'adozione delle misure idonee (in tal caso, all'adozione dell'atto richiesto e dovuto) a tutelare la situazione dedotta in giudizio, anche mediante la nomina di un commissario ad acta che provveda in luogo dell'Amministrazione (artt. 30, 1º co., e 34, 1º co., lett. c, e). A questa esigenza di tutela (come si vede, diversa da quella cui soddisfa l'azione di annullamento) anche nel precedente regime del processo amministrativo si faceva fronte (in assenza di norme espresse) attraverso il riconoscimento di un effetto conformativo alle sentenze di annullamento del giudice amministrativo, derivante dal contenuto di accertamento (circa l'illegittimità dell'atto negativo laddove un atto positivo sarebbe stato legittimo) della sentenza stessa, al di là del suo dispositivo di annullamento. Effetto conformativo che in determinati casi può condurre, ai fini della soddisfazione della pretesa, all'esercizio di un'altra azione (questa tradizionalmente prevista) davanti al giudice amministrativo, l'azione di esecuzione (o di ottemperanza) mediante la quale può ottenersi, sulla base dell'effetto conformativo, tratto dalla prima sentenza, una seconda sentenza, questa volta di condanna, all'adozione dell'atto positivo, anche attraverso la nomina di un commissario ad acta. Tuttavia questo sistema, pur avanzato rispetto alla disciplina vigente, come elaborato dalla giurisprudenza, si basava, per ottenere l'effetto satisfattivo di pretese del tipo considerato, sul giudizio di ottemperanza, nell'ambito del quale al giudice è consentito di adottare decisioni di condanna una volta valutato se l'accertamento compiuto con la decisione di merito potesse, e in che limiti, tradursi nella nuova azione amministrativa (anche sulla base di una valutazione di merito degli interessi in gioco). Una situazione perciò da definire caso per caso, essendo escluso che la sentenza di annullamento come tale, possa avere anche un contenuto di condanna. Ma nel nuovo sistema, in virtù della normativa citata, la giurisprudenza potrà (se ne vedono le prime applicazioni) conoscere in uno con l'azione di annullamento, l'azione di condanna ad adottare un determinato atto (come misura idonea a soddisfare la situazione protetta dedotta in giudizio) e a tal fine potrà senz'altro nominare un commissario ad acta, senza costringere l'interessato a passare per l'incerto tragitto del giudizio di ottemperanza. 9. Un'esigenza di tutela similare si pone a fronte dell'inerzia dell'Amministrazione (non rispondere nei termini di legge a un'istanza regolarmente presentata). Anche qui l'interesse sostanziale è di ottenere l'atto richiesto, ma in questo caso l'Amministrazione non lo ha rigettato, ma semplicemente non ha risposto. E perciò il primo accertamento che si chiede al giudice ha ad oggetto l'obbligo che in quel caso avrebbe avuto o meno l'Amministrazione, di rispondere, di provvedere (non come provvedere) con riferimento all'istanza presentata (se prevista dalla legge, se presentata nei termini stabiliti, etc.). Da qui il contenuto di accertamento di questa azione (e non di annullamento, ché non esiste un atto presunto lesivo, da annullare), come fa intendere l'art. 31 Cod. proc. amm. Ma l'azione può avere anche un altro (più incisivo) contenuto di accertamento e può tradursi anche (come la precedente) in azione di condanna (34): laddove il giudice si possa pronunciare sulla fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente (non quella di ottenere una risposta ma quella di ottenere il provvedimento richiesto con l'istanza). Questo accertamento, una volta effettuato con esito favorevole, può dare luogo, come nel caso precedente, alla condanna rivolta all'Amministrazione di adottare l'atto richiesto (e contestuale nomina, ove necessario, di un commissario ad acta, ai sensi dell'art. 34, 1º co., lett. e). Sul punto, si pone tuttavia un problema, come è evidente, che allo stesso modo si pone nel caso prima esaminato dei ricorsi avverso provvedimenti negativi. In quali casi il giudice può accertare la fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente? La norma (relativa al silenzio, ma di applicazione generale) risponde: “quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non esistano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari ulteriori adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione” (art. 31, 3º co.). Il provvedimento richiesto può essere, nella sostanza, dovuto (l'Amministrazione ai sensi di legge, aveva l'obbligo di rilasciarlo, secondo gli esempi fatti). In tal caso, il giudice può stabilire ciò che doveva essere fatto, nei suoi contenuti. Nei casi di attività discrezionale, viceversa, all'Amministrazione resta affidato un margine, più o meno ampio, di valutazione circa gli interessi in gioco, tale da non consentire al giudice, una volta accertata l'illegittimità del provvedimento adottato, o dell'inerzia verificatasi, quale debba essere in concreto il provvedimento da assumere, nei suoi contenuti; e se il provvedimento da assumere risponda agli interessi sostanziali del ricorrente. E quindi il secondo più puntuale accertamento (quello sulla “fondatezza della pretesa”) non può essere compiuto né in conseguenza, l'Amministrazione può essere condannata ad adottare l'atto richiesto. Tuttavia, anche in questi casi (che in astratto si presentano in tal modo) si può verificare in concreto una situazione diversa (sul piano sostanziale) nella quale il procedimento risulta esaurito, espletati tutti gli accertamenti istruttori, effettuate le valutazioni necessarie degli interessi in gioco (pareri, nulla osta, accertamenti tecnici) con univoco orientamento; ovvero ancor più puntualmente, vi sia stato un procedimento di secondo grado nel quale siano state confermate codeste valutazioni. In tal caso, la discrezionalità nel concreto può ritenersi “esaurita” (come si usa dire, parafrasando i tedeschi) e in conseguenza il giudice può provvedere all'accertamento circa la fondatezza della pretesa sostanziale dedotta in giudizio e alla successiva condanna all'adozione del provvedimento richiesto (35). In questo quadro, dunque, che si delinea agevolmente sulla base delle norme del Cod. proc. amm. (pur nella loro forse voluta ambiguità) ma che adesso viene confermato dalla prima giurisprudenza (36), la tutela a fronte dell'illegittimo esercizio (o non esercizio) del potere si arricchisce, nella pluralità di azioni, di quella che anche la giurisprudenza (che espressamente ritiene abbia fatto ormai ingresso nel nostro ordinamento) denomina azione di adempimento, con terminologia ancora una volta di origine tedesca. Si potrebbe meglio denominare invero, detta azione (stando alla lettera delle nostre leggi) azione di condanna all'adozione di un provvedimento, come misura idonea a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio (art. 34, 1º co., lett. c), anche mediante la nomina di un commissario ad acta, (art. 34, 1º co., lett. e), una volta che risultino le condizioni di cui all'art. 31, 3º co. (37). In sostanza, per stare alla sopra richiamata sistemazione dottrinale, laddove la tecnica di produzione degli effetti sostanziali segua lo schema norma-potereeffetto, il giudice può valutare l'illegittimità dell'esercizio del potere (ovvero la carenza del potere) e annullare l'atto impugnato (o dichiararne la nullità) ma non potrà sostituirsi all'Amministrazione nell'adozione del nuovo atto; mentre, laddove si segua lo schema norma-fatto-effetto (il che significa, tradotto nella nostra casistica, che il potere dell'Amministrazione è vincolato, secondo quanto s'è detto) il giudice, una volta accertato l'illegittimo esercizio del potere (che non abbia rispettato le prescrizioni normative tali da garantire la soddisfazione della situazione protetta) potrà disporre, appunto, che l'Amministrazione adotti l'atto dovuto. Ancora più incisiva questa particolare azione di condanna, si presenta nel contenzioso contrattuale (quello che ha ad oggetto la contestata legittimità dei procedimenti di aggiudicazione: procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture: artt. 119, 1º co., lett. a), 120 ss., Cod. proc. amm.). In questi casi, il giudice insieme all'annullamento dell'aggiudicazione (che è provvedimento amministrativo) dichiara anche (ove sussistano le condizioni di cui all'art. 121, 1º co., e 122) l'inefficacia del contratto (che è atto negoziale), mentre in altri casi il contratto resta efficace, salve misure alternative (art. 121, co. 2º e 4; 123). Ove il contratto sia dichiarato inefficace, il giudice può ordinare che il contratto stesso sia aggiudicato al ricorrente che ha ottenuto l'annullamento dell'aggiudicazione ove si riscontrino le condizioni di cui all'art. 122 (art. 124), condizioni di fatto (come lo stato di esecuzione del contratto stesso) e condizioni di diritto (in sostanza, dalle illegittimità riscontrate nel procedimento di aggiudicazione, si possa desumere che il ricorrente abbia titolo senz'altro a subentrare nel contratto senza necessità di rinnovare il procedimento stesso). Ciò che evidenzia una situazione omogenea a quella che negli altri casi sopra ricordati consente al giudice di accogliere la c.d. azione di adempimento (38). 10. A queste forme di tutela a fronte dell'esercizio (o del mancato esercizio) del potere si accompagna sempre l'azione risarcitoria per danni prodotti dall'esercizio (o dal mancato esercizio) del potere stesso. Qui la tutela di condanna, nel nostro processo, appare nella forma classica della tutela risarcitoria secondo l'archetipo aquiliano di cui all'art. 2043. L'introduzione dell'azione risarcitoria “a tutela degli interessi legittimi”, come ancora si usa dire (con terminologia che riecheggia il vecchio ordinamento nel quale la tutela risarcitoria, a fronte dell'illegittimo esercizio o non esercizio del potere amministrativo era ammessa solo per i diritti soggettivi), ha spezzato l'antico monopolio dell'azione di annullamento nelle controversie di diritto pubblico; ed è stata il vero momento di svolta del nostro ordinamento (39). Da essa invero, deriva la configurazione degli interessi legittimi come situazioni soggettive che necessitano, allo stesso modo dei diritti soggettivi, di molteplici forme di tutela al fine di assicurarne la soddisfazione sul piano sostanziale. È proprio il riconoscimento delle pretese risarcitorie che conferma il carattere pienamente sostanziale dell'interesse legittimo come la situazione protetta in ordine a un bene; che si ha “diritto di conservare o di ottenere”, che, se leso ingiustamente, deve essere risarcito nel suo valore monetario (per equivalente) laddove non lo si possa reintegrare in forma specifica (artt. 2043, 2058, cod. civ.). La pretesa risarcitoria a fronte di un danno prodotto, presuppone ovviamente, perché possa essere accolta, l'accertamento che il fatto produttivo del danno sia avvenuto injure. E se il fatto è un atto giuridico (un provvedimento amministrativo, un accordo, nell'ambito dei rapporti di diritto pubblico) presuppone l'accertamento dell'illegittimità dell'atto stesso. E perché la sussistenza del danno risarcibile possa essere riconosciuta nel concreto, occorre l'accertamento che esso si sia verificato per effetto del fatto ingiusto (dell'atto illegittimo) secondo il principio di causalità; cioè, se il fatto non fosse avvenuto, ovvero l'atto si fosse prodotto iure, il danno non si sarebbe prodotto. E occorre anche, ma questo punto è invero assai perplesso in ordine alla pretesa risarcitoria nei confronti delle pubbliche Amministrazioni, che sia imputabile all'agente dolo o colpa circa l'azione o l'omissione produttiva del danno (40). Questi principi, applicati nell'ambito dei rapporti di diritto pubblico, ovviamente danno luogo a delicati problemi in ordine all'accertamento giurisdizionale di questi presupposti nel concreto. In ordine alla questione del previo accertamento dell'illegittimità dell'atto lesivo, si è accennato al lungo dibattito intorno alla c.d. pregiudiziale amministrativa (azione di annullamento dell'atto lesivo come presupposto per l'esercizio dell'azione risarcitoria) che la disciplina vigente ha risolto, conformandosi alla giurisprudenza della Corte di cassazione, nel senso dell'esperibilità anche in via autonoma dell'azione risarcitoria, in una prospettiva (ancora una volta) della pienezza della tutela giurisdizionale come quella che necessita di una pluralità di azioni che il titolare di una situazione protetta possa usare a seconda delle sue esigenze concrete di tutela. Ma essa è stata sottoposta a un termine decadenziale assai stretto (art. 30, 3º co., Cod. proc. amm.) della cui legittimità costituzionale vi sono forti ragioni per dubitare (41). In caso di esercizio autonomo dell'azione risarcitoria, l'accertamento dell'illegittimità dell'atto lesivo avviene dunque in via incidentale (al fine di stabilire la fondatezza dell'azione stessa). L'atto può restare in vita e continuare a produrre i suoi effetti (salvo l'esercizio dei poteri amministrativi di autotutela). Tuttavia, la mancata impugnazione dell'atto mediante il previo esercizio dell'azione di annullamento può risultare in molteplici casi come frutto di comportamento elusivo, opportunistico, del soggetto danneggiato, che con l'eliminazione dell'atto attraverso l'esercizio dell'azione di annullamento (o con l'esperimento di altri strumenti di tutela contenziosa) avrebbe potuto evitare il prodursi dei danni. Sovviene in proposito l'art. 1227 Cod. civ. (espressivo di un principio generale) secondo il quale il risarcimento è escluso laddove il creditore avrebbe potuto evitare i danni “usando l'ordinaria diligenza” (2º co.) o è diminuito laddove “il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno” (1º co.), in misura diversificata a seconda della gravità della colpa rapportata alle conseguenze. Nelle controversie di diritto pubblico, viene in questione, sul punto, il fatto omissivo del (presunto) creditore circa la mancata impugnazione dell'atto lesivo, laddove vi siano le condizioni per farlo: se ciò concreti la fattispecie di cui all'art. 1227. La norma del Cod. proc. amm. (art. 30, 3º co.) sembra invero andare in tal senso, laddove (con formula tuttavia assai più limitativa circa la possibilità di soddisfare in tali casi la pretesa risarcitoria, rispetto a quella più incisiva dell'art. 1227) dispone che il giudice, nel determinare il risarcimento “valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti” (assorbendo il disposto del 1º co.), ma aggiunge che il risarcimento è escluso per i danni “che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza” (come ai sensi del 2º co.), “anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela”. Tra questi ultimi è ovviamente, in primo luogo, l'esercizio dell'azione di annullamento dell'atto lesivo; mentre l'art. 1227, 2º co., viene interpretato nel senso di non comprendere tra i modi di ordinaria diligenza l'esercizio dei mezzi di tutela giurisdizionale (42). La norma, correttamente interpretata, deve essere invero inquadrata nell'ambito dei principi di cui all'art. 1227, pur con la specialità che caratterizza i rapporti di diritto pubblico rispetto ai rapporti di diritto comune ai quali l'art. 1227 si riferisce. E in tal senso è orientata la prima (assai autorevole) giurisprudenza (43), sia pure sulla base di un'interpretazione estensiva ed evolutiva dell'art. 1227, che consente di ascrivere ai comportamenti di ordinaria dirigenza del soggetto danneggiato anche condotte positive e tra queste anche l'esperimento dell'azione di annullamento; laddove “l'utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata idonea... ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio”; con aggancio ai principi comuni della buona fede (art. 1175 cod. civ.) e della solidarietà (art. 2 Cost.) che rendono “apprezzabili ai fini dell'esclusione del danno” comportamenti omissivi del creditore, laddove, alla stregua di un giudizio di causalità ipotetica, “le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo (per il creditore) ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno”. Il che non significa che il mancato esperimento dell'azione di annullamento sia in quanto tale preclusivo dell'accoglimento dell'azione risarcitoria; ché, appunto, ai sensi dell'art. 1227, deve valutarsi caso per caso la situazione nella sua concretezza. E così, ad esempio, lo stesso Consiglio di Stato menziona il caso del provvedimento interamente e immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto irreversibile, ovvero del provvedimento in corso di rapida esecuzione, talché dati i tempi del processo una tutela ripristinatoria non possa essere praticata utilmente, e così via. Insomma, la tutela risarcitoria può essere in principio esercitata in via autonoma, ma le possibilità in molteplici casi di evitare un danno attraverso un diligente esercizio dell'azione di annullamento (o di altri rimedi ripristinatori) laddove questa risulta concretamente satisfattiva, comporta il rigetto della domanda di risarcimento ai sensi dell'art. 1227, 2º co.; il cui principio viene dunque adattato ai caratteri particolari dei rapporti di diritto pubblico. Ma il danno risarcibile presuppone, come s'accennava, un nesso di causalità efficiente tra l'azione o l'omissione presunta injure e il danno stesso. Ciò significa che se l'azione si fosse prodotta iure o l'omissione non si fosse verificata, il danno non si sarebbe prodotto. Tale pacifica e ovvia affermazione dà luogo nei rapporti di diritto pubblico, a particolari problemi applicativi, laddove il potere amministrativo intorno al quale si instaura il rapporto, è di carattere discrezionale. In tali casi infatti, la successiva controversia, mossa dal soggetto che si presume leso dall'esercizio del potere perché illegittimo, può condurre (in caso di accertamento positivo dell'illegittimità) all'annullamento (o dichiarazione di nullità) dell'atto lesivo. Ma ciò non comporta anche l'accertamento ulteriore (come nei casi sopra esaminati), che l'interesse sostanziale del ricorrente (ottenere una certa destinazione urbanistica della propria aerea, ottenere che il suo progetto sia preferito in un appalto concorso) avrebbe dovuto senz'altro essere soddisfatto; ché l'esercizio corretto del potere discrezionale avrebbe potuto portare legittimamente ad una soluzione diversa. È evidente che in questi casi, l'accoglimento dell'azione risarcitoria presentata contestualmente all'azione di annullamento o a seguito dell'accoglimento di quest'ultima, presuppone da parte del giudice un giudizio prognostico (44) circa la concreta possibilità che l'esercizio corretto del potere avrebbe condotto alla soddisfazione della pretesa sostanziale del soggetto leso; ché altrimenti egli può ottenere solo, una volta ottenuto l'annullamento dell'atto lesivo, che il potere si eserciti in maniera corretta, cioè sulla base di quanto stabilito dal giudice sulla base della sentenza di annullamento (secondo lo schema, sopra ricordato, norma-potere-effetto). Tale problematica si pone segnatamente a proposito della tutela di interessi pretensivi; ché gli interessi oppositivi sono ritenuti in ogni caso risarcibili (45). E anche su questa problematica incide l'accertamento in concreto, sul piano sostanziale, dello stato in cui il procedimento discrezionale si trova. Ché, come sopra s'è visto, la discrezionalità può risultare in concreto “esaurita” e può perciò darsi luogo all'accoglimento dell'azione risarcitoria. Il risarcimento è viceversa sempre dovuto in caso di ritardo doloso o colpevole (cioè non giustificato da fattori oggettivi) dell'Amministrazione nella conclusione del procedimento avviato a seguito di domanda presentata iure (art. 30, 4º co., Cod. proc. amm.). In tali casi, la violazione sanzionata è quella dell'obbligo di pronunciarsi nei termini da parte dell'Amministrazione (laddove ciò è previsto) a prescindere dall'esito cui il procedimento correttamente compiuto avrebbe dato luogo. Qui è il fattore tempo che viene in causa: “anche il tempo è un bene della vita per il cittadino” e il ritardo nella conclusione di qualunque procedimento, è “sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce un'essenziale variabile nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica” (46). 11. L'esercizio del potere avviene a volte (purtroppo spesso: si tratta di una ricorrente disfunzione amministrativa) in via di fatto, cioè attraverso comportamenti (operazioni) che non trovano la loro fonte in un atto giuridico (provvedimento, accordo, contratto) dei cui effetti costituiscano l'esecuzione. Anziché eseguire un procedimento di requisizione mediante l'apprensione del bene requisito, l'Amministrazione lo apprende senz'altro (lo occupa) di fatto, senza avere adottato l'atto di requisizione. I lavori di ampliamento della strada pubblica iniziano sui terreni circostanti da parte dell'appaltatore cui vengono consegnati, senza che il procedimento di occupazione o di espropriazione dell'area si sia perfezionato con i relativi decreti, o addirittura senza che sia stata adottata la dichiarazione di pubblica utilità o quest'ultima sia stata annullata. E così via. Si tratta del fenomeno delle occupazioni abusive di beni di proprietà privata sul quale da tempo la giurisprudenza va cercando soluzioni idonee ad assicurare tutela ai diritti violati (47). Tutela, in questi casi, di carattere restitutoriopossessorio: restituire il bene illecitamente appreso, ripristinare la situazione qua ante. Ma si traduce in tutela risarcitoria al momento in cui il bene non può essere restituito (l'opera pubblica è stata realizzata e il bene non può essere sottratto alla destinazione pubblica acquisita: art. 828 cod. civ.). Ovvero, anche a prescindere da questo profilo prettamente pubblicistico, l'irreversibile trasformazione della cosa (abbattimento degli edifici, degli alberi) non ne consente il ripristino o lo rende eccessivamente oneroso (anche ai sensi dell'art. 2058 cod. civ.) e perciò il diritto violato può essere risarcito solo per equivalente. Questa tutela si configura propriamente come tutela di diritti (del possesso, della proprietà, di altro diritto reale o personale) ai sensi del codice civile (artt. 948 ss., 1079 ss., 1168 ss.); e in principio appartiene alla giurisdizione ordinaria (se n'è accennato retro), anche ai sensi della legge del 1865; la quale tuttavia è stata a lungo reticente ad assicurarla nelle forme civilistiche, condizionata da un'interpretazione eccessivamente estensiva dell'art. 4 di quella legge (si tratta di una delle principali manifestazioni di quella nota “timidità” dei giudici ordinari nei confronti dell'Amministrazione), e solo di recente ha ritenuto ammissibili azioni possessorie in questi casi (48). Nel nuovo assetto del sistema, questa tutela è adesso distribuita tra le due giurisdizioni, a seconda che il fatto dell'occupazione abusiva (cioè avvenuta senza il supporto di un atto giuridico di cui costituisca esecuzione) sia o meno rapportabile all'esercizio di un potere di cui l'Amministrazione agente sia in concreto titolare (e che abbia perciò nella specie esercitato injure). In tal caso, la giurisdizione è del giudice amministrativo (la controversia si ascrive a quelle di diritto pubblico, trattandosi appunto di controversia intorno ai modi di esercizio del potere). Nel caso inverso, cioè laddove l'Amministrazione agente non aveva il potere di adottare l'atto giuridico di cui il fatto acquisitivo sarebbe esecuzione (l'atto se adottato, sarebbe nullo), la giurisdizione è del giudice ordinario, in sede possessoria e anche, ovviamente, in sede petitoria. Il potere è ritenuto insussistente (e perciò la relativa controversia è attratta nella giurisdizione ordinaria) in caso di aggressione di bene privato in carenza di dichiarazione di pubblica utilità o anche di intervenuto annullamento della stessa o di decorso dei termini per provvedere all'espropriazione (49). Si tratta invero di una distinzione molto sottile, e perplessa, ma sembra ormai consolidata in giurisprudenza. E il legislatore ne ha preso atto affidando alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto “i comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per pubblica utilità” (art. 133, 1º co., lett. g), Cod. proc. amm.). L'espressione usata dalla norma è da intendere in senso lato come quella che nasconde ogni fatto ablativo di beni privati. L'ascrizione di questa giurisdizione a quella esclusiva arricchisce la gamma delle azioni esperibili davanti al giudice amministrativo a tutela della proprietà e del possesso. Qui il giudice amministrativo si trasforma in vero e proprio giudice civile, in possessorio e in petitorio (50); ed emergono perciò quei problemi, segnalati particolarmente dalla scuola processualistica fiorentina, posti dalla ricorribilità in Cassazione per soli motivi inerenti alla giurisdizione, contro le sentenze del giudice amministrativo, anche laddove detto giudice è chiamato ad applicare norme civilistiche (51). Sul punto occorre particolarmente segnalare l'ingresso nel giudizio amministrativo delle azioni possessorie precedentemente del tutto estranee alla competenza di detto giudice ma ormai riconosciute da giurisprudenza pacifica della Cassazione. 12. Il principio di effettività trova poi nel nostro sistema, com'è noto, un'importante manifestazione nella previsione (tradizionalmente presente ma adesso rafforzata: artt. 112 ss. Cod. proc. amm.) di un'efficace tutela esecutiva (c.d. giudizio di ottemperanza), per certi aspetti più efficace della tutela esecutiva di cui al Codice di procedura civile; che consente al giudice amministrativo, utilizzando lo strumento del commissario ad acta, di tradurre le sue statuizioni in atti e fatti (l'adozione di atti amministrativi, il pagamento di somme di denaro, etc.) che le pubbliche Amministrazioni devono porre in essere a soddisfazione di pretese violate che il giudice accerti siccome fondate (52). Le sentenze e gli altri provvedimenti a contenuto decisorio (segnatamente, le ordinanze cautelari) del giudice amministrativo sono esecutivi. La norma è chiara: devono essere eseguiti dalle pubbliche Amministrazioni e dalle altre parti. Se si tratta di sentenze, l'esecutività è propria di esse, a prescindere dal passaggio in giudicato (fatto questo, cui si connettono altri e più specifici effetti). Alcune sentenze non necessitano di un'attività esecutiva perché direttamente producono effetti (annullamento dell'atto impugnato, dichiarazione di nullità etc.). Ma in molti casi, viceversa, un'attività esecutiva è necessaria perché il provvedimento del giudice, nel suo contenuto accertativo o dispositivo, possa tradursi in fatti satisfattivi delle pretese di parte che il giudice stesso ha ritenuto fondate, le quali quindi devono essere soddisfatte. Laddove l'esecuzione della sentenza si esprime nell'adozione di atti amministrativi, si pone il problema della compatibilità di detti atti con il diritto vigente al momento della loro adozione, che nel frattempo può risultare modificato (rispetto a quello applicato nella sentenza). Sul punto, a fronte dell'esigenza di far convivere due principi che appaiono contrapposti (il vincolo del giudicato, da un lato, e la necessaria conformità degli atti amministrativi al diritto vigente secondo il principio di legalità, dall'altro) la giurisprudenza, come è noto ha assunto un orientamento, si direbbe “salomonico”, facendo punto di discrimine tra effettività del giudicato e applicazione dello jus superveniens, il momento della notifica della sentenza (Ad. plen. 8 gennaio 1986 n. 1; 21 febbraio 1994 n. 4). Ciò si verifica sempre a fronte di sentenze di condanna (a un facere specifico o a un pagamento di una somma di denaro, o laddove consentito, all'adozione di un atto amministrativo); ma anche a fronte di sentenze di mero accertamento, cui deve fare seguito un'attività da parte dell'Amministrazione, resa necessaria appunto, dall'accertamento, ove questo abbia contenuto positivo (cioè, qualcosa doveva essere fatto e non è stato fatto: come ad esempio a seguito del ricorso sul silenzio laddove si è accertato che l'Amministrazione doveva provvedere e non ha provveduto). E a fronte delle stesse sentenze di annullamento o dichiarative della nullità, una volta demolito il provvedimento, l'Amministrazione in occasione del nuovo esercizio del potere, se ce ne sono le condizioni, dovrà attenersi a quanto stabilito dal giudice in punto di legittimità dell'attività svolta (il potere, si sa, è una capacità e il suo esercizio è inesauribile). In molti casi dunque, l'esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo (ma anche di quelle del giudice ordinario laddove si tratta di controversie di diritto pubblico), avviene attraverso esercizio di poteri amministrativi in un ambito operativo stabilito sì dalla sentenza (spesso in termini non precisi), ma anche condizionato dal contesto nel quale l'azione si situa che può essere diverso o più articolato o anche innovativo in termini reali, rispetto a quello considerato dalla sentenza. Da qui, l'estrema delicatezza, e anche la maggiore flessibilità, che le sentenze del giudice amministrativo (meglio: le sentenze assunte nell'ambito di controversie di diritto pubblico) presentano rispetto alle sentenze assunte in sede ordinaria in esito a controversie di diritto comune. Per l'esecuzione delle sentenze e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo e anche di altri giudici (e anche in esito a controversie di diritto comune, ma eseguibili dalla pubblica amministrazione) lo strumento del ricorso per ottemperanza è esperibile da coloro a cui favore la sentenza è stata pronunziata, in caso di inadempimento parziale o totale dell'Amministrazione o delle altre parti obbligate (artt. 112 ss., citt.), davanti allo stesso giudice che ha emanato la sentenza che si tratta di eseguire (ma è il TAR se la sentenza di appello ne ha confermato il contenuto dispositivo). Se si tratta di sentenza di altro giudice, l'azione è proposta davanti al TAR nella cui circoscrizione ha sede il giudice stesso; non è sottoposta a termini di decadenza, ma si prescrive in dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza che si tratta di eseguire. Il contenuto dell'azione può essere plurimo, e assai articolata e differenziata è la tutela che si chiede al giudice dell'ottemperanza (che è giudice di merito, art. 134, Cod. proc. amm., e quindi usufruisce di più penetranti poteri decisori, art. 7, 6º co., Cod. proc. amm.). A fronte di atti emessi dall'Amministrazione a seguito della sentenza, se risultano in violazione o elusivi della sentenza stessa (ma qui solo se si tratta di sentenza passata in giudicato) sono dichiarati nulli; se in violazione di sentenza esecutiva non passata in giudicato o di altro provvedimento esecutivo, sono dichiarati inefficaci. A fronte di inazione (l'Amministrazione o altra parte obbligata non esegue, resta inerte) il giudice ordina che vengano adottati i necessari atti, anche se si tratta di provvedimenti amministrativi (nei limiti in cui la sentenza del giudice, come s'è detto, può ordinare l'adozione di tali atti: art. 34, 1º co., lett. c); art. 31. 3º co., Cod. proc. amm.), ovvero adottarli direttamente, mediante commissario ad acta che opera come ausiliario del giudice ma allo stesso tempo come organo straordinario dell'Amministrazione (art. 34, 1º co., lett. e); art. 114, 4º co., lett. a) e d), Cod. proc. amm.). La tutela esecutiva si è rafforzata nel Cod. proc. amm. anche per effetto dell'introduzione di una misura coercitiva o astreinte a carico dell'Amministrazione o di altro soggetto resistente nel giudizio di ottemperanza (53), attraverso la fissazione di una somma di denaro “dovuta per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato”; misura da applicarsi, secondo recentissima giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688), sulla base dei parametri di cui all'art. 614-bis, cod. proc. civ., “in ragione della gravità dell'inadempimento, del valore della controversia, dell'entità del danno”, etc. Si tratta, come chiarito dall'autorevole dottrina appena citata, della minaccia di una lesione dell'interesse dell'obbligato (a prestazioni di fare o di non fare) “più grave di quello che gli cagiona l'adempimento, allo scopo di influire sulla sua volontà onde indurlo ad adempiere”. Le questioni “relative all'ottemperanza” cioè quelle che si possono porre all'indomani della sentenza del giudice dell'ot temperanza in ordine all'attività esecutiva da questo disposta, anche per quanto riguarda gli atti stessi del commissario ad acta nominato dal giudice, in caso di contestazione sono portate alla cognizione dello stesso giudice dell'ottemperanza. E così, se si contesta la legittimità degli atti adottati dal commissario le parti interessate possono proporre reclamo davanti al giudice stesso secondo disciplina speciale. Mentre se si tratta della contestazione di tali atti da parte di soggetti terzi (estranei cioè al giudizio che ha dato luogo alla sentenza di cui si chiede l'ottemperanza) si applicano le norme del rito ordinario (art. 114, 6º co., Cod. proc. amm.). In sede di ottemperanza alle sentenze passate in giudicato, possono anche porsi questioni relative alla condanna al pagamento di somme di denaro a titolo di rivalutazione o interessi; e anche azione risarcitoria per “danni connessi all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione” (art. 112, 3º co., Cod. proc. amm., come sost. dall'art. 1, 1º co., d.lgs. n. 195/11). La norma originaria prevedeva, com'è noto, l'esperibilità in sede di ottemperanza anche dell'azione risarcitoria ordinaria. 13. La gran parte delle azioni previste a tutela delle situazioni protette nelle controversie di diritto pubblico sono tipiche, cioè previste espressamente dalla legge e sottoposte a discipline proprie (termini, modalità procedurali, provvedimenti giurisdizionali conseguenti in caso di accoglimento). Tipica è l'azione di annullamento, l'azione di nullità, la particolare azione (di accertamento e di condanna) avverso il silenzio dell'Amministrazione, l'azione risarcitoria nelle sue diverse forme. Ma sono ammesse anche azioni atipiche, quali richieste da particolari esigenze di tutela. E tali sono le azioni di condanna diverse da quella risarcitoria, che sono esperibili, come s'è visto, ai sensi dell'art. 30, 1º co., contestualmente all'azione di annullamento; il cui oggetto varia a seconda delle diverse esigenze di tutela della situazione sostanziale (54). E anche azioni di mero accertamento sono esperibili laddove si tratta di accertare che le condizioni di esercizio di un determinato potere amministrativo (il cui mancato esercizio viene a ledere situazioni protette di terzi) si fossero verificate in concreto essendo l'Amministrazione rimasta inerte. Il modello è quello collaudato del giudizio sul silenzio ma estende la sua portata nell'attuale esperienza a tutti quei casi (che diventano sempre più numerosi: Dirett. servizi, n. 2006/123/CE; d.lgs. n. 59/2010; art. 3, d.l. n. 138/2011 conv. l. n. 148/2011) di attività private (potenzialmente lesive di diritti e interessi di terzi) che possono liberamente esplicarsi previa dichiarazione all'Amministrazione competente (DIA o SCIA: art. 19 l. n. 241/1990 e succ. modif.), solo a certe condizioni; la cui mancanza in concreto deve essere accertata al fine dell'adozione di provvedimenti amministrativi repressivi. L'inerzia dell'Amministrazione, in questi casi, a fronte della diffida dell'interessato, può essere accertata dal giudice su domanda dello stesso, e all'accertamento (che non ricorrano nella specie le condizioni per l'esercizio dell'attività privata) può seguire condanna ad adottare il necessario provvedimento repressivo. Questa gamma di azioni, rese disponibili nel nuovo ordinamento a tutela delle situazioni protette nei rapporti di diritto pubblico (qui delineate solo in alcuni aspetti) rende la tutela amministrativa sostanzialmente conforme ai principi costituzionali ed europei di pienezza ed effettività, tutela ormai tendenzialmente equiparata alla tutela giurisdizionale nei rapporti di diritto comune. Il carattere particolare dei rapporti di diritto pubblico, è dato dal fatto che si tratta dell'esercizio del potere (e non dell'adempimento di obblighi), ciò che li accomuna a quei rapporti privatistici nei quali si tratta dell'esercizio di poteri privati, come in materia societaria, in materia di lavoro, etc. Tale carattere ovviamente dà luogo a un particolare tipo di accertamento giurisdizionale che presenta in molti casi una marcata “elasticità” (che si avvicina spesso ad un giudizio di merito nel quale si tratta di valutare la pluralità degli interessi in gioco). Mentre, il fatto che si tratta in questi casi dell'esercizio di poteri pubblici (“autoritativi”, ancora secondo la Corte costituzionale) non è di per sé caratterizzante la specialità della tutela giurisdizionale (come precedentemente si preferiva ritenere). Ché nel nuovo ordinamento, ormai allineato sui principi costituzionali, di fronte alla giurisdizione, soggetti e relative situazioni protette godono del medesimo trattamento, pubblici o privati che siano, diritti o interessi legittimi, e il giudice (come ogni giudice) è chiamato soltanto ad accertare la fondatezza delle relative pretese. L'interesse pubblico cui il giudice amministrativo (come, appunto, ogni altro giudice) è chiamato a servire, è quello di dare ragione a chi ha ragione e torto a chi ha torto, a prescindere dal fatto che una delle parti (o più parti, o addirittura tutte le parti, come avviene quando una pubblica Amministrazione ricorre in giudizio contro un'altra pubblica Amministrazione) sia un soggetto pubblico, come tale non portatore di interessi propri ma di interessi della collettività che rappresenta; ciò che si traduce soltanto in alcune particolarità del trattamento processuale della parte pubblica, ad esempio in ordine alla disponibilità delle prove. Tuttavia, non può ignorarsi che le controversie di diritto pubblico, come quelle nelle quali si disputa intorno all'esercizio del potere amministrativo (che è funzione di governo della collettività), presentano, appunto, delle particolarità che giustificano la giurisdizione speciale. La “rilevanza politica della lite” come quella che giustifica la presenza di una giurisdizione amministrativa separata dalla giurisdizione comune, fu posta in risalto da Carnelutti (55). Invero, fermo restando il carattere soggettivistico della giustizia amministrativa, ormai acquisito e non può in discussione (ma dubbi e criticità sul punto, furono espressi da Nigro), la giustificazione della sua esistenza, che esclude la cognizione delle controversie di diritto pubblico (salve quelle sopra indicate) dalla giurisdizione comune, sta in ciò, che attraverso il giudizio su dette controversie, si stabiliscono anche le regole dell'azione amministrativa (e proprio nel nuovo sistema caratterizzato dalla pluralità delle azioni, questo carattere si accentua); e in ciò il giudice non può prescindere dalla rilevanza degli interessi in gioco, che non sono solo (come viceversa avviene nelle controversie di diritto comune) gli interessi delle parti dello specifico rapporto di cui si controverte. Basti pensare, stando alla (parziale) rassegna delle azioni che s'è percorsa, alla rilevanza dell'effetto conformativo della sentenza di annullamento, alla valutazione del carattere “vincolato” (o a discrezionalità esaurita) del procedimento al fine della condanna dell'Amministrazione all'adozione di un determinato provvedimento, alla cognizione nel merito degli interessi coinvolti nell'ambito dell'esecuzione della sentenza, alla questione del contemperamento tra forza del giudicato e jus superveniens. Si tratta (a tacere di altri, come in ordine alla giurisdizione sui contratti, non trattata in queste pagine, nella quale il giudice entra nel merito dell'assetto negoziale) di una serie di compiti affidati al giudice amministrativo in molteplici manifestazioni della propria giurisdizione che non troverebbe cittadinanza nella giurisdizione comune. Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin: 10px 10px;"> Note: (*) Questo scritto, che dedico a Fabio Merusi con ammirazione ed amicizia, nasce da una serie di incontri di studio seguiti all'adozione del nuovo Codice del processo amministrativo (Cod. proc. amm., d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, integr. d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195), tra i quali (avendo compito di relatore), ricordo: Lecce9-10 ottobre 2009, “Il codice del processo amministrativo” (i cui atti sono stati pubblicati in Verso il codice del processo amministrativo, a cura di G. Pellegrino, Roma, 2010); Pescara, 5 novembre 2010, “Il nuovo processo amministrativo”; Roma, Università La Sapienza 28 ottobre 2010, “Il nuovo codice del processo amministrativo”; Pisa, 10 dicembre 2010, “La riforma del processo amministrativo: la fine dell'ingiustizia amministrativa?”, in onore del prof. Fabio Merusi; Università de L'Aquila, 30 novembre 2010, “Il nuovo codice del processo amministrativo”; Torino, 13 maggio 2011, “Il codice del processo amministrativo: prime riflessioni ad otto mesi dall'entrata in vigore nella prospettiva dei correttivi”; Università di Teramo, 21 ottobre 2011, “Giustizia amministrativa: garanzie costituzionali e principi del diritto dell'Unione Europea”; nonché dal lavoro svolto nell'ambito della Commissione istituita con Decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 23 luglio 2009, in base alla delega di cui all'art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, per la redazione dello stesso Codice.Sui principi costituzionali, la riflessione si è fatta più intensa a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 204/04, alla quale avevo dedicato il saggio Giurisdizione amministrativa e Costituzione, in Giur. cost., 2004, qui in parte ripreso. (1) Sulla giustizia amministrativa nella Costituzione, G. Berti, Commento art. 113, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1987; V. Bachelet, La giustizia amministrativa nella Costituzione italiana, Milano, 1966; L. Elia, Appunti sul riparto tra le due giurisdizioni nella più recente giurisprudenza costituzionale (1980-1985), in Studi in memoria di Vittorio Bachelet, II, Milano, 1987, 165; F. Sorrentino, Profili costituzionali della giurisdizione amministrativa, in questa Rivista, 1990, 68; A. Pajno, Le norme costituzionali sulla giustizia amministrativa, in questa Rivista, 1994, 419.Sugli altri ordinamenti europei, un quadro di insieme in D. Sorace (a cura di), Discipline processuali differenziate nei diritti amministrativi europei, Firenze, 2009. Sulla giurisprudenza del Conseil Constitutionnel francese, e più in generale sulla “costituzionalizzazione” del giudice amministrativo in Francia, P. Delvolvé, La constitutionnalisation du droit administratif, in Cinquantième anniversaire de la Constitution française, Dallotz, 2008; T. Larzul, Droit constitutionnel de l'administration, in Juris classeur, 1997, fasc. 1452. (2) Sulla giustizia amministrativa nel rapporto tra centro e periferia, in un sistema che va verso il federalismo, V. Cerulli Irelli, Giustizia amministrativa e federalismo, in La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali. Atti Varenna, Milano, 2011. (3) Sul giusto processo, di recente, con specifico riferimento al processo amministrativo, F.G. Scoca, I principi del giusto processo, in Giustizia amministrativa, a cura di Id., 2011, 165 ss.; F. Merusi, Il codice del giusto processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 1 ss. (4) F. Benvenuti, Giustizia amministrativa, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970; M.S. Giannini-A. Piras, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970; A. Romano, La giurisdizione amministrativa e limiti alla giurisdizione ordinaria, Milano, 1975; Id., La giurisdizione esclusiva dal 1865 al 1948, in questa Rivista, 2004, 417. (5) G. Mantellini, I conflitti di attribuzione in Italia dopo la legge del 31 marzo 1877, Firenze, 1878; A. Salandra, La giustizia amministrativa nei governi liberi, Torino, 1904; F. Cammeo, Commentario alle leggi sulla giustizia amministrativa, Milano, 1911; V. E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, III, pt. II, Milano, 1923; S. Spaventa, La giustizia nell'amministrazione, Discorso pronunciato nell'Associazione costituzionale di Bergamo il 7 maggio 1880, in La giustizia nell'amministrazione, Torino, 1949.Di recente, Le riforme crispine, II, Giustizia amministrativa, Milano, 1990, e ivi i saggi La legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato e), nella giurisprudenza del giudice ordinario, a cura di P. Gotti; Le questioni di giurisdizione nella giurisprudenza della Cassazione di Roma, a cura di V. Cerulli Irelli. (6) M.S. Giannini-A. Piras, Giurisdizione amministrativa, cit.; V. Cerulli Irelli, La riforma della giustizia amministrativa: considerazioni introduttive, in Verso il nuovo processo amministrativo. Commento alla legge 21 luglio 2000 n. 205, a cura di Id., Torino, 2000, 3. (7) Dagli Amici fiorentini, viene icasticamente affermato che il “punto logico di partenza” (da intendere: il fondamento della nostra disciplina), che Ranelletti identificava nello Stato (e non nella libertà!) si ribalta nel primato della libertà sullo Stato; cioè, appunto, nella pari dignità delle situazioni protette dalla legge, pubbliche o private che siano, come quelle che allo stesso modo accedono alla tutela giurisdizionale. Cfr. W. Gasparri, “Il punto logico di partenza”, Milano, 2004. Il richiamo è a O. Ranelletti, Concetto e contenuto giuridico della libertà (1899), in Scritti giuridici, I, Napoli, 1992, 207. (8) I lavori dell'Assemblea Costituente sono pubblicati integralmente in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell'Assemblea costituente, Camera dei deputati, Roma, 1970, in otto volumi. Una utile sintesi dei lavori in nota agli articoli della Costituzione, in La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, a cura di V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, Milano, 1976. (9) G. Verde, Ma che cos'è questa giustizia amministrativa?, in questa Rivista, 1993, 587 ss. (10) Sulla dimensione quantitativa, da ultimo, cfr. C. Talice-S. Talice, Analisi dell'attività della giustizia amministrativa nel 2009, in Giurisdiz. amm., 2010, 425. Per una descrittiva del funzionamento del sistema, cfr., M. Nigro, È ancora attuale una giustizia amministrativa?, in Foro it., 1983, V, 249 ss.; F. Merusi-G. Sanviti, L'“ingiustizia” amministrativa in Italia, Bologna, 1986; G. Verde, Ma cos'è questa giustizia amministrativa?, cit. (11) M.S. Giannini svelò, attraverso alcuni notissimi studi, l'effettivo criterio di riparto, al di là di quello enunciato circa la distinzione tra diritti e interessi legittimi: Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. dir. proc., 1963, 1964; ma anche M.S. Giannini-A. Piras, Giurisdizione amministrativa, cit.; A. Romano, La giurisdizione amministrativa, cit. (12) Sulla giurisdizione ordinaria nelle controversie avverso atti amministrativi nulli lesivi di diritti soggettivi: Cass., Sez. un., 4 novembre 2002, n. 15382 in tema di fermo amministrativo adottato da una provincia; Cass., Sez. un., 29 gennaio 2001, n. 36, in tema di espropriazione di un fondo non incluso tra le aree destinate all'espropriazione; Cass., Sez. un., 1 giugno 2000, n. 384, in tema di prestazioni pecuniarie imposte dall'ENEL; Cass., Sez. un., 1 luglio 2002, n. 9557 in tema di servitù esercitata su un passaggio a livello ferroviario.Nelle controversie in ordine ad atti emanati nell'esercizio di poteri vincolati, la giurisprudenza come è noto, è assai perplessa e spesso oscillante, anche perché il criterio prevalentemente seguito al fine di stabilire il riparto della giurisdizione, ruota intorno all'interesse perseguito dalla norma attributiva del potere, il quale anche se vincolato, secondo questa giurisprudenza, può dar luogo ad effetto degradatorio del diritto soggettivo, laddove l'interesse seguito dalla norma, nell'interpretazione del giudice sia quello della tutela dell'interesse generale e non dell'interesse particolare del soggetto che pretende la prestazione. Sul punto in giurisprudenza, tra le tante: Cons. Stato, Sez. VI, 16 marzo 2009, n. 1550, secondo cui “al carattere vincolato dell'attività svolta dall'amministrazione non consegue la consistenza di diritto soggettivo delle posizioni giuridiche coinvolte, laddove il vincolo nell'esercizio dell'attività amministrativa sia comunque posto a presidio di interessi pubblicistici”. In dottrina per tutti, A. Orsi Battaglini, Attività vincolata e situazioni soggettive, in Riv. trim. dir. proc. civ, 1988, 3; F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull'amministrazione pubblica, in questa Rivista, 1983; F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla formulazione alla legge del procedimento, in Dir. amm., 1995.Sull'attività materiale della pubblica amministrazione, segnatamente, laddove si tratti di occupazioni abusive, la giurisprudenza è ormai attestata, come è noto (v. anche infra, par. 11) sull'ambiguo criterio del collegamento o meno del fatto abusivo ad un preesistente potere amministrativo in capo al soggetto agente, la cui sussistenza anche se non si è tradotta nell'esercizio del potere, seguendo le formalità di legge, ma semplicemente nell'esecuzione in fatto, radicherebbe comunque la competenza del giudice amministrativo: Corte cost. n. 191/2006, in Foro it., 2006, I, 1625, con nota di A. Travi, Principî costituzionali sulla giurisdizione esclusiva ed occupazioni senza titolo dell'amministrazione; Cass., Sez. un., 29 agosto 2008, n. 21929 in tema di occupazione usurpativa per mancanza della dichiarazione di pubblica utilità; Cass., Sez. un., 9 marzo 2009, n. 5625, secondo cui non sussiste la giurisdizione del giudice ordinario laddove si verta in una controversia risarcitoria conseguente all'annullamento ex tunc della dichiarazione di p.u. atteso che, in questo caso, non potrebbe ravvisarsi la carenza di potere dell'autorità procedente; nonché nello stesso senso Cass., Sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26762 e Cass., Sez. un., 19 aprile 2007, n. 9324, secondo cui “l'ingerenza di una pubblica amministrazione nella proprietà altrui, in assenza di una ragione di pubblica utilità legalmente dichiarata, integra un comportamento del tutto avulso dall'esercizio del potere di occupazione di un'area ai fini dell'espropriazione, immediatamente lesivo del diritto soggettivo e quantificabile come fatto illecito generatore di un danno la cui determinazione è dovuta al giudice ordinario”.Sulle controversie inerenti ai diritti soggettivi cd. indegradabili: Corte cost. n. 140/2007, in Giur. cost., 2007, 1277; Cass., Sez. un., 2 novembre 1979, in Foro it., 1979, I, 2548; Cass. 8 giugno 1981, n. 3687, in Notiz. giurispr. lav., 1981, 440; Cass. 27 maggio 1983, n. 3675, in Foro it., 1984, I, 1541 con nota di M. Buoncristiano; Cass. 19 giugno 1982, n. 3773, in Foro it., 1983, I, 113, con nota di M. Buoncristiano; Cass. 29 giugno 1981, n. 4250, in Giust. civ., 1982, I, 181. Ancora, la Cassazione ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie in tema di rilascio di permesso di soggiorno per motivi umanitari: Cass., Sez. un., 19 maggio 2009, n. 11535. In dottrina v. D. Piccione, Libertà costituzionali e giudice amministrativo, Napoli, 2008. (13) Si segnalano, tra queste categorie di controversie, quelle relative ai provvedimenti di espulsione degli stranieri (art. 13 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), ai provvedimenti del Garante in materia dei dati personali (art. 152 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), alle domande di ammissione al servizio civile (art. 5 l. 8 luglio 1998, n. 230); e soprattutto quelle in materia di provvedimenti relativi alla gestione dei rapporti di pubblico impiego ivi compresi i conferimenti di incarichi dirigenziali (art. 63 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). (14) Si vedano in particolare le storiche sentenze della Corte, e in particolare Corte cost., n. 55/66, in Foro it., 1966, I, 986; n. 30/1967, in Foro it., 1967, I, 681; n. 33/68, in Foro it., 1968, I, 1099; n. 49/1968, in Foro it. 1968, I, 1383, in materia di consigli di prefettura; nonché n. 177/1973, in Foro it., 1974, I, 1, sulla nomina governativa dei membri del Consiglio di Stato; n. 32/70, ivi, 1970, I, 1026; n. 1/1978, ivi, 1978, I, 282; sull'annullamento degli atti amministrativi; n. 284/74, ivi, 1975, I, 263; n. 8/82, ivi, 1982, I, 329; n. 63/82, ivi, I, 1216; n. 190/85, ivi, 1985, I, 1881, in materia di tutela cautelare; n. 146/87, ivi, 1987, 1349, in materia di mezzi istruttori. (15) Cfr. Corte cost., n. 190/85, cit., in tema di tutela cautelare; n. 146/87, cit., in tema di mezzi istruttori.Tra le categorie di controversie, via via attribuite alla giurisdizione esclusiva fino a tempi recenti, v. part., quelle in tema di gestione dei rifiuti (art. 4 d.l. 23 maggio 2008, n. 90, conv. in l. 14 luglio 2008, n. 123), di pubblicità ingannevole (art. 8 d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145), di controversie circa l'interpretazione dei contratti aventi ad oggetto titoli di debito pubblico (art. 61 d.p.r. 14 febbraio 1963, n. 1343, come sostituito dall'art. 7 d.p.r. 15 marzo 1984, n. 74), di accordi sostitutivi o integrativi di provvedimento (art. 11 l. 7 agosto 1990, n. 241), di decisioni dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 33 l. 10 novembre 1990, n. 287; art. 7 d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 come sostituito dal d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 67); di contratti pubblici (art. 6 l. 24 dicembre 1993, n. 537); di decisioni dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici (art. 4 l. 11 febbraio 1994, n. 109 come modificato dall'art. 9 l. 18 novembre 1998, n. 415); di decisione dell'Autorità garante delle comunicazioni e Autorità garante dell'energia e del gas (art. 2 l. 14 novembre 1995, n. 481; art. 1 l. 31 luglio 1997, n. 249). Da ultimo, il Cod. proc. amm., all'art. 133, elenca le categorie di controversie già attribuite alla giurisdizione esclusiva a cui se ne aggiungono alcune (tra queste, quelle in materia di SCIA e silenzio-assenso). (16) Sui tentativi di modifica degli artt. 103 e 113 Cost., nella XIV legislatura cfr. la proposta di legge costituzionale A. C. n. 7465, Cerulli Irelli (“La giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione nelle materie indicate dalla legge. È riservata in ogni caso alla giurisdizione amministrativa la cognizione delle controversie riguardante l'esercizio di poteri amministrativi”); nonché il progetto di revisione della seconda parte della Costituzione (Commissione Bicamerale D'Alema, A.C. 3931-A: “La giurisdizione amministrativa è esercitata dai giudici dei Tribunali regionali di giustizia amministrativa e della Corte di giustizia amministrativa sulla base di materie omogenee indicate dalla legge riguardanti l'esercizio di pubblici poteri”, art. 119). (17) O. Ranelletti, La giurisdizione competente per le controversie contro pubbliche amministrazioni aventi per oggetto diritti patrimoniali derivanti dal rapporto di impiego, nota a Corte App. Bologna, 13 maggio 1927, in Foro it., 1928, I, 94; negli stessi termini, Id., Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano, 1934, 446 ss. Su tale svolta giurisprudenziale cfr. anche G. Fagiolari, L'atto amministrativo nella giustizia amministrativa, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, II, Padova, 1940, 287 ss., U. Forti, nota a Cons. Stato, Ad. plen., 18 dicembre 1940, in Foro it., 1941, III, 194; Id., nota a Cass., Sez. un., 25 luglio 1938, n. 2764, in Foro it., 1939, I, 10. (18) Per tutti A.M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati, Napoli, 1963, che evidenzia con particolare precisione i vari casi in cui sono ammesse, davanti al giudice amministrativo, azioni che “possono essere chiamate di accertamento, anche se talora culminano in pronunzie che non sono meramente dichiarative”; azioni che risalgono all'antica giurisdizione piena del Consiglio di Stato, anteriore alla riforma del 1865. In tali casi, nota l'illustre Autore, “il giudizio non ha di mira la caducazione di un atto di autorità, bensì la risoluzione di una controversia relativa a rapporti giuridici paritari tra l'Amministrazione e altri soggetti o tra più Amministrazioni: rapporti, cioè, nei quali nessuna delle parti si presenta rispetto alle altre in veste autoritaria” (ivi, 144). (19) M.S. Giannini, Gli atti amministrativi di adempimento e la giurisdizione esclusiva, nota a Cons. Stato, Sez. IV, 21 febbraio 1945, n. 9, in Giur. compl. cass. civ., 1945, I, 389.La casistica in tale ambito annovera, fra le altre, ipotesi di azioni del privato per la ricostruzione della carriera (Cons. Stato, Sez. V, 11 luglio 2002, n. 3892; Sez. VI, 11 dicembre 1999, n. 2071); per il riconoscimento della causa di servizio o dell'equo indennizzo (Cons. Stato, Sez. V, 23 maggio 2003, n. 2783); per il riconoscimento della pretesa ad una maggiore retribuzione in ragione dello svolgimento di mansioni superiori (Cons. Stato, Sez. VI, 15 gennaio 2002, n. 188); per la ripetizione di somme indebitamente corrisposte dall'amministrazione al dipendente (Tar Puglia, Sez. I, 31 maggio 2001, n. 2051). (20) In primo luogo, quelle concernenti i contratti di prestito pubblico, ai sensi dell'art. 29 n. 4 del T.U. Cons. St. (v. ora il d.P.R. 30 dicembre 2003, n. 398), sulle quali, Tar Marche, 29 dicembre 2003, n. 1917, in Trib. amm. reg., 2004, I, 708, secondo cui “ai sensi dell'art. 29, 1º comma, n. 4 t.u. 26 giugno 1924 n. 1054 sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di debito pubblico, incluse quelle tra lo Stato e i suoi creditori riguardanti l'interpretazione dei contratti di prestito pubblico, delle leggi relative a tali prestiti e quelle aventi ad oggetto il diritto al rimborso di titoli al portatore”; Tar Lazio, Sez. I, 29 agosto 1989, n. 1132, in tema di rimborsabilità da parte dell'amministrazione di CCT e BOT rubati al creditore. Cass., Sez. un., 7 maggio 2002, n. 6492 in tema di prescrizione del diritto al rimborso dei titoli del debito pubblico; Cass., Sez. un., 12 dicembre 1994, n. 10594, di pretesa di pagamento delle somme di CCT accidentalmente distrutti, smarriti o sottratti. Ed ancora, le controversie concernenti le spese per il ricovero degli inabili al lavoro, di cui all'art. 29 n. 6 del T.U. Cons. St. (v. in particolare l'art. 80 della l. 17 luglio 1890, n. 6972 come modificato dall'art. 36, r.d. 20 dicembre 1923, n. 2841 e dall'art. 3 l. 26 aprile 1954, n. 251): a tal proposito, per il rimborso di spese di spedalità, soccorso ed assistenza anche per le cause promosse dall'ente che ha sostenuto le spese contro l'ente tenuto a sopportarne gli oneri (Tar Lombardia, Brescia, 2 agosto 2002, n. 1093, Cons. Stato, Sez. V, 26 settembre 1995, n. 1359). Quelle concernenti le spese per gli alienati (v. art. 7 1º co., l. 14 febbraio 1904, n. 36): in questa materia si individuano le controversie tra enti pubblici in materia di spese di spedalità manicomiale (ex multis: Tar Toscana, Sez. II, 23 agosto 2001, n. 1333, Tar Lombardia, Brescia, 25 marzo 1998, n. 244, 25 gennaio 1995, n. 50, 20 luglio 1993, n. 629; Cons. Stato, Sez. V, 25 febbraio 1997, n. 187; Tar Emilia Romagna, Parma, 19 marzo 1996, n. 83). (21) Dopo la sentenza della Corte, l'attribuzione al giudice amministrativo, in via generale, per tutte le materie di propria competenza, della cognizione dell'azione risarcitoria a tutela delle situazioni protette, è stata ripetutamente confermata dalla Cassazione (la quale, abbandonando la sua linea interpretativa di cui alla citata sentenza n. 500/99, si è allineata alla giurisprudenza della Corte costituzionale, salvo il ripensamento subito superato di cui all'ord. delle Sez. un., 23 gennaio 2006, n. 1207). E ne ha rinforzato la portata mediante la ben nota affermazione circa l'autonomia di detta azione, ciò che ne consente l'esercizio, a fronte di atti amministrativi produttivi di danni ingiusti, anche in assenza della previa azione di annullamento (per tutte, Cass., Sez. un., 23 dicembre 2008, n. 30254). Sul punto, la nota disputa giurisprudenziale con il Consiglio di Stato, che riteneva pregiudiziale l'esercizio di detta azione rispetto all'azione risarcitoria (Cons. Stato, Ad. plen., n. 9/07, e n. 12/07; Cons. Stato, sez. VI, n. 587/09), è stata successivamente superata dal legislatore con il Cod. proc. amm., di cui subito appresso.È da ritenere definitivamente superata la configurazione (pur autorevolmente sostenuta: C. Varrone, Giurisdizione amministrativa e tutela risarcitoria, in Verso il nuovo processo amministrativo, a cura di V. Cerulli Irelli, cit., 33; successivamente in termini diversi, Id., Stato sociale e giurisdizione sui diritti del giudice amministrativo, Napoli, 2001) della tutela risarcitoria nei confronti delle pubbliche amministrazioni, come una materia di giurisdizione esclusiva anche ai sensi dell'art. 103 Cost. (22) M. Fromont, La place de la justice administrative française in Europe, in Droit administratif, Julliet, 2008. (23) Sulla legittimità, dal punto di vista della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, della coesistenza, nell'ambito di un organo giurisdizionale, anche di funzioni consultive, ma solo a certe condizioni, Corte EDU, 6 maggio 2003 Kleyn, in Foro it., 2004, IV, 565 ss.; 9 novembre 2006 Sacilor, in Giorn. dir. amm., 2007, 307, sentenza quest'ultima con oggetto il sistema francese di giustizia amministrativa del tutto simile al nostro. (24) La Corte costituzionale, con sentenze n. 1/78 e n. 177/73, ha affrontato il problema della legittimità della composizione del Consiglio di Stato e l'ha risolto nel senso della compatibilità del sistema con i principi costituzionali, affermando che le norme relative alla nomina governativa “danno vita ad una disciplina legislativa che, pur conferendo al Governo un ampio potere discrezionale, garantisce, in materia, il rispetto dell'esigenza dell'idoneità del giudice, nonché di quella dell'indipendenza del Consiglio di Stato e dei suoi componenti di fronte al Governo (e almeno per quanto possa derivare dall'esercizio del potere di nomina)”.Posizione critica in dottrina: part., A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”, Milano, 2005, 82; G. Silvestri, Giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione, in Scritti in onore di M.S. Giannini, III, Milano, 1988, 734; R. Garofoli, Unicità della giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo sviluppo del sistema giurisdizionale, in questa Rivista, 1998, 162. (25) A. Proto Pisani, Verso il superamento della giurisdizione amministrativa?, in Foro it., 2001, V, 21; Id., Appunti sul giudice delle controversie fra privati e pubblica amministrazione, ivi, 2009; V.A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto, cit.; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al giudizio di esecuzione, Milano, 2003; C. Cudia, Funzione amministrativa e soggettività della tutela, Milano, 2008; C. Marzuoli, Diritti e interessi legittimi: due categorie in cerca di legalità, in Quest. giust., 2009. (26) M. Sanino, Funzione pretoria della giurisprudenza amministrativa: la nuova collocazione della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in Giurisd. amm., 2/2011; E. Follieri, L'introduzione del principio dello stare decisis nell'ordinamento italiano, con particolare riferimento alle sentenze dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in corso di pubblicazione su questa Rivista. (27) V. da ultimo, Corte giust., 18 marzo 2010, C-317/08, C-320/08; 14 febbraio 2008, C-450/2006; Corte EDU, 6 aprile 2010, in Riv. dir. internaz., 2010, 842; 31 marzo 2009, in Dir. pubbl. comp. eur., 2009, 1111 con nota M. De Vito, La corte europea dei diritti dell'uomo si pronuncia ancora sul malfunzionamento della legge « Pinto » ma ne ribadisce l'effettività ex art. 13 Cedu; V. Cerulli Irelli, Trasformazioni del sistema di tutela giurisdizionale nelle controversie di diritto pubblico per effetto della giurisprudenza europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008. (28) Già partita con forte impegno: v. part. Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3, sulla pluralità delle azioni, e spec. sull'azione risarcitoria; 7 aprile 2011, n. 4, sulla situazione sostanziale come presupposto della legittimazione al ricorso; 29 luglio 2011, n. 15, sulla pluralità delle azioni, spec. sull'azione di accertamento; Cons. Stato, Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755; Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428, sull'azione di adempimento, ecc. Sul punto si vedano i primi commenti di M.A. Sandulli, Brevi considerazioni a prima lettura della Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, in www.giustamm.it; C.E. Gallo, L'articolo 6 della manovra economica d'estate e l'adunanza plenaria n. 15 del 2011: un contrasto soltanto apparente, ivi; N. Paolantonio, L'interesse legittimo come (nuovo) diritto soggettivo (in margine a Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3), ivi. (29) Sull'autodichia, F.G. Scoca, Autodichia e Stato di diritto, in questa Rivista, 2011. Sui principi del giusto processo come quelli che ormai reggono anche il processo amministrativo, v. oltre agli autori citati nella nota 3), G. Spadea, Il giusto processo amministrativo secondo l'art. 6 della CEDU e con cenni al caso italiano, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2000; C. Calabrò, Il giusto processo e la scommessa del nuovo diritto amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it. (30) Sul punto si veda M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2005, 557 ss. Dopo l'introduzione del Codice, sulla pluralità delle azioni, A. Pajno, Il codice del processo amministrativo ed il superamento del sistema della giustizia amministrativa. Una introduzione al libro I, in questa Rivista, 2011; R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo alla ricerca dell'effettività della tutela, in www.giustiziaamministrativa.it. (31) Sull'azione di nullità e sui problemi relativi alla previsione del termine decadenziale si vedano B. Sassani, Riflessioni sull'azione di nullità, in questa Rivista, 2011, 269 ss., spec. 272 ss.; F. Luciani, Processo amministrativo e disciplina delle azioni, in questa Rivista, 2011; A. Carbone, Dubbi e incertezze sull'art. 31 del Codice del processo amministrativo, in Foro amm.-Tar, 2011, 1099 ss., spec. 1117 nota 66. (32) A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 169 ss. (33) A. Proto Pisani, op. ult. cit., p. 177 ss. (34) Così Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3, ove si precisa che il codice del processo amministrativo ha disciplinato “nel rito in materia di silenzioinadempimento, l'azione di condanna pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento) all'adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1 a 3)”. Sulla natura di condanna dell'azione avverso il silenzio si vedano le considerazioni di A. Carbone, Dubbi e incertezze, cit., 1104. (35) In tal senso v. anche Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428, secondo cui è “ben possibile, però, che anche una attività “in limine litis” connotata da discrezionalità possa, a seguito della progressiva concentrazione in giudizio delle questioni rilevanti (ad esempio, mediante il combinato operare di ordinanza propulsiva e motivi aggiunti), risultare, all'esito dello scrutinio del Giudice, oramai “segnata” nel suo sviluppo”. Su tali tematiche, A. Carbone, Fine delle perplessità sull'azione di adempimento, in Foro amm.-Tar, 2011, 1499 ss., secondo cui “si introduce così nel nostro ordinamento il concetto, caro alla giurisprudenza tedesca, del Ermessensreduzierung auf Null, cioè l'azzeramento della discrezionalità per assenza di alternative nel caso concreto (cd. 'discrezionalità esaurita')” (36) Cons. Stato, Ad. plen., n. 3/2011 cit., secondo cui “il legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l'azione di condanna volta ad ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio”. Analogamente Tar Lombardia, Milano, Sez. III, n. 1428/2011 cit. (37) Sull'azione di adempimento, M. Clarich, L'azione di adempimento nel sistema di giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive e orientamenti giurisprudenziali, in questa Rivista, 1985, 66 ss.; Id., Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, cit., 557 ss.. Dopo l'introduzione del Codice, M. Clarich, Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, in Giorn. dir. amm., 2010; E. Follieri, Le azioni di annullamento e di adempimento nel codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it; A. Carbone, Fine delle perplessità sull'azione di adempimento, cit., 1499 ss. Sui problemi applicativi, A. Carbone, Azione di adempimento, disponibilità della situazione giuridica e onere della prova. Intervento alla X edizione delle giornate di studi sulla giustizia amministrativa dedicate a E. Cannada Bartoli, in Foro amm.-Tar, 2011, 2959 ss. (38) In questo senso anche E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120-124 del codice del processo amministrativo, in questa Rivista, 2010, 1067 ss. (39) Sull'azione risarcitoria nel processo amministrativo, vedi, tra gli altri, R. Chieppa, Art. 30, Azione di condanna, in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, Milano, 2011; S. Varone, Azioni di cognizione, in Codice del processo amministrativo, a cura di M. Sanino, Torino, 2011; R. Giovagnoli, Il risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, Milano, 2010; R. Caranta, Attività amministrativa ed illecito aquiliano, Milano, 2001; G.P.Cirillo, Il danno da illegittimità dell'azione amministrativa e il giudizio risarcitorio, Padova 2001. (40) Sull'elemento soggettivo, S. Cimini, La colpa nella responsabilità civile delle amministrazioni pubbliche, Torino 2008. Da ultimo, la Corte di giustizia, 30 settembre 2010, C-314/09, in www.giustamm.it, ha affermato che il diritto dell'Unione europea osta ad una normativa nazionale la quale subordini il diritto ad ottenere il risarcimento al carattere colpevole della violazione della P.A., ancorché tale carattere sia accertato in via presuntiva. V. ivi i commenti di S. Vinti, Violazione del diritto all'aggiudicazione: una responsabilità civile del “terzo tipo”? e di S. Cimini, La colpa è ancora un elemento essenziale della responsabilità da attività provvedimentale della p.A.? (41) Tar Sicilia, Palermo, Sez. I, ord. 7 settembre 2011, n. 1628 ha infatti sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, dell'art. 30, comma 5, del Cod. proc. amm. nella parte in cui prevede, per la proposizione di una azione risarcitoria nei confronti della P.A., un termine decadenziale di centoventi giorni dall'avvenuta formazione del giudicato di annullamento. (42) Giurisprudenza costante: tra le altre Cass. 29 luglio 1999, n. 8231; 21 aprile 1993, n. 4672, in Nuova giur. civ., 1994, I, 233. Più di recente, Cass., Sez. lav., 10 dicembre 2007, n. 25743, in Nuova giur. civ., 2008, I, 908; 11 maggio 2005, n. 9898. (43) Cons. Stato, Ad. plen., n. 3/11 cit., secondo cui è necessario sostituire “al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sindacabilità delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell'art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto”. (44) Cass., 13 ottobre 2011, n. 21170, in www.leggiditaliaprofessionale.it; 16 settembre 2011, n. 18980, ivi, secondo cui “questa Suprema Corte, in tema di risarcimento del danno prodotto dall'illegittimo esercizio della funzione pubblica, ha, inoltre, più volte affermato che, se l'interesse è pretensivo, al fine di ritenere la sussistenza o meno del diritto al risarcimento del danno, occorre valutare, a mezzo di un giudizio prognostico, da condurre in base alla normativa applicabile, se colui che ha richiesto il risarcimento fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole”; 1 dicembre 2010, n. 24382, ivi; 6 febbraio 2009, n. 2991; 29 marzo 2006, n. 7228; 10 febbraio 2005, n. 2705, in Foro amm.-C.d.S., 2005, 1015. (45) Cass., n. 2705/05 cit. (46) Così, da ult., molto incisivamente, Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271, in www.lexitalia.it; 21 marzo 2011 n. 1739, ivi. (47) Cons. Stato, Ad. plen., 29 aprile 2005, n. 2, in Foro it., 2006, III, 71; Sez. IV, 2 settembre 2011, n. 4970, in www. giustizia-amministrativa.it; Sez. IV, 29 agosto 2011, n. 4833, ivi; Tar Emilia Romagna, Parma, 12 luglio 2011, n. 245, ivi. (48) Cfr. Cass., Sez. un., 25 maggio 2000, n. 43, in Foro it., 2000, I, 2143; 14 luglio 2000, n. 494, in Foro it., 2001, I, 2475; 27 giugno 2003, n. 10289, in Urb. app., 2003, 1410; 11 marzo 2004, n. 5055, in www.Lexitalia.it. In dottrina, N. Pecchioli, Le azioni possessorie al cospetto del giudice amministrativo: prime note, in Foro amm-C.d.S., 2003, 3937 ed ivi ulteriori riferimenti dottrinali e giurisprudenziali. (49) Cass., Sez. un., 2 luglio 2009, n. 15469, in Giur. it., 2010, 633; ma v. Cons. Stato, Ad. plen., 30 agosto 2005, n. 4, in Foro amm.-C.d.S., 2005, 2089, con nota di F. Saitta, La plenaria interpreta (in parte) la “204”; ma è improbabile che finisca qui; Sez. VI, 6 novembre 2008, n. 5498, in www.giustiziaamministrativa.it. (50) Cass., Sez. un., n. 15469/2009 cit.; 12 settembre 2008, n. 23561; 28 febbraio 2007, n. 4632, in Giur. it., 2008, 493; ord. 11 marzo 2004, n. 5055, in Giur. it., 2004, 1944; ord. 27 giugno 2003, n. 10289, in Corr. giur., 2003, 1593. (51) “Oramai da due secoli pieni, da quando è stato annunciato il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, si è avvertita come indispensabile la previsione di Corti supreme aventi la funzione di assicurare l'uniforme interpretazione del diritto” (A. Proto PisaniAppunti sul giudice delle controversie, cit., 375). (52) Sul giudizio di ottemperanza, B. Sassani, Dal controllo del potere all'attuazione del rapporto. Ottemperanza amministrativa e tutela civile esecutiva, Milano, 1997; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al giudizio di esecuzione, cit. (53) A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 158 ss.; A. di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 1993, 52 ss. (54) Per il processo amministrativo, M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, cit., 557 ss.; A.Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto, cit., 51 ss.; S. Raimondi, Le azioni, le domande proponibili e le relative pronunzie, in questa Rivista, 2011, 913 ss.Cons. Stato, Ad. plen., n. 3/11 e 15/11 affermano che che “la mancata previsione, nel testo finale del codice, di una norma esplicita sull'azione generale di accertamento, non è sintomatica della volontà legislativa di sancire una preclusione di dubbia costituzionalità, ma è spiegabile, anche alla luce degli elementi ricavabili dai lavori preparatori, con la considerazione che le azioni tipizzate, idonee a conseguire statuizioni dichiarative, di condanna e costitutive, consentono di norma una tutela idonea ed adeguata che non ha bisogno di pronunce meramente dichiarative”. Ma “ove dette azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il bisogno di tutela, l'azione di accertamento atipica, ove sorretta da un interesse ad agire concreto ed attuale ex art. 100 c.p.c., risulta praticabile in forza delle coordinate costituzionali e comunitarie richiamate dallo stesso art. 1 del codice oltre che dai criteri di delega di cui all'art. 44 della legge n. 69/2009”. Sul punto si veda M.A.Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni: tra soluzioni di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, in www.giustamm.it. (55) F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova 1936, 253. Sulla rilevanza in senso pubblicistico della giurisdizione amministrativa, richiama con vigore la nostra attenzione, M. Nigro, Jibuis Spaventae la giustizia amministrativa come problema politico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1970, 751 ss.