azioni 2 - Dipartimento di Giurisprudenza

DOMANDA GIUDIZIALE E POTERE AMMINISTRATIVO. L'AZIONE DI
CONDANNA AL FACERE (*)
Dir. proc. amm., fasc.3, 2013, pag. 617
Leonardo Ferrara
Classificazioni: PROCEDIMENTO CIVILE - Domanda giudiziale nuova - - in
genere
Sommario: 1. Osservazioni introduttive. — 2. Domanda e giurisdizione
soggettiva. — 3. L'oggetto del processo. — 4.1. La domanda di condanna (e il
diritto di credito): osservazioni preliminari. — 4.2. Il fatto costitutivo dell'interesse
legittimo. — 4.3. L'azione di esatto adempimento comunemente intesa. — 4.4.
L'azione di condanna all'emanazione del provvedimento discrezionale. — 4.4.1. La
condanna rispetto a ogni obbligo determinato (o determinabile) nel contenuto. —
4.4.2. I (gravi) limiti della prospettiva avanzata. — 4.4.3. La condanna a
dare/attuare la chance legale.
1. Scopo dell'analisi non è riflettere sul principio della domanda come
proposizione del processo per opera esclusiva della parte (1): di là dalla
confusione che ancora si fa tra principio della domanda e principio dispositivo (2), è ritenuto, infatti, « pacifico », almeno in termini generali (3), che « solo le
parti dispongono dell'azione in giudizio e definiscono l'oggetto della
controversia »: tanto nella giurisprudenza amministrativa italiana che in quella
comunitaria (4). Ed è questo un principio condiviso anche « dalla maggior parte
degli Stati membri » dell'Unione (5).
Risulta di maggiore interesse trattare della domanda giudiziale e, insieme a essa,
dell'allegazione dei fatti principali (6), perseguendo essenzialmente l'obiettivo di
« accrescere i contenuti della decisione di cognizione » del giudice
amministrativo italiano, al fine di assicurare la « realizzazione integrale della
pretesa, così come configurata sul piano sostanziale », secondo quanto richiesto
dal principio della pienezza della tutela sancito anche dall'art. 1 c.p.a. (codice sul
processo amministrativo) (7).
Preme, dunque, porsi, in un contesto in cui la domanda giudiziale non ha più
l'esclusivo « contenuto tipico » (8) di annullamento, alcuni degli interrogativi
che Marcello Clarich affrontò in « Giudicato e potere amministrativo » (9): in
particolare, la questione relativa alla possibilità di impedire alla p.a. di riesercitare
tendenzialmente all'infinito il suo potere di diniego dopo la sentenza di cognizione.
In questa prospettiva sarà allora imprescindibile scomporre la domanda nel
petitum e nella causa petendi (10), focalizzando l'attenzione sull'azione di
condanna al fare (l'azione di adem pimento), specie laddove sussiste un potere
discrezionale (pure ampio) della pubblica amministrazione, nonché sul fatto
costitutivo della situazione giuridica soggettiva nella specie vantata. Fondamentali
si riveleranno le prese di posizione sull'oggetto del processo, sulla regola della
preclusione del dedotto e del deducibile e, sommamente, sulla distinzione tra
oggetto della cognizione e oggetto del giudicato.
Non si è convinti di avere trovato la soluzione all'anzidetto problema, ma
interessa mettere almeno in moto una riflessione in proposito: si anticipa che uno
dei punti di arrivo (se non il punto di arrivo) del ragionamento svolto consiste
nella possibilità di raccogliere le tesi, avanzate in passato (11) e riproposte di
recente (12), secondo cui ogni questione insorta successivamente alla sentenza
di cognizione (ogni illegittimità contestata, anche quella ritenuta — esattamente o
meno, è un profilo che vedremo alla fine — non contrastante con il giudicato, in
quanto il provvedimento è stato motivato diversamente) avrebbe dovuto essere
sottoposta al giudice dell'ottemperanza.
Sia chiaro sin da ora: senza con questo accettare il concetto di giudicato a
formazione progressiva, che posticipa pur sempre l'esecuzione (13). E saltando
a piè pari quelle soluzioni pragmatiche di matrice giurisprudenziale che postulano
un esaurimento della discrezionalità amministrativa a scoppio per così dire
ritardato, cioè, dopo il secondo esercizio del potere amministrativo facente
seguito a una pronuncia del giudice, tanto definitiva quanto addirittura cautelare (14). Queste soluzioni, pur mosse dal lodevole intento di abbandonare « ogni
lettura formalistica che obbligasse il ricorrente vincitore a instaurare sempre
nuovi giudizi di cognizione per ottenere l'annullamento dei nuovi atti adottati
dall'amministrazione », lettura che « ripugnerebbe » al principio di effettività
della tutela (15), sono prive di fondamento teorico (16).
Vale la pena di notare che la questione dell'ammissibilità o meno del giudizio di
ottemperanza in caso di impugnativa di un atto per ragioni (ritenute, si aggiunge
nuovamente) non coperte dal precedente giudicato non è solo di estremo
interesse pratico e teorico, ma è anche di attualità, visto che, in specifico
riferimento ai giudizi tecnico-valutativi di una commissione di concorso, è stata
rimessa all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con ordinanza della Sesta
Sezione n. 2024 del 5 aprile 2012 (17).
Un presupposto, di carattere generale, della relazione, va ancora chiarito, è
costituito dalla convinzione di potersi ricavare dal c.p.a. indicazioni di metodo
relative al rapporto tra sostanza e processo, sul pacifico assunto della loro
interazione (18).
È da ritenersi, infatti, che, più il processo amministrativo di legittimità si struttura
sulla falsariga del processo civile (19), più sia indispensabile avere una idea
chiara della situazione giuridica soggettiva vantata, cioè dell'interesse legittimo (20). Senza questa chiarezza non si possono utilizzare correttamente concetti o
principi come domanda, allegazione dei fatti principali, corrispondenza tra chiesto
e pronunciato, graduazione dei motivi, ecc. L'affinamento del processo rende,
cioè, urgente la pulizia concettuale sul piano sostanziale. Del resto, un passo in
questa direzione lo ha fatto lo stesso c.p.a. nel momento in cui ha disciplinato al
capo II del titolo III del libro I le azioni, che, come esattamente rilevato, hanno
« natura sostanziale » (21).
La necessità di applicare quei concetti e quei principi spinge, in altre parole, a
spostare su un piano tecnico le disquisizioni sulla nozione di interesse legittimo,
abbandonando i toni discorsivi e le metafore. Finché sussisteva solo una
pronuncia di annullamento e nemmeno vi era l'art. 21-octies, secondo comma, l.
n. 241/90 era facile esplicitare i fatti costitutivi (essi consistevano nei vizi, in tutti
i vizi di legittimità) (22), ma da quando sono possibili altri tipi di pronuncia e i
vizi meramente formali non producono annullabilità (23) è diventato essenziale
avere una percezione netta e lucida dell'interesse legittimo per averla anche, per
quel che qui in particolare preme, dei fatti principali.
D'altra parte, e in senso inverso, riflettere su (concetti come) petitum e causa
petendi (24) può servire per inquadrare meglio l'interesse legittimo: a questi fini
è sufficiente notare che molte definizioni recenti e passate di questa situazione
giuridica soggettiva non sono traducibili in fatti costitutivi (25). L'impostazione
processualistica può, dunque, servire ad abbandonare le immagini dell'interesse
legittimo e a ragionare su di esso per l'appunto come vera e propria situazione
giuridica soggettiva (26).
E ancora, proseguendo circolarmente alla ricerca di un affinamento concettuale
affidato ai rapporti tra sostanza e processo, una più esatta definizione
dell'interesse legittimo potrà per esempio contribuire a mettere in discussione gli
scollamenti che vi sono intorno all'istituto della legittimazione ad agire tra
processo civile e processo amministrativo, dove, come è noto, non è sufficiente
l'affermazione della titolarità della situazione giuridica soggettiva (27); oppure a
ridimensionare quel ruolo che l'interesse ad agire ha nel processo amministrativo (28) e non ha invece nel processo civile (29).
È richiesto, dunque, un cambio di mentalità, che rende altresì indispensabile
attrezzarsi concettualmente (30).
Concludendo sul punto, è auspicabile che non si ritrovi in futuro negli studi di
teoria generale del processo l'affermazione che « il termine ‘domanda giudiziale'
ha significato esclusivamente con riferimento al processo civile [considerato che]
molto meno se ne parla nel processo amministrativo e tributario » (31):
affermazione che, peraltro, conferma la scelta assolutamente felice del tema di
questo convegno.
Vista la complessità della problematica, la necessità di una rimeditazione o anche
di una meditazione di una serie di concetti è il solo risultato certo che si intende e
si può conseguire.
2. L'aspetto da considerare in via preliminare concerne il collegamento tra
domanda, oggetto del processo e natura della giurisdizione amministrativa.
Premesso che il c.p.a. fa molti riferimenti alla domanda e al principio della
domanda (32), bisogna in altre parole chiarire se per « domanda » il legislatore
intende il veicolo formale dell'affermazione del diritto soggettivo o, comunque,
della situazione giuridica soggettiva di vantaggio (ed è questa la domanda in
senso proprio, cui corrisponde la giurisdizione in senso soggettivo) (33) oppure
la « richiesta del provvedimento che il giudice deve pronunciare in attuazione
dell'interesse generale oggettivamente tutelato » (34) (l'« azione meramente
processuale, volta a mettere in moto il processo al fine di sindacare il rispetto o
meno della volontà della legge » (35)) (36).
Ora, se si vanno a leggere alcune recenti Adunanze plenarie del Consiglio di
Stato, quali la n. 4 del 2011 o la n. 30 del 2012 (e, in genere, la giurisprudenza di
quest'organo) (37), o se si scorrono le principali posizioni dottrinali (38), si
rinvengono nette affermazioni a favore del carattere soggettivo della giurisdizione
del giudice amministrativo. È questa, insomma, una risposta quasi corale (39). Il
che non stupisce affatto, se il processo amministrativo deve essere finalizzato alla
tutela delle situazioni giuridiche soggettive già ai sensi dell'art. 24 della
Costituzione (40).
Tuttavia, è stato rilevato, una cosa è lo scopo della giurisdizione altro l'oggetto
del giudizio (41): tanto da sostenere che « la tutela dei propri diritti e interessi
legittimi » di cui alla norma costituzionale (42) non corrisponde al « far valere
un diritto » di cui all'art. 99 c.p.c. (disposizione la quale fa del diritto affermato
l'oggetto del processo (43)) (44).
Ricavare dallo scopo della tutela una ragione sufficiente a favore del carattere
soggettivo della giurisdizione significa, però, che della giurisdizione soggettiva si
finiscono per assumere due diverse accezioni, una per così dire forte e una
debole. Non solo: la separazione dello scopo dall'oggetto del processo comporta
che anche della domanda si dia, più o meno consapevolmente, una terza
accezione: una domanda con cui non si fa valere una situazione giuridica
soggettiva ma si intende pur sempre tutelarla.
Non è sempre facile comprendere quali accezioni abbia in mente chi sposa la
giurisdizione soggettiva. A scoprire le carte è solo e soltanto (la presa di
posizione, ove esistente, sul) l'oggetto del processo.
Per i processualcivilisti è fuori discussione che « l'elemento costante dell'esercizio
del potere di azione consiste nell'affermazione di una situazione soggettiva
sostanziale della quale si invoca la tutela » (45); è pacifico che « parlare di
identificazione dell'azione o di oggetto processuale è una variazione meramente
nominalistica » (46). Esiste nel processo civile una precisa correlazione tra la
giurisdizione soggettiva, la domanda (in senso proprio (47)) e l'oggetto del
processo (lo Streitgegenstand), che rende scontato, almeno in termini generali,
che quest'ultimo è rappresentato dalla situazione giuridica soggettiva.
Non altrettanto avviene nel processo amministrativo: se si escludono alcuni
autori (48), manca un'analoga chiarezza. È assente, invero, l'accordo
sull'oggetto del processo (49). Come è dimostrato dal fatto che di fronte
all'accoglimento dell'anzidetta correlazione si sarebbero prodotte conseguenze a
cascata su molti istituti processuali (conseguenze che sono ancora ben lungi
dall'essere state adeguatamente sondate) (50): si pensi alla legittimazione a
ricorrere e all'interesse al ricorso, di cui già si è fatto cenno; fino ad arrivare alla
regola della preclusione del dedotto e del deducibile e all'oggetto del giudicato (o
ai limiti oggettivi del giudicato) (51), sui quali, come detto, si vuole in particolare
riflettere in questa occasione.
Ma il cpa (52) ha finalmente sposato (è un'opinione, s'intende) la giurisdizione
soggettiva, la domanda in senso proprio, l'oggetto del processo consistente nella
situazione giuridica soggettiva fatta valere; è confermativo del legame esistente
tra questi tre termini; identifica, per riprendere quanto osservavamo poc'anzi,
scopo della tutela e oggetto della tutela; concepisce « l'agire in giudizio ovvero la
domanda [...] in rigida correlazione [...] con una situazione sostanziale dedotta
nel processo » (53). In una parola, il c.p.a. dice chiaramente che l'oggetto del
giudizio di legittimità (54) è l'interesse legittimo.
Si consideri, infatti, l'art. 7: « sono devolute alla giurisdizione amministrativa le
controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi » (55). È questa
la stessa formula dell'art. 2 l. abol. cont. amm. (salvo il fatto che quest'ultima si
riferisce, ovviamente, ai — soli — diritti soggettivi). E si tenga pure presente che
è stato abrogato l'art. 26 T.U. C.S.
È vero che lo stesso art. 7 insiste anche (56) sul concetto di potere (57), dove
si aggiunge, poco più avanti, « concernenti l'esercizio o il mancato esercizio del
potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti
riconducibili anche mediatamente all'esercizio di tale potere »: epperò questa
precisazione è funzionale all'illustrazione (individuazione) dei diritti soggettivi
oggetto della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, secondo gli
insegnamenti, discutibili, peraltro, della Corte costituzionale (58); tutto al più, a
volerla riferire anche agli interessi legittimi, suona come conferma della loro
correlazione all'esercizio della potestà amministrativa (59).
Ma si prenda anche l'art. 34 comma 1 lett. c: qui si parla di tutela della situazione
giuridica soggettiva « dedotta in giudizio ».
Senza (ancora) riflettere sul fatto che, ai sensi dell'art. 30 comma 1 cpa, può
essere chiesta « contestualmente » all'annullamento una condanna: questa
domanda di condanna quantomeno esclude che l'oggetto del giudizio consista
nell'atto emanato.
L'oggetto del processo, dunque, è l'interesse legittimo. Secondo una tesi da
tempo esistente in dottrina (60). Il « quiz insolubile » di cui parlava Mario
Nigro (61) è stato finalmente sciolto dalla legge.
3. Si è fin qui sostenuto che la domanda giudiziale di fronte al giudice
amministrativo è una domanda in senso proprio e che l'oggetto del processo
amministrativo (che solo per semplicità si continua a chiamare) di legittimità è
rappresentato dalla situazione giuridica soggettiva vantata, nella specie
dall'interesse legittimo. È ora necessario però precisare in che cosa consista
questa situazione soggettiva. Se dalla domanda si ricava l'oggetto del giudizio
(salvo ricorsi incidentali (62), motivi aggiunti (63), riconvenzionali (64)) (65), riflettere sulla prima, come si è a suo tempo osservato, può contribuire a
chiarire i contorni (e la consistenza) dell'interesse legittimo.
Prima di scendere in questa analisi, distinguendo il petitum dalla causa petendi,
conviene tuttavia insistere in termini generali sull'oggetto del processo
amministrativo, per rendere più evidente la soluzione costruttiva qui proposta nel
panorama del dibattito dottrinale (66) e per fugare alcuni fraintendimenti che il
lessico corrente può ingenerare.
È, innanzitutto, scontato che aver sostenuto che l'oggetto del processo è
l'interesse legittimo significa tagliar fuori il c.d. giudizio sull'atto. Né le cose
cambiano, se si ipotizza un « processo all'atto » anziché « sull'atto » (67).
Cambiano ben poco anche ragionando di « legittimità (contestata) dell'esercizio
del potere » (68).
Incompatibile con la conclusione raggiunta è, inoltre, la tesi del c.d. giudizio sul
potere (69).
Il potere amministrativo non può essere l'oggetto del processo non fosse altro (70) perché il ricorrente fa valere la propria situazione giuridica soggettiva (71).
È stato detto lim pidamente che « se il giudice non deve esaminare un rapporto
paritario, ma un potere amministrativo, l'azione finisce per perdere il suo
connotato principale di strumento di soddisfazione degli interessi violati e diviene
un mero strumento di controllo della legalità dell'esercizio amministrativo » (72).
Altra storia è affermare che oggetto del processo è (73) il rapporto: questa
affermazione non dovrebbe essere diversa da quella secondo cui l'oggetto è il
diritto fatto valere in giudizio, almeno stando alla terminologia utilizzata dalla
dottrina processualcivilistica (74). E in questi termini può essere integralmente
sposata (75).
Il discorso si fa, tuttavia, problematico, quando ci si riferisce al « rapporto
amministrativo, come dedotto nella (e quindi nei limiti della) domanda
giudiziale » (76). In questo caso, invero interpretabile in svariati modi, diventa
decisivo capire se la domanda fa valere o meno una situazione giuridica
soggettiva (un interesse legittimo) e di che tipo questa sia. Ci torneremo in
seguito.
È invece certo che la soluzione che qui si avanza non corrisponde al giudizio sul
rapporto, se con questo si intende un giudizio nel quale si perviene alla definitiva
attribuzione del bene della vita (anche) nei casi in cui la pubblica amministrazione
dispone di potere discrezionale (e non solo vincolato), attraverso il riesercizio
difensivo (con atto processuale, cioè, tramite eccezione) dello stesso potere e,
insieme, l'applicazione della regola della preclusione del dedotto e del deducibile (77). Qui, infatti, il rapporto è inteso « in senso dinamico » (78), non « in
senso statico » (79); e per quanto la tesi possa apparire la più appagante in
termini di effettività della tutela (80), essa finisce per portare a oggetto del
processo una situazione giuridica soggettiva (il diritto al bene finale) che sul piano
sostanziale non esiste (o non esiste ancora) (81): almeno nei casi di cui si sta
facendo questione, dove il potere amministrativo ha carattere ampliatorio (82).
Lo dimostra il fatto che rispetto al diniego di una concessione di beni pubblici o di
un'autorizzazione all'apertura di un negozio di grandi dimensioni non sarebbero
allegabili in giudizio tutti gli elementi del fatto costitutivo dante diritto al bene
finale. Non lo sarebbero, proprio perché rispetto al diritto al bene finale si
interpone l'esercizio del potere discrezionale. Il bene finale spetta, infatti, al
ricorrente solo in termini di possibilità: una possibilità che riflette plasticamente le
alternative legittime sullo sfondo della scelta amministrativa.
Con la conseguenza che, se manca il fatto costitutivo della situazione giuridica
soggettiva del ricorrente avente per oggetto il bene finale, non ha senso neppure
ragionare di una difesa (tramite eccezione) volta a introdurre fatti impeditivi o
estintivi dello stesso fatto costitutivo (83). Non solo. Il riesercizio del potere (la
motivazione postuma vera e propria) non corrisponderebbe, come sostenuto, a
una eccezione (in senso stretto), ma a una eccezione riconvenzionale, o a una
domanda riconvenzionale; esso introdurrebbe un nuovo titolo per negare la
concessione (un nuovo titolo del diritto/potere ampliatorio): pertanto, non
potrebbe ricorrere nessuna preclusione processuale (84) rispetto alla deduzione
di siffatta eccezione (o domanda che sia) (85).
4.1. È il momento di analizzare la domanda e la sentenza di condanna (al fare),
ma non solo, e non tanto, quella di esatto adempimento, inteso comunemente
come emanazione dell'atto richiesto e dovuto, quanto quella avanzata in presenza
di un provvedimento discrezionale illegittimo.
Affiancare l'azione di adempimento all'esistenza (e persistenza) del potere
discrezionale è, infatti, operazione che non deve più stupire di fronte alle novità
del diritto positivo. Mettiamo in fila una serie di dati.
L'art. 30, comma 1, c.p.a. ammette nel suo incipit (e, dunque, tipizza) « azioni di
condanna necessariamente diverse da quella risarcitoria, con un riferimento
ampio, senza qualificazioni restrittive » (86); la disposizione, in particolare, non
distingue tra attività vincolata e attività discrezionale; presup pone « un'azione
generica di condanna » (87), una « azione a petitum indeterminato » (88).
Parimenti, l'art. 34, comma 1, lett. c) c.p.a. « attribuisce al giudice un potere di
condanna atipico, quanto al contenuto » (89).
Sempre l'art. 34 comma 1 lett. c) e anche lett. e) fonda, come riconosciuto dalla
giurisprudenza (90), distinti petita (rispetto all'annullamento), che in raccordo
con il principio della domanda, vietano l'assorbimento dei motivi (91).
L'art. 44, comma 1, della l. n. 69 del 2009 e l'art. 34, comma 5, c.p.a. si
riferiscono a una « pretesa » (92), qualificano in generale l'interesse legittimo
come pretesa, ancora una volta senza distinguere tra attività vincolata e attività
discrezionale.
Sembra basti e avanzi per sottrarre allo spazio delle speculazioni teoriche la
condanna all'attività discrezionale e per tentare di delineare in termini
giuridicamente compiuti la situazione soggettiva postulata da tale azione per il
tramite dell'analisi del suo fatto costitutivo.
Non senza però aver prima aggiunto che l'espressione « pretesa » (come tante
altre nel diritto amministrativo) tradisce quella « paura della tutela » della quale
ha parlato Pajno (93): i civilisti hanno chiarito tutti i limiti di essa (senza nulla
togliere al concetto di Anspruch e di pretesa come rivendicazione anche
processuale di un diritto); « pretesa » è espressione equivoca o inutile, se
intende identificare una determinata categoria di situazioni giuridiche soggettive.
Infatti, se la pretesa non è tutelata, non è una situazione giuridica soggettiva, è
una mera aspettativa; se invece è tutelata, altro non è che un (diritto di) credito (94).
Ma dal codice esce fondamentalmente confermata l'idea che l'interesse legittimo
sia strutturalmente un diritto di credito (95), tanto da fargli corrispondere, come
detto, l'azione di condanna. È decisivo anche rispetto al potere amministrativo il
binomio credito-(azione di) adempimento. Se c'è l'uno (l'una), ci deve essere
anche l'altro: il codice, attraverso l'(azione di) adempimento, presuppone che i
vincoli
posti
dalla
legge
all'agire
amministrativo
siano
obblighi,
indipendentemente
dall'oggetto
dell'obbligo,
« indipendentemente
dalla
distinzione tra obblighi cui corrisponde un bene sostanziale del cittadino ed
obblighi procedurali » (96); e gli obblighi, o l'obbligazione (nel nostro caso
complessa) (97), presuppongono, a loro volta, un credito.
Si è compiuta una evoluzione nell'interpretazione delle norme relative al rapporto
tra p.a. e soggetto privato, che reca con sé l'affermazione della nozione di
rapporto amministrativo (98), la fine del dovere della p.a. come situazione
giuridica soggettiva irrelata (99), il superamento delle norme di azione (100).
Un caveat finale. Se davvero non si dovesse riuscire ad ammettere altra azione di
adempimento se non quella correlata alla presenza di provvedimenti vincolati,
non resterebbe che tornare a mettere in discussione l'unitarietà dell'interesse
legittimo (più esattamente, la sua comprensività), riconoscendo (101) che a
fronte degli stessi provvedimenti vincolati sussiste in tutto e per tutto
(formalmente e non solo strutturalmente) un diritto soggettivo (102).
4.2. Prima di procedere nell'analisi dell'azione di condan na vi è ancora un
aspetto da chiarire: qual è il suo titolo; qual è la causa petendi; qual è il fatto
costitutivo dell'interesse legittimo.
È evidente che, se l'interesse legittimo ha struttura di diritto di credito e il petitum
giudiziale non è (solo) quello di annullamento, la causa petendi non può ridursi al
(tradizionale) vizio di legittimità. Ma, per quando già detto, dovrebbe essere
parimenti evidente che il fatto costitutivo dell'interesse legittimo in presenza di
attività (integralmente) vincolata e il fatto costitutivo dell'interesse legittimo ove
vi è potere discrezionale non possono che coincidere (nei loro termini astratti,
s'intende): il fatto costitutivo deve dar vita sempre a qualcosa che spetta (non si
può essere garantiti e tutelati in qualcosa che non spetta, per definizione).
Il fatto costitutivo dell'interesse legittimo deve ricavarsi, pertanto, dalle regole (103) sostanziali che vincolano l'azione amministrativa; con terminologia della
tradizione disciplinare, dalle norme sostanziali disciplinanti la componente
doverosa della potestà (nulla hanno invece a che fare con il fatto costitutivo le
regole procedimentali, dal momento che esse attribuiscono piuttosto delle
facoltà (104), le quali integrano la situazione soggettiva sul versante dinamico).
Del resto, non è mancata anche in passato dottrina che ha ritenuto definitori
dell'interesse legittimo soltanto gli elementi (105)rigidi del rapporto
amministrativo ricavabili dalle norme sostanziali (106).
Se non è e non può essere il fatto costitutivo a cambiare (laddove l'interesse
legittimo sia unitariamente considerato, come si è detto doversi fare, un diritto a
struttura creditizia), è invece l'oggetto della situazione giuridica che cambia, a
seconda che il provvedimento sia vincolato oppure discrezionale. Questo oggetto
consisterà nell'applicazione delle regole anzidette, e quindi nell'attribuzione del
cosiddetto bene della vita, nel primo caso; nell'attuazione della chance risultante
dalla legge, e quindi nello scioglimento del soggetto privato dall'incertezza in cui
la stessa legge lo ha lasciato (107), nel secondo caso. Dove è chiaro che la
spettanza di questa chance si reggerà sul fatto costitutivo nascente dalle regole
sostanziali che vincolano l'azione amministrativa; mentre l'attuazione dipenderà,
oltre che dal riconoscimento del fatto costitutivo, dalla corretta applicazione delle
norme sostanziali, elastiche ed essenzialmente di principio, che disciplinano
l'esercizio del potere discrezionale.
Quanto, infine, al vizio di legittimità, esso, nella prospettiva dell'azione di
condanna, non rileverà quale fatto costitutivo del diritto all'annullamento del
provvedimento amministrativo ma integrerà l'inadempimento, precisamente,
l'inesatto adempimento.
4.3. Qualche rapida osservazione sull'azione di esatto adempimento
comunemente intesa, precisando che per esigenze di semplicità e di
conseguenziale schematismo si farà fondamentalmente riferimento all'ipotesi in
cui è in giuoco un'attività integralmente/originariamente/astrattamente vincolata
(e non anche, dunque, un'attività che ha visto esaurirsi in un secondo tempo i
suoi margini di discrezionalità (108) o che astrattamente discrezionale risulti in
concreto e da subito vincolata (109)).
Si è fatto un gran parlare di tale azione in ragione della sua ammissibilità o meno
nel sistema codicistico: il decreto legislativo 14 settembre 2012, n. 160 (il
secondo correttivo del c.p.a.) ha chiuso la discussione (questa discussione) (110). Tuttavia, pur riconoscendo si sia di fronte a « un progresso importante
nella nostra giustizia amministrativa » (111), è lecito dubitare che l'innovazione
legislativa rappresenti il punto di arrivo del processo evolutivo in corso, e
soprattutto sia del tutto soddisfacente dal punto di vista della tutela
giurisdizionale del soggetto privato. Essa rappresenta senz'altro il raggiungimento
del livello di effettività della tutela conosciuto in Germania attraverso la
Verpflichtungsklage (112), ma, considerato che il principio dell'effettività vuole
che il processo assicuri « la massima strumentalità dei propri risultati rispetto al
diritto sostanziale » (113), è da domandarsi se la piena soddisfazione della
situazione soggettiva dell'attore, laddove l'attività della p.a. è vincolata, non vada
piuttosto rinvenuta (114) in una sentenza di accertamento costitutivo o in una
sentenza cognitiva con effetti esecutivi sulla falsariga di quella di cui all'art. 2932
c.c. (115).
Non si vuole, però, tornare qui su argomenti (teorici e di diritto positivo) recenti (116) e meno recenti (117) avanzati a favore di tale soluzione, a cominciare da
quello secondo cui un'azione strutturalmente affine, come quella avverso il
silenzio-inadempimento (118), si prestava anche letteralmente a essere
inquadrata come azione di accertamento costitutivo: stando almeno alla disciplina
introdotta dalla l. n. 80 del 2005 (119), che ammetteva che il giudice
amministrativo conoscesse della « fondatezza dell'istanza » (anziché, come
adesso, della « pretesa ») (120). Si vuole invece far soltanto notare come
anche nella prospettiva dell'azione di adempimento non possa prescindersi
dall'accoglimento della regola della preclusione del dedotto e del deducibile,
escludendo, dunque, che la p.a. dopo la sentenza possa negare l'atto richiesto
adducendo ragioni diverse da quelle contenute nel primo diniego (121).
Ragionare diversamente significherebbe contraddire il concetto di condanna. In
aggiunta si ricorderà che l'art. 42 del testo provvisorio del codice statuiva che
« le parti allegano in giudizio tutti gli elementi utili ai fini dell'accertamento della
fondatezza della pretesa » (122). « Tutti gli elementi » significa (123) tutte le
componenti fattuali integranti il fatto costitutivo, compresi quegli aspetti che la
pubblica amministrazione non ha disconosciuto nel diniego di atto ampliatorio.
Questi elementi, se non contestati (124), cadranno sotto la preclusione come
quelli contestati (125) ma provati esistenti (più esattamente la preclusione cade
sul fatto costitutivo non sui singoli elementi o fatti storici) (126).
4.4. Si può adesso affrontare dal punto di vista dell'azione di condanna il
problema centrale della giustizia amministrativa, rappresentato dalla tutela
giurisdizionale della situazione giuridica soggettiva di colui che si è visto
illegittimamente negare un atto amministrativo ampliatorio di carattere
discrezionale.
Preliminarmente si deve dar conto di una prospettiva che si sta affacciando nel
panorama dottrinale o che almeno mostra le premesse perché vi si affacci: una
prospettiva che raccoglie alcuni elementi di novità contenuti nel codice, quali la
possibilità di un dispositivo di condanna in correlazione all'esercizio discrezionale
del potere amministrativo, ma che si presta a serie obiezioni che rivelano al fondo
la sua incongruenza. Successivamente si traccerà il quadro ricostruttivo, che
appare, oltre che più satisfattivo in termini di tutela, maggiormente coerente con
quanto si è venuti sin qui osservando.
4.4.1. Cominciamo dal primo scenario.
Non si racconta nulla di nuovo, ricordando che finché è esistito solo il potere
giurisdizionale di annullamento del provvedimento amministrativo negativo,
l'interesse legittimo ha avuto una tutela non conforme alla pretesa del suo titolare
(a una pretesa, quale che sia, o che fosse, il suo contenuto); alla fin fine
l'interesse legittimo non era una situazione giuridica soggettiva di carattere
sostanziale. Le cose sono cominciate a cambiare, come tutti sanno, con il
riconoscimento del cosiddetto effetto conformativo.
Il codice sul processo amministrativo consente, però, di fare un altro passo
avanti, poiché l'effetto conformativo, nel momento in cui l'annullamento può
essere accompagnato dalla condanna (ai sensi dell'art. 30, comma 1, come
detto), può tradursi in qualcosa che trascende la pur importante invenzione della
dottrina e della giurisprudenza amministrativa: il contenuto ordinatorio, positivo,
dell'effetto conformativo (127) può, cioè, prendere la veste della condanna (128), rientrando a pieno titolo in un concetto appartenente alla teoria generale
del processo.
Per quanto l'art. 113, comma 1 (in tema di competenza del giudice
dell'ottemperanza) conservi un margine di ambiguità nella misura in cui si
riferisce a un « contenuto dispositivo e conformativo dei provvedimenti di primo
grado », sulla base dell'art 34, comma 1, deve ritenersi che questo contenuto
conformativo, per un verso, possa risultare dal dispositivo della sentenza (129),
eliminando una non secondaria differenza tra processo amministrativo e processo
civile in punto di efficacia vincolante della sentenza (130); per altro verso, non
sia più « nella disponibilità del giudice » (131) ma debba corrispondere alla
condanna richiesta (cosicché, come detto, non possa neppure praticarsi
l'assorbimento (132)) (133).
Decisivi al riguardo sono il limite della domanda (ricordiamo l'inciso iniziale
dell'art. 34: « nei limiti della domanda ») e l'atipicità delle statuizioni previste
alla lettera c (rileva a questi fini la condanna « all'adozione delle misure idonee a
tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio ») (134).
Se, pertanto, l'effetto conformativo poteva prodursi in presenza di provvedimenti
discrezionali, oltre che vincolati, altrettanto concepibile si direbbe ora la condanna
all'adempimento di tutti gli obblighi determinati (quali il riconoscimento degli
elementi integranti il fatto costitutivo, come precedentemente illustrato) o
determinabili (quali il rispetto dei principi violati, nei termini preclusivi, si faccia la
massima attenzione, risultanti dall'accertamento della loro violazione (135)), che
gravano sull'esercizio del potere discrezionale (136).
Del resto, se è (espressamente e tipicamente (137)) ammessa la condanna ad
adempiere all'obbligo di concludere il procedimento amministrativo entro il
termine previsto (ex art. 2 l. 241/1990), non è ragionevolmente possibile
escludere una condanna ad attuare ogni altro vincolo di legge, se non riesumando
l'argomento che siffatti vincoli, diversamente da quello temporale (138),
rappresentino per la pubblica amministrazione dei doveri, e non, appunto, degli
obblighi. Al prezzo, naturalmente, di disconoscere che l'interesse legittimo sia una
situazione giuridica sostanziale, « parifica[ta] totalmente » al diritto soggettivo (139), tutelata direttamente e non come riflesso dell'interesse pubblico (140).
Un prezzo che non esiste.
4.4.2. Lo scenario appena prospettato, tuttavia, come anticipato, non convince
appieno.
Assecondando tale scenario è, infatti, evidente che, di fronte all'emanazione di un
provvedimento amministrativo che (adempia alla condanna di cui si è discorso
ma) si presenti viziato da una nuova e diversa illegittimità (in quanto relativa al
rinnovato esercizio del potere discrezionale), non vi è altra strada processuale che
quella di un secondo ricorso in sede di legittimità (secondo il noto schema del
doppio binario (141)). Epperò, se è necessario ricorrere nuovamente al giudice
della cognizione (senza potersi rivolgere a quello dell'ottemperanza), deve invero
riconoscersi che si sta facendo valere un nuovo interesse legittimo (o, almeno, un
interesse legittimo con un differente titolo): ché, se non fosse nuovo, la sentenza
(emanata al termine del processo di cognizione) lo avrebbe dovuto soddisfare
necessariamente (per definizione) (142).
Stando così le cose, l'unica nozione coerente di interesse legittimo sembra essere
quella del diritto potestativo all'annullamento, riesercitabile di fronte al nuovo
esercizio del potere discrezionale (143): una nozione che è smentita da tutto il
movimento dottrinale verso l'affermazione dell'interesse legittimo come situazione
giuridica di natura sostanziale e che rinnega la possibilità stessa di una sentenza
di condanna, ma che ha una logicità interna che viceversa non si verifica in uno
scenario in cui l'interesse legittimo dà diritto a un effetto ordinatorio (o
conformativo) oppure financo, come detto, a una condanna sulla parte
dell'applicazione di legge che è stato possibile accertare dal giudice in riferimento
al potere già speso. Di questo interesse legittimo, infatti, non si riesce fino in
fondo a trovare un oggetto credibile, e un bene soddisfatto, tanto che si può
essere costretti a tornare dal giudice della cognizione.
Sovviene pertanto anche il dubbio che nell'anzidetta prospettiva l'oggetto del
processo non sia affatto la situazione giuridica soggettiva (l'interesse legittimo),
ma sia piuttosto il rapporto nella sua accezione volgarizzata (e purtroppo molto
diffusa nella dottrina amministrativistica), dove per rapporto si intende in realtà
una serie di pezzi del rapporto, una parte del rapporto (e non, appunto, la
situazione giuridica soggettiva, come si è visto essere secondo la dottrina
processualcivilistica (144)) (145). Più onesta, dunque, sarebbe la tesi secondo
cui oggetto del processo è il potere amministrativo (quello esercitato) (146): tesi
che in tutta probabilità corrisponde al diritto vivente, ma che contraddice la
giurisdizione soggettiva, la domanda in senso proprio, l'oggetto del processo
consistente nella situazione giuridica soggettiva fatta valere e il legame tra essi
esistente.
Non resta allora che provare con un ragionamento diverso: forse vi è qualcosa
che è sempre sfuggito all'attenzione.
4.4.3. A base del ragionamento può porsi l'assunto che, se l'oggetto del
processo amministrativo, come a suo tempo si è sostenuto (147), è
rappresentato dalla situazione giuridica soggettiva fatta valere dall'attore tramite
la domanda giudiziale, la stessa situazione giuridica soggettiva è anche l'oggetto
del giudicato. Una volta che si sia accettato che l'interesse legittimo costituisce
l'oggetto del processo, si deve, cioè, inevitabilmente accettare anche che la cosa
giudicata sostanziale (di cui all'art. 2909 c.c.) « si forma sull'accertamento del
diritto fatto valere in giudizio » (148): il che, appunto, vuole dire che si forma
sull'accertamento dell'interesse legittimo vantato dal ricorrente.
Ma questo a sua volta significa che il giudicato (altro è il discorso per la
preclusione del dedotto e del deducibile (149)) non concerne i fatti:
« l'accertamento dei fatti costitutivi, im peditivi, modificativi ed estintivi [è stato
sostenuto in modo netto] non sarà mai coperto da autorità di cosa giudicata e
sarà sempre effettuato incidenter tantum ai soli fini della statuizione sul diritto
fatto valere in giudizio dall'attore » (150). Oggetto della cognizione (« ogni
elemento da cui può dipendere l'esistenza » della situazione soggettiva (151)) e
oggetto del giudicato, dunque, non coincidono.
Lo schema proposto già dovrebbe far riflettere sul convincimento che l'effetto
preclusivo e quello conformativo della sentenza di annullamento abbiano a che
vedere con il giudicato (152); e quantomeno ne rende un po' semplicistica la
vulgata. Naturalmente, ove si tenga fermo che il processo innanzi al giudice
amministrativo sia inquadrabile nella giurisdizione soggettiva: diverso sarebbe,
per l'appunto, se l'oggetto del processo fosse l'atto oppure il potere (153). Qui
però preme cogliere le ripercussioni del ragionamento rispetto al petitum di
condanna.
In questa prospettiva, ripetuto che il giudicato amministrativo si appunta
sull'interesse legittimo e sulla sua lesione, così come quello civile sul diritto di
credito insoddisfatto, sembra doversi aggiungere che, nella stessa maniera in cui
quest'ultimo (il giudicato civile) non copre né le ragioni e i modi
dell'inadempimento (quello verificatosi e a maggior ragione quello che potrebbe
continuare a verificarsi in futuro) (154) né le modalità dell'adempimento (ché
all'individuazione di queste provvede il giudice dell'esecuzione) (155), parimenti
nel giudizio amministrativo (156) non si deve immaginare la necessità di una
condanna e di un giudicato sui modi di riesercizio del potere (i quali
corrispondono alle modalità dell'adempimento) (157).
Se così non fosse, non vi sarebbe via d'uscita dalla conclusione che
« accertamento giudiziale e discrezionalità amministrativa sembrano essere
necessariamente confliggenti » (158).
Appare invece sufficiente (e coerente con il quadro concettuale sin qui
prospettato) l'accertamento dell'interesse legittimo fatto valere in giudizio
(esistente se esistente il fatto costitutivo: sul quale opera, anche in questo caso (159), la preclusione del dedotto e del deducibile, senza che la circostanza possa
dar luogo a sorprese, le quali sarebbero solo figlie di una vetusta sensibilità che
stride con l'idea che la p.a. possa perdere il proprio potere di accertamento in
relazione al nucleo normativo vincolato che sorregge l'esercizio della discreziona
lità (160)) e, di conseguenza, la condanna ad adempiere (161): che è quanto
dire, la condanna all'esercizio legittimo del potere, a dare o ad attuare la chance
legale, a sciogliere il soggetto privato dalla situazione di incertezza in cui la legge
lo ha lasciato. Basta anche, volendo utilizzare altre e note definizioni dottrinali
dell'interesse legittimo, la condanna a soddisfare « l'interesse al provvedimento
favorevole » (162), o ad appagare « il diritto soggettivo alla legittimità
dell'atto » (163). Basta, insomma, la condanna a dare « ciò che spetta [che in
questo caso] non è in realtà altro che un nuovo, corretto esercizio della
discrezionalità amministrativa », cioè, ancora la chance (164).
Ne consegue che l'attuazione del (l'ottemperanza al) giudicato o, molto più
correttamente, l'esecuzione amministrativa della condanna (165) è data dallo
scioglimento per opera della p.a. delle alternative normative in punto di
soddisfazione dell'interesse materiale, con la conseguente realizzazione di una
certezza in ordine alla possibilità o meno di tale soddisfazione (166); e che, di
converso, l'emanazione di un atto illegittimo mantiene uno stato di incertezza,
rappresenta
un
perdurante
inadempimento (167),
determina
quell'inottemperanza, che apre le porte al giudizio di esecuzione nelle forme del
giudizio di ottemperanza di cui agli artt. 112 ss. c.p.a. (168).
Sarà poi il giudice dell'ottemperanza a stabilire in questo secondo caso le
modalità di esecuzione (i modi di esercizio del potere amministrativo); così come
fa il giudice civile nell'esecuzione relativa a obbligazioni di fare/non fare o
nell'espro priazione forzata (169). Senza voler tornare sulle ragioni che fanno
escludere ogni violazione del principio della separazione dei poteri nella
sostituzione del giudice dell'esecuzione nell'esercizio amministrativo del potere
discrezionale (intangibile e riservato rispetto, viceversa, al giudice della
cognizione) (170), è sufficiente ricordare che anche nel processo civile la
condanna lascia margini di libertà al debitore (come trovare il denaro con cui
adempiere a una obbligazione pecuniaria, per esempio), annullati dall'esecuzione
forzata. Oltremodo significativa, del resto, è l'abrogazione (171) delle
disposizioni (gli artt. 45 t.u. n. 1054 del 1924 e 26 l. n. 1034 del 1971), che
facevano salvi gli ulteriori atti dell'autorità amministrativa, nonché dell'art. 88 r.d
n. 642 del 1907, secondo cui « l'esecuzione delle decisioni si fa in via
amministrativa ».
Naturalmente, la soddisfazione dell'interesse legittimo, avendo per oggetto la
chance legale, e non il c.d. bene della vita (172), prescinde dall'ottenimento di
quest'ultimo bene (restando l'appagamento dell'interesse materiale solo una
possibilità) e, dunque, dal modo in cui il potere è esercitato dal giudice o dal suo
ausiliario (il commissario ad acta di cui all'art. 21 c.p.a.) (173).
Nello scenario qui prospettato, questo è il punto, ogni nuovo atto illegittimo è
emanato in (costituisce una) violazione o elusione del giudicato, in quanto non
soddisfa l'interesse legittimo, non adempie all'obbligazione di fàcere, a cui la p.a.
è stata condannata. Violazione ed elusione del giudicato, pertanto, sono
espressioni che vanno rispettivamente ricondotte agli inequivoci concetti di
inadempimento e inesatto adempimento (174); alla totale o parziale non
esecuzione della condanna (più che del giudicato).
Si è già osservato che dover tornare dal giudice della cognizione di fronte a una
nuova illegittimità significa smentire la soddisfazione dell'interesse legittimo (in
violazione della garanzia giurisdizionale di cui all'art. 24 Cost.), a meno di non
voler sostenere che al riesercizio del potere amministrativo si correli un nuovo
interesse legittimo (o un interesse legittimo con un diverso titolo) (175):
sennonché l'interesse alla chance e alla certezza sul bene finale è uno solo; uno
solo è il suo fatto costitutivo e uno solo il suo oggetto (176). Uno solo, pertanto,
deve anche essere il processo di cognizione.
Una volta abbandonata la prospettiva esclusiva della tutela costitutiva (nella
declinazione che conduce alla parcellizzazione, peraltro inevitabile (177),
dell'interesse legittimo di fronte al concreto episodio di vita (178)) e affiancata a
quest'ultima la tutela di condanna, si realizza (si può realizzare) quell'effettività
della tutela dell'interesse legittimo pretensivo lungamente ma vanamente
rincorsa. Se « la giustizia amministrativa deve necessariamente assicurare tutto
ciò che spetta al cittadino in base al diritto » (179), non è concepibile lasciare la
pubblica amministrazione, dopo il processo di cognizione, arbitra di decidere cosa
spetta e cosa non spetta allo stesso cittadino. Una volta riconosciuto a
quest'ultimo il diritto alla chance (poiché è stato irrevocabilmente accertato,
secondo la legge, il fatto costitutivo della situazione giuridica soggettiva di
interesse legittimo dal medesimo vantata), è la pubblica amministrazione che può
e al tempo stesso deve emanare il provvedimento amministrativo, che costituisce
la prestazione attraverso la quale quella chance si concretizza per mezzo
dell'esercizio del potere discrezionale: ma se questa prestazione non viene
eseguita, perché si persiste nell'illegittima attuazione della possibilità normativa
garantita dalla legge, è ragionevole (e costituzionalmente necessitato) che si apra
il processo di esecuzione.
Si obietterà che « a una condanna, per definizione, non sopravvive alcuna
posizione di potere giuridico » (180): tutta via, premesso che applicare la legge
da parte della p.a., di per sé e in linea generale, è adempimento (e non esercizio
di potere, seppure concretamente indisgiungibile all'origine dall'esercizio del
potere) (181), dopo la condanna di cui si è venuti discorrendo rileva, e dunque
sussiste, solo l'obbligo sottoposto a coercizione, perché l'esercizio del potere
permane esclusivamente come strumento di attuazione di quell'obbligo. In altre
parole, esiste ancora il potere dal punto di vista della produzione degli effetti, ma
dopo la condanna non è più lo stesso potere originale: in questo senso non è più
potere, se per tale propriamente si intende potere riservato alla p.a. (esattamente
come di fronte al pignoramento non esiste più la libertà del debitore
inadempiente (182)) (183).
Si obietterà anche che, assecondando lo scenario prospet tato, si finisce per
attribuire al giudice dell'ottemperanza un ambito di sostituzione nelle valutazioni
discrezionali all'origine riservate alla p.a. molto ampio: sennonché, non è
certamente minore quello che il giudice amministrativo ha all'interno del rito
speciale di cui all'art. 117 c.p.a., previsto per il caso di ricorso avverso il silenzio
(dove cognizione ed esecuzione sono concentrati di fronte allo stesso collegio
giudicante). Anzi, per questa via si realizza la tendenziale convergenza tra tale
rito e il giudizio di ottemperanza, ridimensionando una distanza tra i due modelli
di tutela non facilmente giustificabile. Del resto, una riprova della somiglianza in
punto di potere sostitutivo esercitabile dal giudice è data dalla previsione, ex art.
117 comma 4, secondo cui nella tutela contro l'inerzia della p.a. « il giudice
conosce di tutte le questioni relative all'esatta adozione del provvedimento
richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario ». Questa
disposizione, sconosciuta nel contesto previgente di cui all'art. 2 della l. n. 205 del
2000, dimostra chiaramente che il commissario è un ausiliario del giudice, così
come lo è laddove la sua nomina provenga dal giudice dell'ottemperanza (184).
In ogni caso, anche senza voler insistere sulle ragioni dell'anzidetto parallelismo
(e pure ritenendo di doverlo disconoscere), resta il fatto che nel giudizio di
ottemperanza, stando al diritto vivente, meglio, alla sua corrente
rappresentazione, è possibile la sostituzione giudiziale (185) nell'esercizio del
potere discrezionale: non può, dunque, essere la quantità di questa sostituzione a
cambiare l'istituto o a far dubitare della sua giustificazione.
In fondo, la pubblica amministrazione (186) ha la possibilità di adempiere, se
vuole evitare la sostituzione giudiziale; e può anche impedire si apra il processo di
ottemperanza (187), malgrado il suo adempimento (perché disconosciuto dal
soggetto privato), emanando un nuovo atto amministrativo durante la fase del
giudizio di cognizione (188), se non addirittura riesercitando il potere nello
stesso giudizio tramite un'eccezione o una domanda riconvenzionale (189).
Ma se il giudizio di ottemperanza che qui si immagina non convince, allora è
l'istituto in generale a dover essere ripensato. Meglio un sistema che si affidi alle
sole misure coercitive indirette (ora peraltro introdotte dal cpa, che le sottopone
sempre al principio della domanda (190)): tanto il giudizio di ottemperanza
rischia, in concreto, di essere una farsa, grazie a quegli ordini ripetuti di
ottemperare (191), che procrastinano all'infinito l'esecuzione (192).
Abstract: Lo scritto si propone di impostare i rapporti tra cognizione ed
esecuzione nel processo amministrativo di legittimità in modo da garantire
(sempre) la soddisfazione della situazione giuridica soggettiva al termine della
prima fase e da consentire l'accesso al giudizio di ottemperanza di fronte a
qualsivoglia nuovo e successivo esercizio del potere discrezionale da parte della
pubblica amministrazione. L'avvio della riflessione è rappresentato dal significato
assunto dalla domanda giudiziale in un processo in cui al consueto rimedio
dell'annullamento si è affiancato quello della condanna al fare. I passaggi del
ragionamento vertono sulla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa,
sull'identificazione dell'oggetto del processo nell'interesse legittimo, sul fatto
costitutivo di tale situazione soggettiva, sulla spendibilità dell'azione di condanna
laddove la p.a. gode di potere discrezionale, sull'applicazione della regola della
preclusione del dedotto e del deducibile in termini affatto diversi da quelli
consegnatici dalla tradizione amministrativistica, sulla distinzione tra oggetto della
cognizione e oggetto del giudicato.
Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin:
10px 10px;">
Note:
(*) Il testo riproduce con modifiche e aggiornamenti la relazione presentata al
Convegno A.I.P.D.A. su Principio della domanda e poteri d'ufficio del giudice
amministrativo, Trento, 5-6 ottobre 2012.
(1) Né sui suoi corollari, quali il principio della corrispondenza tra chiesto e
pronunciato e quello della graduazione delle domande. Circa il rapporto tra
principio della domanda e principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato
eloquente C. Consolo, Domanda giudiziale, in Dig. disc. civ., VII, Torino, 1991,
57. In giurisprudenza, in ordine a quest'ultimo principio, tra molte altre, Cons.
Stato, Sez. V, 27 maggio 2011, n. 3091; T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 11
luglio 2008, n. 1367; Cons. Stato, Sez. IV, 22 ottobre 2004, n. 6959.Più
complessa la questione della graduazione dei motivi: v., di recente, A. Romano
Tassone, Sulla disponibilità dell'ordine di esame dei motivi di ricorso, in questa
Rivista, 2012, 803 ss. In giurisprudenza v. Cons. Stato, Sez. III, 22 agosto 2012,
n. 4592, secondo cui ricorre un « orientamento giurisprudenziale assolutamente
pacifico secondo il quale, nel quadro del principio generale della domanda, la
graduazione delle domande in via principale o subordinata costituisce espressione
dell'ampiezza dell'esercizio dell'azione che va riconosciuta anche nel processo
amministrativo, in armonia con il principio di livello costituzionale di pienezza dei
mezzi di tutela, sicché sussiste l'obbligo del giudice di esaminare i motivi di
ricorso in base all'ordine che la parte ha stabilito in relazione al grado decrescente
di soddisfazione del proprio interesse al bene della vita perseguito nel caso
concreto (cfr., ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 21 e 26
novembre 2008, n. 5841, ivi citata, nonché Sez. V, 1 aprile 2009, n. 2070) »; v.
anche Cons. Stato, Sez. V, 11 gennaio 2012, n. 82 e Cons. Stato, Sez. V, 5
settembre 2006, n. 5108.
(2) Malgrado quanto affermava E.T. Liebman, Fondamento del principio
dispositivo, ora in Problemi del processo civile, Napoli, 1962, 4, si continua ad
assimilare, almeno a proposito del processo amministrativo e nella giurisprudenza
amministrativa (v., rispettivamente, a titolo di esempio, A. Lugo, Il potere
dispositivo e l'onere della parte nel processo amministrativo, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1993, 1068-1069 e T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 29 agosto 2012,
n. 2194), ma anche in quella comunitaria (per tutte, Corte giust. CE, Sez. II, 12
ottobre 2004, n. 106), principio della domanda e principio dispositivo (in senso
processuale), dimenticandosi che quest'ultimo « regola [...] la raccolta degli
elementi di cognizione, su cui dovrà essere fondato il giudizio », concerne cioè la
trattazione e l'istruzione della causa, mentre il principio della domanda
« disciplina invece l'esercizio stesso della funzione giurisdizionale, in quanto
subordina questo alla domanda dell'interessato » (così E.T. Liebman, Intorno ai
rapporti tra azione ed eccezione, ora in Problemi, cit., 74). Sui termini della
questione resta fondamentale T. Carnacini, Tutela giurisdizionale e tecnica del
processo, in Studi in onore di Enrico Redenti, II, Milano, 1950, 695 ss.; v.,
comunque, N. Trocker, Processo civile e Costituzione, Milano, 1974, 373 ss.; B.
Cavallone, Principio dispositivo, fatti secondari e fatti « rilevabili ex officio », ora
in Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, 99 ss.; F. Tommaseo,I
processi a contenuto oggettivo, in Studi in onore di Enrico Allorio, I, Milano, 1989,
92-93, nota 33); v. anche G. Verde, Dispositivo (principio), in Enc. giur., XI,
Roma, 1989, 1 ss. Non andrebbe neppure dimenticato che il principio della
domanda viene disgiunto anche dal principio dispositivo in senso sostanziale, per
essere ritenuto piuttosto espressione del principio di imparzialità del giudice (v.
E.T. Liebman, Fondamento, cit., 11 ss.; G. Verde, Domanda (principio della), in
Enc. giur., XII, Roma, 1989, 1 ss.; C. Consolo, Domanda, cit., 57 ss.; R. Briani,
L'istruzione probatoria nel processo amministrativo. Una lettura alla luce dell'art.
111 della Costituzione, in corso di stampa, passim). Distingue il principio della
domanda « da quello — egualmente generale, ma di ampiezza minore — della
normale correlazione tra diritto sostanziale dedotto in giudizio e titolarità del
diritto di azione » (il secondo dei quali « rinviene la sua ratio nella autonomia
privata ») A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale, Napoli, 2002, 192 ss. Per
la critica della distinzione tra processo amministrativo e processo ordinario alla
luce del principio dispositivo, per tutti, L. Perfetti, Prova (diritto processuale
amministrativo), in Enc. dir., Annali, II, tomo 1, Milano, 2008, 917 ss.
(3) Vedi, peraltro, quanto si osserverà più avanti.
(4) V., a titolo di esempio, per la prima, T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. I, n.
1367/2008 cit.; per la seconda, Corte giust. CE, Sez. II, 8 dicembre 2011, n.
272; C. giust. CE, Sez. I, 4 ottobre 2007, n. 429; Corte giust. CE, 14 dicembre
1995, cause riunite C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel e Van Veen.In dottrina,
M. Nigro, Domanda (principio della), Diritto processuale amministrativo, in Enc.
giur., XII, Roma, 1989, 1; F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia
amministrativa, Torino, 2011, 155; G. Verde, Domanda, cit., 2; S. Menchini,
Osservazioni critiche sul c.d. onere di allegazione dei fatti giuridici nel processo
civile, in Studi in onore di E. Fazzalari, III, Milano, 1993, 32.
(5) Le citazioni di cui al testo sono tratte da Corte giust. CE, 14 dicembre 1995,
C-430/93 e C-431/93 cit.
(6) Si consideri che il c.d. onere di allegazione dei fatti principali presenta
connessioni, oltre che con il principio della domanda, con quello della trattazione.
In proposito S. Menchini, Osservazioni critiche, cit., 23 ss., dove si dimostra che il
« vincolo del giudice agli alligata partium [non è] espressione del principio
dispositivo in senso stretto, [o] la proiezione ineliminabile nel processo del
carattere disponibile dei diritti sostanziali privati [ma] piuttosto, manifestazione
(eventuale) di scelte riconducibili alla tecnica del procedimento ».Sull'allegazione
v., inoltre, L.P. Comoglio, Allegazione, in Dig. disc. priv., Sez. civ., I, Torino,
1987, 272 ss.; B. Cavallone, Principio dispositivo, cit., 107 ss.; D. Buoncristiani,
L'allegazione dei fatti nel processo civile. Profili sistematici, Torino, 2001; A.
Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in Commentario del
Codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, II, 1, Torino, 1980, 128 ss.; C.
Consolo, Domanda, cit., 70 ss.L'attenzione che sarà prestata all'allegazione dei
fatti principali si lega alla circostanza che, secondo quanto assodato dalla dottrina
processualcivilistica, vi sono fatti che « attengono non all'identificazione, ma alla
fondatezza della domanda »: così A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit.,
132; similmente, C. Consolo, Domanda, cit., 73; A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 194
(« i fatti — la allegazione al giudizio dei fatti su istanza di parte — sono coperti
dal principio della domanda solo se indispensabili per l'individuazione del diritto
fatto valere »).Rileva che « se è vero che non sempre la specificazione dei fatti
costitutivi è essenziale per individuare l'oggetto del processo, ossia il diritto
dedotto in giudizio, è pur vero, però, che la variazione di tali fatti implica
immancabilmente, a seconda dei casi, una modificazione o quanto meno una
precisazione della domanda » G. Balena, Elementi di diritto processuale civile, I,
Bari, 2006, 77.
(7) Si tratta dell'obiettivo inseguito recentemente anche da M. Lipari, L'effettività
della decisione tra cognizione e ottemperanza, in federalismi.it, 8 e 23, per le
citazioni di cui al testo. Diffusa è, del resto, l'insoddisfazione per i limiti della
tutela degli interessi legittimi pretensivi insiti nell'effetto conformativo della
sentenza di annullamento: per tutti, E. Follieri, Atto autoritativo e giurisdizione.
Poteri di trasformazione e poteri di conservazione, in A.I.P.D.A., Annuario 2011,
Napoli, 2012, 77 ss.
(8) Come si diceva una volta: A. Lugo, Il potere dispositivo, cit., 1069.Già diverso
tempo fa V. Domenichelli, Le azioni nel processo amministrativo, in questa
Rivista, 2006, 16, osservava che « siamo lontani ormai anni luce dall'unicità del
petitum ».Si sono espressi, in particolare, a favore del principio di atipicità delle
azioni, L. Torchia, Le nuove pronunce nel Codice del processo amministrativo, in
Aa.Vv., La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti
organizzativi e riforme strutturali, Atti del LVI Convegno di studi di scienza
dell'amministrazione, Varenna - Villa Monastero, 23-25 settembre 2010, Milano,
2011, 337 ss.; M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel
processo amministrativo, in questa Rivista, 2005, 557 ss.; Id., Le azioni, in Giorn.
dir. amm., 2010, 1121 ss. Avendo, tuttavia, il c.p.a. tipizzato numerose azioni,
sembra oggi possibile ricorrere a tale principio solo in via residuale (in particolare,
a proposito dell'azione di mero accertamento o di quella di accertamento
costitutivo, come si dirà più avanti). Sull'attuale dibattito tra fautori del principio
di tipicità e di quello di atipicità v. E. Scotti, Tra tipicità e atipicità delle azioni nel
processo amministrativo (a proposito di ad. plen. 15/11), in Dir. amm., 2011, 767
ss.
(9) Del quale non a caso sono debitore del titolo della relazione: v. M. Clarich,
Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989.
(10) I quali, insieme ai soggetti, costituiscono tradizionalmente (sulle orme di G.
Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Roma, 1935, 321 ss.), « i
termini essenziali di raffronto tra ciò che le parti chiedono e ciò su cui il giudice
può e deve provvedere » (così G. Verde, Domanda, cit., 5; sugli elementi di
identificazione della domanda v. anche A. Proto Pisani, Dell'esercizio dell'azione,
in Commentario del Codice di procedura civile, diretto da E. Allorio, I, 2, Torino,
1973, 1059 ss.). La necessità di scomporre la domanda è esaltata dal codice sul
processo amministrativo, nel momento in cui, come è stato esattamente notato,
classifica le azioni « con preponderante (se non esclusivo) riferimento al
petitum », mentre nella disciplina delle sentenze di merito (art. 34) mette al
centro la causa petendi, cioè la situazione giuridica soggettiva affermata dalla
parte, in rapporto alla lesione lamentata (comma 1 lett. c: tutela della
« situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio »; comma 5: soddisfazione
della « pretesa del ricorrente »): così M. Lipari, L'effettività, cit., 27-28, il quale
aggiunge che « l'attenzione rivolta verso la situazione giuridica posta alla base
della pretesa rafforza la convinzione secondo cui la decisione di accoglimento
contiene, prima ancora della componente costitutiva-demolitoria e della parte
conformativa, la necessaria premessa logica dell'accertamento della situazione
giuridica, della lesione e dei fatti che definiscono i presupposti sostanziali della
richiesta formulata dall'attore », con la conseguenza che, « anche prescindendo
dalla assenza di nuove azioni nominate, il codice manifesta un fermento
innovativo marcatissimo nella previsione accurata dei poteri esercitabili dal
giudice nel caso di accoglimento della domanda ».
(11) F. Francario, Inerzia ed ottemperanza al giudicato: spunti per una riflessione
sull'atto di ottemperanza, in Foro amm., 1985, 746 ss. In giurisprudenza, ha
sostenuto che « l'illegittimità dell'atto di esecuzione [...] è di per se stessa una
inottemperanza al giudicato » T.A.R. Lazio, Sez. II, 3 giugno 1981, n. 483, in
Foro amm., I, 1981, 1749 ss., con nota adesiva di G. Abbamonte (Giudizio di
legittimità e sindacato di legittimità sugli atti successivi al giudicato).
(12) A. Travi, Il nuovo processo amministrativo nella giurisprudenza: prime
riflessioni sul nuovo codice, relazione al Convegno Il nuovo processo
amministrativo, tenutosi a Bergamo, presso l'Accademia della Guardia di finanza,
il 23 maggio 2011.Pur ritenendo di non « arrivare alla ipotesi, forse estrema, che
tutta l'attività successiva al giudicato sia da far rientrare nell'ottemperanza »,
rivela insoddisfazione per le incertezze in cui il soggetto interessato è lasciato
dalla giurisprudenza amministrativa sul « se debba agire con lo strumento
ordinario ovvero con il giudizio di ottemperanza » S.S. Scoca, Violazione ed
elusione del giudicato: differenza anodina o utile?, in www.giustamm.it.
(13) V. in proposito, per tutte, C.g.a.r.s., 29 ottobre 1994, n. 406. Per indicazioni
dottrinali sia consentito rinviare a L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al
processo esecutivo, La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo
assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003, 47 ss.
(14) Cons. Stato, Sez. V, 6 febbraio 1999, n. 134, in Foro it., 1999, III, 166 ss.,
con annotazione di A. Travi; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 7 febbraio 2002, n. 842,
in Urb. app., 2002, 955, con commento di G. De Giorgi Cezzi, Sull'inesauribilità
del potere amministrativo; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 8 giugno 2011, n.
1428 (la c.d. sentenza Simeoli, pluricommentata, che ha riconosciuto in via
interpretativa l'esperibilità dell'azione di esatto adempimento).
(15) Così Cons. Stato, Sez. IV, 4 marzo 2011, n. 1415, in Foro amm. - C.d.S.,
2011, 846 ss.
(16) Già A. Travi,L'esecuzione della sentenza, in S. Cassese (a cura di), Trattato
di diritto amministrativo, Diritto amministrativo generale, II, Milano, 2000, 3542,
aveva notato che esse sono « il frutto di un compromesso » ispirato da
« considerazioni pratiche di ordine equitativo ».
(17) In proposito A. Cerretto, Il giudizio di ottemperanza nella sua evoluzione, in
www.giustamm.it.Devo però ridimensionare l'attesa per la decisione: infatti,
secondo l'ordinanza, la quale, tra l'altro, avalla le anzidette soluzioni, secondo cui
un provvedimento negativo potrebbe essere reiterato « una volta sola », « il
Codice del processo amministrativo sembra [sì] mostrare un favor per la
concentrazione nel giudizio di ottemperanza di tutte le questioni che sorgono
dopo un giudicato, in relazione alla sua esecuzione », aggiungendosi tuttavia che
« tale favor non pare possa essere considerato spinto sino al punto di comunque
affermare che qualsivoglia provvedimento adottato dopo un giudicato, e in
conseguenza di esso, ma in contrasto con la soddisfazione del ricorrente
vittorioso, debba essere portato davanti al (solo) giudice dell'ottemperanza »: in
definitiva a essere rimessa all'Adunanza plenaria è soltanto la questione se,
nell'ipotesi « di reiterazione di un'attività vincolata, o di un'attività valutativa
frutto di discrezionalità tecnica » (concorsi, gare, esami, si esemplifica), non si
debba « ritenere che nel caso di giudicato di annullamento per vizi sostanziali, il
rinnovo del procedimento, con la commissione di ulteriori vizi sostanziali, dia
luogo a violazione o elusione del giudicato ogni qualvolta i nuovi vizi derivano da
una nuova valutazione su aspetti incontroversi e non indicati dal giudicato come
necessitanti di una nuova valutazione ».Mentre si licenziava il testo scritto è
intervenuta Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013 n. 2, la quale arriva (ma
anche si limita) a ritenere « annoverabile nell'ambito delle controversie devolute
alla cognizione del giudice dell'ottemperanza » la frustrazione della pretesa del
ricorrente avvenuta « mediante l'utilizzo di un corredo motivazionale nuovo, che
tenda [...] a confermare il precedente risultato mediante l'utilizzo di un percorso
logico differente da quello in precedenza utilizzato ».
(18) Non intendo, però, soffermarmi direttamente sulla relazione tra diritto (tra
situazione giuridica soggettiva) e azione, seppure tenderei a cogliere nel c.p.a.,
come è stato sostenuto (I. Pagni, L'azione di adempimento nel processo
amministrativo, in www.giustamm.it; A. Pajno, Il codice del processo
amministrativo ed il superamento del sistema di giustizia amministrativa. Una
introduzione al libro I, in questa Rivista, 2011, 105; A. Carbone, Azione di
adempimento, disponibilità della situazione giuridica e onere della prova, in Foro
amm. - Tar, 2011, 2959 ss.), il rovesciamento dell'impostazione crispina con il
riconoscimento della sequenza situazione giuridica soggettiva — azioni — poteri
del giudice. Rileva che il codice del processo amministrativo « con una inversione
di tendenza, addirittura con una rottura rispetto alla impostazione adottata dal
legislatore fin dal 1865 e dal 1889, cerca ora di delineare le tutele giurisdizionali
adattandole alle situazioni tutelate aprioristicamente considerate, e non
viceversa » A. Romano, Nota bio-bibliografica, in L'« ultimo » Santi Romano,
Milano, 2013, 843 ss.Sostiene, al contrario, che si stia perpetuando l'« inversione
logica » tra diritto e azione, cosicché il collegamento andrebbe piuttosto fatto
« tra azione e sfera giuridica lesa », F. Patroni Griffi, Riflessioni sul tema delle
tutele nel processo amministrativo riformato, in www.giustiziaamministrativa.it.L'interazione di cui al testo non è, invece, in contrasto con
l'affermazione che il c.p.a. « va nel senso di una definitiva separazione tra
disciplina sostanziale e disciplina processuale »: così A. Pajno, Il codice del
processo amministrativo tra « cambio di paradigma » e paura della tutela, in E.
Catelani - A. Fioritto - A. Massera (a cura di), La riforma del processo
amministrativo. La fine dell'ingiustizia amministrativa?, Napoli, 2011, 82; Id., Il
codice del processo amministrativo ed il superamento, cit., 105 e 109.
(19) Rileva S. Baccarini, « Scelta » delle azioni e valutazione della « necessità »
dell'annullamento per la tutela del ricorrente, in questa Rivista, 2011, 1261, che
« il processo amministrativo è stato finalmente aggiornato alla cultura del
processo ».
(20) Quest'esigenza di chiarimento è stata sottolineata anche da S.R. Masera, La
supremazia della legge ed il valore del diritto nel giudizio amministrativo, in E.
García de Enterría, Le trasformazioni della giustizia amministrativa, Milano, 2010,
XVII, alla stregua del cambio di paradigma sostenuto dal maestro spagnolo.
Rileva una « impressione di poca chiarezza della nozione di interesse legittimo
che sta alla base [...] di molte delle decisioni che, negli ultimi anni, si sono via via
succedute sul tema della tutela risarcitoria dei danni derivanti dalla lesione »
degli stessi interessi A. De Chiara, Danno derivante da lesione di interesse
legittimo e situazioni giuridiche soggettive, in G. Clemente di San Luca, La tutela
delle situazioni soggettive nel diritto italiano, europeo e comparato, I, Napoli,
2011, 123.
(21) E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 184; A.
Pajno, Il codice del processo amministrativo ed il superamento, cit., 106; nota S.
Baccarini, « Scelta » delle azioni, cit., 1261, che « con la disciplina delle azioni,
che non ha posto nel codice di procedura civile, è stato modificato in realtà il
contenuto delle situazioni soggettive ».
(22) Salvo il problema se a ogni vizio dedotto corrisponda una domanda distinta
oppure il diritto all'annullamento sia unico ancorché fondato su titoli diversi: in
proposito, tra altri, nel processo civile, A. Proto Pisani, Appunti sulla tutela c.d.
costitutiva (e sulle tecniche di produzione degli effetti sostanziali), in Riv. dir.
proc., 1991, 60 ss.; Id., Lezioni, cit., 70 ss.; C. Ferri, Costitutiva (azione), in Enc.
giur., X, Roma, 1988, 4 ss.; Id., Profili dell'accertamento costitutivo, Padova,
1970, 71 ss.; A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 40 ss. e 146 ss.; C.
Consolo, Domanda, cit., 79-86; G.F. Ricci, Principi di diritto processuale generale,
Torino, 2010, 270; G. Verde, Domanda, cit., 6; M. Fornaciari, Situazioni
potestative, tutela costitutiva, giudicato, Torino, 1999, 247 ss.; in quello
amministrativo, M. Clarich, Giudicato, cit., 124 ss. e 137 ss.; M. Nigro, Domanda,
cit., 2-3; M. D'Orsogna-F. Figorilli, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia
amministrativa, cit., 294; M.P. Chiti, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale
amministrativo, Milano, 2007, 176; A. Romano Tassone, Sulla disponibilità, cit.,
811 ss.
(23) In proposito, M. D'Orsogna-F. Figorilli, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia
amministrativa, cit., 296; M.P. Chiti, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale
amministrativo, cit., 175-176.
(24) Nella consapevolezza che « il problema dell'identificazione dell'azione
costituisce uno degli argomenti più delicati [dello stesso] processo civile e dà
luogo a soluzioni sulle quali i dissensi sono ancora aperti »: G.F. Ricci, Principi,
cit., 120; v. in proposito anche A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 8
ss., il quale in particolare ricorda che « la c. petendi è, indubbiamente, il più
complesso e controverso dei tre elementi identificatori », nonché C. Consolo,
Domanda, cit., 65.
(25) Basta pensare, tra i contributi recenti, a chi ancora ragiona di una « doppia
anima » dell'interesse legittimo di protezione dell'interesse sia privato che
pubblico (P.L. Portaluri, Le « macchine pigre » e un codice ben temperato, in
www.giustamm.it); o a chi lo configura a metà tra il diritto soggettivo e il dovere
di solidarietà (M. Magri, La rilevanza del formante sociale: l'interesse legittimo
come "essere tra" (diritto e dovere), in G. Arena - F. Cortese (a cura di), Per
governare insieme: il federalismo come metodo. Verso nuove forme della
democrazia, Padova, 2011, 41 ss.). Ma anche chi afferma, non senza ragione, che
« l'interesse legittimo è una mera superfetazione, non assolvendo ad alcuna
funzione pratica, né sul versante del riparto di giurisdizione, né su quello del
diritto sostanziale », finisce per lasciar sguarnita di ogni possibilità di
inquadramento a fini processuali la situazione giuridica soggettiva tutelata dal
giudice amministrativo, nell'ambito di una giurisdizione di cui pur si riconosce il
carattere soggettivo, nella misura in cui rinuncia a ogni indagine in positivo sulla
struttura di tale situazione soggettiva (così M. Mazzamuto, A cosa serve
l'interesse legittimo?, in questa Rivista, 2012, 46 ss.).
(26) Di più, o ancor prima: tale impostazione, ove fosse accolta dal giudice
amministrativo, potrebbe spingerlo a non operare « partendo dalla ricognizione
delle norme dettate per disciplinare il potere pubblico » e a muovere « invece dal
diritto ricavandone per differenza la dimensione del potere »: A. Pioggia, Il
giudice e la funzione. Il sindacato del giudice ordinario sul potere privato
dell'amministrazione, in Dir. pubbl., 2004, 233.
(27) Dal momento che in esso « l'esito non è determinato dalla titolarità della
posizione giuridica sostanziale, sebbene dalla illegittimità del provvedimento
impugnato » (a differenza del processo civile, dove « il riconoscimento della
titolarità del diritto coincide con la verifica della fondatezza della domanda »): R.
Villata, Legittimazione processuale, II) Diritto processuale amministrativo, in Enc.
giur., XVIII, Roma, 1990, 2. V. in proposito e in senso critico C. Cudia, Gli
interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Rimini, 2012, 143
ss.Ricorda esattamente M. Protto, Ordine di esame del ricorso principale e
incidentale in materia di appalti pubblici: la parola al giudice comunitario, in
www.giustizia-amministrativa.it, che il controllo della legittimazione al ricorso ha
carattere pregiudiziale rispetto all'esame del merito della domanda, in coerenza
con i principi della giurisdizione soggettiva e dell'impulso di parte.
(28) Un ruolo, questo, che appare storicamente riconducibile al « distacco del
giudizio di legittimità da qualsiasi rapporto sostanziale », tanto da fare di
quell'interesse « l'unico elemento rilevante per poter giudicare della possibilità
del ricorrente di impugnare un determinato atto »: così G.F. Ricci, Principi, cit.,
135-136, il quale ricorda che « la giurisprudenza ha sempre ritenuto
inammissibile il ricorso contro l'atto amministrativo illegittimo, quando questo è
favorevole all'istante », rilevando criticamente che l'impugnazione può viceversa
rivelarsi funzionale alla rimozione di uno « stato di incertezza ». Se si assume
che la certezza rientri nell'oggetto dell'interesse legittimo (sul punto torneremo
ampiamente), non può nemmeno sostenersi che in caso di « provvedimento
favorevole ma illegittimo non c'è lesione dell'interesse legittimo » (A. Zito, in F.G.
Scoca — a cura di —, Giustizia amministrativa, cit., 81). Ché se poi la illegittimità
è meramente formale non c'è lesione perché l'interesse legittimo è soddisfatto
(affermazione oggi facilmente desumibile dall'art. 21-octies, secondo comma, ma
alla quale perveniva già R. Villata, Nuove riflessioni sull'oggetto del processo
amministrativo, in Studi in onore di Antonio Amorth, I, Milano, 1982, 716, nt.
34).
(29) Si pensi soltanto all'insegnamento dottrinario processualcivilistico, stando al
quale nell'azione costitutiva l'interesse ad agire è in re ipsa: vedine le ragioni in L.
Perfetti, Diritto di azione ed interesse ad agire nel processo amministrativo,
Padova, 2004, 167 ss., cui si rinvia anche per ogni indicazione dottrinale.
(30) Uno sguardo ai commenti agli art. 40 e 44 c.p.a. dimostra come regni ancora
molta incertezza, per esempio sul significato da dare all'espressione « oggetto
della domanda ».Si veda, per tutti, R. De Nictolis (a cura di), Codice del processo
amministrativo commentato, Assago, 2012, 759 ss., dove l'oggetto della
domanda ex art. 40 lett. b) c.p.a. corrisponde al tempo stesso al petitum
(condanna, risarcimento, accertamento, ecc.); all'atto di diffida ad adempiere o
alla prova dell'istanza avanzata all'amministrazione, nel ricorso contro il silenzio
inadempimento; agli elementi costitutivi della pretesa risarcitoria.Non manca
neppure chi sembra sottovalutare l'importanza dell'anzidetta espressione,
sostenendo che l'art. 40 c.p.a. contiene una disciplina « sostanzialmente
identica » a quella del regolamento di procedura del 1907 (C.E. Gallo, Manuale di
giustizia amministrativa, Torino, 2010, 127; similmente J. D'Auria, in R. Garofoli G. Ferrari (a cura di), Codice del processo amministrativo, 2012, 707): andrebbe
considerato che « l'indicazione dell'oggetto della domanda » postula che oggi
possano essere chiesti al giudice provvedimenti diversi dall'annullamento dell'atto
amministrativo, insieme a questo o al posto di questo (così esattamente M.
D'Orsogna-F. Figorilli, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit.,
292).
(31) G.F. Ricci, Principi, cit., 119.
(32) Tra questi riferimenti (che vanno ad affiancarsi a quelli, ben noti, di cui agli
artt. 99 c.p.c., 2907 c.c., 24 Cost.) spiccano quelli contenuti nell'art. 34 (« nei
limiti della domanda »), nell'art. 31, comma 4, e nell'art. 32, ma è significativo,
in generale, seppur non soltanto, il titolo III del libro I; il principio della domanda,
inoltre, è già implicito nell'art. 1, sotto le vesti del principio di effettività della
tutela (v. M. Ramajoli, Principio della domanda e poteri d'ufficio del giudice,
relazione al Convegno Annullamento dell'aggiudicazione e patologie del contratto,
svoltosi a Firenze il 13 aprile 2012: « nella domanda che fa la parte si esprime un
bisogno di tutela al quale il giudice deve dare una risposta adeguata »). Rileva L.
Torchia, Le nuove pronunce, cit., che « il Codice ribadisce, innanzitutto, la
fondamentale regola secondo la quale il giudice deve decidere sempre nei limiti
della domanda », aggiungendo che « il principio della domanda non è stato
codificato in quanto tale, come accadeva nell'articolo 3 della bozza di Codice
predisposta dalla Commissione, che lo inseriva nella più generale affermazione
dell'obbligo di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ma assume comunque
una valenza più ampia di un semplice strumento di delimitazione del thema
decidendum in ragione delle disposizioni dell'articolo 32 », dal momento che
« queste disposizioni, infatti, non solo consentono il cumulo di domande connesse
nello stesso giudizio, ma impongono al giudice di qualificare l'azione proposta
« in base ai suoi elementi sostanziali » e gli consentono di disporre la
conversione delle azioni (comma 2) ».
(33) Per tutti, F. Tommaseo, I processi, cit., 92.
(34) F. Tommaseo, I processi, cit., 94.
(35) G.F. Ricci, Principi, cit., 13. Distingue tra domanda in senso ampio e
domanda in senso stretto anche C. Consolo, Domanda giudiziale, cit., 48 e 61.
(36) È alla domanda come azione meramente processuale che alcuni autori fanno
corrispondere la giurisdizione oggettiva (o i processi a contenuto oggettivo): così
chiaramente G.F. Ricci, Principi, cit., 131-132, che vede attagliarsi al tradizionale
processo amministrativo di annullamento il concetto di azione meramente
processuale nella considerazione del suo « distacco [...] dalla situazione
sostanziale », cogliendo altresì in questa impostazione la ragione di quella
distanza della dottrina amministrativistica dal dibattito processualcivilistico sulla
domanda giudiziale della quale innanzi si diceva. Tuttavia, si sostiene pure che i
processi a contenuto oggettivo « sono processi senza domanda e ciò ha tutta una
serie di implicazioni che contrastano con il nostro sistema processuale » (il rilievo
è di R. Villata, Riflessioni in tema di partecipazione al procedimento e
legittimazione processuale, in questa Rivista, 1992, 202).Osserva C. Consolo,
Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Torino, 2012, 207, che
i « cd. processi a contenuto oggettivo [...] non vertono su diritti soggettivi o
status, bensì [...] sull'accertamento del dovere decisorio del giudice e di un certo
suo contenuto » e che « in questi procedimenti non opera con rigore il principio
della domanda e all'iniziativa di parte è riconosciuto il solo ruolo di atto di
promozione della sequenza procedimentale », aggiungendo che « questa poi si
sviluppa secondo cadenze proprie, svincolata dal rispetto del principio della
corrispondenza tra chiesto e pronunciato e caratterizzata dal riconoscimento di
rilevanti poteri ufficiosi al giudice in materia probatoria ». Alla categoria sono
stati ricondotti, a titolo esemplificativo, il procedimento per la dichiarazione di
fallimento, quello d'interdizione e di inabilitazione, il rito in materia elettorale, il
procedimento per la dichiarazione d'assenza o di morte presunta, il giudizio di
scioglimento delle comunioni, il giudizio civile di querela di falso e quello
dichiarativo della nullità del matrimonio. Per l'inquadramento del concetto e
l'individuazione delle ipotesi v. E. Allorio, L'ordinamento giuridico nel prisma
dell'accertamento giudiziale, in Problemi del diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.; A.
Cerino Canova, Per la chiarezza delle idee in tema di procedimento camerale e di
giurisdizione volontaria, in Riv. dir. civ., 1987, I, 483 ss.; F. Tommaseo, I
processi, cit.
(37) V., tra molte altre, Cons. Stato, Sez. V, 27 maggio 2011, n. 3091.Adde ora
Cons. Stato, Ad. plen., 15 gennaio 2013, n. 2, cit., secondo cui « la risposta del
giudice amministrativo è caratterizzata da un assetto soggettivo, inteso come
soddisfazione di una specifica pretesa ».
(38) In dottrina, a favore del giudizio amministrativo come giurisdizione di diritto
soggettivo o come « processo di parti », tra i tanti, P. Stella Richter, Dopo il
codice del processo amministrativo, in questa Rivista, 2012, 876; G. Rossi,
Giudice e processo amministrativo, ivi, 1211; F. Salvia, in A. Sandulli (a cura di),
Diritto processuale amministrativo, cit., 88-89; E. Ferrari, Commento all'art. 26
della legge 6 dicembre 1971 n. 1034, in A. Romano (a cura di), Commentario
breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 1992, 717-718. Sostiene
che il ricorso avanti le giurisdizioni amministrative « è una vera e propria
citazione » S. Costa, Domanda giudiziale, in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960,
169; ma si vedano anche S. Baccarini, Piccolo mondo antico: la teoria del « processo da ricorso », in questa Rivista, 2007, 1138 ss. e M.P. Chiti, in A.
Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, cit., 171-172. Sul
(significato del)la contrapposizione tra ricorso e citazione v. comunque F.
Benvenuti, Processo amministrativo. a) Ragioni e struttura, in Enc. dir., XXXVI,
Milano, 1987, 460 ss.; nonché M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1976,
273. In proposito, di recente, J. D'Auria, in R. Garofoli - G. Ferrari (a cura di),
Codice, cit., 701 ss.Traccia la distinzione tra la giurisdizione soggettiva e quella
oggettiva, in particolare, F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia
amministrativa, cit., 154.
(39) Va, infatti, sinteticamente ricordato che non bastano l'esistenza di un
qualche potere officioso e/o il perseguimento di un interesse generale per
riconoscersi le caratteristiche della giurisdizione oggettiva (per tutti, F.
Tommaseo, I processi, cit., 100): altrimenti rientrerebbe in tale giurisdizione
anche la dichiarazione civilistica di nullità del contratto (allorquando la nullità
stessa sia stata rilevata dal giudice) e si dimenticherebbe che « l'esercizio dello
ius excipiendi lascia immutati i limiti oggettivi del giudicato » — altra cosa è il
thema decidendum o l'oggetto della cognizione (v. C. Consolo, Domanda, cit., 78)
— per cui l'indicazione del fatto impeditivo, modificativo o estintivo, oggetto di
eccezioni improprie o in senso lato, « non presenta alcun collegamento con il
principio della domanda » (S. Menchini, Osservazioni critiche, cit., 32-33); si
trascurerebbe « il normale operare dei fatti giuridici ipso iure senza la necessaria
intermediazione dell'esercizio di un potere riservato alla parte », cui fa seguito la
« regola generale » della rilevabilità d'ufficio dei fatti allegati (la quale rende
eccezionali le ipotesi in cui si è di fronte a una eccezione in senso stretto: A. Proto
Pisani, Lezioni, cit., 194-195; sulla nozione di eccezione v., di recente, A. Motto,
Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012, 203 ss.; C. Cavallini,
Eccezione rilevabile d'ufficio e struttura del processo, Napoli, 2003). Si
pretermetterebbe altresì che « rilevare d'ufficio sta per indicare d'ufficio alle
parti »: come già riteneva il Consiglio di Stato nell'Adunanza plenaria n. 1 del
2000; vedi ora l'art. 73, comma 3, c.p.a. Per tali ragioni non risulta costituire una
“parentesi di giurisdizione oggettiva”, come si legge in C.g.a.r.s., 27 luglio 2012,
n. 721, la rilevabilità d'ufficio della nullità del provvedimento amministrativo ex
art. 31, comma 4, c.p.a.: nota in modo condivisibile N. Paolantonio, Gli interessi
generali nel (e del) processo amministrativo. O del processo amministrativo tra
contenuto soggettivo ed oggettivo (osservazioni sparse), relazione al Seminario di
studi Il processo amministrativo tra giurisdizione soggettiva e giurisdizione
oggettiva, Firenze, 15 maggio 2013, che « la previsione di tale potere officioso
non desterebbe problemi se non fosse che ad esso non si affianca [...] la regola
della imprescrittibilità dell'azione, invece soggetta a decadenza ».Certamente
esistono disposizioni e istituti particolari o controversi (la dichiarazione di
inefficacia del contratto ai sensi degli artt. 121 e 122 c.p.a.; le sanzioni
alternative ex art. 123 c.p.a.; l'art. 21-bis della l. n. 287 del 1990, che riconosce
all'Autorità garante della concorrenza e del mercato la legittimazione ad agire in
giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti che
violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato), ma l'azione e la
delimitazione dell'oggetto del giudizio sono rimesse in linea generale all'iniziativa
delle parti: e se è così, non può pensarsi che sia demandata « alla libera scelta
del privato l'ambito, l'ampiezza e, prima ancora, la stessa eventualità della cura
dell'interesse pubblico alla legittimità dell'azione amministrativa » (così R. Briani,
L'istruzione probatoria, cit.). Senza dire che proprio il fatto che in alcuni casi
agisca un'autorità amministrativa assumendo vesti similari a quelle del pubblico
ministero (contraria, in riferimento alla legittimazione dell'AGCM, è l'opinione
espressa da T.A.R. Lazio, Sez. III-ter, 15 marzo 2013, n. 2720) o che in altri casi
agisca il giudice d'ufficio (ipotesi, peraltro, non assimilabili, perché nel primo caso
il principio della domanda, inteso in senso formale, è « rispettato » — e con esso
è fatta salva l'imparzialità del giudice —: A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 193)
rafforza l'idea che quando il processo si regge sulla domanda della parte esso ha
natura soggettiva; nondimeno, i casi di iniziativa ufficiosa in deroga al principio
della domanda sono « eccezionali » e come tali, per dirla con G. Verde,
Domanda, cit., 2 e 3 (di « indubbia eccezionalità ed estraneità al principio
costituzionalizzato all'art. 24 » ragiona C. Consolo, Domanda, cit., 56 e 58),
« finiscono indirettamente con il confermare la validità del principio in esame ».
Rileva C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi, cit., 66 ss., che « proprio perché non
esiste un modello generale oggettivo di tutela degli interessi diffusi, il legislatore
eccezionalmente (in ipotesi tassative riferite a materie particolarmente delicate)
ha affidato la legittimazione ad agire a soggetti pubblici: resta fermo, per
converso, che l'emersione di interessi privati, ancorché sovraindividuali, richiede
la predisposizione di meccanismi di tutela attivabili — appunto — da soggetti
privati ».
(40) Così F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 154;
ma possono citarsi molti altri autori: da G. Abbamonte, Il ritiro dell'atto
impugnato nel corso del processo e la determinazione dell'oggetto del giudizio
innanzi al Consiglio di Stato, in Studi in onore di Antonino Papaldo, Milano, 1975,
305, a S. Piraino, L'azione nel processo amministrativo, Milano, 1981, 136 ss.,
184 ss. e passim, sino a A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per
una giustizia « non amministrativa », Milano, 2005, 43 ss. Anche R. Villata,
Nuove riflessioni, cit., 712-713, pur rilevando che « il distacco dell'oggetto del
giudizio dal provvedimento impugnato e dal problema della sua legittimità o meno
non appare [...] un portato necessario di prescrizioni costituzionali nella loro
intrinseca normatività », ritrova « nelle disposizioni costituzionali la fonte di un
raccordo necessario tra oggetto della tutela giurisdizionale e interessi legittimi »
in funzione dell'obiettivo del loro soddisfacimento.
(41) R. Villata, Nuove riflessioni, cit., 714 nt. 24.
(42) Così come « la tutela giurisdizionale dei diritti » di cui all'art. 2907 c.c.
(43) Sul punto v. infra.
(44) Così come viceversa sostiene, tra altri, A. Cerino Canova, La domanda
giudiziale, cit., 127.
(45) C. Ferri, Costitutiva, cit., 3; v., peraltro, per la distinzione tra oggetto di
giudizio processuale e oggetto di giudizio di merito, C. Consolo, Domanda, cit., 52
ss.
(46) Sono parole di A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 32.
(47) La domanda quale veicolo formale dell'affermazione della situazione giuridica
soggettiva.
(48) V., per esempio, F. Cangelli, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia
amministrativa, cit., 220; nonché A. Carbone, L'azione di adempimento nel
processo amministrativo, Torino, 2012, 70, il quale osserva che « una volta
chiarito che l'interesse legittimo è situazione giuridica sostanziale e che quella
amministrativa è una giurisdizione di carattere soggettivo, la questione
dell'oggetto del processo amministrativo dovrebbe essere analizzata in termini
non dissimili da quanto avviene nel processo civile ».
(49) V. al prossimo §.
(50) Del resto, è ormai assodato « il valore pratico del problema della domanda
giudiziale e dell'oggetto del processo » (C. Consolo, Domanda, cit., 60).
(51) « Fra oggetto del processo e oggetto del giudicato sussiste infatti una
correlazione strettissima »: A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 59.
(52) Non mi soffermo su altre disposizioni, come l'art. 21-octies, secondo comma,
l. n. 241/1990, che pure si muovono « verso un tipo di processo pienamente ed
esclusivamente di carattere soggettivo », nella misura in cui tutelano
« l'interesse effettivo del ricorrente, e soltanto quello »: così F.G. Scoca,
Attualità dell'interesse legittimo?, in questa Rivista, 2011, 406.
(53) A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 127-128, il quale, peraltro,
ritiene che il principio della domanda sia da intendere anche come il riflesso del
potere di disporre in senso sostanziale della situazione giuridica soggettiva: qui
però si cela un problema ulteriore, che in questa sede non si intende affrontare
(può solo ricordarsi la rilevanza assunta rispetto al principio della domanda dalla
terzietà del giudice, di cui all'art. 111 Cost.: supra nota 2 per riferimenti
dottrinali).
(54) La denominazione « giudizio di legittimità », peraltro, è ormai superata e
andrebbe abbandonata.
(55) Il corsivo è mio. La frase prosegue, mettendo sullo stesso piano, dal punto di
vista dell'oggetto del processo, interessi legittimi e diritti soggettivi: « e, nelle
particolare materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi ».
(56) Così S. Giacchetti, La rivoluzione silenziosa del Codice di procedura
amministrativa recita un requiem per l'interesse legittimo, in questa Rivista,
2011, 355.
(57) Fuori da ogni considerazione sull'assimilabilità tra diritto soggettivo e potere
in termini di situazioni giuridiche.
(58) Inaugurati dalla sentenza n. 204 del 6 luglio 2004. Per osservazioni e
riferimenti dottrinali si rinvia a L. Ferrara, L'interesse legittimo alla riprova della
responsabilità patrimoniale, in Dir. pubbl., 2010, 670 ss.
(59) In proposito, A. Zito, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit.,
76-77. V. anche L. Mazzarolli, Ancora qualche riflessione in tema di interesse
legittimo, dopo l'emanazione del codice del processo amministrativo (a margine di
un pluridecennale, ma non esaurito, profittevole dialogo con Alberto Romano), in
questa Rivista, 2011, 1210, secondo cui « l'ambito nel quale un interesse
legittimo può essere presente è il medesimo in cui è presente il potere pubblico
dell'amministrazione ».
(60) Tra tutti, A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, I, Milano,
1962, 124 ss.
(61) Ricordato anche da L. Mazzarolli, Il processo amministrativo come processo
di parti e l'oggetto del giudizio, in questa Rivista 1997, 15.
(62) In proposito, tra altri, G. Tropea, Il ricorso incidentale nel processo
amministrativo, Napoli, 2007; A. Romano Tassone, Il ricorso incidentale e gli
strumenti di difesa nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2009, 581 ss.;
R. Villata, Riflessioni in tema di ricorso incidentale nel giudizio amministrativo di
primo grado (con particolare riguardo alle impugnative delle gare contrattuali), in
questa Rivista, 2009, 291 ss.; W. Catallozzi, Ricorso incidentale, I) Giudizio
amministrativo, in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991.
(63) Su cui, tra altri, V. Caianiello, Motivi aggiunti (nel giudizio amministrativo),
in Enc. giur., XX, Roma, 1990; F. Figorilli, L'istituto dei motivi aggiunti alla luce
delle modifiche introdotte dalla 205/2000, in G. Falcon (a cura di), La tutela
dell'interesse al provvedimento, Trento, 2001, 83 ss.; C. Mignone, I motivi
aggiunti nel processo amministrativo, Padova, 1984; S. Castro, Il ricorso per
motivi aggiunti nel processo amministrativo, Milano, 2011.
(64) Su cui, di recente, C. Bertolini, Spunti di riflessione in tema di riconvenzione
nel processo amministrativo, in E. Catelani - A. Fioritto - A. Massera (a cura di),
La riforma, cit., 191 ss. V. anche A. Di Giovanni, La domanda riconvenzionale nel
processo amministrativo, Padova, 2004; S. Evangelista, Riconvenzionale
(domanda), in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991.
(65) Sulla simmetria tra contenuto della domanda e della sentenza si veda, anche
in chiave critica, C. Consolo, Domanda, cit., 56 ss.; per ulteriori riferimenti
dottrinali si rinvia a A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 81 nt. 38.
(66) Più che convincere sulla bontà di tale soluzione, interessa far chiarezza sulle
alternative in campo, per poter meglio illustrare le possibili ricadute
dell'impostazione prescelta.
(67) R. Politi, Atipicità delle azioni e chirurgia giurisprudenziale dell'azione di
annullamento: la « sovrascrittura del programma », in Foro amm. - Tar, 2012,
1073, il quale, peraltro, sembra interpretare erroneamente il pensiero di F.
Caringella, Architettura e tutela dell'interesse legittimo dopo il codice del processo
amministrativo: verso il futuro!, in www.giustizia-amministrativa.it, che
comunque ritiene che il giudizio amministrativo « assurge a giudizio sul
rapporto » soltanto « ove non vi osti il residuare di sacche di discrezionalità
amministrativa o tecnica ». L'espressione « giudizio all'atto » non è certamente
nuova: per tutti, L. Mazzarolli, Il processo amministrativo, cit.
(68) V. Cerulli Irelli, Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni, in E.
Catelani - A. Fioritto - A. Massera (a cura di), La riforma, cit., 21.
(69) Per tutti, F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit.,
161: « L'oggetto del giudizio amministrativo è il potere amministrativo (inteso
come situazione giuridica soggettiva), o, più esattamente, la legittimità degli atti
(e dei comportamenti) che ne costituiscono esercizio, in funzione della tutela
dell'interesse legittimo ».
(70) Mi prometto di tornare ampiamente su questa tesi in una prossima
occasione, proseguendo un dialogo del quale il prof. Scoca fa alla Scuola
fiorentina graditissimo onore.
(71) Alla « tutela dei propri diritti e interessi legittimi » si riferisce lo stesso art.
24 Cost. Rileva A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 180, che « oggetto del [...]
processo e, quindi, dell'accertamento con autorità di cosa giudicata, è il diritto o
rapporto giuridico su cui incide l'atto di esercizio del potere sostanziale, e non già
la situazione giuridica di potere ». Afferma L. Perfetti, Prova, cit., 933, che « le
parti nel processo amministrativo agiscono a protezione delle loro posizioni
soggettive di diritto sostanziale, e di queste (e solo di queste) richiedono tutela
piena ed effettiva in giudizio ».
(72) V. Domenichelli, Il giudizio amministrativo, in L. Mazzarolli - G. Pericu - A.
Romano - F.A. Roversi Monaco - F.G. Scoca, Diritto amministrativo, II, Bologna,
544.
(73) Sempre, e non soltanto laddove l'attività della pubblica amministrazione è
vincolata (supra nota 67).
(74) Ex multis, A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 66; C. Consolo, Domanda, cit., 57 e
67. Ricorda che si tratta dello « stesso lessico utilizzato dall'art. 2908 c.c. » R.
Cavallo Perin, La tutela cautelare nel processo avanti al giudice amministrativo, in
Aa.Vv., Studi in onore di Alberto Romano, II, Napoli, 2011, 1117. Chiarisce che
« oggetto dell'accertamento dovrà considerarsi la Normsituazion, vale a dire la
regola (o regole) di qualificazione dei comportamenti delle parti secondo
l'ordinamento e, di riflesso, la Rechtsklage, vale a dire le reciproche posizioni
delle parti » B. Sassani, Impugnativa dell'atto e disciplina del rapporto, Padova,
1989, 77.
(75) Sostiene che « l'oggetto del giudizio si presenta come la cognizione del
rapporto funzionalizzata alla pretesa processuale del ricorrente » A. Carbone,
L'azione di adempimento, cit., 71.
(76) F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 162.
(77) È la nota tesi di G. Corso,Processo amministrativo di cognizione e tutela
esecutiva, in Foro it., 1989, V, 421 ss. e di G. Verde, Osservazioni sul giudizio di
ottemperanza, in Riv. dir. proc., 1980, 642 ss.; e ancor prima, ma solo in certa
misura, di A. Piras, Interesse legittimo, cit.
(78) O « nella sua integralità »: F.G. Scoca, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia
amministrativa, cit., 162.
(79) La contrapposizione è di G. Tropea, La c.d. motivazione « successiva » tra
attività di sanatoria e giudizio amministrativo, in Dir. amm., 2003, 552.
(80) Rileva anche di recente G. Verde, Sguardo panoramico al libro primo e in
particolare alle tutele e ai poteri del giudice, in questa Rivista, 2010, 799-800,
che « in situazioni in cui il potere di scelta può essere ancora utilmente esercitato
nel corso del giudizio [...] lasciare all'Amministrazione margini di discrezionalità
successivi alla conclusione del processo si risolve in un privilegio del tutto
ingiustificato ». Non andrebbe, peraltro, dimenticato che « la funzione del
processo è di statuire sulla situazione fatta valere e non di definire per sempre
tutta la relazione intercorrente tra le parti »: A. Cerino Canova, La domanda
giudiziale, cit., 139; v. anche C. Consolo, Domanda, cit., 67.
(81) Devono, invece, ritenersi superati gli ostacoli all'accoglimento della teoria
che venivano postulati da L. Mazzarolli, Il processo amministrativo, cit., 16:
infatti, i vizi di natura formale sono stati « sviliti » dall'art. 21-octies, secondo
comma, l. n. 241/1990; nondimeno, nella competenza si è letta la protezione di
un interesse sostanziale (A. Pioggia, La competenza amministrativa.
L'organizzazione fra specialità pubblicistica e diritto privato, Torino, 2001).
(82) Mentre dove il potere ha carattere ablatorio dovrebbe coerentemente
postularsi (il diritto soggettivo e) la giurisdizione del giudice ordinario.
(83) In termini sostanziali, può semplicemente osservarsi che (almeno) nei casi di
cui si fa questione l'interesse legittimo non può avere per oggetto il bene della
vita. Altrimenti il terzo pretendente non sarebbe mai titolare di tale situazione
giuridica soggettiva (laddove lo è il ricorrente): non sarebbe, infatti, logicamente
sostenibile che il bene della vita sia l'oggetto tanto della situazione soggettiva
dell'interessato che di quella del controinteressato. La circostanza stessa che
possano sussistere contemporaneamente in una vicenda amministrativa due o più
titolari di interessi legittimi, con interessi sostanziali contrapposti, diversamente
da quanto avviene tra due soggetti che accampano entrambi una proprietà, dove
uno solo in realtà è titolare della situazione soggettiva, conferma che il bene
tutelato non può corrispondere nella specie con quello c.d. finale.
(84) Più esattamente, il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il
deducibile determina una preclusione « extraprocessuale » (G. Verde, Domanda,
cit., 6). Esula da questa analisi la considerazione della cosiddetta preclusione
procedimentale, ovvero della definitiva fissazione degli accertamenti e delle
valutazioni della p.a., così come compiuti nell'ambito del procedimento
amministrativo (secondo una ipotesi ricostruttiva rilanciata dall'introduzione
dell'istituto della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, ai
sensi dell'art. 10 bis della legge n. 241/1990: v., in particolare, D. Vaiano,
Preavviso di rigetto e principio del contraddittorio nel procedimento
amministrativo, in L. Perfetti (a cura di) Le riforme della l. 7 agosto 1990, n. 241
tra garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Padova, 2008, 35 ss.;
P. Amovilli, La comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza (art.
10-bis l. 241/90) tra partecipazione, deflazione del contenzioso e nuovi modelli di
contradditorio « ad armi pari », in www.giustizia-amministrativa.it): seppure si è
dell'avviso che si oppongano alla consumazione o all'esaurimento del potere
amministrativo, insiti nella preclusione della possibilità di opporre nuovi motivi di
diniego dell'istanza dopo la comunicazione di cui si discorre, sia la rilevanza che
deve avere nel processo la difesa dei controinteressati (impedita dall'ordine di
idee che attribuisce agli originari motivi manifestati il valore di « fatti costitutivi
della decisione di provvedere o di non provvedere »: così D. Vaiano, Preavviso,
cit., 46-47) sia la penalizzazione della p.a. rispetto a qualsiasi altro soggetto
debitore, a cui è data la possibilità di adempiere tardivamente alla sua
obbligazione, salvo il risarcimento del danno da ritardo (v. L. Ferrara, La
comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza — art. 10-bis, legge
n. 241/1990 — nel riformato quadro delle garanzie procedimentali, in Studi in
onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, II, 83 ss.).
(85) Si può, dunque, discutere se sia possibile riesercitare il potere in giudizio con
atto processuale (sembra escluderlo A. Romano Tassone, Il ricorso incidentale,
cit., 592; con provvedimento amministrativo durante il giudizio è, invece, pacifico
che lo sia: e il provvedimento sarà impugnabile con motivi aggiunti), ma non si
può imporre alla p.a. tale riesercizio, se non violando il principio della domanda
nei suoi confronti.
(86) I. Pagni, L'azione di adempimento, cit.
(87) A. Carbone, L'azione di adempimento, cit., 186. Di « azione generale di
condanna » ragiona per esempio G. Di Marco, L'azione di adempimento e il nuovo
codice del processo amministrativo, in Corr. mer., 2011, 1234.
(88) S. Baccarini, « Scelta » delle azioni, cit., 1277.
(89) Così, distinguendo tipicità dell'azione da atipicità del suo contenuto, A.
Scognamiglio, Appunti per una prima lettura dell'art. 34, comma 1, lett. c), d) ed
e): le sentenze di condanna e condanna al risarcimento dei danni, in
www.giustizia-amministrativa.it, la quale aggiunge che « tutte le misure sono
ammesse, purché sia fornita una tutela acconcia alla situazione dedotta in
giudizio ». Si veda, tuttavia, il § 4.3 per il contenuto tipico aggiunto dal c.d.
secondo correttivo al cpa.
(90) V. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 13 ottobre 2011 n. 2429 (estensore R.
Gisondi).
(91) Sulla base dell'art. 34 c.p.a. l'assorbimento dei motivi non sembra essere più
possibile: v. S. Raimondi, Le azioni, cit., 922; contraR. Briani, L'istruttoria
probatoria, cit.; nonché N. Paolantonio, Gli interessi generali nel (e del) processo
amministrativo, cit., nella considerazione dell'art. 101, comma 2, c.p.a., secondo
cui “si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non
esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente
riproposte nell'atto di appello o, per le parti diverse dall'appellante, con memoria
depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio”.
Circa tale pratica, tra altri, F. De Leonardis e M.P. Chiti, in A. Sandulli (a cura di),
Diritto processuale amministrativo, cit., rispettivamente 152 e 177-178. Rileva
che l'assorbimento in quanto omissione parziale di pronuncia dovrebbe rendere
« configurabile una ipotesi di riproponibilità della stessa domanda » C. Consolo,
Domanda, cit., 68.
(92) V. in proposito A. Pajno, Il codice del processo amministrativo tra « cambio
di paradigma » e paura della tutela, cit., 70 ss.; Id., Il codice del processo
amministrativo ed il superamento, cit., 104-105.
(93) A. Pajno, Il codice del processo amministrativo tra « cambio di paradigma »
e paura della tutela, cit.
(94) A. Gentili, Pretesa, in Enc. giur., XXIV, Roma, 1991.
(95) Ha sostenuto recentemente che l'interesse legittimo pretensivo « è simile ad
un diritto di credito per una prestazione non totalmente determinata » C.
Consolo, Piccolo discorso sul riparto di giurisdizione. Il dialogo fra le Corti e le
esigenze dei tempi, in questa Rivista, 2007, 657. E la tesi è stata ripresa anche
da F. Merusi, Il codice, cit., 13 ss. (incontrando peraltro le critiche di R. Villata,
Ancora « spigolature » sul nuovo processo amministrativo?, in questa Rivista,
2011, 1512 ss.). Di un diritto di credito si era cominciato a parlare già con G.
Greco, L'accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano,
1980, 154 ss., seppure in quest'ultimo caso si trattava di un diritto di credito
sottoposto a una condizione potestativa, sul presupposto che l'interesse legittimo
avesse comunque per oggetto il bene finale. Si è respinto tale presupposto in L.
Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza, cit., 170 ss. Circa l'assimilazione tra
interesse legittimo e diritto di credito v. anche P. Virga, Diritto amministrativo, II,
Milano, 1997, 171 nt. 4.
(96) A. Proto Pisani, Introduzione sull'atipicità dell'azione e la strumentalità del
processo, in Foro it., 2012, V, 6.
(97) Non interessa in questa sede fare i conti con l'eventualità che gli obblighi in
alcuni casi possano rilevare in modo autonomo rispetto all'obbligazione complessa
gravante sulla p.a. in termini provvedimentali.
(98) M. Protto, Il rapporto amministrativo, Milano, 2008.
(99) Ampiamente L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza, cit., 105 ss.; ma già
G. Greco, L'accertamento autonomo, cit., 155.
(100) Del resto, non è sostenibile che addirittura le stesse norme siano di
relazione quando non vi è potere discrezionale (tanto che si ragiona di spettanza
del bene finale — G.D. Falcon, Il giudice amministrativo tra giurisdizione di
legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001, 287 ss. — e si è
arrivati al riconoscimento dell'azione di adempimento comunemente intesa) e
siano di azione quando viceversa il potere discrezionale sussiste: si pensi alle
disposizioni (o parti di disposizioni) che fissano presupposti rigidi (unici
presupposti nel primo caso, presupposti non unici nel secondo caso) rispetto
all'esercizio di un'attività privata.
(101) Come fa A. Scognamiglio, Appunti per una prima lettura, cit.
(102) Secondo la tesi di A. Orsi Battaglini, Attività vincolata e situazioni
soggettive, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, 3 ss.
(103) Si è usato il corsivo per evidenziare la contrapposizione tra le regole e i
principi, dei quali tra poco diremo.
(104) Di facoltà ragiona anche F.G. Scoca, Attualità, cit., 402.
(105) Appare corretto parlare di fatto costitutivo al singolare e di elementi al
plurale perché « quando più fatti generano un solo effetto in base alla fattispecie
normativa essi si riuniscono in un unico fatto costitutivo »: così C. Consolo,
Domanda, cit., 74, in relazione, peraltro, al diverso problema del « rapporto tra
diritto e fatto generatore » nel contesto delle domande eterodeterminate.
(106) G. Greco, L'accertamento autonomo, cit., per esempio 169 (ma v. 109 ss.).
(107) Di un « obbligo di sciogliere l'incertezza » ragiona di recente anche I.
Pagni, L'azione di adempimento, cit. Non sembra necessario spendere particolare
parola sulla differenza tra questa incertezza e quella « propria di qualsiasi
conflitto giuridico », salvo osservare che la prima prescinde dalla patologia e
dalla contestazione dei rapporti giuridici, essendo per l'appunto riconducibile alla
voluntas legis, attributiva di un potere di composizione degli interessi in giuoco
alla pubblica amministrazione. Ché se poi con « conflitto giuridico » si intende
alludere (come è nell'impostazione di M. Mazzamuto, A cosa serve, cit., 66-67) ai
casi in cui « vi è un diritto che, nelle innumerevoli combinazioni dei rapporti
giuridici, può incontrare un limite nell'esercizio di un diritto altrui », per un verso,
non si fa altro che confermare, in modo assolutamente condivisibile, che
l'interesse legittimo ha la struttura del diritto soggettivo (altra questione è poi se
sia più garantista il regime pubblicistico o quello privatistico; o se il regime
giuridico possa o meno risentire il condizionamento della struttura); per altro
verso, si dimentica che nel caso degli interessi pretensivi, da una parte, non
esiste un diritto sul bene finale fino a quando il potere non è stato esercitato, ed
esercitato in un certo modo (esiste solo il diritto a che questo esercizio avvenga in
modo corretto), dall'altra parte, ricorre l'interesse materiale del titolare della
situazione giuridica all'esercizio del potere e allo scioglimento dell'incertezza
(mentre nel caso degli interessi oppositivi o dei diritti preesistenti questo
interesse certamente non esiste).
(108) L'ipotesi della c.d. consumazione o riduzione a zero della discrezionalità
amministrativa (la Reduzierung auf Null di matrice tedesca, su cui mostra di
riflettere anche il nostro giudice: v. Trga, Sez. Trento, 16 dicembre 2009, n. 305).
(109) Ipotesi presupposta dall'art. 21-octies, secondo comma, l. n. 241 del 1990.
(110) È stato osservato che « l'innovazione intervenuta [ha] l'effetto di dare un
contenuto tipico all'azione generica di condanna »: A. Carbone, L'azione di
adempimento è nel Codice. Alcune riflessioni sul D.Lgs. 14 settembre 2012, n.
160 (c.d. Secondo Correttivo), in Giustamm.it.
(111) Così A. Travi,Alla ricerca dell'azione di adempimento, in Rivista
amministrativa della Regione Lombardia, 2012, n. 3-4, 155 ss. Non si dovrebbe
per esempio dimenticare che sono trascorsi più di trent'anni dalla lezione che fece
a Pisa F. Merusi: v. Verso un'azione di adempimento?, in Aa.Vv., Il processo
amministrativo, Scritti in onore di Miele, Milano, 1979, 331 ss.; in proposito v.
anche M. Clarich, Conclusioni, in E. Catelani - A. Fioritto - A. Massera (a cura di),
La riforma, cit., 307 ss. A favore dell'introduzione dell'azione di adempimento vedi
già M. Nigro, L'esecuzione delle sentenze di condanna della pubblica
amministrazione, in Foro it., 1965, ora in Scritti giuridici, Milano 1996, I, 632; Id.,
Problemi del nuovo processo amministrativo, in Impr., amb. e pubbl. amm.,
1977, ora in Scritti giuridici, cit., II, 1286; ed inoltre F. La Valle, Azione
d'impugnazione e azione d'adempimento nel giudizio amministrativo di legittimità,
in Jus, 1965, 156 ss.
(112) Seppure restano alcune differenze rispetto a quest'ultima, quale per
esempio il fatto che « l'azione di adempimento italiana debba comunque
agganciarsi all'annullamento dell'atto » (I. Pagni, L'azione di adempimento, cit.).
(113) I. Pagni, L'azione di adempimento, cit.Andrebbe anche considerato che
secondo l'art. 7, comma 7, c.p.a. l'effettività comporta « ogni forma di tutela
degli interessi legittimi »; nondimeno, che l'art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a. è
stato ritenuto contenere un « vero e proprio principio di atipicità delle statuizioni
adottabili dal giudice, anche oltre lo stesso accoglimento dell'azione di
adempimento » (così M. Lipari, L'effettività, cit., 26).
(114) Sovviene a questo proposito il recente ricordo dell'operazione di Chiovenda
che, sul presupposto che « il processo come organismo pubblico d'attuazione
della legge è per se stesso fonte di tutte le azioni praticamente possibili, che
tendano all'attuazione di una volontà di legge », desumeva, già sotto il vigore dei
codici del 1865, la possibilità, in caso di inadempimento di un contratto
preliminare, di ottenere tramite sentenza gli effetti del contratto definitivo non
concluso (v. A. Proto Pisani, Introduzione sull'atipicità dell'azione e la
strumentalità del processo, in Foro it., 2012, V, 4).
(115) Un « accertamento costitutivo della legittima disciplina del rapporto » è
stato sostenuto anche da F. Merusi, Il codice del giusto processo amministrativo,
in questa Rivista, 2011, 9, il quale evidentemente non si accontenta più di quanto
aveva prospettato nella menzionata lezione pisana. Sulla stessa lunghezza d'onda
si pone R. Cavallo Perin, La tutela cautelare, cit., 1123-1124.Disponeva « il
rilascio, in favore del ricorrente, dell'autorizzazione richiesta » (seppure sul
presupposto dell'esaurimento del potere discrezionale nella specie teorizzato, e
dunque di là dal caso dell'attività vincolata ex ante) T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 7
febbraio 2002, n. 842.Circa la collocazione dell'art. 2932 c.c. nella tutela
esecutiva v. B. Sassani, Dal controllo del potere all'attuazione del rapporto,
Milano, 1997, 33 ss., e autori ivi citati.
(116) V. L. Ferrara, Oltre l'azione di adempimento, una sentenza che tenga luogo
dell'atto amministrativo non emanato, in
www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/amministrativo/primiPiani/2011/09/
oltre-l-azione-di-adempimento-una-sentenza tenza-che-tenga-luogo-dell-attoamministrativo-non-emanato.html.
(117) V. L. Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento costitutivo, Padova, 1996,
72 ss., nonché, quasi contemporaneamente, B. Tonoletti, Silenzio della pubblica
amministrazione, in Digesto disc. pubbl., XIV, Torino, 1999, 170 ss. V. anche E.
Ferrari, Commento all'art. 26, cit., 725.
(118) All'art. 31 comma 3 (ai suoi « limiti ») rinvia l'art. 34 comma 1 lett. c),
dopo la modifica del secondo decreto correttivo.
(119) E del precedente dettato dell'art. 2, comma 8, l. n. 241/1990.
(120) Si può solo escludere un possibile argomento contrario (v. A. Scognamiglio,
Appunti per una prima lettura, cit.), osservando che non c'è « sostituzione »
nell'applicazione della legge, soprattutto nel senso di cui all'art. 7, comma 6,
c.p.a.: ché altrimenti sarebbe giurisdizione di merito pure la giurisdizione di
annullamento, considerato che anche in quest'ultima si è storicamente vista una
sostituzione (chiaro il riferimento alla legge di abolizione del contenzioso
amministrativo); né può farsi differenza tra un effetto costitutivo negativo o
eliminativo, l'annullamento, appunto, e un effetto costitutivo positivo o in senso
stretto, come nell'accertamento costitutivo; la sostituzione postula, infatti, la
volizione (così G. De Giorgi Cezzi, La ricostruzione del fatto nel processo
amministrativo, Napoli, 2003, 93), e la volizione si lega all'innovazione (nella
specie assente per definizione). Nondimeno, si può ricordare in positivo
l'abrogazione degli artt. 45 t.u. n. 1054 del 1924 e 26 l. n. 1034 del 1971, che
facevano salvi gli ulteriori atti dell'autorità amministrativa, nonché dell'articolo 88
r.d. n. 642 del 1907, secondo cui « l'esecuzione delle decisioni si fa in via
amministrativa »; e, soprattutto, la possibilità di esecuzione anticipata nella sede
cognitoria contenuta nell'art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a. (sostengono che tale
articolo si applichi in generale — comprendendo, dunque, « le misure idonee ad
assicurare l'attuazione del giudicato », diverse dalla nomina di un commissario ad
acta —, alla cognizione, tra altri, E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia
amministrativa, cit., 192; S. Raimondi, Le azioni, le domande proponibili e le
relative pronunzie nel codice del processo amministrativo, in questa Rivista,
2011, 915-916; ritiene, invece, che il medesimo articolo si applichi al giudizio di
ottemperanza M. Lipari, L'effettività, cit., 31 ss.; in proposito può osservarsi che,
se è vero che le pronunce del giudice dell'ottemperanza sono espressamente
disciplinate nel libro IV dall'art. 114 comma 4, è anche vero che il rapporto tra
libro I e libri successivi rende sostenibile quest'ultima opinione; non si può però
trascurare che la rubrica dell'art. 34 si riferisce alle « sentenze di merito »; sul
tema v. anche R. Gisondi, Nuovi strumenti di tutela nel codice del processo
amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it.).
(121) Così anche A. Travi, Alla ricerca, cit., che sostiene che la condanna produca
l'esaurimento del potere amministrativo; nonché R. Gisondi, Commento all'art.
30. Azione di condanna, in F. Caringella - M. Protto (a cura di), Codice del nuovo
processo amministrativo, Trento, 2013, 366 ss., il quale rileva l'« ampliamento
dei poteri e degli oneri processuali che incombono sulla p.a., la quale, per
contrastare la domanda di condanna, potrà dedurre in giudizio tutte le circostanze
ostative all'accoglimento dell'istanza, anche decampando dai limiti della
motivazione dell'atto e dell'istruttoria procedimentale ».
(122) Rileva che « il legislatore del Correttivo non si è preoccupato di
regolamentare anche la delicata questione concernente l'allegazione dei fatti in
giudizio e l'onere della prova in relazione all'azione di condanna » A. Carbone,
L'azione di adempimento, cit.
(123) Almeno interpretando la disposizione alla stregua di quanto si è sostenuto
nei paragrafi precedenti (essendo astrattamente possibile anche una
interpretazione coerente con la tesi criticata nel § 3 relativa al giudizio sul
rapporto inteso in senso dinamico).
(124) Il giudice può, però, giungere a diverso convincimento sulla base dei fatti
comunque emersi nel corso del giudizio. La non contestazione non opera, infatti,
come una prova legale. V. in proposito R. Briani, L'istruzione probatoria, cit.; L.
Giani, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 368; F. Follieri, Il
principio di non contestazione nel processo amministrativo, in questa Rivista,
2012, 1015-1016; G. Tropea, Considerazioni sul principio di non contestazione,
anche alla luce delle sue prime applicazioni giurisprudenziali, ivi, 1142 ss.
(125) Si consideri che la contestazione può consistere in una motivazione
postuma: ma in questo caso non si tratterà, come nella prospettiva del giudizio
sul rapporto inteso in senso integrale (supra § 3), di una eccezione o domanda
riconvenzionale. La contestazione avverrà con mera difesa o con eccezione di
merito, rispetto alle quali si conferma la regola generale della preclusione del
dedotto e del deducibile.
(126) Andrebbe, peraltro, considerata la tesi secondo cui « di regola, deve essere
esclusa la rilevanza del fatto costitutivo ai fini dell'individuazione della domanda
giudiziale e, prima ancora, della situazione soggettiva dedotta in causa » (S.
Menchini, Osservazioni critiche, cit., 33), dalla quale discenderebbe che a tali fini
(soltanto a tali fini: altra cosa è la fondatezza della domanda) sarebbe sufficiente
l'indicazione del provvedimento richiesto, alla cui emanazione si vuole sia
condannata la p.a. (cioè, l'indicazione del petitum; si noti che la richiesta del
provvedimento rappresenta invece uno degli elementi che compongono il fatto
costitutivo). Non sarebbe, dunque, corretto identificare l'onere di allegazione con
« il mero rispetto del principio della domanda » (così A. Carbone, Azione di
adempimento, cit.), mentre potrebbe bastare che gli elementi costitutivi di cui al
testo risultassero dagli atti di causa, se non semplicemente che non vi fosse
contestazione.Con l'anzidetto ordine di idee, che porta molto avanti la lunga
operazione della dottrina processualcivilistica di ridimensionamento dell'assunto
secondo cui « l'allegazione dei fatti è elemento necessario per l'identificazione del
rapporto dedotto in giudizio » (in proposito, tra molti altri, A. Cerino Canova, La
domanda giudiziale, cit., 39 ma passim), non entra, almeno di necessità, in
frizione l'affermazione per cui nel « processo amministrativo come processo di
parti [...] spetta alle parti e ad esse soltanto allegare i fatti, introducendoli nel
processo » (M. Dugato, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale
amministrativo, cit., 210).In ogni caso si deve valutare che secondo la
giurisprudenza amministrativa vale « il principio secondo cui gli elementi
dell'azione possono ricavarsi da tutti gli atti del giudizio [...] che integrano il
ricorso o, comunque, valgono a definire il contenuto sostanziale della pretesa ed il
thema decidendum o probandum del processo »: così, per tutte, Cons. Stato,
Sez. VI, 16 gennaio 2009, n. 202, la quale aggiunge che « le istanze di prelievo o
di fissazione dell'udienza non presentano né tale funzione, né natura sostanziale,
avendo esclusivo effetto di impulso processuale » e che « una diversa
interpretazione sarebbe in contrasto con la teoria generale dell'azione, che
postula l'indicazione degli elementi costitutivi della domanda negli atti processuali
a ciò deputati, salvo il temperamento di cui sopra, elaborato dalla giurisprudenza
attraverso un'interpretazione estensiva (peraltro non immune da critiche della
dottrina) delle norme processuali, non suscettibile di ulteriore ampliamento, pena
la devastazione del sistema ».
(127) V. M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 386 ss. V. altresì E.
Ferrari, Commento all'art. 26, cit., 727 ss.
(128) Come la dottrina, si è accennato, non ha mancato di rilevare. È stato,
infatti, sostenuto che la domanda di condanna è « destinata ad ottenere che il
giudice espliciti nel dispositivo il contenuto ordinatorio del c.d. “effetto
conformativo” » (A. Romano Tassone, Sulla disponibilità, cit., 814); che « la
nuova disciplina del codice consente di qualificare [l'effetto conformativo] come
un vero e proprio dispositivo di condanna » (F. Luciani, Processo amministrativo
e disciplina delle azioni: nuove opportunità; vecchi problemi e qualche lacuna
nella tutela dell'interesse legittimo, in questa Rivista, 2012, 523); che « la
pronuncia ordinatoria riguardante le « misure idonee » risulta inquadrabile
direttamente nello schema della sentenza di condanna » (M. Lipari, L'effettività,
cit., 30). Ritiene che « si tratta, però, pur sempre di una possibilità di cui dispone
il giudice » E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 192
ss.Andando indietro nel tempo, non era molto diversa la tesi sull'accertamento
autonomo del rapporto avanzata da G. Greco, L'accertamento autonomo, cit., 36
ss., laddove immaginava « un giudizio [...] diretto ad accertare la fondatezza
della pretesa di diritto sostanziale del ricorrente ed il correlativo contenuto
dell'obbligo di provvedere, salvi i margini della discrezionalità ».
(129) È noto l'orientamento giurisprudenziale secondo cui « l'effetto conformativo
della sentenza ottemperanda [...] non può essere individuato con esclusivo
riferimento ai passaggi conclusivi della motivazione, dovendo invece tenersi
presente il più ampio complesso argomentativo esposto dal giudice del merito »
(così Cons. Stato, Sez. V, 20 aprile 2012, n. 2348).
(130) Si vuole fare riferimento al fatto che secondo i processualcivilisti il giudicato
non si estende alla motivazione: v., per tutti, A. Cerino Canova, La domanda
giudiziale, cit., 137; T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano,
1984, 412-413.Va, peraltro considerata la teoria dell'efficacia portante della
motivazione, su cui, di recente, A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 171 ss., il quale,
estendendo tale efficacia oltre la qualificazione giuridica del diritto accertato fino a
ricomprendervi i « presupposti condizionanti l'esistenza » dello stesso diritto (gli
« elementi costitutivi ») opera una razionalizzazione dell'effetto conformativo
ricavabile dalla motivazione.
(131) E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 191. V.
in proposito anche G. De Giorgi Cezzi,Sull'inesauribilità del potere amministrativo,
cit., 966.
(132) V. supra § 4.1.
(133) Deve ritenersi che questa condanna possa essere chiesta anche dal
controinteressato con ricorso incidentale: similmente, M. Lipari, L'effettività, cit.,
45, che ritiene che « potrebbe ammettersi, anche sulla base del riconoscimento
del principio di parità delle parti, il potere di questi soggetti di esigere, in caso di
accoglimento del ricorso avversario, l'esplicitazione della portata conformativa e
dispositiva della pronuncia ».
(134) Sostiene, in particolare, che l'art. 34, comma 1, lett. c) contenga un « vero
e proprio principio di atipicità delle statuizioni adottabili dal giudice, anche oltre lo
stesso accoglimento dell'azione di adempimento » M. Lipari, L'effettività, cit., 26.
(135) Gli obblighi, in definitiva, di non reiterare la violazione dei principi, negli
stessi modi avvenuti con l'emanazione del provvedimento impugnato.
(136) Nota C.E. Gallo, Le azioni ammissibili nel processo amministrativo ed il
superamento della pregiudizialità anche per le controversie ante codice, in Urb.
app., 2011, 694 ss., che « il codice ha voluto sicuramente ricondurre alla fase
della cognizione tutto quanto era impropriamente attribuito al giudizio di
ottemperanza, al fine di instaurare un vero dibattito tra le parti e di definire in
modo più puntuale i ruoli dei due rimedi, quello di cognizione e quello di
esecuzione », aggiungendo che « quello che è oggi il contenuto del giudizio di
ottemperanza, secondo il Codice diviene, di norma, il contenuto della sentenza di
cognizione ».
(137) Sempre ai sensi del citato art. 31 c.p.a.
(138) Differenza la cui logica non è dato comprendere.
(139) E. Follieri, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, cit., 183.Altra
questione essendo l'opportunità che la nozione di interesse legittimo vada
« verso un meritato riposo »: così F. Merloni, Funzioni amministrative e
sindacato giurisdizionale. Una rilettura della Costituzione, in Dir. pubbl., 2011,
503.
(140) Ritiene che « l'interesse legittimo è contemplato da una norma che
disciplina l'esercizio del potere amministrativo (l'azione della P.A.), e che, dunque,
non prende in considerazione in via principale e diretta, ma soltanto in via
mediata, le situazioni individuali dei vari soggetti della comunità » G. Clemente di
San Luca, Approfondimenti di diritto amministrativo per il corso specialistico,
Napoli, 2012, 317.
(141) Confermato per esempio, di recente, da Cons. Stato, Sez. IV, 29 agosto
2012, n. 4638, in Foro amm. - C.d.S., 2012, 1932 ss., da Cons. Stato, Sez. VI,
19 giugno 2012, n. 3569 e da Cons. Stato, Sez. IV, 30 novembre 2010, n. 8363,
in Foro it., 2011, III, 82 ss. con annotazione di A. Travi e nota di N. PignatelliIl
giudizio di ottemperanza dinanzi agli effetti della illegittimità costituzionale: la
violazione « in astratto » del giudicato.
(142) Questo è vero anche accogliendo l'insegnamento secondo cui « la
satisfattività della sentenza può misurarsi solo sulla sua concreta idoneità a
rimuovere la lesione effettivamente subita » (così B. Sassani, Impugnativa, cit.,
99).
(143) Il Gestaltungsklagerecht della dottrina tedesca, sul quale ha riflettuto, in
particolare, M. Clarich, Giudicato, cit.
(144) Supra § 3.
(145) Il che rappresenta il significato estremo opposto a quello di rapporto in
senso dinamico o integrale (v. sempre supra § 3).
(146) V. ancora supra § 3. Osservava, del resto, R. Villata, Nuove riflessioni, cit.,
721, che « non occorre scomodare il processo sul rapporto [...] per pervenire a
una verifica giudiziale [...] dei presupposti (in senso lato) non discrezionali per
l'emanazione dell'atto favorevole ».
(147) Supra §§ 2-3.
(148) A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 59.
(149) Per tutti, A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 78 ss.
(150) « Con la sola eccezione dell'ipotesi in cui si sia alla presenza di fatti-diritti
che per esplicita domanda di parte o per legge debbano essere accertati con
autorità di cosa giudicata »: A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 58-59, che qualifica
come fatti-diritti « quei fatti che, oltre ad avere rilievo di fatti costitutivi,
impeditivi, ecc. ai fini del diritto fatto valere in giudizio dall'attore sono a loro
volta l'effetto di una autonoma fattispecie, così che potrebbero anche essi
costituire oggetto di una autonoma domanda ».
(151) A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 81.
(152) Rispetto alla tesi secondo cui il giudicato « si forma in relazione ai motivi
posti a fondamento della domanda » di annullamento (E. Ferrari, Commento
all'art. 26, cit., 721) si rivelerà per esempio decisivo il ruolo giocato dai motivi
nella nozione di interesse legittimo che si intenda accogliere. Sosteneva E.
Garbagnati, La giurisdizione amministrativa: concetto e oggetto, Milano, 1950,
67, che in un processo che ha per oggetto il diritto potestativo di annullamento
del provvedimento amministrativo i motivi non oltrepassano la soglia degli
accertamenti pregiudiziali.
(153) Sarebbe interessante a tali fini una riflessione (per la quale non è, tuttavia,
questa l'occasione) sulla utilizzazione della teoria dell'efficacia portante della
motivazione compiuta da A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 171 ss. (v. supra nota
130).
(154) Il che sembra discendere dal pacifico assunto per cui i fatti non sono
l'oggetto del giudizio (per tutti, A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit.,
131).
(155) Si pensi agli obblighi di fare/disfare. V. in proposito G. Borrè,Esecuzione
forzata degli obblighi di fare e di non fare, Napoli, 1966, 175 ss.; C. Mandrioli,
Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, in Nss. dig. it., Torino, I,
1964, 770 ss.; B. Denti, L'esecuzione forzata in forma specifica, Milano, 1953,
207; V. Corsaro - S. Bozzi, Manuale dell'esecuzione forzata, Milano, 1966, 433 ss.
(156) Oltre a non potersi discernere tra i fatti integranti l'inadempimento quelli
che sarebbero inquadrabili in un vizio di illegittimità: una volta almeno che la
tutela di annullamento sia stata affiancata, e, si vorrebbe dire, surclassata da
quella di condanna.
(157) Inoltre, non andrebbe dimenticato che « la tendenza di circoscrivere il
giudicato all'interno delle allegazioni compiute [...] altera il significato della regola
di corrispondenza, perché pone a contenuto della pronuncia e del giudicato non la
domanda, bensì i profili discussi della domanda » (A. Cerino Canova, La domanda
giudiziale, cit., 116-117).
(158) E. Ferrari, Commento all'art. 26, cit., 724.
(159) V. supra § 4.3.
(160) Si sostiene comunemente che nel processo amministrativo la regola della
preclusione del dedotto e del deducibile non si applica alla p.a. (riconducendo tale
processo ai sistemi c.d. elastici): ma questo è ragionevole, solo perché si parte
dall'idea che altrimenti sarebbe precluso il riesercizio del potere amministrativo
discrezionale dopo la sentenza del giudice (la tesi a favore del giudizio sul
rapporto, del resto, presuppone — v. supra § 3 —, che si motivi in modo postumo
solo con atti difensivi). Il discorso cambia necessariamente e totalmente rispetto
ai fatti costitutivi (e ai fatti lesivi, per chi li distingue), che compongono la causa
petendi della situazione giuridica soggettiva vantata. Impostata così la questione,
la regola si applica e si applica sempre (nel processo amministrativo come in
quello civile): mera difesa (negazione del fatto costitutivo) ed eccezione
(deduzione di fatti modificativi, eliminativi, impeditivi) della p.a. sono sottoposte
alla preclusione. Anche nel processo amministrativo, pertanto, la domanda
giudiziale fissa il thema decidendum, forma l'oggetto della pronuncia, fornisce il
criterio per l'effetto preclusivo del giudicato (v. per tutti A. Cerino Canova, La
domanda giudiziale, cit.).
(161) Superandosi la stessa supposta distinzione tra tipicità dell'azione e atipicità
del suo contenuto (supra § 4.1).
(162) Se è vero che « l'interesse al comportamento favorevole [è] tutelato come
(nei limiti di) interesse al comportamento legittimo » o che « l'interesse
strumentale, di per sé interesse alla disciplina favorevole, è tutelato come
interesse alla disciplina (dell'interesse sostanziale), nei limiti della legittimità e
della opportunità della funzione amministrativa »: F.G. Scoca, Il silenzio della
pubblica amministrazione, Milano, 1971, 149.
(163) A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto, cit., 169.
(164) G.D. Falcon, Il giudice amministrativo, cit., 327-328. Sulla costruzione
dell'interesse legittimo come « possibilità di conservare (nel caso di interessi
oppositivi) o di acquisire (nel caso di interessi pretensivi) un bene » v. anche D.
Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche, Bologna, 2010, 472.
(165) Il concetto di giudicato « a stretto rigore [...] riguarda esclusivamente il
rapporto tra organi giudiziari », non anche « il comportamento che la pubblica
amministrazione deve tenere a seguito dell'esito del giudizio »: esso, cioè,
determina una preclusione per il giudice, il divieto di un secondo processo sullo
stesso fatto (così G.F. Ricci, Principi, cit., 294).
(166) Sembra giunto il tempo di passare dalla « certezza della posizione
dell'amministrazione nei confronti del cittadino » a quella del cittadino nei
confronti dell'amministrazione, visto che il soggetto in situazione di vantaggio
rispetto alla legge (altro è il discorso se si ragiona del potere) è appunto il
cittadino (F. Benvenuti, Processo amministrativo, cit., 459, che invero riteneva
equivalenti le due posizioni).
(167) Più esattamente, un perdurante inadempimento dell'obbligazione legale e
una violazione del comando del giudice. Circa la possibilità di leggere i vizi
dell'atto in termini di inadempimento si veda anche G. Santoro Passarelli, I
concorsi privati: una fattispecie in via di assestamento, in Mass. Giur. Lav., 1989,
292 ss.
(168) Rilevava F. Francario, Inerzia ed ottemperanza al giudicato, cit., 752, che
« è solo facendo della legittimità dell'azione amministrativa il connotato
fondamentale dell'atto ottemperativo che questo risulta essere realmente idoneo
a dirimere la controversia insorta tra cittadino e pubblica amministrazione e,
quindi, necessariamente, idoneo a soddisfare il bisogno di tutela di cui è
portavoce il ricorrente ». Apparirebbe, del resto, contraddittoria l'insistenza della
giurisprudenza (v., di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 2 maggio 2012, nn. 2509 e
2517) sulla natura anche cognitoria del giudizio di ottemperanza, se in questa
non rientrasse la conoscenza della nuova illegittimità amministrativa (senza che
questa cognizione possa, peraltro, alterare la funzione essenzialmente esecutiva
del giudizio di ottemperanza: in questo senso, di recente, ex multis, C.E. Gallo,
Presidente e collegio nella tutela cautelare: novità e prospettive nella disciplina
della legge n. 205 del 200, in www.giustizia-amministrativa.it).
(169) È noto che al giudice dell'esecuzione civile è lasciato uno spazio di
valutazione: v., per tutti, R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza
ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in questa Rivista, 1989, 376.
(170) Sia consentito rinviare ancora a L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza,
cit., 1 ss. e 193 ss.
(171) Vedi l'art. 4 dell'Allegato 4 al c.p.a. Tuttavia, va considerato anche l'art. 88,
comma 2, lett. f), c.p.a., secondo cui la sentenza deve contenere l'“ordine che la
decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa”. La diversità della
formulazione e il carattere generale della previsione sembrano, però, evocare una
clausola di stile, riflesso dell'autorità e dell'efficacia vincolante dell'atto del giudice
(paragonabile alla dicitura « è fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e farlo
osservare », rinvenibile per esempio nei regolamenti ministeriali).
(172) Supra § 4.2.
(173) Il che renderebbe anche non pertinente l'eventuale obiezione relativa a una
presunta minore tutela del soggetto privato, discendente dalla perdita del doppio
grado di giudizio rispetto alla cognizione sul riesercizio del potere amministrativo
(quale effetto della percorribilità del solo giudizio di ottemperanza).
(174) Così di recente, sulle orme dell'insegnamento gianniniano (v. M.S. Giannini,
Contenuto e limiti del giudizio di ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960,
473), S.S. Scoca, Violazione ed elusione, cit., 24, al termine di un'ampia analisi
della giurisprudenza amministrativa relativa alla « nebulosa » nozione di elusione
del giudicato. In tema, tra altri, M. D'Orsogna, Violazione ed elusione del
giudicato nella nuova disciplina della nullità dei provvedimenti amministrativi, in
Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova, 2007, IV, 125 ss. Circa la lettura
dell'elusione come « adempimento apparente (assimilato a inadempimento) » v.
anche B. Sassani, Dal controllo, cit., 114.
(175) Supra § 4.4.2.
(176) Supra § 4.2.
(177) A voler condividere le obiezioni mosse alla tesi favorevole al giudizio sul
rapporto, inteso in senso dinamico (supra § 3).
(178) Notava A. Cerino Canova, La domanda giudiziale, cit., 143: « Se la res in
judicium deducta è diversa a seconda del rapporto in cui il diritto si inserisce o del
fatto da cui sorge o delle vicende intervenute, si finiscono per concepire
altrettanti possibili processi. Eppure sul piano sostanziale quel diritto concreto
esiste o non esiste una sola volta, poiché può partecipare di un solo rapporto, può
nascere da un solo fatto costitutivo, è la sola situazione culminante della vicenda
modificativa. Appare allora chiaro che l'eccessiva fedeltà agli schemi sostanziali
anziché garantire la corrispondenza tra diritto e processo, finisce per esserne la
contraddizione più clamorosa. Soprattutto tale fedeltà importa che il processo non
verta su un diritto che può concretamente esistere, ma su profili o porzioni dello
stesso: non il diritto come tale, ma il diritto correlato ad un rapporto o ad un fatto
determinati ».
(179) La frase è di A. Pajno, Il codice del processo amministrativo ed il
superamento, cit., 116, che la ricava da S.R. Masera, La supremazia della legge,
cit., XXXII, nell'interpretazione che quest'ultimo Autore dà del pensiero di García
de Enterría. La frase, peraltro, è figlia del noto principio chiovendiano, secondo
cui il processo deve dare, per quanto possibile, praticamente, a chi ha un diritto,
tutto quello e proprio quello che ha diritto di conseguire.
(180) A. Travi, Alla ricerca, cit. Della « difficoltà [...] di parlare di adempimento
in una situazione in cui [...] resta il dato di partenza per cui l'assetto degli
interessi non è stato predeterminato dal legislatore » ragiona I. Pagni, L'azione di
adempimento, cit. Non sembra, tuttavia, diverso il caso di scuola del contratto
stipulato con il pittore per l'esecuzione di un ritratto (dove il risultato è altrettanto
incerto e dipende non da una scelta politica ma da una scelta artistica). Si dirà
che qui la condanna non è eseguibile, ma questa è un'altra questione: si
convenga o meno, poi, sul fatto che l'unica ipotesi non discutibile di obbligo
giuridicamente infungibile sia determinata dall'incoercibilità materiale del soggetto
obbligato (secondo la massima nemo ad factum praecisum cogi potest), visto che,
a certe condizioni, è possibile (o è stata sostenuta) anche la surrogazione
giudiziale nell'autonomia negoziale (si pensi, per esempio, all'ipotesi di cui all'art.
2597 c.c. — su cui infra nota 182 —; oppure si rifletta sulla determinazione degli
obblighi familiari).
(181) Costruisce « l'osservanza del principio di legalità come « adempimento »
anche F. Francario, Inerzia ed inottemperanza, cit., 387. Sostiene, invece, che
« gli atti emanati dall'amministrazione legati all'ottemperanza sono comunque
espressione di potere amministrativo » G. Sciullo, Il comportamento
dell'amministrazione nell'ottemperanza, in questa Rivista, 1997, 75.
(182) Similmente si trasforma l'autonomia negoziale del monopolista di fronte
alla violazione dell'obbligo di contrarre (ex art. 2597 c.c.). Sul tema,
particolarmente dibattuto, si veda L. Nivarra, L'obbligo a contrarre e il mercato,
Padova, 1989; L. Montesano, Obbligo a contrarre, in Enc. dir., XXIX, Milano,
1979, 524 ss.; P. Barcellona, Intervento statale e autonomia privata nella
disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969. Per una recente sintesi, anche
relativa alla giurisprudenza che ammette la determinazione giudiziale del
contenuto e dei limiti dell'obbligo di contrarre (dunque, l'identificazione della
prestazione dovuta), L. Rotondo, Monopolio legale e abuso di posizione
dominante, in www.diritto.it. Sulla posizione di monopolista della p.a. si veda, in
particolare, F. Goisis, La giustizia sportiva tra funzione amministrativa ed
arbitrato, Milano, 2007, 133 ss. Di estremo rilievo in questo contesto sarebbero,
inoltre, le sentenze determinative, o costitutivo-determinative, del giudice civile:
in proposito, per tutti, A. di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 1987, 341 ss.
(183) È questa una prospettiva totalmente assente nel pur ampio e argomentato
studio di A. Motto, Poteri sostanziali, cit., 1 ss. e 91 ss., dove si sostiene che
« l'attribuzione del bene della vita compiuta dalla sentenza al vincitore del
processo, la quale dovrebbe essere stabile ed incontestabile, può essere posta in
via unilaterale in discussione ad opera del titolare di un potere sostanziale » e,
più precisamente, che « l'atto di esercizio del potere successivo al referente
temporale dell'accertamento produce un nuovo effetto giuridico, che, come tale,
non rientra nei limiti di efficacia del giudicato, con la conseguenza che l'esistenza
(o inesistenza) della situazione giuridica dichiarata può, in base ad esso, essere
posta nuovamente in discussione » (il che, si noti, dovrebbe valere a prescindere
dalla sussistenza o meno di fatti sopravvenuti). Andrebbe anche considerato che
l'esercizio negativo del potere ampliatorio (tanto originario che successivo), in
realtà, non produce nessun effetto giuridico (nella specie, costitutivo), laddove
esso (l'effetto) sia parametrato sul diritto soggettivo al c.d. bene finale (così come
è secondo l'anzidetto studio, il quale, a onore del vero, di là dall'attenzione
dedicata agli interessi pretensivi, specificamente nel diritto privato, ragiona
fondamentalmente di poteri sostanziali che producono effetti estintivi e
modificativi), salvo non porsi nella prospettiva del controinteressato (si pensi al
vincitore di un concorso, rispetto a cui, però, l'esercizio del potere è positivo): sia
consentito sul punto rinviare a L. Ferrara, I riflessi sulla tutela giurisdizionale dei
principi dell'azione amministrativa dopo la riforma della legge sul procedimento:
verso il tramonto del processo di legittimità?, in Dir. amm., 2006, 607 e nota 51.
(184) Similmente, R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo. Commento
a tutte le novità del giudizio amministrativo (D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), Milano,
2010, 527. In passato in giurisprudenza, come noto, si riteneva prevalentemente
che nel giudizio avverso il silenzio il commissario « assomiglia più ad un organo
dell'Amministrazione che ad un ausiliario del giudice »: così, ex multis, Cons.
Stato, Sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3602.
(185) Del giudice direttamente o della sua longa manus commissariale.
(186) Si è lasciata fuori dagli obiettivi di questo scritto la considerazione della
posizione dei terzi (tanto più se estranei al giudicato), di cui solo in alcune
occasioni si è fatto cenno.
(187) Oltre che potersi difendersi in esso. Come il debitore esecutato si difende
attraverso l'opposizione all'esecuzione, così la p.a. si difende nel giudizio di
ottemperanza in ragione di quella cognizione giurisdizionale che è interna,
anziché esterna, a tale giudizio: per questo paragone vedi già G. Abbamonte,
Giudizio di legittimità, cit., 1752.
(188) Soddisfacendo l'interesse legittimo e aprendo la strada alla dichiarazione
della cessazione della materia del contendere (ma anche riducendo in questo
modo il ritardo nell'adempimento).
(189) V. in proposito supra § 3. Si consideri, tuttavia, che da un punto di vista
sostanziale (diversamente da quello processuale) l'emanazione del provvedimento
o l'esercizio processuale del potere non sono una possibilità ma un dovere, perché
corrispondono all'adempimento meno tardivo.
(190) Circa la necessità della richiesta di parte, in giurisprudenza, Cons. Stato,
Sez. V, 11 giugno 2012, n. 3397. Sulle astreintes v. in particolare M.P. Chiti, I
nuovi poteri del giudice amministrativo: i casi problematici delle sanzioni
alternative e delle astreintes, in G. Greco (a cura di), La giustizia amministrativa
negli appalti pubblici in Europa, Milano, 2012, 3 ss.Va, peraltro, notato che l'art.
114, comma 4, lett. e), c.p.a. rimette la fissazione della misura coercitiva
indiretta al giudice dell'ottemperanza, mentre secondo l'art. 614-bis c.p.c. è il
giudice della cognizione che condanna l'obbligato alla corresponsione di una
somma di denaro: l'art. 34, comma 1, lett. e), sembra comunque rendere
possibile che a disporre l'astreinte sia il giudice della legittimità (v. L. Viola, Le
astreintes nel processo amministrativo e la pretesa incompatibilità con le
obbligazioni pecuniarie della p.a., in Foro amm. - Tar, 2012, 815 ss.).
(191) Adesso addirittura positivizzati dall'art. 114, comma 4, lett. a), c.p.a.
(192) Rileva in maniera condivisibile G.F. Ricci, Principi, cit., 191, che « nel
campo amministrativo, particolarmente deboli si presentano i mezzi per ottenere
l'esecuzione del giudicato ».
AZIONE DI ANNULLAMENTO, RICORSO INCIDENTALE E PERPLESSITÀ
APPLICATIVE DELLA MODULAZIONE DEGLI EFFETTI CADUCATORI
Dir. proc. amm., fasc.2, 2013, pag. 428
ANDREA CARBONE
Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - Ricorso incidentale e domanda
riconvenzionale
Sommario: 1. Il ruolo dell'azione di annullamento nel nuovo quadro processuale e
la modulazione degli effetti caducatori della pronuncia di annullamento: la
sentenza Cons. St. n. 2755/2011. — 2. Le ragioni addotte dal Consiglio di Stato:
critica. — 3. Modulazione degli effetti di annullamento o condanna autonoma ad
un facere? — 4. Successivi sviluppi giurisprudenziali: l'applicabilità del principio al
ricorso incidentale c.d. escludente. — 5. Conclusioni.
1. La scelta compiuta dal Codice del processo amministrativo, di improntare la
tutela giurisdizionale ad una pluralità di azioni esperibili, impone una riflessione
sul ruolo che nel nuovo assetto processuale è destinato ad essere ricoperto
dall'azione di annullamento.
Sul punto, pur non negandosi che il tradizionale rimedio impugnatorio continui a
rappresentare il principale strumento a disposizione del privato anche nell'attuale
quadro della giustizia amministrativa (sia in termini quantitativi che qualitativi) (1), non può parimenti revocarsi in dubbio che esso assume caratteri peculiari nel
momento in cui si viene ad inserire in un contesto caratterizzato da differenti
forme di tutela.
Si pone quindi la necessità di esaminare le modalità con cui tale rimedio si
coniuga con le altre azioni, per verificare se il Codice, nel suo ‘salto in avanti'
verso il superamento del precedente sistema processuale, non abbia lasciato delle
zone d'ombra con cui l'interprete sia costretto a confrontarsi.
La nostra riflessione non riguarderà, è bene precisare fin da subito, la vexata
quaestio relativa alla pregiudiziale amministrativa, già ampiamente analizzata in
sede dottrinale. Avrà ad oggetto, invece, il rapporto tra l'azione di annullamento e
l'accertamento dell'invalidità dell'atto che prescinde dalla sua caducazione: in
particolar modo, si vuole valutare in che limiti sia possibile per il giudice
conoscere dell'illegittimità di un provvedimento laddove ciò sia strumentale
all'accoglimento di una pretesa sostanziale che non trova nell'annullamento un
rimedio satisfattivo.
In alcune ipotesi, invero, è lo stesso Codice a rispondere a tale quesito,
prevedendo espressamente che l'effetto caducatorio possa venir meno allorché il
ricorrente non tragga da esso più alcuna utilità. Così, a norma dell'art. 34, co. 3,
c.p.a., il sopravvenuto difetto di interesse all'annullamento non rende
improcedibile il ricorso laddove permanga l'interesse all'accertamento
dell'illegittimità del provvedimento a fini risarcitori (2): in questo caso, l'azione
di annullamento si converte in azione di accertamento, secondo il modello della
Fortsetzungsfeststellungsklage (c.d. azione di accertamento in continuazione),
proprio dell'ordinamento tedesco (3).
Si tratta, tuttavia, di un'ipotesi in cui il venir meno dell'ef fetto caducatorio è
collegato alla conversione dell'azione da costitutiva a dichiarativa, conversione
esplicitamente disciplinata dalla legge e connessa alla sopravvenuta carenza di
interesse.
La giurisprudenza, invero, ha ritenuto di poter disporre dell'effetto caducatorio di
una pronuncia di annullamento anche in mancanza di una formale conversione
dell'azione e a prescindere da un'espressa previsione in tal senso; ha ritenuto, più
nello specifico, che il giudice amministrativo possa, in particolari ipotesi, modulare
gli effetti caducatori di una decisione che accerti l'illegittimità dell'atto impugnato
o attraverso una limitazione parziale della retroattività degli effetti stessi, ovvero
con la loro decorrenza ex nunc, ovvero ancora escludendo del tutto gli effetti
dell'annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi.
Questo indirizzo è stato inaugurato dalla ormai nota decisione del Consiglio di
Stato n. 2755/2011 (4), e ha poi trovato successiva applicazione — anche al di
fuori dei presupposti fatti propri da tale pronuncia, come si vedrà — in alcune
sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali (5).
In particolare, nel caso deciso dai giudici di Palazzo Spada, si discuteva della
validità di un piano faunistico venatorio regionale per gli anni 2009-2014,
impugnato da parte di un'associazione ambientalista in ragione del mancato
espletamento della procedura di valutazione ambientale strategica. Il Consiglio di
Stato, riformando sul punto la sentenza di primo grado, ha rilevato l'illegittimità
della procedura; tuttavia, a ciò non ha fatto conseguire l'annullamento dell'atto
viziato. Secondo il Supremo Consesso amministrativo, infatti, se all'accoglimento
delle censure prospettate dal ricorrente avesse fatto seguito il venir meno del
piano si sarebbe avuta la conseguenza paradossale di eliminare qualsiasi
prescrizione relativa allo svolgimento della caccia (6), in palese contrasto non
solo con le esigenze di tutela sottese alla normativa di settore, ma (quel che più
conta ai nostri fini) anche con lo stesso interesse posto alla base
dell'impugnazione.
Obiettivo dell'associazione ambientalista non era difatti la rimozione degli atti
impugnati, bensì l'accertamento della loro illegittimità per l'inadeguatezza della
tutela da essi garantita, in ragione del mancato esperimento della valutazione
ambientale strategica. In considerazione di ciò, la Sesta Sezione si è limi tata a
statuire il solo effetto conformativo della pronuncia di annullamento, disponendo
che gli atti viziati avrebbero conservato i loro effetti sino alla modifica o alla
sostituzione del piano da parte dell'Amministrazione (da espletarsi comunque nel
termine di dieci mesi, pena, in mancanza, l'esercizio da parte del Collegio dei
poteri sostitutivi propri del giudice dell'ottemperanza).
Tale decisione ha dato luogo a commenti contrastanti: da un lato si è infatti
evidenziato come « l'ingegneria processuale » (7) del giudice amministrativo si
fosse, in questa occasione, spinta oltre le « colonne d'Ercole » (8) poste
idealmente ai limiti delle sue funzioni (9); dall'altro, al contrario, si è giustificata
questa innovativa presa di posizione sulla base del principio dell'effettività della
tutela che, con una sentenza « di buon senso » (10), il Consiglio di Stato si
sarebbe premurato di garantire.
Senza anticipare ciò che sarà oggetto di compiuta analisi nei successivi paragrafi,
preme tuttavia sottolineare come, a nostro avviso, si debba aderire a quella
posizione secondo cui il principio stabilito nella pronuncia in esame potrebbe (il
condizionale è d'obbligo, come si vedrà) trovare accoglimento a patto che venga
inquadrato in un'ottica diversa da quella propria del giudizio impugnatorio.
Tale impostazione, che può sembrare una mera precisazione di carattere teorico
in ragione di una particolare visione del nuovo assetto del processo
amministrativo, assume invero rilievo fondamentale alla luce della successiva
giurisprudenza che ha fatto riferimento alla modulazione degli effetti
dell'annullamento, la quale, secondo quanto si avrà modo di spiegare, si è
discostata da quei presupposti che, a nostro avviso, costituiscono il reale
fondamento della pronuncia n. 2755/2011.
Procedendo con ordine, si analizzeranno, in primo luogo, i motivi per cui le ragioni
addotte dal Consiglio di Stato non possono costituire un fondamento valido per
affermare la disponibilità degli effetti caducatori della sentenza; in ragione di ciò,
si cercherà di dare un inquadramento più consono alla vicenda. Tali rilievi saranno
poi necessari per analizzare le decisioni che dall'indirizzo in esame hanno preso le
mosse, così da valutarne la compatibilità con l'opzione interpretativa da noi
prospettata.
2. Per giustificare la scelta di « non annullare » il provvedimento
amministrativo di cui è stata accertata l'illegittimità, il Consiglio di Stato si è
basato, in sostanza, su tre ordini di ragioni che, tuttavia, non sembrano andare
esenti da critiche.
In primo luogo, la Sesta Sezione ha ritenuto che il giudice amministrativo possa
senza dubbio derogare alla regola generale della irretroattività degli effetti
laddove la sua applicazione risulti in contrasto con il principio di effettività della
tutela giurisdizionale. In questo caso, come si è già avvertito, il giudice potrebbe
disporre la decorrenza ex nunc degli effetti di annullamento ovvero disporre
esclusivamente effetti conformativi: nessuna norma, sostanziale o processuale,
statuisce in senso contrario, ed anzi vi sono disposizioni che espressamente
prendono in considerazione la possibilità che un atto, pur illegittimo, non venga
annullato, come l'art. 21-nonies l. n. 241/1990.
Sennonché, così opinando, il Consiglio di Stato sembra aver posto sullo stesso
piano l'effetto ripristinatorio della sentenza — che, come ben si è notato, è
sempre disponibile, pur entro determinati limiti (11) — e l'effetto caducatorio,
che invece è conseguenza tipica e necessaria della statuizione di annullamento (12). In altre parole, ciò che può essere disposto dal giudice sono gli effetti che
dalla caducazione dell'atto derivano, sia in relazione all'interesse della parte, sia
alla situazione di fatto che si è determinata in concreto (vale sempre la regola
factum infectum fieri nequit), non già l'effetto demolitorio in sé e per sé. Da
questo punto di vista, non giova neppure il richiamo all'art. 21-nonies, perché tale
norma disciplina un potere discrezionale della P.A., di carattere amministrativo,
avente presupposti del tutto differenti da quello esercitato dal g.a. nello
svolgimento della sua funzione giurisdizionale.
Al contrario, potrebbe rilevarsi che il legislatore, ogniqualvolta ha voluto escludere
l'annullamento di un atto illegittimo, l'ha fatto espressamente, come nel caso
dell'art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990, il quale, peraltro, non si è sottratto a
dubbi di legittimità costituzionale (13). Non vi è, invece, alcuna norma esplicita
che attribuisca al giudice un potere di carattere generale avente ad oggetto la
determinazione dell'effetto caducatorio dell'atto; norma da ritenersi necessaria in
ragione del disposto dell'art. 113, co. 3, Cost., secondo cui gli effetti
dell'annullamento devono essere determinati dalla legge (14).
In secondo luogo, vengono richiamati gli artt. 121 e 122 c.p.a., in forza dei quali
è attribuito al giudice amministrativo, nel caso in cui sia annullata l'aggiudicazione
e sia richiesta l'attribuzione del contratto di appalto, il potere di scelta — sulla
base dei criteri stabiliti dalla legge — tra la dichiarazione di inefficacia del
contratto (in via retroattiva ovvero ex nunc) e il mantenimento dello stesso con
contestuale disposizione del risarcimento dei danni (15).
Tali poteri, tuttavia, sono da considerarsi del tutto speciali, al pari del rito
corrispondente, e quindi insuscettibili di applicazione analogica (16); tanto più
che, avendo ad oggetto il rapporto tra annullamento dell'aggiudicazione e
inefficacia del contratto, essi sembrano fare riferimento ad una situazione del
tutto diversa da quella che si delinea in relazione agli effetti caducatori, i quali,
invece, fanno capo direttamente al provvedimento amministrativo (17). In altri
termini, secondo quanto si è correttamente rilevato, nell'ipotesi descritta dagli
artt. 121 ss. c.p.a. l'effetto caducatorio, relativo all'aggiudicazione, rimarrebbe
fermo, mentre ciò che verrebbe ‘modulato' sono le conseguenze sul contratto, che
rientrano nell'ambito dell'effetto conformativo della sentenza (18).
Rimane da ultimo il riferimento alla giurisprudenza comunitaria, che, sulla base
dell'art. 264, par. 2, TFUE (ex art. 231, par. 2, TCE) (19), ha da tempo
ammesso la derogabilità del principio dell'efficacia ex tunc dell'annullamento (20). Riferimento che parrebbe tanto più necessitato in ragione del fatto che la
materia ambientale è oggetto di competenza concorrente tra Unione Europea e
Stati membri, per cui gli standard della tutela giurisdizionale non potrebbero
essere diversi a seconda che gli atti regolatori siano emessi in sede comunitaria o
nazionale.
Tuttavia, al riguardo è stato da più parti correttamente notato che in
quell'ordinamento vi è appunto una norma espressa che disciplina un potere
siffatto, di talché potrebbero semmai ricavarsi, a contrario, elementi per
supportare la tesi dell'insussistenza, in capo al giudice amministrativo, di un
analogo potere. Il richiamo ai principi comunitari al fine di garantire l'effettività
della tutela non può allora trovare giustificazione (21), perché, come ben si è
detto, « qui non si tratta di recepire principi del diritto comunitario, ma di voler
applicare una disposizione dettata per un giudizio ad altro giudizio » (22).
Del resto, pure non è sfuggito come in molti casi i giudici europei abbiano
utilizzato il potere di modulare gli effetti dell'annullamento non al fine di
assicurare la tutela effettiva della situazione dedotta in giudizio dalla parte, ma
per garantire un interesse generale di particolare rilevanza, limitando, quindi, le
aspettative di tutela giurisdizionale; circostanza che ha imposto alla Corte di
Giustizia particolare cautela nel ricorrere all'art. 264 TFUE (23).
3. Se dunque si aderisce ai rilievi sollevati dalla dottrina, appare chiaro come
l'impostazione assunta dal Consiglio di Stato non possa trovare condivisione.
I problemi maggiori derivano, a nostro avviso, dal presupposto, fatto proprio dalla
sentenza n. 2755/2011, che la vicenda possa essere risolta nell'ottica dell'azione
di annullamento e che quindi qualsiasi risultato debba essere necessariamente
raggiunto attraverso la modulazione degli effetti conformativi, ripristinatori e
finanche dello stesso effetto caducatorio, propri della relativa pronuncia.
L'impostazione tradizionale del processo amministrativo, del resto, favorisce una
lettura in tal senso anche dopo l'importante intervento di codificazione, giacché,
come ben si è avvertito, è propria dell'interprete la tendenza a leggere fenomeni
nuovi attraverso i vecchi strumenti concettuali a sua disposizione (24). Il rischio
è allora quello di una forzatura delle regole processuali al fine di assicurare
risultati sostanziali che altrimenti non potrebbero essere perseguiti.
Questa impostazione, che poteva trovare giustificazione quando alla
giurisprudenza era demandato il compito di garantire la pretesa effettiva del
privato sulla base di uno strumentario processuale del tutto risalente e, in
definitiva, limitato per lo più al rimedio impugnatorio, non sembra più ammissibile
nel momento in cui il giudizio amministrativo viene (ri)fondato sul principio della
pluralità delle azioni e dei rimedi accordabili dal giudice. Ciò, si badi, non solo e
non tanto per un formale rispetto della coerenza teorica del sistema, ma anche e
soprattutto perché — come si vedrà nel paragrafo successivo — l'elaborazione di
un principio su basi diverse da quelle sue proprie può presentare complicazioni
non indifferenti laddove si voglia poi estendere il principio stesso a fattispecie
diverse.
In questo senso, il richiamo — come ben si è detto, fin troppo disinvolto (25) —
all'effettività della tutela rischia di risultare fuorviante, in quanto lo sforzo del
giudice non dovrebbe avere quale fine primario quello di piegare le regole
processuali, ma dovrebbe essere invece diretto a garantire la pretesa del privato
all'interno dell'operatività delle stesse (26).
Cercare di risolvere la questione in esame nell'ottica dell'annullamento, sembra
essere, insomma, il limite fondamentale di quest'orientamento.
Limite che a nostro avviso non viene completamente superato neppure
valorizzando l'ampio spettro di pronunce adottabili dal giudice ai sensi dell'art. 34
c.p.a. (tra cui, in particolare, la lettera c), nella parte in cui prevede la possibilità
per il giudice amministrativo di accordare « le misure idonee a tutelare la
situazione giuridica dedotta in giudizio »), se questa valorizzazione rimane
strettamente ancorata alle logiche dell'impugnazione (27).
In questa prospettiva, infatti, si lega il contenuto ordinatorio della sentenza alla
statuizione di annullamento, che tuttavia non viene pronunciata, così in definitiva
rimettendosi completamente al giudice la scelta delle misure da adottare,
giacché, come si è ricordato, l'effetto conformativo della sentenza può essere
costruito e indotto dal ricorrente, ma rimane nella disponibilità del giudice (28).
In altri termini, configurare un'eventuale statuizione di condanna come
completamento della tutela costitutiva — quale, cioè, esplicitazione dell'effetto
conformativo, che per questa via si renderebbe autonomo (29) — pur cogliendo
pienamente gli effettivi termini della questione decisa dalla Sesta Sezione, rischia
di lasciare insoddisfatti perché costringe a sostenere che le richieste delle parti
possano essere ricavate anche implicitamente dalle conclusioni da esse
formulate (30), così tuttavia prestando il fianco all'obiezione che la domanda
giudiziale viene, in concreto, articolata dal giudice (in violazione, sembrerebbe,
dell'art. 99 c.p.c., nonché dell'art. 34, co. 1, c.p.a., a detta del quale il giudice
amministrativo dispone sì il contenuto della sentenza, ma « nei limiti della
domanda » (31)). E se, nell'ipotesi in esame, l'apporto costruttivo del g.a. può
aver portato a conclusioni soddisfacenti per l'interesse della parte, ciò, come si
vedrà, non è sempre garantito (32).
Il vero è che l'obiettivo perseguito dal ricorrente nel caso di specie non era
l'annullamento dell'atto impugnato, bensì la dichiarazione di invalidità dello stesso
ai soli fini della condan na della P.A. alla emanazione di un provvedimento che
effettivamente tutelasse — in ragione dello svolgimento della VAS che era invece
mancato — l'interesse di cui l'associazione ambientalista era portatrice. Si è
quindi nell'ambito proprio delle azioni di condanna ad un facere specifico (33),
all'interno del quale l'annullamento può svolgere un ruolo soltanto indiretto, di
rimozione dell'atto illegittimo (34); e, a ben vedere, nel caso di specie, non ne
svolge alcuno, atteso che, come più volte si è ripetuto, il venir meno dell'atto
contrastava con l'interesse sotteso alla pretesa sostanziale del ricorrente (35).
Tali rilievi, se idonei a superare le perplessità sollevate dalla possibilità di
modulazione dell'effetto caducatorio da parte del giudice, non risolvono tuttavia
l'ulteriore problematica relativa all'ammissibilità di un'azione di condanna così
configurata.
Il Codice del processo amministrativo non sembra infatti offrire uno strumentario
adeguato per far fronte ad una domanda di parte che si articoli come condanna e
prescinda dall'annullamento di un atto: l'art. 30, co. 1, c.p.a., nel disciplinare
l'azione di condanna, sancisce la sua autonomia solo per le ipotesi di giurisdizione
esclusiva ovvero per l'azione risarcitoria, così lasciando intendere che l'azione di
condanna ad un facere, tra cui in particolare l'azione di adempimento, debba
essere esperita contestualmente ad altra azione; e il d. lgs. n. 160 del 14
settembre 2012 (c.d. Secondo Correttivo al Codice del processo amministrativo),
modificando l'art. 34, lett. c), c.p.a., ha espressamente previsto che l'azione di
condanna
al
rilascio
del
provvedimento
richiesto
vada
proposta
« contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di diniego o
all'azione avverso il silenzio ».
L'azione di condanna « pubblicistica » si configura, dunque, come azione a
struttura ‘complessa', nel senso che è richiesto, per la sua proposizione, il
contestuale esperimento di altra azione, la quale costituisce il presupposto
(logico, nonché normativo, giacché previsto dagli artt. 30, co. 1, e 34, lett. c),
c.p.a.) per la domanda di condanna in senso stretto. Di talché, anche seguendo
l'impostazione in questa sede prospettata, potrebbe risultare problematico
accogliere i risultati a cui è pervenuta la Sesta Sezione.
Da questo punto di vista, non sembrano convincere del tutto le proposte che per
ovviare a tali limitazioni sono state avanzate da parte di quella dottrina che pure
ha inquadrato la fattispecie in esame nell'ambito di un'azione di condanna.
Così, postulare la dichiarazione di carenza di interesse per la domanda di
annullamento, al fine di ottenere una pronuncia solo sulla condanna (che deve
essere esplicitamente richiesta) (36), si espone all'obiezione, sollevata da altra
parte della dottrina, di un'alterazione tra questioni di rito e questioni di merito, in
violazione dell'art. 276, co. 2, c.p.c., richiamato dall'art. 76, co. 4, c.p.a. (37).
Neppure affermare l'improcedibilità dell'azione di annullamento per sopravvenuta
carenza di interesse a conseguire la relativa sentenza costitutiva (con
conseguente limitazione del sindacato cognitorio del giudice all'accertamento
dell'illegittimità ai fini della condanna, in analogia a quanto disposto dall'art. 34,
co. 3, c.p.a. per l'azione risarcitoria) (38) sembra condivisibile, atteso che, nelle
ipotesi che si prendono in considerazione, la mancanza di interesse non
sopravviene nel corso del giudizio, ma è invece originaria (39).
Invero, il tentativo di configurare un'azione autonoma di condanna dovrebbe forse
tenere conto della differenza, difficilmente contestabile, tra un'azione volta ad
ottenere il provvedimento richiesto e dalla P.A. implicitamente o esplicitamente
negato e la diversa azione avente ad oggetto la condanna dell'Amministrazione
all'adozione di un atto che essa avrebbe dovuto emanare a prescindere da
qualsiasi richiesta di parte (e che invece non ha adottato, ovvero che ha adottato,
ma in difformità da quanto prescritto dalla legge).
In disparte la terminologia utilizzata (se, cioè con il nome di azione di
adempimento si voglia indicare solo la prima tipologia delle due azioni descritte,
ovvero se in tale denominazione si preferisca ricomprendere tutti i tipi di
condanna provvedimentale, da contrapporre alle azioni di condanna pubblicistica
di natura non provvedimentale, quale ad es., l'accesso agli atti), appare chiaro,
infatti, che solo per la prima, e non per la seconda, la struttura complessa
dell'azione risponde ad esigenze di carattere logico, in quanto funzionale al
superamento di un diniego o di un silenzio-inadempimento (40). Nel caso in cui
non vi sia invece alcun legame procedimentale tra la parte ricorrente e il
provvedimento lesivo (caso tipico: atti a contenuto generale), allora neppure vi
sarà un'istanza rimasta disattesa, in relazione alla quale l'azione di annullamento
o il ricorso avverso il silenzio rinvengono la loro ragion d'essere.
Tale impostazione sembra confermata, seppur soltanto implicitamente, dalla
recente pronuncia Cons. St., Sez. V, n. 6002 del 27 novembre 2012, la quale ha
ammesso un'azione di condanna (nella specie, all'indizione delle elezioni del
Consiglio regionale entro i termini stabiliti dalla legge) proposta contestualmente
ad un'azione atipica di accertamento dell'illegittimità dell'inerzia. Quest'ultima,
che trova cittadinanza nel nostro ordinamento alla luce del principio dell'atipicità
delle forme di tutela (41), consentirebbe di prescindere dal perfezionamento di
un rifiuto in senso tecnico, che, in un caso in cui l'istanza del privato non è
presupposto per l'adozione dell'atto, costringerebbe il ricorrente ad avviare, in
maniera del tutto artificiosa, un apposito procedimento solo per vedersi decorrere
infruttuosamente il termine per provvedere (quasi a riproporre surrettiziamente
l'istituto della diffida ad adempiere) (42).
Se si aderisce a tali considerazioni, risulta evidente che il problema di un'azione
autonoma di condanna può porsi (e a ben vedere, si è posto) solo in relazione ad
un provvedimento la cui emanazione prescinda da un'istanza del privato. D'altro
canto, un'indicazione in senso favorevole al valore concettuale della distinzione
tra i due tipi di condanna provvedimentale si ricava anche dal testo codicistico,
che subordina al contestuale esperimento di un'azione di annullamento o avverso
il silenzio solo l'azione di condanna « al rilascio di un provvedimento richiesto »
(art. 34, lett. c), c.p.a.), non di qualsiasi provvedimento dovuto.
È bene tenere a mente, tuttavia, che a prescindere dalla norma appena
richiamata, anche un'altra disposizione sancisce il divieto di un'azione autonoma
di condanna ad un facere, senza distinguere, in questo caso, l'oggetto dell'attività
richiesta. Ci si riferisce all'art. 30, co. 1, c.p.a., che, pur non richiamando l'azione
di annullamento o il ricorso avverso il silenzio, impone che l'azione di condanna
(salvo quella risarcitoria e nei casi di giurisdizione esclusiva) debba essere
proposta contestualmente ad altra azione.
Ora, in un caso come quello deciso dalla sentenza n. 6002/2012, ove il
provvedimento dovuto non era stato adottato nel termine previsto dalla legge,
tale limitazione è facilmente aggirabile facendo ricorso ad un'azione atipica di
accertamento (43) (proposta, è da dire, al solo fine di rispettare la prescrizione
della normativa processuale). Non così nel caso in cui si sia in presenza di un atto
esplicito (non di diniego, non essendovi alcuna istanza, ma semplicemente)
difforme da quello prescritto dalla relativa normativa (quale, appunto, un piano
faunistico venatorio di cui si lamenta l'illegittimità): in questa ipotesi, infatti,
l'esperibilità di un'azione di accertamento dell'illegittimità del provvedimento
incontra un limite insuperabile nell'art. 34, co. 2, c.p.a., il quale (salve le deroghe
dalla medesima disposizione espressamente indicate) vieta al giudice di conoscere
della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare per mezzo
dell'azione di annullamento (ché, del resto, se così non fosse, l'illegittimità del
provvedimento potrebbe essere fatta valere anche oltre il termine decadenziale
proprio dell'impugnazione).
In definitiva, alla luce di tali considerazioni, sembrerebbe doversi ammettersi che
neppure la chiave ricostruttiva propo sta in questa sede risulti idonea a dare
piena giustificazione alle conclusioni raggiunte dal Consiglio di Stato nella
sentenza n. 2755/2011.
Tuttavia, nonostante questi rilievi critici, proprio le ragioni da ultimo addotte per
evidenziare l'esigenza di ‘svincolare', in taluni casi, la statuizione di condanna dai
limiti di cui agli artt. 30, co. 1, e 34, lett. c), c.p.a. impongono, a nostro avviso, di
guardare con favore ad ogni sforzo interpretativo volto ad ottenere un risultato
analogo a quello che si avrebbe in presenza di un'azione autonoma di condanna
ad un facere, così da concedere al privato la possibilità di articolare la sua pretesa
processuale in conformità con il suo interesse sostanziale, senza rimandare al
giudice il compito, che non gli è proprio, di ricavare tale pretesa in via
interpretativa dalle doglianze addotte dalla parte.
Sotto questo profilo, è sicuramente da auspicare — de iure condendo — un
intervento legislativo volto ad ammettere, almeno per la seconda delle due
tipologie di situazioni sopra individuate, un'azione autonoma di condanna con
contestuale accertamento dell'invalidità dell'atto, purché — si badi — da un lato
essa sia sottoposta allo stesso termine previsto dall'art. 29 c.p.a. (44), di modo
da evitare possibili elusioni della regola di cui all'art. 34, co. 2, ult. parte, c.p.a.;
dall'altro, siano contestualmente specificati gli effetti che l'accertamento
dell'illegittimità sarebbe idoneo a produrre sul provvedimento negativo: in
mancanza, infatti, si potrebbe porre il rischio di una contestuale presenza di due
situazioni incompatibili tra loro, aventi ad oggetto la medesima fattispecie
concreta.
Non può però rimanere sottaciuto che, dopo l'adozione di un Codice e di due
decreti correttivi, la necessità di invocare un ulteriore intervento legislativo
costituisca ben più di quel « paradosso nel paradosso » già a suo tempo rilevato
dalla dottrina (45).
4. Le conclusioni raggiunte nel paragrafo precedente hanno dunque posto in
evidenza la necessità di inquadrare la vicenda decisa dal Consiglio di Stato in
maniera differente rispetto al semplice « non annullamento » dell'atto e alla
modulazione degli effetti caducatori.
In ragione di ciò, importa valutare quali implicazioni ha avuto l'orientamento della
Sesta Sezione sulla successiva giurisprudenza. In altre parole, dovrà verificarsi se
anche le ulteriori pronunce che hanno aderito a tale prospettazione possano
essere ricondotte nell'ambito delle decisioni di condanna, ovvero se la
modulazione degli effetti dell'annullamento sia stata utilizzata al di là di questa
ratio, così ponendosi del tutto al di fuori delle logiche (e delle regole) proprie del
processo amministrativo.
Sotto questo aspetto, delle decisioni sopra richiamate, merita particolare
approfondimento quella del TAR Lazio, sez. II ter, n. 6418 del 13 luglio 2012, ove
il potere di modulare gli effetti di annullamento è stato utilizzato per fini affatto
diversi dall'ottenimento di una decisione di condanna ad un facere.
In particolare, la pronuncia in questione aveva ad oggetto l'impugnazione
dell'aggiudicazione di un appalto pubblico con contestuale proposizione, da parte
dell'aggiudicatario, di un ricorso incidentale c.d. escludente, volto, cioè, a
contestare la legittima partecipazione alla gara dell'impresa ricorrente e,
conseguentemente, la sua legittimazione ad impugnare il provvedimento di
aggiudicazione.
La vicenda, quindi, si inseriva nell'ambito della vexata quaestio del rapporto tra
ricorso principale e ricorso incidentale e, come si dirà, ha tratto dalla teoria della
modulazione degli effetti caducatori elementi per concludere nel senso di poter
procedere all'esame di entrambi i ricorsi.
Sul punto, pur trattandosi di questioni del tutto note, gio verà ricordare come due
siano i principali orientamenti che si fronteggiano in giurisprudenza.
Secondo una prima tesi, una volta accolto il ricorso incidentale c.d. escludente, il
ricorso principale non potrebbe essere esaminato, in quanto inammissibile per
difetto di legittimazione (46). In altri termini, l'accoglimento del ricorso
incidentale, determinando l'esclusione dell'impresa non aggiudicataria, ne farebbe
venire meno la partecipazione alla gara, e quindi la legittimazione ad impugnare
l'aggiudicazione. Il ricorso incidentale, in questa ipotesi, non persegue infatti il
medesimo fine di quello principale, ma ha come scopo quello di paralizzare
quest'ultimo, escludendo la legittimazione del suo proponente; esso concerne
quindi una questione prettamente pregiudiziale, che, come tale, deve essere
esaminata anteriormente alle questioni di merito e, se accolta, è idonea a
precludere il loro esame.
Tale orientamento, pacifico fino a tempi relativamente recenti, è stato
successivamente disatteso — sulla base di uno spunto suggerito da un noto obiter
dictum (47) — da una parte della giurisprudenza (48), con un indirizzo fatto poi
proprio dall'Adunanza Plenaria n. 11 del 10 novembre 2008.
In questo senso si è affermato che, pur dovendosi previamente procedere
all'analisi del ricorso incidentale, l'accoglimento di questo non determinerebbe in
ogni caso l'inammissibilità del ricorso principale. Laddove siano state ammesse
due sole offerte ed entrambi i ricorsi vertano sulla legittimità dell'ammissione
della controparte, verrebbe infatti in rilievo l'interesse strumentale alla ripetizione
della gara (49), per cui, anche nel caso di accoglimento del ricorso incidentale, il
ricorrente principale, secondo classificato, manterrebbe comunque l'interesse a
che venga indetta una nuova procedura, per mezzo della quale ha una nuova
possibilità di conseguire il bene della vita a cui aspira (50).
Questa pronuncia, pur trovando talune adesioni in dottrina (51), è stata
contestata sia per ragioni di ordine prettamente processuale — in quanto,
opinando nel senso appena descritto, di fatto si prescindeva dalla sussistenza del
requisito della legittimazione a ricorrere — sia perché una soluzione siffatta
tendeva, in sostanza, a condurre verso un sindacato di tipo oggettivo, volto, cioè,
a valutare la legittimità della gara in sé piuttosto che a tutelare posizioni
giuridiche soggettive. Ciò ha portato l'Adunanza Plenaria a tornare sui suoi passi
stabilendo che, in caso di fondatezza del ricorso incidentale escludente, l'esame
del ricorso principale debba ritenersi precluso per il venir meno della
legittimazione a ricorrere, da considerarsi quale requisito autonomo e distinto
dall'interesse processuale (il quale pur potrebbe avere ad oggetto, in ipotesi,
un'utilità strumentale) (52).
Tuttavia, neppure tale ultima presa di posizione è stata accolta pacificamente da
parte della successiva giurisprudenza: così, pochi mesi più tardi, il TAR Piemonte
ha rimesso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la questione pregiudiziale
circa la compatibilità dell'assetto delineato dalla Plenaria con i principi di parità
delle parti, di non discriminazione e di tutela della concorrenza nei pubblici
appalti (53). Analoghe perplessità sono state sollevate, sia pure attraverso un
obiter dictum, da parte delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, innanzi alle
quali la pronuncia della Plenaria n. 4 del 2011 era stata impugnata (54).
Anche la dottrina ha dedicato importanti riflessioni a tali tematiche, soffermandosi
sia sul valore del ricorso incidentale quale strumento di difesa, sia sull'ordine di
esame tra ricorso principale e incidentale (55).
Aderendo all'impostazione che ravvisa nel ricorso inciden tale l'impugnazione di
un atto (56), un primo orientamento ha ritenuto che lo stesso debba essere
sottoposto ai medesimi canoni di valutazione di quello principale, cosicché,
laddove il ricorrente principale e quello incidentale contestino le rispettive
ammissioni, nessuno dei due gravami avrebbe priorità logica sull'altro (57): nel
caso di due sole imprese partecipanti (58), i due ricorsi, se fondati,
meriterebbero quindi entrambi accoglimento, con il conseguente annullamento
dell'intera procedura di gara (59).
Autorevole dottrina ha però contestato tale assunto (60), evidenziando come, a
prescindere dalla natura che si attribuisce al ricorso incidentale (61), l'ordine
logico delle questioni risulti rigidamente imposto dalla circostanza che il ricorrente
incidentale introduce una questione pregiudiziale di rito (62), non rilevando, in
tal senso, l'accessorietà del ricorso incidentale rispetto a quello principale, che,
come ben si è notato, è caratteristica diversa dal condizionamento (63). Avverso
tali conclusioni non varrebbe neppure sostenere che ciò che si contesta, in
entrambi i ricorsi, è la legittimazione della controparte, di talché le due questioni
non potrebbero che essere esaminate contestualmente (64). A differenza del
ricorrente incidentale, infatti, quello principale vuole ottenere, attraverso
l'esclusione dell'aggiudicatario dalla procedura di gara, l'annullamento
dell'aggiudicazione, che costituisce la questione di merito oggetto del giudizio e,
come tale, potrà essere esaminata solo se chi la propone è legittimato a
ricorrere (65).
In sostanza, secondo questa tesi, la posizione dell'aggiudicatario ricorrente
incidentale solo apparentemente sarebbe assimilabile a quella del ricorrente
principale (entrambi contestano gli atti di gara), perché ciò a cui mira il ricorrente
incidentale è — e non potrebbe essere altro che — la dichiarazione di
inammissibilità del ricorso principale; non, quindi, l'annullamento di un
provvedimento, in realtà solo fittizio, ma la sottrazione « alle conseguenze
negative che potrebbero derivargli dall'accoglimento del ricorso principale » (66).
Tanto premesso — pur nell'estrema sintesi della presente trattazione — in ordine
ai termini della questione, può ora analizzarsi la decisione del TAR Lazio di cui si è
fatta inizialmente menzione.
In tale pronuncia i giudici di primo grado, pur aderendo al principio generale
formulato dalla Plenaria n. 4/2011 secondo cui per la sussistenza della
legittimazione a ricorrere è necessario aver legittimamente partecipato alla
procedura, si sono poi parzialmente discostati dalle conclusioni di quest'ultima,
affermando che una siffatta impostazione non può essere applicata in modo
soddisfacente a tutte le ipotesi che potrebbero in concreto verificarsi.
Richiamando l'orientamento della sentenza Cons. St., n. 2755/2011, il TAR ha
pertanto reputato incongruo, « in ragione della piena simmetria dei concorrenti
ricorrenti », disporre l'annullamento ex tunc dell'atto di ammissione alla gara del
ricorrente principale con conseguente esclusione della sua legittimazione a
ricorrere. Per il pieno rispetto del principio di effettività della tutela, si preferisce
invece optare per un annullamento ex nunc, che, permettendo di mantenere la
posizione del ricorrente principale differenziata e qualificata (perlomeno in
relazione al conseguimento di una nuova aggiudicazione), non fa venire meno, in
capo a questi, la legittimazione a ricorrere.
In definitiva, il TAR Lazio, sfruttando le potenzialità derivanti dalla modulazione
dell'annullamento dell'atto, ha ritenuto di poter decidere quali effetti far scaturire
dall'accoglimento del ricorso incidentale, superando, per questa via, le regole di
carattere processuale che gli avrebbero impedito di esaminare il ricorso principale
e giustificando tale assunto sulla necessità di garantire una tutela effettiva,
possibile, a suo avviso, solo attraverso l'esame di entrambe le censure riguardanti
la legittimità dell'ammissione delle imprese partecipanti.
Tale impostazione, tuttavia, non sembra poter trovare condivisione, perché fa
riemergere, surrettiziamente, una parificazione delle posizioni dei due ricorrenti,
già esclusa dalla Plenaria, e che, a nostro modo di vedere, non trova riscontro né
nel dato processuale, né in quello sostanziale, atteso che l'aggiudicatario, in ogni
caso, non ricerca lo stesso risultato del ricorrente principale. Se infatti il compito
del giudice amministrativo è quello di valutare la fondatezza delle doglianze
dedotte dalle parti al fine di garantire le loro posizioni sostanziali così come si
sono venute delineando a seguito dello svolgimento della gara (secondo la regola
generale di cui all'art. 34, co. 2, c.p.a., che impone di fare riferimento ad un
potere amministrativo già svolto), in nessun caso la posizione dell'aggiudicatario
(a cui il bene è stato attribuito) potrà essere posta sullo stesso piano di quella del
concorrente secondo classificato (che all'attribuzione del medesimo bene invece
aspira) (67).
In altri termini, in un processo di natura soggettiva, che abbia ad oggetto la
tutela delle situazioni giuridiche dedotte in giudizio in relazione ad un potere
amministrativo che necessariamente deve già essere stato esercitato, il sindacato
non può atteggiarsi a controllo oggettivo sullo svolgimento della gara, ma deve
comunque tenere conto delle posizioni delle parti che richiedono tutela, cosicché
rimane imprescindibile la circostanza che in tanto potrà giudicarsi sulla legittimità
della procedura, in quanto vi sia un soggetto legittimato a richiedere tale
giudizio (68).
A differenza del caso deciso dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 2755/2011,
dunque, la modulazione dell'effetto caducatorio non è stata, in questa ipotesi,
utilizzata per modellare l'istanza giudiziale sulla pretesa effettiva della parte, per
perseguire, in altri termini, l'interesse sostanziale del ricorrente (pur implicito, con
tutti i limiti che ne conseguono in relazione al principio della domanda); essa è
servita, invece, per attuare un sindacato il più esteso possibile sulla gara, che,
tuttavia, ha avuto l'effetto di limitare la tutela a favore del ricorrente incidentale,
giacché l'esito positivo delle sue doglianze non gli ha permesso di conseguire lo
scopo per cui il suo ricorso era stato posto in essere.
A tal proposito, giova ancora una volta ripetere che il principio dell'effettività della
tutela, invocato dalla decisione del TAR per giustificare la sua posizione, non può
essere inteso in maniera del tutto generica (69), così in definitiva legittimando il
giudice a qualsiasi intervento, ma deve porsi necessariamente nei termini propri
del processo amministrativo, il cui scopo — costituzionalmente stabilito — è
quello di garantire le situazioni giuridiche soggettive dedotte in giudizio (70).
Se così è, l'impostazione del TAR Lazio non può essere accolta, perché utilizza un
principio elaborato ad altri fini — e con applicazione incerta anche in relazione a
quelle ipotesi — per uno scopo del tutto diverso, a dire quello di superare
l'indirizzo della Plenaria senza formalmente porsi in contrasto con i principi dalla
stessa sanciti.
Viene in evidenza, dunque, l'obiezione fondamentale che alla teoria del « non
annullamento » dell'atto illegittimo è stata mossa, che, cioè, in forza di essa al
giudice è lasciata piena autonomia sugli effetti da ricondurre ad una domanda
giudiziale, con palese violazione del principio di cui all'art. 99 c.p.c. Il non corretto
inquadramento della fattispecie dedotta in giudizio dinanzi al Consiglio di Stato,
risolta nell'ambito del rimedio impugnatorio — pur comprensibile in quel caso,
come si è detto — palesa dunque il limite della ricerca dell'effettività della tutela
attraverso schemi che non gli sono propri; limite che viene in evidenza con
l'estensione del medesimo principio a fattispecie del tutto diverse, con risultati —
a nostro modo di vedere — contrari a quelli originariamente perseguiti.
5. L'analisi compiuta nei paragrafi precedenti permette di trarre alcune
conclusioni in merito all'indirizzo inaugurato dalla Sesta Sezione del Consiglio di
Stato con la sentenza n. 2755/2011, sulla modulazione dell'effetto di
annullamento in relazione all'interesse posto a base dell'impugnazione e
all'effettività della tutela giurisdizionale.
Si è detto, a tal proposito, come la necessità di rapportare la decisione alla
pretesa sostanziale della parte costituisca un'esigenza del tutto condivisibile, ma
non possa essere perseguita attraverso la disposizione, da parte del giudice, del
potere di annullamento, in quanto, opinando in tal senso, ci si pone
inevitabilmente in contrasto con il principio della domanda e si rischia, legando
tale disponibilità ad una valutazione di opportunità operata dal g.a., di sfociare in
un sindacato non del tutto aderente al carattere soggettivo della giurisdizione
amministrativa (71).
Così è avvenuto nella pronuncia del TAR Lazio n. 6418/2012, ove il giudice
amministrativo si è discostato da quei presupposti che, pur con più di una
perplessità, giustificavano, nel caso di specie, l'operazione compiuta dalla Sesta
Sezione, a dire la necessità di pronunciare una decisione di condanna autonoma
da una statuizione di annullamento.
Proprio il confronto tra le due decisioni rende però possibile precisare quali siano
gli effettivi termini entro i quali il principio di modulazione degli effetti
dell'annullamento può ritenersi compatibile con il nostro ordinamento
processuale.
In primo luogo, si deve ribadire che il fondamento della pronuncia del Consiglio di
Stato va ricercato nella necessità di raccordare la domanda processuale del
ricorrente alla sua pretesa sostanziale, che, nel caso deciso dalla sentenza n.
2755/2011, si poneva in contrasto con un annullamento ex tunc dell'atto
impugnato.
Il giudice amministrativo, anche seguendo questa impostazione, non avrebbe
quindi una piena disponibilità dell'effetto caducatorio, ma potrebbe solo
conformare l'interesse del privato al rimedio processuale da questi esperito. Se si
condivide tale assunto, appare chiaro che la modulazione degli effetti di
annullamento non può mai porsi in contrasto con la pretesa del ricorrente, come è
invece avvenuto nella decisione del TAR Lazio (dove il ricorrente incidentale, pur
vittorioso, si è visto in parte negare il risultato utile dell'accoglimento delle sue
doglianze).
Inoltre, se il presupposto per derogare all'effetto caducatorio dell'annullamento
deve essere funzionale al concreto atteggiarsi della pretesa sostanziale del
ricorrente, occorre necessariamente che tale pretesa, per quanto è possibile, trovi
riscontro nella domanda giudiziale, non potendo in ciò sopperire il potere
interpretativo del giudice.
Se quanto detto si rapporta all'attuale quadro processuale, in cui è assente la
previsione di un'azione autonoma di condanna ad un facere, potrebbe allora
reputarsi non del tutto incongruo applicare il principio del « non annullamento »
ai soli casi (e nei limiti) in cui sia funzionale ad una statuizione di condanna,
purché quest'ultima — a differenza di quanto è accaduto nella decisione n.
2755/2011 — sia puntualmente dedotta in giudizio tramite rituale proposizione
della relativa domanda (72); ché, altrimenti, il disposto dell'art. 99 c.p.c.
risulterebbe inevitabilmente violato.
Ciò, si badi, non rappresenta un'incondizionata adesione al principio statuito dalla
Sesta Sezione — sulle cui possibili obiezioni si è già dato ampiamente riscontro —
ma indica piuttosto il limite entro il quale, a nostro avviso, l'« ingegneria
processuale » (73) del Consiglio di Stato può dirsi strumentale al perseguimento
dell'effettività della tutela senza per questo derogare ad un modello
giurisdizionale che si caratterizzi in senso soggettivo.
Abstract: L'indirizzo inaugurato dalla ormai nota sentenza del Consiglio di Stato,
sez. VI, n. 2755 del 10 maggio 2011, sulla possibilità per il giudice amministrativo
di modulare gli effetti caducatori delle proprie pronunce, continua a destare
perplessità alla luce della sua applicazione da parte della successiva
giurisprudenza che, in forza di esso, ha ritenuto di poter superare il principio
stabilito dall'Adunanza Plenaria n. 4/2011 sul rapporto tra ricorso principale e
ricorso incidentale c.d. escludente. Nello scritto si evidenzia come, per una
corretta comprensione del problema, sia a nostro avviso necessario inquadrare la
vicenda decisa dalla Sesta Sezione non all'interno del tradizionale giudizio
impugnatorio, bensì in quello di condanna ad un facere specifico. In quest'ottica,
le peculiarità della pronuncia vanno ricercate nella mancanza, nel nostro processo
amministrativo, di un'azione autonoma di condanna ad un facere, la quale — in
tutti quei casi ove la domanda giudiziale sia volta ad ottenere non il
provvedimento richiesto alla P.A. e da questa implicitamente o esplicitamente
negato, quanto piuttosto la condanna dell'Amministrazione all'adozione di un atto
che essa avrebbe dovuto emanare d'ufficio — premette di prescindere da un
annullamento non sempre conforme all'interesse sostanziale del ricorrente. Su
queste basi si cerca quindi di dimostrare che il principio del “non annullamento”
può trovare cittadinanza nel nostro ordinamento processuale solo se lo si ricollega
a quella che è la ratio della sentenza n. 2755/2011; solo laddove, cioè, vi sia la
necessità di modellare l'istanza giudiziale sulla pretesa effettiva della parte, non
trovando questa nei mezzi messi a disposizione dal Codice un corrispettivo
adeguato. Nell'attuale quadro processuale, ove è assente la previsione di
un'azione autonoma di condanna ad un facere, la modulazione degli effetti
caducatori andrebbe allora limitata ai soli casi in cui essa sia funzionale ad una
statuizione di condanna, la quale peraltro deve essere puntualmente dedotta in
giudizio tramite rituale proposizione della relativa domanda, in conformità a
quanto sancito dagli artt. 99 e 112 c.p.c.
Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin:
10px 10px;">
Note:
(1) Costituisca, cioè, la « regina delle azioni », per usare le parole di M.
Clarich,Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a
nuove tutele, in Giorn. dir. amm., 2010, 1127.
(2) Secondo l'indirizzo giurisprudenziale che ormai si sta affermando come
maggioritario, tale disposizione deve essere intesa nel senso che l'interesse
risarcitorio debba astrattamente sussistere, non anche che la relativa domanda
debba già essere stata proposta: così Cons. St., Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2817
annotata da R. Proietti, Inutilità dell'annullamento dell'atto e accertamento
dell'illegittimità del provvedimento, in Urb. app., 2011, 1347 ss.; Cons. St., Sez.
IV, 18 maggio 2012, n. 2916; nonché Tar Toscana, sez. I, 30 maggio 2012, n.
1047 ove si è tuttavia precisato che per procedere all'accertamento vi deve
essere un'esplicita richiesta in tal senso da parte dell'interessato. ContraTar
Lombardia, Milano, sez. IV, 5 ottobre 2011, n. 2352 secondo cui laddove l'azione
risarcitoria non sia stata proposta nel medesimo o in separato giudizio, o non sia
dimostrato che il ricorrente fosse in procinto di promuoverla, il giudice non
potrebbe accertare l'illegittimità dell'atto.
(3) Prevista dal § 113, abs. 1, della Legge processuale amministrativa tedesca
(Verwaltungsgerichtsordnung - VwGO).
(4) Cons. St., Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755 con note e commenti di A. Travi,
Accoglimento dell'impugnazione di un provvedimento e « non annullamento »
dell'atto illegittimo, in Urb. e app., 2011, 936 ss.; P. Quinto, La specificità della
giurisdizione amministrativa ed una sentenza di « buon senso », in Giustamm.it,
2011; M. Sapio, Un caso di sospensione degli effetti caducatori del giudicato
amministrativo in applicazione della rilevanza del diritto europeo sul diritto
processuale amministrativo nazionale, ivi; M. Macchia,L'efficacia temporale delle
sentenze del giudice amministrativo: prove di imitazione, in Giorn. dir. amm.,
2011, 1310 ss.; E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, in Giur.
it., 2012, 439 ss.; E. Loria,Accertata l'illegittimità dell'atto impugnato il giudice
può decidere della non retroattività, in Guida dir., 26/2011, 103 ss.; G.
Fonderico,Nota a Cons. St., sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755, in Guida dir.
Dossier, 9/2011, 32; R. Politi,Atipicità delle azioni e chirurgia giurisprudenziale
dell'azione di annullamento: la « sovrascrittura del programma », in Foro amm.Tar, 2011, 1071 ss.; C. Feliziani, Oltre le Colonne d'Ercole. Può il giudice
amministrativo non annullare un provvedimento illegittimo?, in Foro amm.-CdS,
2012, 427 ss.; C. E. Gallo,I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti
delle proprie sentenze di annullamento, in questa Rivista, 2012, 280 ss.; A.
Giusti,La « nuova » sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del
Consiglio di Stato, ivi, 293 ss.; L. Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di
annullamento amputata dell'effetto eliminatorio?, ivi, 1128 ss.; F. CaringellaIl
sistema delle tutele dell'interesse legittimo alla luce del codice e del decreto
correttivo, in Urb. e app., 2012, 17 ss.; R. Dipace, L'annullamento tra tradizione e
innovazione: la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, in
questa Rivista, 2012, 1273 ss.; M. Fornaciari,Ultimissime dal Consiglio di Stato:
l'annullamento ... che non annulla!, ivi, 1662 ss.
(5) In particolare, Tar Abruzzo, Pescara, n. 693 del 13 dicembre 2011, con nota
di S. Foà,Annullamento ex nunc e condanna dell'amministrazione ad un facere
specifico, in Urb. e app., 2012, 707 ss. (analoga a Tar Abruzzo, Pescara, nn. 695700/2011); Tar Lazio, sez. II ter, n. 6418 del 13 luglio 2012; Tar Lazio, sez. I, n.
1432 del 13 febbraio 2012.
(6) Ma sul punto si veda il fondamentale rilievo di A. Travi,Accoglimento
dell'impugnazione di un provvedimento e « non annullamento » dell'atto
illegittimo, cit., 937, secondo cui l'esercizio della caccia finirebbe comunque per
non essere sanzionabile « perché — come insegna la Cassazione — ai fini della
applicazione di una sanzione per la violazione di un divieto elemento del divieto
della fattispecie è anche la legittimità del divieto. (...) E nel nostro caso lo stesso
Consiglio di Stato ha accertato l'illegittimità dell'atto ».
(7) Come definita da E. Follieri, cit. nel titolo della sua nota.
(8) Si fa riferimento al titolo della nota di C. Feliziani, cit.
(9) Critici, in particolar modo, A. Travi, Accoglimento dell'impugnazione di un
provvedimento e « non annullamento » dell'atto illegittimo, cit., 938; E.
Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 440-442. Forti
obiezioni sulla pronuncia sono state sollevate anche da parte di F.G. Scoca,
Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da provvedimento
amministrativo, in Corr. giur., 2011, 989; R. Villata, Ancora « spigolature » sul
nuovo processo amministrativo?, in questa Rivista, 2011, 1516, a detta dei quali,
seguendo l'impostazione della sent. n. 2755/2011, il giudice finirebbe per valutare
l'opportunità dell'azione proposta, in tal modo non rispettando il principio della
domanda di parte.
(10) Così il titolo della nota di P. Quinto, La specificità della giurisdizione
amministrativa ed una sentenza di « buon senso », cit.
(11) E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 440-441, alla
cui bibliografia si rimanda in merito all'effetto ripristinatorio e in generale agli
effetti della pronuncia di annullamento.
(12) Così E. Follieri,op. loc. ult. cit.; A. Travi, Accoglimento dell'impugnazione di
un provvedimento e « non annullamento » dell'atto illegittimo, cit., 937; R.
Villata, Ancora « spigolature » sul nuovo processo amministrativo?, cit., 1516.
(13) Si vedano, su tutti, i rilievi sollevati da C. Volpe, La non annullabilità dei
provvedimenti amministrativi illegittimi, in questa Rivista, 2008, spec. 340 ss.
Sulla invalidità del provvedimento amministrativo per vizi formali si rimanda, in
generale e senza alcuna pretesa di completezza, a F. Luciani,Il vizio formale nella
teoria dell'invalidità amministrativa, Torino, 2003; V. Cerulli Irelli,Considerazioni
in tema di sanatoria di vizi formali, in V. Parisio (a cura di), Vizi formali,
procedimento e processo amministrativo, Milano, 2004, 101 ss.; F.G. Scoca,I vizi
formali nel sistema delle invalidità dei provvedimenti amministrativi, ivi, 56 ss.;
D.U. Galetta,Giudice amministrativo e vizi formali, ivi, 77 ss.; A. Romano
Tassone,Vizi formali e vizi procedurali, in Giustamm.it, 2005; A.
Police,L'illegittimità dei provvedimenti amministrativi alla luce della distinzione tra
c.d. vizi formali e vizi sostanziali, in Dir. amm., 2003, 735 ss.; D. Corletto,Vizi
« formali » e poteri del giudice amministrativo, in questa Rivista, 2006, 43 ss.;
G. Morbidelli,Invalidità e irregolarità, in AnnuarioAispa, Milano, 2003, 79 ss.; D.
Marrama,Brevi riflessioni sul tema dell'irregolarità e dell'invalidità dei
provvedimenti amministrativi, in questa Rivista, 2005, 359 ss.; R. Giovagnoli,I
vizi formali e procedimentali, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione
amministrativa, Milano, 2011, 950 ss.
(14) In tal senso A. Travi,Accoglimento dell'impugnazione di un provvedimento e
« non annullamento » dell'atto illegittimo, cit., 938. Si vedano, tuttavia, i rilievi
di M. Macchia,L'efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo, cit.,
1314, il quale nota come la formula dell'art. 113 Cost. sia stata introdotta per
ripartire i compiti tra le giurisdizioni, sicché scopo della legge sarebbe quello di
« determinare i casi in cui è possibile annullare, mentre resta indifferente
stabilire quando tale annullamento non è necessario ». Per un'analisi dell'art. 113
Cost., sia consentito limitarci al richiamo di C. Volpe, op. loc. ult. cit.; nonché di
G. Berti, Commento all'art. 113 Cost., in Commentario della costituzione a cura di
G. Branca, Bologna-Roma, 1987, 85 ss.
(15) Sugli artt. 120 ss. c.p.a. (e, prima della codificazione, sul d.lgs. n. 53 del 20
marzo 2010) si vedano, tra gli altri, E. Follieri,I poteri del giudice amministrativo
nel decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120-124 del codice del
processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2010, 1067 ss.; V. Lopilato,
Categorie contrattuali, contratti pubblici e i nuovi rimedi previsti dal decreto
legislativo n. 53 del 2010 di attuazione della direttiva ricorsi, in Dir. proc. amm.,
2010, 1326 ss.; A. Bartolini, S. Fantini, F. Figorilli, Il decreto legislativo di
recepimento della direttiva ricorsi, in Urb. app., 2010, 638 ss.; F. Cintioli, In
difesa del processo di parti. Note a prima lettura del parere del Consiglio di Stato
sul « nuovo » processo amministrativo, in Giustamm.it, 2010; M.
Lipari,L'annullamento dell'aggiudicazione e gli effetti sul contratto: poteri del
giudice, in Giustamm.it, 2010; Id.,Il recepimento della « direttiva ricorsi »: il
nuovo processo super-accelerato in materia di appalti e l'inefficacia « flessibile »
del contratto, in Giustamm.it, 2010; A. Angiuli, Contratto pubblico e sindacato del
giudice amministrativo, in Dir. amm., 2010, 865 ss.; E. Sticchi
damiani,Annullamento dell'aggiudicazione e inefficacia funzionale del contratto, in
questa Rivista, 2011, 240 ss.; R. De Nictolis,Artt. 121-124, in A. Quaranta, V.
Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, 1013 ss.; G. Chiné,
D. Fata, M. Sanino, Le sorti del contratto stipulato a seguito di aggiudicazione
illegittima, in M. Sanino (a cura di), Codice del processo amministrativo, Torino,
2011, 539 ss.; P. Carpentieri, Sorte del contratto (nel nuovo rito sugli appalti), in
questa Rivista, 2011, 664 ss.; A. Police,Attualità e prospettive della giurisdizione
di merito del giudice amministrativo, in Studi in onore di Alberto Romano, II,
Napoli, 2011, 1437 ss.; R. Chieppa, Il nuovo processo amministrativo dopo il
correttivo al Codice, Milano, 2012, 632 ss.
(16) In questo senso si vedano A. Giusti,La « nuova » sentenza di annullamento
nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, cit., 307-309; C. Feliziani,
Oltre le Colonne d'Ercole. Può il giudice amministrativo non annullare un
provvedimento illegittimo?, cit., 450.
(17) Sul punto, giusto il rilievo di R. Dipace,L'annullamento tra tradizione e
innovazione, cit., 1377-1378, secondo cui « se è vero che il giudice può operare
alcune valutazioni in ordine alla inefficacia o meno del contratto, la circostanza
rilevante è che alla base di tale valutazione vi è sempre una sentenza di
annullamento. Infatti, la valutazione della sorte del contratto interviene solo a
seguito dell'eliminazione retroattiva della aggiudicazione, ossia un annullamento
giurisdizionale con efficacia retroattiva ».
(18) In questi termini A. Giusti,Il contenuto conformativo della sentenza del
giudice amministrativo, Napoli, 2012, 207, la quale fa riferimento a quanto
stabilito da Cons. St., ad. plen., n. 9 del 30 luglio 2008.
(19) Secondo cui « ... la Corte, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti
dell'atto annullato che devono essere considerati definitivi ».
(20) Sul punto Corte giust. Ue, 5 giugno 1973, in causa C-81/1972, Commissione
c. Consiglio (Staff salaries), sulle retribuzioni e sulle pensioni dei dipendenti di
ruolo delle allora Comunità europee, una volta rilevata l'invalidità dell'atto
impugnato, ha stabilito che « onde evitare ogni discontinuità nel regime delle
retribuzioni, è opportuno applicare l'art. 174, 2º comma, del Trattato [art. 264,
par. 2, Tfue], di guisa che gli articoli annullati continueranno ad avere effetto fino
a che il consiglio non abbia adottato un nuovo regolamento, in ossequio alla
presente sentenza »; ancora, Corte giust. Ue, 25 febbraio 1999, cause riunite C164/97 e 165/97, Parlamento c. Consiglio, ove si afferma che « se
l'annullamento dei regolamenti nn. 307/97 e 308/97 producesse pienamente i
suoi effetti, ciò potrebbe pregiudicare gravemente la realizzazione di azioni
intraprese negli Stati membri, con il sostegno della Comunità, per la protezione
dell'ambiente. Occorre quindi che la Corte si avvalga del potere conferitole
dall'art. 174, secondo comma, del Trattato e statuisca che gli effetti dei
regolamenti annullati saranno integralmente conservati fintantoché il Consiglio
non adotti, entro un termine ragionevole, nuovi regolamenti aventi lo stesso
oggetto ».In dottrina, può rimandarsi ad A.H. Türk, Judicial Review inEuLaw,
Cheltenham, 2009, 151 ss.; P. Craig, EuAdministrative Law, Oxford, 2006, 757-
758; T.C. Hartley,The foundations of European Union Law, Oxford, 2010, 437439; M.P. Chiti, Diritto amministrativo europeo, Milano, 2011, 578-579; A.
Nocerino Grisotti, Effetti ex nunc dell'annullamento di atti comunitari e principi
dell'ordinamento italiano, in Dir. com. scambi internaz., 1988, 421 ss.; L.
Azzena,Corte costituzionale e Corte di giustizia Cee a confronto sul tema
dell'efficacia temporale delle sentenze, in Riv. trim. dir. pubbl., 1992, 688 ss.; P.
Manzini, Ricorso di annullamento: riforma e controriforma, in Dir. Unione
europea, 2002, 717 ss.; G. Parodi, Gli effetti temporali delle sentenze di
annullamento e di invalidità della Corte di giustizia delle comunità europee, in
Quaderni regionali, 2007, 319 ss.
(21) Non sarebbero queste, in altre parole, le modalità attraverso cui
l'ordinamento europeo influenza quello processuale nazionale. Al riguardo può
rimandarsi, tra gli altri, a D. de Pretis,Il processo amministrativo in Europa,
Trento, 2000, passim, spec. 24 ss.; Id.,La tutela giurisdizionale amministrativa
europea e i principi del processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2002, 683 ss.; Id.,La
tutela giurisdizionale amministrativa in Europa fra integrazione e diversità, in Riv.
it. dir. pubbl. com., 2005, 1 ss., spec. 12 ss.; R. Caranta,Giustizia amministrativa
e diritto comunitario: studio sull'influsso dell'integrazione giuridica europea sulla
tutela giurisdizionale dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione,
Napoli, 1992; Id.,La tutela giurisdizionale (italiana, sotto l'influenza comunitaria),
in M.P. Chiti, G. Greco,Trattato di diritto amministrativo europeo. Parte generale,
II, Milano, 2007, 1031 ss., spec. 1062 ss.; W. Van Gerven, Bridging the gap
between Community and National Laws: Towards a Principle of Homogeneity in
the Field of Legal Remedies?, in Common Market L. Rev., 1995, 679 ss.; nonché,
più in generale, a G. Morbidelli,La tutela giurisdizionale dei diritti nell'ordinamento
comunitario, Milano, 2001.
(22) Così E. Follieri, L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 442.
(23) Per questi rilievi, ampiamente, A. Giusti,La « nuova » sentenza di
annullamento nella recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, cit., 318-320.
(24) S.R. Masera, Il risarcimento in forma specifica nel processo amministrativo,
Padova, 2006, 147.
(25) Così C. Feliziani, Oltre le Colonne d'Ercole. Può il giudice amministrativo non
annullare un provvedimento illegittimo?, cit., 445. Nello stesso senso, R. De
Nictolis,Ordine di esame del ricorso principale e incidentale: la posizione della
Cassazione, nota a Cass., sez. un., n. 10294 del 21 giugno 2012, in Urb. app.,
2012, 1025, che parla dell'effettività come di « una formula vuota atta a tutto
giustificare e tutto consentire ». Si vedano sul punto anche gli ampi rilievi di R.
Villata,Dodici anni dopo: il Codice del processo amministrativo, in B. Sassani, R.
Villata (a cura di), Il Codice del processo amministrativo, Torino, 2012, 57, il
quale richiama quanto sostenuto da G. Verde,Diritto processuale civile, I,
Bologna, 2010, 40.
(26) Sul punto, si vedano i rilievi di G. Romeo,L'effettività della giustizia
amministrativa: principio o mito?, in questa Rivista, 2004, 653 ss., che nota come
nella giustizia amministrativa il principio di effettività si sia affermato come
principio precettivo, piuttosto che come criterio di valutazione degli istituti
processuali. Sull'effettività della giustizia amministrativa può rimandarsi, in
generale, a M.P. Chiti,L'effettività della tutela giurisdizionale tra riforme nazionali
e influenza del diritto comunitario, in questa Rivista, 1998, 499 ss.; M.
Clarich,L'effettività della tutela nelle sentenze del giudice amministrativo, ivi, 523
ss.; G. Greco, Effettività della giustizia amministrativa nel quadro del diritto
europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1996, 997 ss.; M. Renna.Giusto processo ed
effettività della tutela in un cinquantennio di giurisprudenza costituzionale sulla
giustizia amministrativa: la disciplina del processo amministrativo tra autonomia
e « civilizzazione », in G. Della Cananea, M. Dugato (a cura di) Diritto
amministrativo e Corte costituzionale, Napoli, 2006, 505 ss.; L. Torchia,I principi
generali, in Giorn. dir. amm., 2010, 1117 ss.; R. Caponigro,Il principio di
effettività della tutela nel codice del processo amministrativo, in www. giustiziaamministrativa.it; M. Mengozzi,Giusto processo e processo amministrativo. Profili
costituzionali, Milano, 2009; S. Tarullo, Il giusto processo amministrativo: studio
sull'effettività della tutela giurisdizionale nella prospettiva europea, Milano 2004;
Id., Giusto processo (dir. proc. amm.), in Enc. dir., Ann., II, 1, Milano, 2008, 377
ss.
(27) Secondo l'impostazione fatta propria da C.E. Gallo,I poteri del giudice
amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, cit.,
286 ss.
(28) E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 441.
(29) Così C.E. Gallo,I poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle
proprie sentenze di annullamento, cit., 288.
(30) In questo senso, ancora, C.E. Gallo,I poteri del giudice amministrativo in
ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, cit., 292, il quale
afferma che poiché il processo amministrativo è un processo di parti, il giudice
amministrativo non può adottare pronunzie se non su richiesta della parte, che,
tuttavia, « possono essere richieste esplicite o implicite, richieste cioè individuate
espressamente dalle parti medesime o implicitamente desumibili dalle conclusioni
dalle medesime articolate, laddove ciò non sia ».
(31) In maniera non dissimile sembra concludere anche E. Follieri,L'ingegneria
processuale del Consiglio di Stato, cit., 442, il quale rilevando (come si vedrà
subito infra nel testo) che, nel caso di specie, è stata in definitiva emanata una
sentenza di condanna, afferma che il giudice può pronunziare, a norma del Codice
del processo amministrativo, una condanna ad un facere specifico « qualora il
ricorrente abbia proposto la relativa domanda ».
(32) Si veda infra paragrafo successivo.
(33) L'azione di condanna ad un facere specifico (altrimenti definita come azione
di condanna « pubblicistica ») come è noto, era stata disciplinata, nelle forme
dell'azione di adempimento, dal testo approvato dalla Commissione istituita
presso il Consiglio di Stato per la redazione del Codice del processo
amministrativo (artt. 40 e 45, co. 1, lett. c), e co. 2, del testo definitivo licenziato
dalla Commissione), ma fu successivamente espunta, in sede di approvazione del
decreto delegato, da parte del Consiglio dei Ministri. Pur mancando nel Codice
una disposizione espressa, tale azione è stata tuttavia ammessa da parte di Cons.
St., ad. plen., n. 3 del 23 marzo 2011 e n. 15 del 29 luglio 2011, nonché, tra le
altre, da Tar Lombardia, Milano, sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428, con note di L.
Torchia,Condanna e adempimento nel nuovo processo amministrativo, in Giorn.
dir. amm., 2011, 1187 ss., e di A. Carbone,Fine delle perplessità sull'azione di
adempimento, in Foro amm.Tar, 2011, 1499 ss.; Tar Lazio, Sez. I, 19 gennaio
2011, n. 472 (poi tuttavia riformata da Cons. St., Sez. IV, n. 3858 del 27 giugno
2011, annotata da D. Vaiano, L'azione di adempimento nel processo
amministrativo: prime incertezze giurisprudenziali, in Giur. it., 2012, 714 ss.);
Tar Puglia, Bari, Sez. III, 25 novembre 2011, n. 1807; Cons. St., Sez. V, n. 6002
del 27 novembre 2012, con un nostro breve commento in Giustamm.it. Tale
indirizzo ha trovato riscontro nel d.lgs. n. 160 del 14 settembre 2012 (c.d.
Secondo Correttivo al Codice del processo amministrativo), il quale ha aggiunto
all'art. 34, lett. c), c.p.a. la seguente proposizione: « L'azione di condanna al
rilascio di un provvedimento richiesto è esercitata, nei limiti di cui all'articolo 31,
comma 3, contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di
diniego o all'azione avverso il silenzio ». In dottrina si vedano, in particolare, E.
Follieri, Le azioni di annullamento e di adempimento nel codice del processo
amministrativo, in Dir. e proc. amm., 2011, 457 ss.; M. Clarich,Le azioni nel
processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, cit.,
1121 ss.; R. Gisondi, La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo codice del
processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2010; R. Chieppa, Il
codice del processo amministrativo alla ricerca dell'effettività della tutela, in
www.giustizia-amministrativa.it, 2010; Id.,Azione di condanna, in V. Lopilato, A.
Quaranta (a cura di) Il processo amministrativo, cit., 276 ss.; F. Patroni Griffi,
Riflessioni sul sistema delle tutele nel processo amministrativo riformato, in
www.giustizia-amministrativa.it, 2010; P. Zerman, L'effettività della tutela nel
Codice del processo amministrativo, ivi; L. Torchia, Le nuove pronunce nel Codice
del processo amministrativo, ivi; M.A. Sandulli,Anche il processo amministrativo
ha finalmente un codice, in Foro amm.Tar, 2010, LXV ss.; M. Ramajoli,Le
tipologie delle sentenze del giudice amministrativo, in R. Caranta (a cura di), Il
nuovo processo amministrativo, Torino, 2011, 573 ss.; S. Raimondi, Le azioni, le
domande proponibili e le relative pronunzie, in questa Rivista, 2011, 913 ss.; S.
Varone,Azioni di cognizione, in M. Sanino (a cura di), Codice del processo
amministrativo, cit., 151; V. Cerulli Irelli,Giurisdizione amministrativa e pluralità
delle azioni, in questa Rivista, 2012, 481 ss.; F. Luciani,Processo amministrativo e
disciplina delle azioni: nuove opportunità, vecchi problemi e qualche lacuna nella
tutela dell'interesse legittimo, ivi, 511 ss.; I. Pagni,L'azione di adempimento nel
processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 2012, 328 ss.; A. Giusti,Il contenuto
conformativo della sentenza del giudice amministrativo, cit., 185 ss.; nonché A.
Carbone,L'azione di adempimento nel processo amministrativo, Torino, 2012. In
senso contrario all'ammissibilità di un'azione di condanna, nell'assetto
processuale precedente al Secondo correttivo, si veda A. Travi,La tipologia delle
azioni nel nuovo processo amministrativo, in La gestione del nuovo processo
amministrativo: adeguamenti organizzativi e riforme strutturali. Atti del LVI
Convegno di studi amministrativi di Varenna del 23-25 settembre 2010, Milano,
2010, 75 ss. Dopo il correttivo, i dubbi permangono per quella parte della dottrina
secondo cui l'interesse legittimo non sarebbe situazione giuridica idonea, per il
suo contenuto sostanziale, ad essere tutelata tramite un'azione di condanna
all'emanazione del provvedimento, senza che per questo risulti violato il principio
di effettività della tutela, che proprio al contenuto della situazione giuridica deve
essere rapportato: così R. Villata,Dodici anni dopo: il Codice del processo
amministrativo, cit., 41 ss., spec. 53 ss. e 63 ss. Sulla base del medesimo
percorso argomentativo secondo cui il principio di effettività non può essere
utilizzato come canone generico, ma deve essere connesso al bisogno di tutela
che la situazione giuridica fatta valere in giudizio può esprimere, si è tuttavia
pervenuti a opposte conclusioni in L'azione di adempimento nel processo
amministrativo, cit., peraltro ampiamente e generosamente richiamato dallo
stesso R. Villata,op. loc. ult. cit. In generale, per una discussione sull'argomento,
si vedano pure i commenti di M. Clarich; C.E. Gallo; E. Follieri; F. Merusi; G.
Verde; A. Romano Tassone; S. Menchini; B. Sassani; L. Ferrara, A. Di Marco, in
Guida dir. Dossier, 9/2011, 82 ss.
(34) Come si era già rilevato in A. Carbone,L'azione di adempimento nel processo
amministrativo, cit., 197 ss., e come, del resto, affermato anche da E.
Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato, cit., 442; F.
Luciani,Processo amministrativo e disciplina delle azioni, cit., 522-524; L.
Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di annullamento amputata dell'effetto
eliminatorio?, cit., 1134 ss.; M. Fornaciari,Ultimissime dal Consiglio di Stato:
l'annullamento ... che non annulla!, cit., 1666 ss. M. Macchia,L'efficacia temporale
delle sentenze del giudice amministrativo, cit, 1315, invece, risolve la questione
facendo riferimento ad un'azione di accertamento che, espunta dalla versione
definitiva del Codice, sopravvivrebbe (prendendo a prestito l'espressione da M.
Clarich,op. cit.) « sotto traccia »; ma si vedano sul punto le critiche di L.
Bertonazzi,op. ult. cit., 1136, n. 14.
(35) Volendo usare l'enfatica ed efficace espressione di M. Fornaciari,Ultimissime
dal Consiglio di Stato: l'annullamento ... che non annulla!, cit., 1667, può dirsi
che la sentenza n. 2755/2011 « condanna la p.a. senza condannarla, tramite un
annullamento che non annulla ».
(36) Come proposto da E. Follieri,L'ingegneria processuale del Consiglio di Stato,
cit., 442.
(37) Secondo quanto affermato da L. Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di
annullamento amputata dell'effetto eliminatorio?, cit., 1140, n. 22.
(38) Così L. Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di annullamento amputata
dell'effetto eliminatorio?, cit., 1135 ss.
(39) Nella tesi prospettata da L. Bertonazzi, infatti, la carenza di interesse
all'annullamento sopravverrebbe una volta esaminata nel merito ed accolta la
relativa azione, non per cause ulteriori, ma proprio quale effetto dell'accoglimento
della domanda giudiziale: il che equivale a dire, se non si è in errore, che la
carenza di interesse è originaria; ma, se così è, dovrebbe cadere anche l'azione di
condanna, che in quella di annullamento trova il presupposto per il suo
esperimento. Né vale, in senso contrario, il richiamo all'art. 34, co. 3, c.p.a. sulla
conversione dell'azione di annullamento in azione di accertamento laddove
sussista l'interesse ai fini risarcitori (op. ult. cit., 1137-1139), atteso che
quest'ultima disposizione fa riferimento ai casi in cui l'interesse alla caducazione
dell'atto venga effettivamente meno nel corso del giudizio.
(40) Invero, potrebbe seriamente dubitarsi che quanto detto valga anche per
l'azione avverso il silenzio, poiché essa si configura già, di per sé, come azione di
adempimento, sì che la necessità di proporre insieme ricorso avverso il silenzio e
azione di condanna, secondo quanto prescritto dall'art. 34, lett. c), sembra solo
un'inutile duplicazione (foriera di dubbi, peraltro, in relazione al rito applicabile).
Tuttavia, proprio in ragione della lettera della norma appena richiamata, le
conclusioni riportate nel testo appaiono obbligate.
(41) Si veda in proposito Tar Lazio, sez. II bis, n. 6564 del 18 luglio 2012,
nonché, in generale, Cons. St., ad. plen., n. 15/2011, cit., e, precedentemente,
Cons. St., Sez. V, n. 717 del 9 febbraio 2009.
(42) Così almeno sembrano doversi leggere i passaggi della pronuncia in cui si
afferma che « non merita accoglimento neanche il secondo motivo d'appello con
il quale si deduce l'inammissibilità dell'azione pubblicistica di adempimento
mettendo in evidenza la mancata formulazione, da parte dei ricorrenti in prime
cure, di una richiesta indirizzata alla Regione Lazio per l'adozione dell'atto di
indizione delle elezioni e il mancato perfezionamento di un rifiuto ad opera del
Presidente della Regione. La Sezione osserva che il ricorso di prime cure
conteneva un'azione dichiarativa dell'illegittimità dell'inerzia dell'Amministrazione
intimata rispetto al comportamento ad essa imposto dalla vigente normativa, con
la connessa domanda di condanna ad un facere doveroso. (...) L'ammissibilità
dell'invocata tutela schiettamente dichiarativa trova conferma nel condivisibile
insegnamento dell'Adunanza Plenaria di questo Consiglio (cfr. decisioni 23 marzo
2011, n. 3 e 29 luglio 2011, n. 15). Secondo tale orientamento interpretativo
l'assenza di una previsione legislativa espressa non osta all'esperibilità di
un'azione di mero accertamento quante volte detta tecnica di tutela sia l'unica
idonea a garantire una protezione adeguata ed immediata dell'interesse legittimo
(...). Va soggiunto che non osta alla praticabilità del rimedio in esame la dedotta
assenza di una richiesta, da parte dei ricorrenti originari, di indizione delle elezioni
e la formazione del correlativo silenzio amministrativo secondo la procedura di cui
al combinato disposto dell'articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e degli
artt. 31 e 117 del codice del processo amministrativo, in quanto viene nella
specie in rilievo l'omessa adozione di un atto nei tempi imposti dalla legge, ex se
idonea a ledere l'interesse dei ricorrenti e a legittimare alla proposizione del
generale rimedio volto ad ottenere una pronuncia che imponga
all'amministrazione l'esercizio doveroso del potere ».
(43) Ciò, ben inteso, nei casi in cui la legge disponga un termine per l'emanazione
dell'atto, ché, in mancanza, non si vede altra possibilità se non richiedere
all'Amministrazione di provvedere, di modo da far maturare, laddove l'istanza
rimanga senza risposta, il silenzio-inadempimento.
(44) Seguendo il suggerimento di L. Bertonazzi,op. ult. cit., 1138.
(45) Il riferimento è alla penetrante espressione utilizzata da M. Clarich,Azione di
annullamento, in A. Quaranta, V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo,
cit., 272, in relazione alla necessità di « dover confidare ancora nella
giurisprudenza pretoria del giudice amministrativo già all'indomani di un evento di
portata storica quale la prima codificazione delle regole del processo
amministrativo ».
(46) Ex multis Cons. St., Sez. IV, n. 3765 del 27 giugno 2007; Cons. St., Sez. IV,
n. 8265 del 30 dicembre 2006, entrambe annotate da A. Reggio d'Aci, La IV
Sezione del Consiglio di Stato ribadisce che l'effetto « paralizzante » del ricorso
incidentale non può subire deroghe neanche nel caso in cui vi siano due soli
concorrenti alla gara pubblica. Rimangono, però, non esaminate alcune tematiche
che potrebbero suggerire un ragionevole ripensamento di questo nuovo
orientamento, in questa Rivista, 2008, 215 ss.
(47) Cons. St., Sez. V, n. 2468 dell'8 maggio 2002 (c.d. sentenza Lipari, dal
nome del suo estensore), la quale pur aderendo alla posizione sopra richiamata,
ha incidentalmente osservato che, ove si versi nell'eventualità di una gara con
due soli concorrenti, « potrebbe apparire più congrua una decisione che,
disponendo l'annullamento degli atti contestati, determini il rinnovo delle
operazioni concorsuali ».Già precedentemente, ad ogni modo, Cons. giust. amm.
reg. sic., n. 388 del 22 dicembre 1995 aveva sostenuto che il ricorso incidentale,
avendo carattere accessorio e condizionato, poteva essere preso in esame solo in
caso di accoglimento del ricorso principale: si veda sul punto, l'annotazione critica
di G. Acquarone,In tema di rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale, in
questa Rivista, 1997, 555 ss., il quale riteneva che tale impostazione avrebbe
potuto « porre nuovamente in discussione la natura stessa del processo
amministrativo ».
(48) Tra le altre, Cons. St., Sez. V, n. 5583 del 23 agosto 2004.
(49) Sull'interesse strumentale si veda, tra gli altri, la nota di G.
Tropea,L'interesse strumentale a ricorrere: una categoria al bivio?, in questa
Rivista, 2010, 664 ss., il quale evidenzia peraltro — richiamando a tal fine la voce
di R. Ferrara,Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale
amministrativo), in Dig. disc. pubbl, VIII, Torino, 1993, 468 ss. — come vi sia una
progressiva emersione dell'interesse processuale ad assumere il ruolo di fattore di
legittimazione, a fronte del carattere sempre più tenue delle posizioni sostanziali
legittimanti. In argomento si vedano anche P. Duret,La legittimazione ex lege nel
processo amministrativo Torino, 1996; B. Spampinato,L'interesse a ricorrere nel
processo amministrativo, Milano, 2004; L.R. Perfetti,Diritto di azione ed interesse
ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2004; nonché, in generale, le due
voci di R. Villata,Legittimazione processuale. II) Diritto processuale
amministrativo, in Enc. giur., XVIII, Roma, 1990, e Interesse ad agire. II) Diritto
processuale amministrativo, in Enc. giur., XVII, Roma, 1989.
(50) Cons. St., ad. plen., n. 11 del 10 novembre 2008, con note, tra gli altri, di G.
Tropea,La plenaria prende posizioni sui rapporti fra ricorso principale e ricorso
incidentale (nelle gare con due soli concorrenti), in Foro amm.-CdS, 2008, 3309
ss.; G. Sigismondi,Nota, in Foro it., 2009, III, 1 ss.; A. Squazzoni, Il rebus del
presunto effetto paralizzante del ricorso incidentale nelle gare d'appalto ove
anche il ricorrente principale contesti la mancata esclusione del vincitore, in
questa Rivista, 2009, 151 ss.; G. Pellegrino,Ricorso incidentale e parità delle
parti. La svolta della Plenaria, in Riv. giur. ed., 2008, 1423 ss.
(51) Si veda in particolar modo G. Pellegrino,Ricorso incidentale e parità delle
parti, cit., 1423 ss.
(52) Cons. St., ad. plen., n. 4 del 7 aprile 2011, con note, tra gli altri, di A.
Squazzoni, Ancora sull'asserito effetto paralizzante del solo ricorso incidentale
c.d. escludente nelle controversie in materia di gare. La Plenaria statuisce
nuovamente sul rebus senza risolverlo, in questa Rivista, 2011, 1063 ss.; A
Giannelli, Il revirement della Plenaria in tema di ricorsi paralizzanti nelle gare a
due: le nubi si addensano sulla nozione di interesse strumentale, ivi, 1119 ss.; F.
Follieri, Un ripensamento dell'ordine di esame dei ricorsi principale ed incidentale,
ivi, 1151 ss.; M. Marinelli, Ancora in tema di ricorso incidentale « escludente » e
ordine di esame delle questioni, 1174 ss.; G. Pellegrino,La Plenaria e le
« tentazioni » dell'incidentale, in Giustamm.it, 2011. Cfr. anche R.
Villata,Annotando gli annotatori, in questa Rivista, 2011, 1183 ss.
(53) Tar Piemonte, sez. II, ord. n. 208 del 9 febbraio 2012, con nota di M.
Protto,Ordine di esame del ricorso principale e incidentale in materia di appalti
pubblici: la parola al giudice comunitario, in Urb. app., 2012, 437 ss. Secondo i
giudici piemontesi nel caso in cui residui in capo al ricorrente principale —
nonostante l'accertata fondatezza del ricorso incidentale — l'ulteriore interesse
alla rinnovazione della gara, reso evidente dalla fondatezza dei motivi mediante i
quali si è contestata la legittimità della partecipazione alla procedura selettiva da
parte dell'impresa aggiudicataria, quell'interesse dovrebbe poter trovare ingresso
nella disamina giurisdizionale « pena altrimenti l'attribuzione di una ingiustificata
posizione di vantaggio (sia processuale sia sostanziale) all'impresa che è, sì,
aggiudicataria ma che lo è diventata (così come dimostrato dalla fondatezza del
ricorso principale) in modo non corretto o non legittimo ». Il rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia era già stato richiesto, ma senza successo: Cons. St., sez.
VI, n. 3655 del 15 giugno 2011. In maniera non dissimile anche Tar Lazio, sez. I
ter, n. 197 del 10 gennaio 2012 (con note di G. Pellegrino, Ricorso incidentale: i
nodi tornano al pettine, e di P. Quinto,A.P. n. 4/2011, sentenzaTarLazio n.
197/2012, art. 35 decreto Monti: quali prospettive?, entrambe in Giustamm.it,
2012), la quale, pur non rimettendo la questione alla Corte di Giustizia, si è posta
in sostanziale contrasto (come evidenziato da R. Villata,Ricorso incidentale
escludente ed ordine di esame delle questioni: un dibattito ancora vivo, in Dir.
proc. amm., 2012, 363 ss.) con la posizione dell'Adunanza Plenaria n. 4/2011.
(54) Cass., sez. un., n. 10294 del 21 giugno 2012, con note adesive di G.
Pellegrino,Aggiudicatario iperprotetto. Il monito delle Sezioni Unite
sull'incidentale, e di C. Varrone,L'oggetto del processo amministrativo e suoi
riflessi sul rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale: i motivi del
contrasto tra le SS.UU. della Corte di Cassazione e l'A.P. del Consiglio di Stato,
entrambe in Giustamm.it, 2012, e critica di R. De Nictolis,Ordine di esame del
ricorso principale e incidentale, cit., 1017 ss. La Corte, pur rigettando le censure
sollevate — in ragione del fatto che si contesta, attraverso di esse, la bontà o
meno di una particolare interpretazione e, dunque, viene in rilievo un errore di
diritto, come tale non deducibile in Cassazione avverso una sentenza del giudice
amministrativo ai sensi dell'art. 111 Cost. — precisa però incidentalmente che la
posizione della Plenaria lascia comunque perplessi, in ragione del fatto che
« l'aggiudicazione può dare vita ad una posizione preferenziale soltanto se
acquisita in modo legittimo » e che « la realizzazione dell'opera non rappresenta
in ogni caso l'aspirazione dell'ordinamento ».Da ultimo, la questione è stata
rimessa nuovamente alla Plenaria, in relazione a taluni particolari profili, da Cons.
St., Sez. V, ord. n. 2059 del 15 aprile 2013.
(55) La letteratura sul punto è amplissima. Sia consentito rimandare alle opere
citate in nota (e alla bibliografia ivi richiamata), tra cui soprattutto la
fondamentale monografia di G. Tropea,Il ricorso incidentale nel processo
amministrativo, Napoli, 2007.
(56) Così G. Pellegrino, Effetto paralizzante del ricorso incidentale. Necessità di
un ripensamento, in Giustamm.it, 2006, il quale, riprendendo la tesi di S.
Baccarini,L'impugnazione incidentale del provvedimento amministrativo tra
tradizione e innovazione, in questa Rivista, 1991, 639-640, afferma che il ricorso
incidentale deve essere considerato come un'azione impugnatoria, giacché, se si
accedesse alla qualificazione dello stesso come mera eccezione, dovrebbe poi
ammettersi una disapplicazione dell'atto amministrativo di cui il ricorso
incidentale contesta la legittimità, disapplicazione, come noto, non ammessa dalla
giurisprudenza amministrativa.La natura e la funzione del ricorso incidentale sono
state a lungo dibattute in dottrina. L'impostazione tradizionale, basandosi sul
modello delle impugnazioni incidentali proprie del processo civile (la cui analogia
poteva trovare giustificazione in relazione all'originaria concezione del processo
dinnanzi al Consiglio di Stato quale giudizio cassatorio), riteneva che caratteristica
del ricorso incidentale fosse quella di inserirsi in un rapporto processuale già
istaurato, di essere proposto, cioè, successivamente a quello principale: così E.
Capaccioli,In tema di ricorso incidentale nel processo amministrativo, in Giur.
compl. cass. civ., 1951, II, 1013 ss.; nonché A. Piras, Interesse legittimo e
processo amministrativo, I, Milano, 1962, 204 ss., il quale, a differenza del
Capaccioli, considerava, in quel caso, necessaria la forma incidentale.
Successivamente, tale tesi fu messa in discussione da F. Lubrano,L'impugnazione
incidentale nel giudizio amministrativo, in Rass. dir. pubbl., 1964, 756 ss., a detta
del quale il ricorso incidentale si sarebbe caratterizzato per essere del tutto
accessorio a quello principale; sarebbe stato, quindi, un mezzo di « difesa
attiva », attraverso il quale far valere una questione il cui interesse fosse
determinato dall'eventuale accoglimento del ricorso principale. Si vedano, sul
punto, anche i rilievi di W. Catalozzi,Note sulle impugnazioni incidentali nel
processo dinanzi ai giudici amministrativi ordinari, in Studi per il
centocinquantenario del Consiglio di Stato, III, Roma, 1981, 1759 ss.; Id.,Ricorso
incidentale (diritto amministrativo), in Enc. giur., XXXI, Roma, 1991, 1 ss. Sulla
base di questa impostazione, divenuta nettamente maggioritaria (soprattutto a
seguito della generalizzazione del doppio grado di giurisdizione, che mise
definitivamente in crisi l'assimilazione tra ricorso incidentale e appello
incidentale), si è distinto tra chi ha configurato lo strumento processuale in esame
quale domanda incidentale (tra gli altri, S. Baccarini,L'impugnazione incidentale
del provvedimento amministrativo tra tradizione e innovazione, cit., 633 ss.) e chi
come eccezione in senso proprio (si veda soprattutto G. Vacirca,Appunti per una
disciplina dei ricorsi incidentali nel processo amministrativo, in questa Rivista,
1986, 57 ss.), mentre è rimasta nettamente minoritaria la posizione secondo cui
esso costituirebbe il mezzo per proporre un'eccezione riconvenzionale (un
richiamo in tal senso è fatto da F. La Valle,L'impugnazione incidentale del
provvedimento amministrativo, in Riv. dir. proc., 1968, 555; ma si veda ora
anche il suggerimento di R. Villata,Riflessioni in tema di ricorso incidentale nel
giudizio amministrativo di primo grado, in questa Rivista, 2009, 303). Per una più
ampia ricostruzione, si rimanda a G. Tropea,Il ricorso incidentale nel processo
amministrativo, cit., spec. 61 ss. e 251 ss.; nonché a R. Villata,Riflessioni in tema
di ricorso incidentale, cit., 285 ss.; F. Gaffuri, Il ricorso incidentale nel giudizio
amministrativo di primo grado: alcune note sulla sua natura e sul rapporto con il
ricorso principale, in questa Rivista, 2009, 1047 ss. Sui concetti di eccezione e di
domanda riconvenzionale nel processo amministrativo si vedano le monografie di
M. Di Renzo,L'eccezione nel processo amministrativo, Napoli, 1968, e di A. Di
Giovanni,La domanda riconvenzionale nel processo amministrativo, Padova, 2004.
(57) G. Pellegrino,op. ult. cit., secondo cui non appare condivisibile « l'assunto
che il ricorso incidentale avrebbe in sé priorità, nella sua idoneità a privare il
ricorrente principale di un presupposto legittimante l'azione. E ciò in quanto anche
il ricorrente principale impugna l'atto di ammissione del ricorrente incidentale, con
azione specularmene idonea a privarlo della sua analoga legittimazione. Inoltre le
diverse posizioni nel giudizio dipendono direttamente dall'atto amministrativo che
ha chiuso il procedimento (aggiudicazione), che a sua volta (come è nella
maggior parte dei casi) può risultare censurato dal ricorrente principale, anche
per vizi propri ».
(58) Per il caso di più imprese partecipanti G. Pellegrino,op. ult. cit., conclude per
la sopravvenuta improcedibilità di entrambe le contrapposte domande.
(59) G. Pellegrino,op. ult. cit.
(60) Ci si riferisce a R. Villata,Riflessioni in tema di ricorso incidentale, cit., 285
ss., ma già prima Id.,In tema di ricorso incidentale e di procedure di gara cui
partecipano due soli concorrenti, in questa Rivista, 2008, 931 ss.; Id.,L'Adunanza
Plenaria interviene sui rapporti tra ricorso principale e ricorso incidentale, ivi,
1186 ss.
(61) Così R. Villata,Riflessioni in tema di ricorso incidentale, cit., 303-304.
(62) R. Villata,op. ult. cit., 317. Si vedano, inoltre, gli importanti rilievi di M.
Marinelli,Ricorso incidentale e ordine di esame delle questioni, in questa Rivista,
2009, 619 ss.; Id.,Ancora in tema di ricorso incidentale « escludente » e ordine
di esame delle questioni, cit., 1176 ss.
(63) Sulla differenza tra accessorietà e condizionamento e per un paragone con il
ricorso incidentale condizionato in Cassazione, si veda G. Tropea,Il ricorso
incidentale nel processo amministrativo, cit., 190 ss. e 651 ss.; nonché M.
Marinelli,Ricorso incidentale e ordine di esame delle questioni, cit., 617 ss.; R.
Villata,op. ult. cit., 318 ss.
(64) Così G. Pellegrino,op. ult. cit., nel passo riportato supra in nota. In
proposito, si vedano anche A. Squazzoni, Ancora sull'asserito effetto paralizzante
del solo ricorso incidentale c.d. escludente nelle controversie in materia di gare,
cit., 1092 ss.; F. Follieri, Un ripensamento dell'ordine di esame dei ricorsi
principale ed incidentale, cit., spec. 1157-1161 i quali, rilevando come pure il
ricorrente incidentale debba essere legittimato a ricorrere, sostengono che,
laddove anche il ricorrente principali denunci l'illegittima ammissione alla gara
dell'aggiudicatario, entrambi i ricorsi (principale e incidentale) sarebbero volti a
contestare la legittimazione, cosicché nessuno dei due avrebbe la priorità logica
sull'altro. Dubbi in tal senso si registrano anche da parte di F.G. Scoca,Onere di
decisione, ricorso principale e ricorso incidentale, in Corr. giur., 2012, 114.
(65) Così R. Villata,Annotando gli annotatori, cit., 1186 ss.; nonché Id.,Ricorso
incidentale escludente ed ordine di esame delle questioni, cit., 366.
(66) In questi termini A. Romano Tassone,Il ricorso incidentale e gli strumenti di
difesa nel processo amministrativo, cit., 587, il quale afferma che se
l'omologazione del ricorso incidentale e di quello principale risulta logicamente
possibile, « essa offre tuttavia una rappresentazione distorta (ed una
sistemazione inadeguata) del ricorso incidentale ».
(67) Non sembra dunque accoglibile la diversa prospettazione di G. Pellegrino,
Effetto paralizzante del ricorso incidentale, cit.; nonché, di A. Squazzoni, Ancora
sull'asserito effetto paralizzante del solo ricorso incidentale c.d. escludente nelle
controversie in materia di gare, cit., 1075; e di E.M. Barbieri,Ricorsi
reciprocamente « escludenti » ed ordine di esame delle questioni proposte, in
questa Rivista, 2012, 751, sulla assoluta identità sostanziale dei due ricorrenti.
Sul punto si veda, per tutti, W. Catalozzi,Ricorso incidentale (diritto
amministrativo), cit., 3, che distingue tra la situazione del ricorrente principale, il
quale certat de lucro captando, e quella del l'aggiudicatario ricorrente incidentale,
il quale invece certat de damno vitando.
(68) Giusto il rilievo di A. Giannelli,Il revirement della Plenaria in tema di ricorsi
paralizzanti nelle gare a due, cit., 1150, secondo cui « la puntualizzazione
sull'imprescindibilità del rigoroso accertamento dei requisiti dell'azione non
risponde di certo ad un approccio conservatore e formalistico, ma, al contrario,
funge da estremo baluardo avverso i riflussi oggettivizzanti che ciclicamente
interessano il processo amministrativo, mettendone a rischio, in modo
subliminare e apparentemente impalpabile, l'autentica natura giurisdizionale. Il
revirement compiuto dal Supremo Consesso deve pertanto essere considerato
come il frutto maturo di un percorso di autoconsapevolezza, mediante il quale il
giudice amministrativo, spogliandosi delle incrostazioni del recente passato,
finalmente individua nell'erogazione della tutela la sua esclusiva e totalizzante
vocazione ».
(69) Cfr. quanto già detto supra.
(70) Al riguardo, può richiamarsi il punto 28 della decisione dell'Adunanza
Plenaria n. 4/2011, ove si legge che « la piena attuazione dei canoni essenziali di
parità delle parti e di imparzialità del giudice non contraddice affatto l'esigenza
logica di definire il corretto ordine di esame delle questioni. L'affermazione o la
negazione delle richieste di tutela formulate dalla parte attrice, infatti, deve
conseguire, all'esito del completo confronto processuale delle parti, al puntuale
riscontro della esistenza dei prescritti requisiti della domanda. L'alterazione della
corretta sequenza dei punti sottoposti allo scrutinio del giudice rappresenterebbe,
all'evidenza, proprio la contraddizione del principio di parità delle parti,
snaturando la regola della equidistanza rispetto alle posizioni espresse dai
litiganti ».
(71) Si vedano in proposito i rilievi, a cui si aderisce, di R. Dipace,L'annullamento
tra tradizione e innovazione, cit., 1371, secondo cui « concepire la disponibilità
degli effetti dell'annullamento come giustificata da una valutazione di opportunità
operata dal giudice amministrativo e ancorata alla tutela dell'interesse pubblico
appare, quindi, del tutto dissonante rispetto ai principi ormai acquisiti e
consolidati nell'ambito della giurisdizione amministrativa ».
(72) Ci sembra, in tal modo, di raggiungere risultati non dissimili da quelli di F.G.
Scoca, Risarcimento del danno e comportamento del danneggiato da
provvedimento amministrativo, cit., 989; e di R. Dipace,L'annullamento tra
tradizione e innovazione, cit., 1388, i quali ritengono che l'esatta soluzione
potrebbe essere individuata nel riconoscere al g.a., in tali casi, il potere
disapplicazione di provvedimenti generali (a tal proposito, Dipace fa espresso
riferimento alla posizione sostenuta da Cons. St., ad. plen., n. 9 del 4 maggio
2012 sulla disapplicazione delle clausole escludenti di un bando di gara;
posizione, tuttavia, che ha destato molte perplessità: si vedano in tal senso le
obiezioni di R. Villata,Ancora ‘spigolature' sul nuovo processo amministrativo?,
cit., 1517; nonché dello stesso R. Dipace,op. ult. cit., 106 ss., i quali sottolineano
come l'Adunanza Plenaria, per sostenere la sua tesi, ha implicitamente ritenuto
che il bando di gara avesse natura regolamentare, il che è invece affatto da
escludersi), senza peraltro incorrere nella critica che a tali posizioni muove L.
Bertonazzi,Sentenza che accoglie l'azione di annullamento amputata dell'effetto
eliminatorio?, cit., 1134, n. 9, a detta del quale la tesi della disapplicazione non
potrebbe essere accolta in ragione del fatto che l'atto generale, nel caso di specie,
formava l'esclusivo oggetto di impugnazione: se all'impugnazione si accompagna
una domanda di condanna, infatti, l'accertamento incidentale dell'invalidità
dell'atto ben potrebbe essere ad essa funzionale.
(73) Il riferimento è, ancora, al titolo della nota di E. Follieri, cit.
AZIONE DI ADEMPIMENTO E DISCREZIONALITÀ TECNICA (ALLA LUCE
DEL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO) (*)
Dir. proc. amm., fasc.2, 2013, pag. 385
PAOLO CARPENTIERI
Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - Obbligo della pubblica
amministrazione di conformarsi al giudicato amministrativo o ordinario (GIUDIZIO
DI OTTEMPERANZA) - - adempimento spontaneo della pubblica amministrazione
Sommario: 1. Azione di adempimento tra tipicità e atipicità delle azioni nel codice
del processo amministrativo. — 2. Rescindente e rescissorio. — 3. L'atto
vincolato. — 4. Il problema del sindacato sulla discrezionalità tecnica. — 5. Da un
punto di vista logico. — 6. Pronuncia di adempimento e non annullabilità dell'atto
ex art. 21-octies della legge n. 241 del 1990: due facce della stessa medaglia. —
7. Giudice amministratore e separazione dei poteri; effettività, satisfattività, o
eccesso di giurisdizione?
1. Il tema dell'azione di adempimento nel processo amministrativo riguarda
essenzialmente l'ammissibilità di un'azione di cognizione (1), nell'ambito della
giurisdizione di legittimità (2), diretta alla condanna dell'amministrazione ad un
facere specifico consistente nell'adozione di un atto satisfattivo della pretesa
sostanziale fatta valere (3).
Il codice del processo amministrativo — entrato in vigore il 16 settembre 2010 e
(sia pur in minima parte) modificato dal primo decreto correttivo n. 195 del 2011
— reca poche disposizioni riferibili al tema dell'azione di adempimento, distribuite
tra gli articoli 30, 31, 34 e 117. L'impressione è che il legislatore del codice non
abbia inteso prendere una posizione definitiva ed esplicita sull'ammissibilità
dell'azione di adempimento nel giudizio di cognizione e abbia lasciato tracce
sparse, frammenti di norma non sistemati in un disegno coerente e unitario, ma
rimessi al lavorio della giurisprudenza e alle proposte della dottrina. In tal senso il
legislatore delegato del 2010 ha fatto un uso accorto della delega prevista nella
legge n. 69 del 2009, il cui art. 44, comma 2, lettera b), numero 4) prevedeva la
disciplina delle azioni e delle funzioni del giudice “[4) prevedendo le pronunce
dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte
vittoriosa”]. Resta il fatto che il testo finale del codice approvato dal Governo non
reca più l'elenco delle azioni, pure proposto dalla Commissione redigente istituita
presso il Consiglio di Stato. La discussione è aperta (4). Parte della dottrina
ritiene che i suddetti “frammenti sparsi” di norme, che sembrano postulare
l'azione di adempimento, possano essere “illuminati” dall'efficacia diretta degli
artt. 24 e 111 Cost., espressivi dei principi di effettività e satisfattività. Altra parte
della dottrina ritiene comunque necessaria, invece, l'interpositio legislatoris, si
dichiara scettica sull'idea dell'atipicità delle azioni (5) e sulla possibilità di una
forgia solo pretoria del tipo di tutela erogabile (non senza osservare che l'art. 111
Cost. è di regola declinato in diritto processuale in termini di rito — forme e
termini del processo — piuttosto che di tutela sostanziale, ossia di azioni
ammissibili, tema, quest'ultimo, che in diritto civile attiene per l'appunto al diritto
sostanziale, più che a quello processuale in senso stretto) (6).
La semplice lettura delle disposizioni sopra richiamate rende subito evidente il
legame di stretta continuità del codice con la tradizionale tematica della tutela in
caso di silenzio della p.a. e l'ancoraggio al concetto di “attività vincolata”, che
costituisce a un tempo l'area elettiva e il limite per una possibile manifestazione
del fenomeno dell'azione di adempimento. Sembra che il legislatore delegato non
abbia voluto decampare dal sentiero già ben tracciato della giurisprudenza
tradizionale formatasi in tema di azione avverso il silenzio a seguito delle
modifiche normative introdotte dal decreto legge n. 35 del 2005 (7). Già nel
2005 si era ravvivata la questione se il nuovo meccanismo processuale avesse
introdotto una vera e propria azione di condanna o di adempimento alla stregua
della Verpliflichtungsklage di cui al par. 42, comma 2), della legge sul processo
amministrativo tedesca (VWGO del 21 gennaio 1960) (8).
Ciò premesso, se l'attività vincolata dell'amministrazione delimita il campo di
applicazione dell'azione di adempimento, allora assume un rilievo strategico il
tema della definizione di questa nozione (di attività interamente vincolata della
p.a.). Ed è proprio intorno alla possibilità che il giudice si sostituisca (sin dalla
fase di cognizione) all'amministrazione, ordinandole di adottare un determinato
atto, che si avvolge il nodo problematico più importante e interessante in tema di
azione di adempimento nel diritto processuale amministrativo.
L'ampliamento degli strumenti di tutela nel nuovo processo amministrativo e la
(ri)affermazione dei principi di effettività e satisfattività della tutela, ormai piena
(comprensiva del risarcimento del danno) ed estesa alla cognizione del rapporto,
oltre l'atto, con ricchezza di mezzi istruttori, pongono il tema dell'impatto sulla
“riserva” di amministrazione e il problema del non eccesso di giurisdizione, ossia
del rispetto del limite esterno e del principio di divisione dei poteri (9). La
questione dei rapporti tra giurisdizione e amministrazione, oggi “tornata di viva
attualità”, anche nei suoi riflessi sui “rapporti fra processo soggettivo e di parti e
processo oggettivo” (10), nella direzione di un modello di “integrazione”
piuttosto che di separazione, nel suo aspetto specifico relativo alla sindacabilità
della discrezionalità tecnica, deve comunque confrontarsi con il tema della
legittimazione del potere (11). Soprattutto da questo angolo di visuale, la
separazione dei poteri (giurisdizionale e amministrativo), lungi dal potersi dire
risolta o superata (sotto la spinta delle assiomaticamente ritenute prevalenti
ragioni dell'ampliamento e della pienezza della tutela), rivela in realtà tutta la sua
perdurante attualità e importanza. Il principio di separazione resiste all'urto
espansivo del controllo giurisdizionale (sempre più penetrante) poiché restano
valide e attuali tutte e tre le ragioni giustificative che lo sorreggono: distribuzione
equilibrata del potere sovrano e bilanciamento dei poteri, specializzazione tecnica
e legittimazione politico-democratica (12). Sotto i primi due profili appare chiaro
che un frettoloso sacrificio del principio di separazione sull'altare della “effettivitàsatisfattività” della tutela giurisdizionale dell'individuo, in una giurisdizione che ha
ad oggetto la funzione pubblica, spingerebbe inevitabilmente verso esiti
indesiderati di giurisdizione di tipo oggettivo, in cui il giudice si fa amministratore
e assume il governo ultimo della cosa pubblica; sotto il terzo, connesso, profilo,
resta ed emerge in tutta la sua ineludibilità il problema che una siffatta
amministrazione giudiziaria della cosa pubblica si collocherebbe al di fuori di
qualsiasi canale di legittimazione/controllabilità politico-democratica. E questo
trend verso il giudice-amministratore, che esonda dall'ambito della garanzia della
posizione soggettiva lesa del cittadino per espandersi nella direzione di una
“riamministrazione” (in secondo grado) di tutto ciò che sia oggetto di lite, si pone
paradossalmente in contraddizione con la stessa genesi e causa prima, tutta
processualcivilsitica, che ha innescato questo processo e lo ha spinto verso questi
risultati assolutizzanti: dall'assolutizzazione della tutela del cittadino che ricorre
all'assolutizzazione (involontaria) della giurisdizione, che finirebbe per soverchiare
il principio dispositivo e per operare come sostituzione (e non più solo correzione
in funzione di garanzia di legalità) dell'amministrazione.
Riassumendo, un primo profilo problematico riguarda, dunque, il mutamento in
atto nei rapporti tra cognizione ed esecuzione, nel quadro del potenziamento dei
poteri cognitori del giudice. Il secondo profilo che merita discussione attiene poi al
tema dell'atto vincolato e dei limiti del sindacato giurisdizionale sulla scelta
tecnico-discrezionale.
La difficoltà del primo argomento si lega alla mancata considerazione della
speciale natura dell'oggetto della cognizione giurisdizionale amministrativa, che
non è un rapporto paritetico tra privati, ma è la razionalità del regolamento
dell'affare amministrativo dato dal provvedimento (nell'interesse generale).
La difficoltà del secondo argomento deriva, da un lato, dalla discussione (recente
e piuttosto confusa) sulla reinterpretazione del provvedimento in un linguaggio
civilistico (sollecitata dal nuovo comma 1-bis dell'art. 1 della legge n. 241) e dalla
spinta della semplificazione (d.i.a., s.c.i.a., silenzio-assenso), dall'altro lato dalla
perdurante confusione sulla nozione stessa di “discrezionalità tecnica”, da taluni
declinata restrittivamente, in contrapposizione dialettica alla discrezionalità
amministrativa, e dunque essenzialmente come ambito di attività amministrativa
(anch'essa) interamente vincolata, lì dove altri, invece, la articolano in termini
molto più ampi, sulla falsariga del modello concettuale tedesco della fattispecie
indeterminata descritta dal legislatore mediante l'uso di concetti giuridici
indeterminati, che fondano, in realtà, un ampio potere di scelta in capo
all'amministrazione, di integrazione del precetto incompleto della legge e di
determinazione di ciò che è legge e di ciò che è interesse pubblico nel caso
concreto trattato. E poiché la discrezionalità tecnica pervade ampi campi dell'agire
amministrativo (poiché moltissime leggi disciplinano poteri amministrativi
attribuendo poteri tecnico-discrezionali) (13), la scelta di campo sulla nozione di
discrezionalità tecnica è decisiva ai fini della delimitazione del raggio di azione
dell'azione di adempimento. La domanda implica la nota questione sul tipo di
sindacato — forte (sostitutivo) o debole (indiretto) — praticabile su questo genere
di provvedimenti. E si connette alla questione — parallela — dell'ammissibilità
della consulenza tecnica d'ufficio volta a sostituire il giudizio dell'amministrazione
con quello del consulente del giudice (problema in qualche modo “riaperto” dalla
locuzione usata dall'art. 63, comma 4, c.p.a., ove si parla, a proposito della
verificazione e della consulenza tecnica d'ufficio, non solo di “accertamento di
fatti”, ma anche di “acquisizione di valutazioni”). Questioni tutte, queste, che
mettono in gioco la scelta di fondo, la visione stessa della giurisdizione
amministrativa, nell'alternativa tra un modello correttivo della funzione pubblica (14) e un modello processualcivilistico attributivo di spettanza, interamente
sostitutivo della funzione pubblica.
2. Il primo profilo problematico riguarda la (con)fusione tra cognizione ed
esecuzione, come (asserita) evoluzione del tema del vincolo conformativo al
riesercizio della funzione imposto all'attività amministrativa dalla sentenza di
annulla mento (15). Lo schema logico-giuridico tradizionalmente proprio della
sequenza “annullamento - riesercizio conforme”, infatti, costituisce, per certi
versi, una sorta di azione di adempimento in negativo o in implicito, già insita
nello schema duale rescindente-rescissorio tipico dell'azione di annullamento.
Discutere dell'ammissibilità e dello spazio applicativo di un'autonoma azione
amministrativa di adempimento vuol dire, invece, evidentemente, voler andare
oltre questo schema tradizionale e immaginare una condanna al rilascio del
provvedimento (in positivo e in esplicito e in un'unica fase di giudizio). In realtà la
teoria bifasica del giudicato a formazione progressiva aveva fornito un assetto
armonico ed elegante alla tutela, nella valorizzazione della distinzione delle fasi
rescindente del giudizio di cognizione (annullatorio) e rescissoria (del riesercizio
della funzione amministrativa o dell'esecuzione del giudicato), una teoria di
grande qualità epistemica e rispettosa della separazione dei poteri, che andrebbe,
forse, rivalutata (16).
Riguardo al tema dell'effetto conformativo della sentenza di annullamento è bene
precisare che il vincolo al riesercizio non va confuso con il vincolo
(originariamente) proprio, già nella norma d'azione, dell'attività amministrativa
“vincolata”, che viene in rilievo e che è utile oggetto di azione di adempimento. È
d'altra parte evidente che i temi sono connessi, poiché la via più diretta e radicale
per ammettere in via generale l'azione di adempimento nel processo
amministrativo è forse quella che punta ad esaurire nel giudizio di cognizione (sul
rapporto) l'intera discrezionalità amministrativa residua, così da svuotare di
contenuto ed evitare del tutto la fase del riesercizio della funzione (17).
A questa tesi — secondo cui tutta la tutela deve essere concentrata nella sola fase
della cognizione, che deve sempre esaurire tutta la discrezionalità residua
dell'amministrazione e deve perciò condurre alla condanna a un adempimento
interamente vincolato pienamente satisfattivo della pretesa sostanziale dedotta,
senza che sia più possibile alcuna fase rescissoria di riesercizio conforme della
funzione (seguita dall'eventuale giudizio di ottemperanza) — devono muoversi le
seguenti obiezioni fondamentali: a) essa trasforma l'intera giurisdizione
amministrativa in una giurisdizione estesa al merito (ciò che non sembra ancora
autorizzato dal codice); b) con l'obiettivo di assolutizzare la tutela soggettiva della
parte che ricorre (in una visione tutta processualcivilistica del giudizio), essa
finisce involontariamente per assolutizzare la giurisdizione, che diviene di tipo
oggettivo e fagocita la funzione amministrativa per sostituirla integralmente (e
per trasformare il giudice amministrativo in giudice amministratore); c) rende la
funzione amministrativa un dato occasionale ed eventuale, nel senso che, a
discrezione del singolo destinatario di un atto amministrativo, l'affare può essere
devoluto, in tutti i suoi contenuti, integralmente al giudice, come sostituto
dell'amministrazione (con il conseguente rischio di soluzioni eterogenee, “a
macchia di leopardo”, a seconda dei casi e per l'incerta e occasionale circostanza
che sia stato o meno proposto ricorso (18));d) tradisce il senso proprio e
profondo della giurisdizione amministrativa, che è garanzia di legalità in chiave
correttiva della funzione pubblica, non amministrazione di secondo grado, di tipo
sostitutivo; e) costringe, infine, il giudice amministrativo a sostituirsi
all'amministrazione in carenza assoluta di strutture tecniche idonee a far fronte a
un simile compito (i consulenti tecnici, non disciplinati dal codice né per i loro
requisiti minimi di professionalità, né nelle modalità di selezione e di scelta e
neppure sotto il profilo della loro remunerazione, non possono certo essere
ritenuti una risposta seria a tale carenza di strutture tecniche, indispensabili se si
ritiene che il giudice debba sostituirsi normalmente e sistematicamente
all'amministrazione) (19).
Più ragionevole e meno problematica pare la diversa linea argomentativa che
valorizza soprattutto il profilo del progressivo esaurimento della discrezionalità
residua dell'amministrazione (anche attraverso il dialogo infraprocessuale della
fase interinale, mediante pronunce cautelari propulsive e di riesame), piuttosto
che la tesi radicalmente sostitutoria (del giudice della cognizione
all'amministrazione) (20). Questa impostazione, dunque, valorizza al massimo
grado l'effetto conformativo tradizionale, nel senso di chiarire che sussiste una
preclusione logica e cronologica per l'amministrazione che, seconda buona fede
oggettiva e correttezza nei rapporti sociali e giuridici, non può “riservarsi” nuovi e
ulteriori motivi ostativi di diniego e utilizzarli “a rate”, nei diversi e successivi
episodi provvedimentali che possono seguire precedenti contenziosi, ma ha un
preciso obbligo giuridico di esaurire, almeno nella sede del primo riesercizio della
funzione, seguente un primo annullamento, tutte le ragioni sfavorevoli e le
obiezioni possibili, in modo da evitare il protrarsi della lite per un tempo
indeterminato.
Questo approccio, pur suggestivo, incontra anch'esso un limite, costituito dal
generale potere di autotutela e dalla continuità e indefettibilità della funzione,
obbediente al principio di legalità: nel caso in cui un soggetto domanda un titolo
abilitativo o autorizzativo a svolgere una determinata attività, ma è privo di
requisito idoneativo, non potrà comunque escludersi il rilievo successivo, da parte
dell'amministrazione, di tale carenza impeditiva, né potrà ammettersi, in un caso
del genere, una preclusione di tipo quasi processuale che inibisca
all'amministrazione la doverosa cura dell'interesse generale di assicurare che
quella determinata attività sia svolta solo da chi è effettivamente in possesso dei
titoli richiesti dalla legge (altrimenti si correrebbe il rischio di una
strumentalizzazione della stessa lite giurisdizionale allo scopo illecito di
precostituire titoli inappropriati per l'esercizio di attività riservate).
3. Venendo alla seconda area tematica rilevante ai fini della presente
trattazione, riguardante la nozione di atto vincolato, due sembrano essere i profili
di maggiore interesse: la linea argomentativa diretta a reinterpretare il
provvedimento in chiave di adempimento (vincolato) o a risolverlo in formule
accertatrici e dichiarative imposte dalla semplificazione (silenzio-assenso, d.i.a.,
s.c.i.a., etc.); la linea argomentativa diretta a ridurre la discrezionalità tecnica ad
attività ricognitiva dei presupposti di fatto (che sarà trattata nel paragrafo
successivo). Vedremo come, in realtà, né l'una, né l'altra impostazione paiano
consentire un ampliamento del campo applicativo dell'azione di adempimento
(conducendo, anzi, al risultato contrario).
Muovendo dalla prima linea argomentativa (adempimento vincolato e formule di
accertamento/dichiarative legate alla semplificazione, silenzio-assenso, d.i.a.,
s.c.i.a., etc.), essa non sembra portare acqua utile al mulino dell'azione di
adempimento perché, per un verso, nei casi di d.i.a., s.c.i.a., autocertificazione,
etc. l'autorità compare solo in via successiva ed eventuale e l'azione di
adempimento potrebbe tutt'al più essere invocata (non già da chi chiede, facendo
valere un interesse pretensivo, bensì solo) da chi si oppone (facendo valere un
controinteresse sostanzialmente oppositivo); per altro verso nella fase anteriore
liberalizzata di start up non sussiste alcun interesse a proporre l'azione di
adempimento (preclusa, inoltre, dal divieto di pronuncia con riferimento a poteri
amministrativi non ancora esercitati — art. 34, comma 2, c.p.a.). A fronte di
queste nuove figure semplificatrici e acceleratorie verrebbe al più in maggiore
rilievo, piuttosto, l'azione di accertamento (ancorché nella sua connotazione
prossima a un'azione di condanna, dove l'accertamento non è puramente
dichiarativo, ma costitutivo dell'obbligo di provvedere in conformità delle
statuizioni operate dal giudice, come evidenziato dalla pronuncia della plenaria n.
15 del 2011). L'azione di adempimento è poi naturalmente incompatibile con il
silenzio-assenso.
Esiste, poi, una linea di pensiero più radicale, che tende, su di un piano più
generale, a tradurre il provvedimento amministrativo in negozio privatistico e a
configurare il rapporto amministrativo nei termini di un rapporto debito-credito.
Se si accogliesse questa tesi, forse, potrebbe rinvenirsi una vasta area di utile
applicabilità dell'azione di adempimento. Sennonché, a ben vedere, queste teorie
si rivelano, nelle loro migliori e più importanti formulazioni, come traduzioni in un
nuovo linguaggio degli stessi concetti già tradizionalmente propri del diritto
amministrativo. Esse, in realtà, hanno un valore soprattutto nominalistico, ma
non toccano la sostanza delle questioni.
Superata la teoria dell'atto favorevole come atto non autoritativo (assimilabile allo
schema contrattuale di adempimento) (21), occorre soffermarsi brevemente
sulle tesi che propendono a ricostruire la pretesa (negativo-oppositiva o positivopretensiva) nei confronti dell'amministrazione nei termini di uno schema
obbligatorio di stampo paritetico-civilistico. Ora, mi sembra sufficiente rilevare in
proposito come questa impostazione, anche nelle sue migliori formulazioni (22),
deve in fondo ammettere che il “vincolo giuridico” che lega l'amministrazione al
“titolare del diritto” non è predefinito dall'autonomia delle parti, ma è
condizionato dalla definizione che in concreto verrà data, nel procedimento e dal
provvedimento, di ciò che è conforme a legge e all'interesse generale nello
specifico episodio provvedimentale. La tesi, dunque, a ben vedere, appare
perfettamente traducibile nei termini classici dei limiti interni ed esterni
all'esercizio dei poteri funzionali dell'amministrazione (dovere di imparzialità,
efficienza,
efficacia,
trasparenza/pubblicità,
logicità,
proporzionalità,
ragionevolezza, minimo sacrificio della posizione del privato, lealtà e correttezza,
coerenza istruttoria e adeguatezza ai fatti, etc.), ossia nei termini classici della
legittimità sostanziale della funzione, senza invero dover scomodare la figura del
diritto soggettivo e del vinculum juris di tipo obbligatorio verso un creditore, che
non sussiste nella funzione pubblica e che è sbagliato voler a tutti i costi
inventare (23).
Né a diverse conclusioni ha condotto il dibattito fiorito intorno al nuovo comma 1bis aggiunto nell'art. 1 della legge n. 241 del 1990 dalla legge n. 15 del 2005 (24), che ha contribuito a riproporre la questione degli atti vincolati, guardando
peraltro soprattutto al campo degli atti favorevoli, su istanza di parte, ovvero, in
definitiva, anche in questo caso, all'area delle ipotesi di autocertificazione (d.i.a),
secondo il nuovo art. 19 della legge n. 241 del 1990, oppure all'area degli atti
unilaterali della p.a., cui sarebbe applicabile l'art. 1324 c.c., ritenuti atti non
autoritativi assimilabili all'atto paritetico, come atto essenzialmente esecutivo
vincolato, ma comunque espressione di un potere unilaterale, cui si correla non
già un mero interesse legittimo o un diritto soggettivo perfetto, bensì un “diritto
soggettivo dell'ordinamento amministrativo” (25). Secondo questi indirizzi,
nell'ambito applicativo del comma 1-bis ricadrebbero, dunque, gli atti paritetici di
gestione del rapporto di pubblico impiego privatizzato, gli assensi vincolati
sottoposti a d.i.a., forse anche quelli in parte discrezionali sottopoti a silenzioassenso, gli atti esecutivi di un previo accordo pubblicistico, ex art. 11, le pretese
indennitarie conseguenti a revoca o recesso, le sovvenzioni. Si tratterebbe,
grosso modo, dell'area delle pretese predefinite dalla legge (26). Questa
congerie di atti non abbisognerebbero del procedimento, non vi sarebbe
partecipazione, né motivazione, ma diretta applicabilità delle disposizioni del Libro
IV del codice civile; la tutela del terzo verrebbe assicurata con l'azione di nullità —
ora ammessa dall'art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 — in relazione alla
impossibilità giuridica dell'attribuzione del beneficio (dell'atto favorevole), da
parte della p.a., a un soggetto diverso da quello cui sarebbe legalmente spettato.
Questa impostazione troverebbe, infine, una sua conferma nella dequotazione del
vizio formale-procedurale introdotta dall'art. 21-octies della legge n. 241 del
1990, che dimostrerebbe il fatto che le pretese del cittadino sono sempre trattate
sul piano sostanziale della spettanza del bene e dell'adempimento da parte della
p.a., piuttosto che sotto il profilo della scelta discrezionale amministrativa e
dell'esercizio dell'autorità.
Si tratta di un groviglio di idee — non sempre chiarissime — che andrebbero
ulteriormente approfondite e studiate. Ma non ne è questa la sede. Ciò che mette
conto qui di osservare è che, in ogni caso, queste teorie non appaiono utili ai fini
del tema dell'azione di adempimento. Se prese alla lettera, esse dovrebbero
condurre al giudice unico e all'abolizione del giudice della funzione (e, quindi,
all'assorbimento della funzione nella giurisdizione). Se invece le interpretiamo,
come detto, come una variante linguistica più “moderna” di concetti tradizionali,
allora esse non possono, evidentemente, portare a conclusioni nuove sull'azione
di adempimento.
D'altra parte, il ritrarsi della funzione lascia al diritto privato aree sempre più
ampie nelle quali — come è naturale — riemerge il diritto comune dei privati e
non c'è bisogno di alcuna azione di adempimento dinanzi al giudice
amministrativo, soccorrendo le azioni di condanna del diritto processuale civile
dinanzi al giudice civile (27). Delle due, l'una: se si elimina il provvedimento e si
pretende di tradurlo in linguaggio civilistico (negozio, contratto, credito), allora
non c'è più potere amministrativo e non c'è più giudice amministrativo, ma
giudice ordinario. Se si ritiene, invece, come è imposto dalle cose e dalla logica,
che resiste comunque un potere funzionale, allora, al di là dei diversi vocabolari e
nominalismi preferiti, resta, sul lato giurisdizionale, la sostanza di un riesame di
razionalità dell'esercizio della funzione (non vincolata), non riducibile nel “letto di
Procuste” dell'azione di adempimento. Dove la liberalizzazione lascia spazio solo
ad autocertificazioni e la riespansione del mercato amplia l'area dell'erogazione di
beni e servizi all'utente finale, basta il giudice ordinario, ma ciò proprio perché si
tratta di aree dove la legge ha eliminato il potere funzionale e ci sono solo diritti
soggettivi. Dove resta un (qualche) potere funzionale, invece, la giurisdizione
resta correttiva (sul modello cassatorio di riesame della determinazione
amministrativa nella sua complessa validità/razionalità) e non attributivodistributiva.
Si rivela peraltro tautologica la tesi che, ribaltando il rilievo (giusto) della
riduzione dello spazio applicativo dell'azione di adempimento per effetto
dell'ampliamento dell'area della semplificazione autocertificante, pretende di
affermare, a mo' di compensazione, la necessità di ammettere la sindacabilità
“forte” e l'ammissibilità dell'azione di adempimento anche (e soprattutto) per le
materie così dette “sensibili”, escluse dall'ambito di operatività dell'art. 19 della
legge n. 241 del 1990 (28). È vero esattamente il contrario: le materie
“sensibili”, se ed in quanto connotate da discrezionalità tecnica, si sottraggono,
per i motivi che tratteremo nel prossimo paragrafo, all'azione di adempimento e
tale tipo di azione tende a essere relegata, nel diritto amministrativo, pertanto, ai
soli casi di attività interamente vincolata, che non sia stata ancora degradata dal
legislatore ad autocertificazione o a silenzio-assenso (29).
Merita infine di essere rilevato come la tesi contenutistico-sostanziale
dell'interesse legittimo come vinculum juris che astringe l'amministrazione (non
solo alla legalità, ma anche) al risultato utile satisfattivo della pretesa (positiva o
negativo-oppositiva) del privato direttamente coinvolto nell'affare, si lega (non a
caso) alla tesi rimediale-risarcitoria che tende a negare — dopo l'affermazione
della risarcibilità dell'interesse legittimo — la sopravvivenza stessa di tale figura
giuridica, che sarebbe ormai in tutto identificabile con lo stesso diritto soggettivo (30). La questione — come è stato bene osservato — è di diritto sostanziale,
poiché si tratta di capire se e in che misura l'interesse legittimo, pur nella sua
indubbia consistenza sostanziale, possa configurarsi, prima e indipendentemente
dall'esercizio del potere, come fonte (adeguata e sufficiente) di determinazione
del bene della vita da attribuire attraverso la richiesta condanna
dell'amministrazione, lì dove, invece, “diversamente dal diritto civile, il diritto
amministrativo sostanziale non seleziona gli interessi, ma demanda all'azione
amministrativa, sia pur sottoponendola ad una serie di condizioni, l'individuazione
e la scelta dell'interesse che deve prevalere nel caso concreto” (31).
Contro queste tesi innovative, che si sforzano in tutti i modi di assimilare il
rapporto amministrativo a quello civilistico tra privati, pare sufficiente, peraltro, il
richiamo della considera zione per cui in diritto pubblico non vi è una vera e
propria “autonomia” dell'amministrazione, ma tutt'al più discrezionalità nello
svolgimento della funzione istituzionale. L'amministrazione, infatti, si muove
comunque in un ambito di eteronomia, secondo il principio di legalità, e la sua
azione di cura degli interessi pubblici (funzione) è sempre attività esecutiva (32).
4. Veniamo, adesso, all'esame della seconda linea argomentativa di indagine
intorno all'atto vincolato, come ambito di esplicazione dell'azione di
adempimento, ossia la linea argomentativa diretta a ridurre la discrezionalità
tecnica ad attività ricognitiva dei presupposti di fatto.
Il tema è, grosso modo, quello dell'ammissibilità di un controllo giurisdizionale
“forte” o sostitutivo sulla discrezionalità tecnica, al di là del tradizionale sindacato
di tipo “debole” o estrinseco, con i conseguenti riflessi in tema di istruttoria, di
ammissibilità di c.t.u. e, naturalmente, di azione di adempimento (33).
Muovendo da una nozione processualistico-decisoria del provvedimento
amministrativo, su uno sfondo teorico gradualista, in cui essenzialmente l'atto
(discrezionale) è decisione pubblica di ciò che è interesse generale e di ciò che è
legge nel caso concreto, completando la catena precettiva di regolazione dei fatti,
ho già svolto, in un precedente contributo (34), alcune considerazioni critiche
sulla tesi, pure ampiamente diffusa e molto autorevolmente sostenuta, che riduce
la discrezionalità tecnica all'attività vincolata dell'amministrazione (35).
Il punto, come ho anticipato, riveste un'importanza strategica per delimitare il
campo di applicazione dell'azione di adempimento.
La tesi che identifica la discrezionalità tecnica con l'area dell'atto interamente
vincolato poggia sulla nozione equivoca di “atti a presupposto vincolato” che,
secondo questa lettura, occuperebbe e assorbirebbe la gran parte dell'area della
discrezionalità tecnica. In realtà questa tipologia di atti a presupposto
interamente vincolato, come già indicato nel par. 3, sta fuori dall'ambito del
provvedimento amministrativo e riguarda solo spazi residuali di accertamenti,
misurazioni tecniche, atti meramente dichiarativi o atti di erogazione di beni e
servizi all'utente finale, che di regola spettano alla giurisdizione ordinaria
involgendo diritti soggettivi e meri adempimenti della p.a., mentre l'area della
discrezionalità tecnica — ovvero quella delle norme di azione che descrivono in
modo incompleto la fattispecie usando concetti giuridici indeterminati — si
identifica con quella della discrezionalità interpretativa della p.a., che è
massimamente decisione, precetto, accertamento di ciò che è legge nel caso
concreto, e fonda, conseguentemente, la cognizione del G.A. rispetto a pretese
soggettive di mera legalità e logicità, ragionevolezza, proporzionalità (legittimità
sostanziale), esclusa ogni pretesa di spettanza e di attribuzione. Con la
conclusione che la gran parte di questi “atti vincolati alla sola verifica dei
presupposti” ricade, a ben vedere, nello schema triadico (capaccioliano) “norma
— potere (integrativo della fattispecie) — fatto” e non in quello binario “normafatto”.
La tesi — qui contestata — dell'ascrizione di questa categoria di atti
(asseritamente a presupposto interamente vincolato, benché descritti da norme
generiche e incomplete) all'area dell'attività interamente vincolata della p.a.
discende dal l'assunto per cui l'accertamento dell'esistenza del presupposto, in tali
casi, deve avvenire in via di interpretazione e non di ponderazione di interessi.
Questa tesi poggia sull'assioma (di impostazione gianniniana) secondo cui c'è
discrezionalità solo lì dove c'è ponderazione di interessi. Essa nega l'esistenza di
una discrezionalità ermeneutica. Appare, invece, evidente che, oggi, con una
normazione sempre più penetrante, ma sempre più incerta e disordinata, l'area
della discrezionalità amministrativa (politica) da un lato, e quella dell'attività
interamente vincolata, dall'altro, si vadano sempre più restringendo, mentre
sempre maggiore spazio è acquisito dalla discrezionalità interpretativa, che non è
solo appannaggio del giudice, ma è criterio applicativo della legge posto in essere
in primo luogo e immediatamente dall'amministrazione. Oggi la maggior parte
della discrezionalità esercitata dall'amministrazione non è “pura”, ma, per
l'appunto, “tecnica”, ossia di completamento del precetto di legge mediante l'uso
di scienze e conoscenze metagiuridiche, comunque non sostituibili dal giudice (36). In questa logica il giudizio sull'azione dell'amministrazione (giudizio sull'atto
o sul rapporto, poco cambia) è inevitabilmente giudizio correttivo di logicità e
razionalità della decisione, è dunque giudizio di tipo cassatorio, di annullamento,
diretto in primis a riorientare il giudizio di primo grado (qui, dell'amministrazione,
racchiuso nel provvedimento impugnato) in vista di un riesercizio del potere
conforme alla norma agendi dettata in sentenza. Il momento rescissorio è e resta
(almeno logicamente) distinto dal rescindente. Il giudice, nella cognizione,
corregge l'azione dell'amministrazione (nelle forme, nel procedimento,
nell'applicazione della legge, nella completezza e accuratezza della ricognizione
del fatto, nella logicità, proporzionalità e ragionevolezza degli apprezzamenti
discrezionali e nell'interpretazione della legge incompleta).
L'idea di base dell'impostazione restrittiva della nozione di discrezionalità tecnica
è che occorre « distinguere gli elementi che costituiscono il presupposto (di fatto)
rispetto all'oggetto del potere onde evitare di qualificare come “discrezionali”
accertamenti, valutazioni ed apprezzamenti che esulano dal contenuto del potere
stesso e che attraverso la “tecnica” non vi possono rientrare » (37). Questo
approccio non considera che, nei casi di discrezionalità tecnica, “oggetto del
potere” è anche (e soprattutto) la determinazione degli elementi di fatto che di
volta in volta costituiscono il presupposto per l'esercizio di quel potere (e non solo
la scelta, essa sì vincolata dalla legge, su cosa fare nell'interesse
generale/pubblico una volta ricostruito il presupposto). Quando, ad esempio, il
soprintendente decide di dichiarare il notevole interesse pubblico paesaggistico di
ampie aree dell'Agro romano (così limitandone l'edificabilità invece prevista dal
piano regolatore comunale di Roma), il potere di tutelare ciò che è “paesaggio”,
ancorché finalisticamente predeterminato (e vincolato) dall'art. 9 Cost. e dal
codice di settore del 2004, si sostanzia e si risolve in realtà proprio nella decisione
di ciò che, di volta in volta, costituisce o non costituisce “paesaggio”, e ciò non
solo nella definizione (deduttiva) del presupposto di fatto (il notevole interesse
paesaggistico delle aree) descritto solo genericamente dalla legge per l'esercizio
di quel potere, ma anche nella stessa definizione ricostruttiva (induttiva) della
nozione di “paesaggio” usata dalla legge. La discrezionalità, in un caso del
genere, non consiste nel decidere se accordare o meno tutela al paesaggio, ciò
che è deciso in modo vincolante dalla legge, ma consiste esattamente nel
ricostruire e nell'inventare, di volta in volta, a un tempo, in uno schema dialettico
deduttivo/induttivo, i presupposti di fatto cui la legge riconnette il potere
dispositivo e la definizione legale stessa di quei presupposti.
E l'esercizio di questo potere — che si estrinseca nella valutazione ricostruttiva dei
presupposti della legge — ha una connotazione intrinsecamente “politica”, che
impinge, sia pur indirettamente, alla linea della responsabilità politica che dal
funzionario conduce all'indirizzo del Ministro e, quindi, al Governo e, infine, al
Parlamento (38). Se è vero — come è vero — che sin dal d.lgs. n. 29 del 1993
(art. 3, ora del d.lgs. n. 165 del 2001), il nostro ordinamento, sul piano
organizzatorio della distribuzione delle competenze, è improntato al principio della
separazione tra funzioni di indirizzo politico, appartenenti al vertice elettivo
dell'amministrazione, e funzioni di gestione, spettanti alla dirigenza, è anche vero
che proprio quelle pregnanti funzioni di indirizzo politico legano l'operatività
concreta degli uffici alla responsabilità amministrativo-politica, nella linea
“gestione (esecuzione della legge) - indirizzo politico di governo - assemblee
elettive - popolo sovrano” che fonda la nostra democrazia parlamentare.
A fronte di questo ostacolo istituzionale-politico fondamentale — nonché a fronte
degli ostacoli logici, qui già accennati e che saranno meglio sviluppati nel
paragrafo successivo — paiono minusvalenti e recessivi gli argomenti pure
spendibili, sulla base di un'esegesi lessicale o sistematica del c.p.a., a favore
dell'estensione del sindacato “forte” e dell'ammissibilità dell'azione di
adempimento anche riguardo ai provvedimenti connotati da discrezionalità
tecnica. Si dice, in proposito, che l'atipicità e l'ampiezza del rimedio cautelare
(art. 55 c.p.a.), ammesso senza limiti nei confronti di tutti gli atti impugnati,
secondo un principio di continenza della fase interinale provvisoria in quella
decisoria finale, postulerebbero una pari atipicità e ampiezza delle pronunce
possibili nella sede della sentenza conclusiva del processo. La tesi dà per
dimostrato ciò che è da dimostrare, poiché non è affatto vero che nella fase
cautelare il giudice amministrativo possa rifare le valutazioni tecnico-discrezionali
riservate all'amministrazione. È vero, anzi, esattamente il contrario. In ogni caso,
una maggiore ampiezza e atipicità della misura cautelare trova una sua
giustificazione proprio nella natura del tutto provvisoria e interinale di tale
rimedio, nel quale può in taluni casi prevalere l'interesse conservativo
dell'integrità della res judicanda. Si fa poi riferimento all'ampiezza dei poteri del
commissario ad acta, ma questo argomento sconta la dimostrazione — tutta da
discutere — dell'avvenuta fusione unificatrice del modello diadico tradizionale
“cognizione-ottemperanza” e l'assorbimento “normale” della tutela estesa al
merito — ottemperanza (in cui è normale la sostituzione) — in quella di
legittimità. Si fa anche richiamo all'ampiezza della cognizione propria dell'azione
risarcitoria, necessariamente riferita a tutta la condotta dell'amministrazione e
alla fondatezza della pretesa nel merito (a fini di quantificazione del danno). Ma si
tratta di argomento non pertinente, stante la peculiarità dell'azione risarcitoria e
la maggiore ampiezza del suo oggetto, specialmente se raccordato, come s'usa
fare, al modello aquiliano. Si aggiunge che l'estensione indifferenziata dei poteri
istruttori del giudice dimostrerebbe l'avvenuta estensione del sindacato. Questo
argomento è più serio, ma non è risolutivo. Certo, il c.p.a. — art. 63, comma 4 —
ha ammesso la c.t.u. non solo per l'accertamento di fatti, ma anche per
l'acquisizione di valutazioni che richiedono particolari com petenze tecniche. Ora,
questa aggiunta in effetti si presta a una lettura “aperturista”, ma consente
senz'altro anche un'interpretazione coerente con il sistema, che ne riservi
l'applicazione alle mere attività estimative (ai fini, ad esempio, del risarcimento
del danno, o per la definizione di indennizzi vari previsti dalla legge), o agli
accertamenti tecnici, in un'accezione ristretta di “valutativo” come “misurazione di
un valore” (secondo una scala predefinita).
Non deve peraltro credersi che la tesi “restrittiva”, qui sostenuta, possa
compromettere l'effettività della tutela e restringere eccessivamente gli spazi di
intervento del giudice. L'opinabilità della valutazione, infatti, non basta di per sé
ad attribuire un potere riservato all'amministrazione, ma è necessario che possa
evincersi una volontà in tal senso della legge (39). Ove tale volontà non
risultasse, sarebbe ammesso il sindacato forte anche in presenza di valutazioni
opinabili. Inoltre, la sostituzione del giudice, a mezzo di una c.t.u., resta
naturalmente sempre possibile, anche nell'ambito di un sindacato di eccesso di
potere su provvedimenti tecnico-discrezionali, allorquando sia in contestazione il
presupposto di fatto oggetto di valutazione (ad es., il fatto storico che determinati
reperti archeologici siano stati effettivamente rinvenuti, che abbiano o non
abbiano una determinata forma, consistenza materica e dimensione; il fatto che,
con indagini fisiche e chimiche, possano o meno essere datati ad una certa epoca;
il fatto che una determinata architettura sia attribuita dalla prevalente letteratura
a un determinato architetto; il fatto che alcuni documenti storici d'archivio
attestino determinati eventi come accaduti prima di una certa data; il fatto storico
che un determinato immobile sia stato abitato da un illustre personaggio; il fatto
che un determinato volume sia “utile”, in termini edilizi, ai fini dell'inammissibilità
della sanatoria paesaggistica; il fatto che un certo intervento edilizio — un
soppalco — metta a rischio la statica dell'edificio storico, etc.). In tutte queste
ipotesi, allorquando l'amministrazione tecnica preposta abbia già enunciato le sue
valutazioni non sostituibili (il pregio architettonico, il notevole interesse
paesaggistico, la compatibilità dell'alterazione con il valore culturale del bene) e la
causa dipenda, a questo punto, esclusivamente dalla risoluzione del punto
controverso in fatto, potrà ammettersi — così come la c.t.u. e il sindacato “forte”
— anche una domanda (e un'annessa pronuncia) di adempimento e di condanna
dell'amministrazione al rilascio dell'autorizzazione.
Resta in piedi, di converso, un altro argomento testuale-processuale contro
l'ammissibilità dell'azione di adempimento (se legata, come di norma avviene, al
guscio formale dell'azione avverso il silenzio), nel campo della discrezionalità
tecnica: la particolare celerità del rito avverso il silenzio, costretto entro i tempi
ristretti del rito camerale, chiaramente inadatto ad accertamenti di lunga indagine
(c.t.u., etc.). È argomento non recente, già speso dalla prevalente giurisprudenza
(sia anteriore che posteriore alle novità normative del 2005) per limitare l'accesso
all'accertamento della fondatezza della pretesa nel merito. Ma si tratta, tutto
sommato, come gli argomenti a favore dell'ammissibilità, poco sopra passati in
rapida rassegna, di un argomento formale, legato al dato occasionale del rito e
alle contraddizioni interne del codice del processo amministrativo; argomenti,
dunque, che, lungi dal chiarire le questioni, costituiscono il frutto della confusione
e della contraddizione terminologica e concettuale che ancora caratterizza
negativamente il dibattito. Il codice, come è naturale, è un compromesso tra
diverse idee e visioni del processo amministrativo. Al suo interno è possibile
dunque trovare frasi, parole, scampoli di norme che possono essere usati
senz'altro nell'un senso come nell'altro. Ma non è su questo piano di stretta
ermeneutica del testo normativo vigente che può trovare una soluzione
appagante il tema in discussione.
5. Ma l'argomento principale a sostegno dell'esclusione del sindacato sostitutivo
del giudice (e, perciò, dell'azione di adempimento) si trae dall'esame della
struttura logica del sillogismo giuridico nei casi di discrezionalità tecnica.
Muoviamo dall'assunto — largamente condiviso, pur nel suo semplicismo — che la
decisione amministrativa tecnico-discrezionale rechi ed esibisca una struttura di
tipo sillogistico (40). Alla premessa maggiore — il diritto — si lega la premessa
minore — il fatto, che viene sussunto nel diritto e determina la conseguenza
dispositiva (la conclusione). Ora, il sillogismo non è che un argomento che
determina e spiega il significato della conclusione (che è, di regola, una
proposizione predicativa) ed è costituito da una sequenza di asserzioni intorno a
classi (con cui si afferma o si nega che una classe sia inclusa in tutto o in parte in
un'altra classe). La conclusione predica degli attributi (nella logica modale, il
comando, il permesso o il divieto) di un oggetto particolare (il termine minore)
sussumendolo nella classe designata dal termine maggiore (che designa il
concetto generale, ossia la qualità o lo stato predicati dell'argomento, l'insieme
entro il quale l'individuo deve essere classificato) (41).
Orbene, secondo la legge di variazione inversa (42), quanto maggiore è la
connotazione del termine universale, tanto minore è la denotazione del
particolare, ma tanto più forte è il potere individuativo della categoria generale.
Un termine universale povero di elementi qualificanti comprende, come una
ripresa fotografica con grande apertura di campo focale, un grande numero di
oggetti particolari denotati, ma con un'immagine poco circostanziata (sfocata). Un
termine universale ricco di elementi connotanti e specificativi, invece, comprende,
come una ripresa fotografica che stringe la messa a fuoco sull'obiettivo, un
numero molto limitato di oggetti o un solo oggetto particolare (ma con ampio e
ben definito dettaglio di particolari). Ne consegue che, in questo ultimo caso, il
termine universale enunciato nella premessa maggiore, esplicando un forte
potere individuativo, lascia all'interprete, a valle, un compito meramente
applicativo, del tutto automatico e vincolato. Nel primo caso, invece, il termine
universale enunciato nella premessa maggiore lascia a valle, all'interprete
applicatore, un compito ben diverso, che è di selezione e ulteriore specificazione
dell'oggetto (particolare) dell'argomento. Nel caso, frequente, in cui la norma
attributiva di potere tecnico-discrezionale rinvia a standard valutativi
metagiuridici (43), entrano in gioco i così detti concetti etici spessi, caratterizzati
da un intreccio profondo di fatti e valori, che descrivono e valutano nello stesso
tempo e hanno un intrinseco contenuto normativo, concetti che descrivono
proprietà che non si possono semplicemente percepire o misurare “senza averle
comprese e aver appreso a identificarle grazie a una particolare capacità di
valutazione di tipo immaginativo” (44).
In questi casi il sillogismo presenta una particolare struttura circolare.
Dall'universale si passa al particolare, ma la premes sa minore si riverbera
specularmene sulla maggiore contribuendo alla sua stessa costruzione e
connotazione. Certo, in generale, ogni occorrenza (token) di un universale (type)
contribuisce alla conferma della sua definizione. Ma, nel caso dei concetti giuridici
indeterminati, questa capacità dell'occorrenza particolare di confermare
(inverandone il contenuto definitorio) la categoria universale trasmoda in una
progressiva ridefinizione precisante dello stesso concetto generale. In questo
senso la “ricognizione del fatto”, che attiene alla posizione della premessa minore,
interferisce direttamente con la stessa costruzione della premessa maggiore.
L'atto di discrezionalità tecnica è (gradualisticamente) atto creatore di norme
giuridiche particolari, ma nel senso speciale di “riformulare” per ogni occorrenza il
tipo categoriale incompleto della norma generale e astratta.
Ne deriva che, nel giudizio sillogistico di qualificazione del fatto, in un caso di
discrezionalità tecnica, la posizione del fatto (questo è “paesaggio” o è “bene
storico-artistico”) interagisce sul diritto (45). Come già anticipato al par. 4, si
assiste, in questi casi, a un processo logico dialettico che incrocia dinamicamente
il momento deduttivo (dal diritto al fatto) con il momento induttivo (dal fatto al
diritto), per cui il diritto (il termine generale, nella sua indeterminatezza e scarsa
connotazione, ovvero scarsa capacità identificativa e individuativa del fatto) è
descritto e definito (di volta in volta) dall'occorrenza concreta del fatto, per come
“valutata” in sede applicativa. La valutazione, dunque, non predica solo
determinati attributi del fatto, ma predica anche riguardo allo stesso termine
generale (premessa maggiore), nel senso che ne integra e ridetermina la nozione.
In conclusione, la natura — valutativa (discrezionale) o solo descrittiva (vincolata)
— del giudizio espresso nel provvedimento non solo non può essere riferita solo
alla (e ricercata solo nella) parte dispositiva del sillogismo giuridico di cui si
compone il provvedimento, ma deve essere estesa sia alla premessa minore (al
“fatto”) che (dialetticamente) alla premessa maggiore (il diritto). In sostanza,
nella discrezionalità tecnica vi è un'area del “diritto”, ossia della stessa
descrizione in astratto e in generale dei presupposti di fatto dell'esercizio del
potere, che non è predefinita dalla legge, ma riservata alla statuizione
dell'amministrazione, che muovendo dall'analisi delle singole fattispecie produrrà
una casistica sintetica di completamento del precetto indeterminato.
L'attingimento agli standard valutativi e alle regole “tecniche” desunte da scienze
e conoscenze non giuridiche (l'economia, l'arte, la storia, la cultura), infatti, opera
anche nell'area del “diritto”, ossia della definizione tipologica del type e non solo
nella ricognizione dei token di volta in volta rinvenibili nei fatti. Dall'analisi e
dall'acquisizione dei fatti l'attività ermeneutica risale alla sintesi costitutiva del
diritto.
A ben vedere nel fenomeno della discrezionalità tecnica opera una sorta di
scissione tra riferimento e predicazione, poiché la legge nomina i fatti
potenzialmente idonei a costituire il presupposto dell'effetto, ma lascia
all'amministrazione la definizione induttiva del loro significato (mediante la
selezione degli attributi che li qualificano e la sintesi di standard valutativi). In
questo senso la definizione del significato del predicato è riservata al
completamento proposizionale dell'amministrazione. L'enunciato normativo,
dunque, non ha ancora un significato completo, nell'unitarietà della proposizione
(come affermazione o negazione come esistente di un singolo fatto (46)). Si
limita a nominare dei presupposti (riferimento), ma opera una predicazione solo
parziale, poiché non esprime in modo completo la qualificazione distintiva del
fatto, ossia non completa la sua descrizione mediante predicazione di termini
generali attributivi di proprietà e di relazioni.
Appare pertanto evidente — tornando a Capaccioli — che la valutazione del
carattere lussuoso di un bene o l'affermazione della sussistenza in concreto del
presupposto del mercato rilevante, oppure la valutazione del notevole interesse
paesaggistico di un'area, costituiscono esempi di discrezionalità interpretativa a
fronte dei quali non possono che esservi interessi legittimi, nello schema logico:
norma - potere (valutativo e integrativo della fattispecie) - fatto (47).
6. Così precisato il (ristretto) ambito applicativo di una (possibile) azione
amministrativa di adempimento (con riferimento all'attività interamente vincolata
della p.a.), può essere utile svolgere alcune considerazioni sui riflessi applicativi
che sarebbero legati alle tesi favorevoli alla dilatazione applicativa di questo
strumento, in un'ottica di estensione dell'oggetto del giudizio dall'atto al rapporto.
Ed invero, in questo quadro e con riferimento all'attività interamente vincolata
della p.a., la pronuncia di adempimento e la non annullabilità dell'atto per vizi
formali e procedurali, ex art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, si pongono
come le due facce della stessa medaglia. In caso di fondatezza nel merito della
pretesa azionata, in accoglimento dell'azione di adempimento, vi potrà essere la
condanna dell'amministrazione ad adottare il provvedimento favorevole (o,
meglio, la dichiarazione diretta, da parte del giudice, della spettanza ex lege,
senza reale intermediazione di un potere, del “diritto” amministrativo del
soggetto). Di conseguenza, in caso di accertamento dell'infondatezza nel merito
della pretesa azionata, gli eventuali vizi formali e procedurali (tra cui occorrerà, in
una logica di spettanza e di accesso al merito, includere anche il difetto di
motivazione) non consentiranno l'annullamento dell'atto, a questo punto reso
inutile per effetto della cognizione diretta del rapporto operata dal giudice (sicché
la figura della non annullabilità ex art. 21-octies si colloca nel quadro processuale
dell'inammissibilità per carenza di interesse). Il punto di ricaduta effettuale
importante di questo discorso, per essere chiari, è che non si può avere, per così
dire, “la botte piena e la moglie ubriaca”: se oggetto del giudizio — in caso di
attività vincolata della p.a. — è il rapporto e la fondatezza della pretesa e non più
l'atto, allora così come, da un lato, si deve poter ammettere che il giudice
consegni direttamente alla parte il bene della vita, allo stesso modo si deve
coerentemente ammettere, dall'altra parte, la fine delle censure formali e
procedurali, in quanto tali del tutto inammissibili al di fuori di una prova della
fondatezza della pretesa nel merito. Se vi è azione di adempimento, deve esservi
inammissibilità delle censure di difetto di comunicazione di avvio del
procedimento, di mancato preavviso di diniego, di omesso esame delle
controdeduzioni, di difetto di motivazione, etc. Non è possibile consentire, da un
lato, il superamento del filtro dell'atto, in caso di esito positivo dell'accertamento,
e dall'altro lato, in caso di esito sfavorevole di tale accertamento, rifugiarsi dietro
lo schermo dell'atto impugnato, nell'alibi dell'interesse strumentale al riesercizio
comunque della funzione a seguito di annullamento dell'atto per vizi formali.
7. Non vi è dubbio, come già accennato, che i temi trattati mettono in gioco le
linee portanti identificative del modello di giustizia amministrativa che si intende
prediligere. Si tratta, come sempre, di trovare un punto di equilibrio (48). Una
lettura delle recenti novità processuali orientata al solo criterio della effettivitàsatisfattività, sempre e comunque, della pretesa individuale azionata, che intenda
ammettere l'azione di adempimento anche a meri fini di “certezza” del privato,
mediante domanda di rilascio di atti dichiarativi del diritto a intraprendere una
determinata attività (ancorché regolata con d.i.a., s.c.i.a., autocertificazione,
silenzio-assenso), o a fini di condanna dell'amministrazione all'adozione di
provvedimenti favorevoli, anche discrezionali, o che ammetta il sindacato “forte”
— e l'azione di adempimento — anche a fronte di attività tecnico-discrezionali
riservate all'amministrazione, condurrebbe ad un sistema a “governo dei giudici”
e a un diverso equilibrio istituzionale, in cui la decisione finale di gestione
amministrativa sarebbe in definitiva riservata al potere giurisdizionale, non solo
nei suoi aspetti formali-procedurali (di controllo di legalità) e logico-razionali (di
non eccesso di potere, logicità, proporzionalità, ragionevolezza), ma anche nei
suoi aspetti decisori (discrezionali e valutativi) riservati all'esecutivo (49). C'è nel
sistema un punto (di equilibrio istituzionale) al di là del quale l'opposizione e la
pretesa del singolo devono essere fatti valere non più in termini di azione
giurisdizionale, ma in termini di azione civica di partecipazione democratica ai
meccanismi decisionali pubblici. La dilatazione della tutela giurisdizionale sposta
questo punto di equilibrio istituzionale e, assolutizzando il reclamo giudiziario
individuale, affievolisce le tutele partecipative democratiche, che rivengono nel
rispetto della decisione pubblica assunta dagli organi e dai funzionari competenti,
secondo il principio di legalità, la garanzia di cura imparziale dell'interesse
generale.
In quest'ottica (e in disparte la questione, che qui non rileva, dell'interpretazione
“estensiva” della locuzione “motivi inerenti alla giurisdizione” dell'ultimo comma
dell'art. 111 Cost.) appare condivisibile il sindacato di non eccesso di giurisdizione
svolto dalla Corte di cassazione (ribadito di recente con la sentenza delle sezioni
unite 17 febbraio 2012, n. 2312 (50)), che individua come limite esterno alla
giurisdizione, ossia come limite alla tutela erogabile, la persistenza di un nucleo di
potere amministrativo non sostituibile.
La tesi del “cambio di paradigma” presenta, nel suo accento troppo
processualcivilistico, il non secondario inconveniente di dimenticare che l'oggetto
del giudizio amministrativo è, innanzi tutto, il modo di esercizio del potere
funzionale, che implica di regola un rapporto necessariamente plurilaterale che
coinvolge, direttamente e indirettamente, una pluralità di consociati
(controinteressati, cointeressati, soggetti indirettamente incisi, portatori di
interessi collettivi diffusi, etc.), cui si riferisce l'interesse generale, che è la ragion
d'essere della funzione (e della giustizia amministrativa), e che rischia di essere il
“convitato di pietra” (51) nelle ricostruzioni processualcivilistiche del processo
amministrativo. Il rapporto amministrativo, che ben può essere, se si vuole,
l'oggetto del (nuovo) processo amministrativo, è, dunque, un rapporto affatto
particolare, un rapporto plurilaterale che necessariamente intercetta l'interesse
generale, che è poi l'oggetto della decisione pubblica amministrativa (ossia del
provvedimento), sicché, a ben vedere, dire che l'oggetto del giudizio
amministrativo è il provvedimento amministrativo non significa affatto restringere
il cono visivo del giudice o negare qualsiasi cognizione del rapporto, ma significa
esattamente il contrario, ossia che l'oggetto del giudizio amministrativo è (per
l'appunto) il rapporto amministrativo, che è, però, il rapporto che riguarda tutti i
soggetti coinvolti dall'affare pubblicistico e giammai soltanto l'attore che chiede e
ricorre e l'amministrazione convenuta (come invece avverrebbe se si accettasse la
riduzione del processo amministrativo entro lo stampo ristretto — bilaterale — del
processo civile). D'altra parte, anche nel processo civile, quando sono coinvolti
interessi generali, di gruppi organizzati, o vengono comunque in gioco poteri
funzionali, si devia dal modello puramente attributivo tutto concentrato sulla
pretesa dell'attore per spaziare panoramicamente, con più ampia visione di gioco,
con tecniche di tipo correttivo, sugli interessi collettivi e di classe (dove, non a
caso, si assiste ad azioni di tipo impugnatorio volte al ripristino della legalità e
degli equilibri violati da deliberati o da atti commerciali “illegittimi”). Ma,
evidentemente, questa è la sensazione, si vuole che nel processo amministrativo
sia possibile pretendere dall'amministrazione e contro l'amministrazione molto di
più di quanto non sia possibile pretendere contro un normale convenuto in un
processo civile tra privati cittadini.
Abstract: L'affermarsi dell'idea della atipicità delle azioni nel processo
amministrativo e l'ammissibilità dell'azione di adempimento, rafforzata dal
secondo correttivo del codice, ritualizzata la discussione sul regime della
discrezionalità tecnica e sui limiti del sindacato consentito al Giudice
amministrativo (tra sindacato “estrinseco” e sindacato “intrinseco”, “forte” o
“debole”, secondo la terminologia risalente a Cons. Stato, n. 601 del 1999). Il
contributo mira a evidenziare come il modello tradizionale della giurisdizione
generale di legittimità (modello correttivo di tipo cassatorio avente ad oggetto la
razionalità della decisione amministrativa, articolato nelle due fasi della
cognizione — fase rescindente — e dell'ottemperanza — fase rescissoria)
garantisca tutt'ora una tutela più intensa e piena, assicurando nel contempo il
rispetto del principio della separazione dei poteri, evitando di ridurre il Giudice
amministrativo a un amministratore di secondo grado costretto a conoscere —
alla stessa stregua di quello civile — il solo rapporto litigioso bilaterale tra
ricorrente e amministrazione intimata, senza alcuna considerazione dell'affare
amministrativo nella sua intrinseca complessità e plurisoggettività, in quanto
episodio di gestione dell'interesse generale. In quest'ottica lo scritto propone una
nuova nozione di “estensione dell'oggetto del giudizio dall'atto al rapporto”, dove
per “rapporto” si deve intendere il “rapporto amministrativo”, un rapporto
plurilaterale che necessariamente intercetta l'interesse generale, che è poi
l'oggetto della decisione pubblica amministrativa (ossia del provvedimento)
oggetto di impugnazione.
Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin:
10px 10px;">
Note:
(*) Il testo costituisce una rielaborazione dell'intervento al Convegno di studi
“L'azione di adempimento nel codice del processo amministrativo”, organizzato
dal Centro di Studi sulla Giustizia presso la facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli studi di Milano, svoltosi il 24 maggio 2012.
(1) Non quella di esecuzione del giudicato, che appartiene alla giurisdizione
estesa al merito, nel cui ambito è pacifico che il giudice si possa fare
amministratore e rilasciare egli stesso, tramite il suo commissario, il
provvedimento favorevole domandato dalla parte (o disporre la rimozione degli
effetti, per quanto possibile, di quello sfavorevole opposto). Uno dei temi
fondamentali implicati dalla discussione sull'azione di adempimento è costituito
proprio dal suo riverbero sulla costruzione tradizionale “bifasica” della tutela
amministrativa e sul ruolo dell'ottemperanza, con l'ingresso progressivo di
elementi di ottemperanza già nella fase della cognizione [indotti dalla
generalizzazione, contenuta nella lettera d) del comma 1 dell'art. 34, della
nomina di un commissario ad acta sin dalla fase di cognizione, ciò che prima del
codice era ammesso dalla giurisprudenza solo per il giudizio avverso il silenzio ex
art. 21-bis della legge n. 1034 del 1971, mentre oggi potrebbe essere ammesso
in ogni tipo di ricorso e in ogni tipo di giudizio]. Un altro argomento addotto nella
direzione della progressiva confusione tra cognizione ed esecuzione viene
individuato anche nel fatto che nella lettera a) del comma 1 dell'art. 34 non è
stata riprodotta la formula “salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità
amministrativa” (art. 45 del r.d. n. 1054 del 1924), dal che, in uno al rilievo
dell'abrogazione del r.d. del 1907, senza che sia stata ripresa dal codice la
previsione dell'art. 88, in base alla quale “l'esecuzione delle decisioni si fa in via
amministrativa eccetto che per la parte relativa alle spese”, potrebbe derivarsi
l'idea del superamento del divieto di condanna all'emanazione di un
provvedimento (M. Clarich, Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del
Codice e apertura a nuove tutele, al sito http://www.giustizia-amministrativa.it,
11 novembre 2010, nonché in Giorn. dir. amm., 2010, 1121 ss.).
(2) Inclusiva dell'azione avverso il silenzio. Se per certi aspetti sembra che il
c.p.a. abbia unificato il regime processuale dei tre tradizionali comparti di
giurisdizione — di legittimità, esclusiva ed estesa al merito — prevedendo di
regola, salve eccezionali distinzioni, un rito unitario (si vedano, soprattutto, gli
articoli del Libro II sull'istruttoria), e pur tralasciando le previsioni degli artt. 133
e 134, resta il fatto che nel fondamentale art. 7 la tradizionale tripartizione è
rimasta e continua oggettivamente a rilevare, sia quanto al termine decadenziale
dell'azione, sia quanto al tipo di azione e di pronuncia ammissibili (artt. 29 ss.
c.p.a.).
(3) La discussione riguarda soprattutto gli interessi pretensivi. Nel caso di d.i.a. —
s.c.i.a. l'interesse (sostanzialmente) oppositivo del controinteressato si struttura
formalmente comunque in termini pretensivi (pretesa di atto sanzionatorio e
repressivo, o di riesame).
(4) Il dibattito sull'azione di adempimento dopo il c.p.a. è stato di recente
catalizzato dalla nota sentenza del Tar Lombardia, Milano, sez. III, 8 giugno
2011, n. 1428, che ha ammesso l'azione di adempimento (innestandola su
un'azione avverso il silenzio) in un caso concernente la domanda di un dipendente
pubblico di trasferimento di sede per assistenza a familiari bisognosi di cure (in
Foro amm. - T.A.R., 2011, 1491 ss., con nota di A. Carbone, Fine della
perplessità sull'azione di adempimento; su questa sentenza cfr. altresì R.
Caroccia, La “lunga marcia” dell'azione avverso il silenzio-inadempimento nel
processo amministrativo: dal principio di concentrazione delle tutele al principio di
effettività della tutela, in Giust.Amm.it, 7 maggio 2012; C. Benetazzo, L'azione
« atipica » di condanna; caratteri, limiti e sua esperibilità nei casi di diniego di
titoli abilitativi edilizi, ivi, 20 giugno 2012). Si vedano altresì gli interventi di A.
Carbone, A. Di Mario, F. Merusi (27 giugno 2011), G. Verde (1 luglio 2011), E.
Follieri (12 luglio 2011), L. Ferrara (9 settembre 2011), comparsi sulla rivista
informatica Guida al Diritto de Il Sole 24 Ore, al sito
http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto.html. Analoghe
argomentazioni anche in Tar Campania, Napoli, Sez. VII, 15 dicembre 2011, n.
5829 (in Giurisdiz. amm., 2011, III, 2016 ss.), in una fattispecie, peraltro, di
impugnazione di un annullamento ministeriale di nulla osta paesaggistico, nella
quale, per la verità, l'annullamento sarebbe stato direttamente e immediatamente
satisfattivo, senza alcuna necessità di operare remand all'amministrazione e
pronunciare condanne di adempimento (ossia di conformazione). La tesi
favorevole è sviluppata soprattutto da F. Merusi (Il codice del giusto processo
amministrativo, in questa Rivista, 2011, 1 ss.), dove il perno argomentativo è
costituito dal richiamo di diritto europeo al caso Hornby (15 febbraio 1997), nel
quale “la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu) condannò la Grecia perché il
processo amministrativo di quel Paese (del tutto analogo a quello italiano prima
dell'emanazione del Codice del processo amministrativo) non prevedeva una
sentenza satisfattiva della pretesa del cittadino ad ottenere un determinato
provvedimento da parte della pubblica amministrazione, cioè perché non
prevedeva quella che, in base alla terminologia introdotta dal diritto processuale
amministrativo tedesco, viene chiamata azione di adempimento, id est la
condanna della pubblica amministrazione ad emanare un determinato
provvedimento nel caso ne esistano i presupposti accertabili da un giudice” (11
ss.). Per la tesi ampliativa cfr. M. Clarich, Le azioni nel processo amministrativo
tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, cit.; M. Clarich, Rossi Sanchini,
Linee evolutive del processo amministrativo: il lungo cammino (non ancora
concluso) dal giudizio sull'atto al giudizio sul rapporto, in G. Amato e R. Garofoli
(a cura di), Il Libro dell'anno, Diritto, Treccani, Roma, 2012. In tema si veda
anche S. Raimondi, Le azioni, le domande proponibili e le relative pronunzie nel
codice del processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 913 ss. Sulla
tipologia delle azioni prima del nuovo codice in generale cfr. E. Follieri, La
tipologia delle azioni proponibili, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia
amministrativa, 3ª, Torino, 2009, 169 ss. Tra i commentari e i trattati sinora editi
sul c.p.a., cfr. F. Caringella, sub art. 29 (approfondimento), in F. Caringella e M.
Protto (a cura di) Codice del nuovo processo amministrativo, II ed., Trento, 2011,
395, che parla di azione di condanna pubblicistica o azione di esatto
adempimento, valorizzando soprattutto il rescritto di Cons. Stato, Ad. plen., n. 3
del 2011; ivi cfr. anche V. Lopilato, sub artt. 31, 413, il quale ritiene che,
ancorché “nel successivo iter che ha caratterizzato l'approvazione del Codice” sia
“rimasta soltanto l'azione avverso il silenzio”, essa potrebbe essere ugualmente
“qualificata quale azione di adempimento in presenza dei presupposti contemplati
dalla legge”; favorevole alla configurabilità di un'azione di adempimento,
nell'ambito dell'art. 31 c.p.a., sull'abbrivio della pronuncia della Plenaria ora
richiamata, sembra anche M. Occhiena, sub art. 31, in R. Garofoli, G. Ferrari (a
cura di), Codice del processo amministrativo, II ed., Roma-Lecce, 2012, 587; in
senso positivo cfr. altresì R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo,
Milano, 2010, 172 ss.; M. Ramajoli, Le tipologie delle sentenze del giudice
amministrativo, in R. Caranta (a cura di), Il nuovo processo amministrativo,
Torino, 2011, 580, ritiene che “sparsi in tutto il codice vi sono frammenti di
azione di accertamento ... e di adempimento (nel caso di condanna all'adozione di
misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio,
oppure nel caso di giudizio avverso il silenzio, quando il giudice si spinge a
valutare la fondatezza della pretesa o nello speciale giudizio in tema di appalti
pubblici)”.
(5) Parte della processualistica odierna svaluta la tipicità delle azioni in favore del
principio di atipicità della One form of action, quale declinazione atipica e
mutevole dell'art. 24 della Costituzione, ciò che consentirebbe probabilmente un
approccio deflazionista al tema dell'opzione del codice del processo
amministrativo nel dilemma “tipicità-atipicità” delle azioni (B. Sassani, Riflessioni
sull'azione di nullità, in questa Rivista, 2011, 269; Id., Arbor actionum.
L'articolazione della tutela nel codice de processo amministrativo, in Riv. dir.
proc., 2011, 1356 ss.; nel senso della atipicità delle azioni nel nuovo codice anche
L. Torchia, Le nuove pronunce nel Codice del processo amministrativo, relazione
al 56º Convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 23-25 settembre 2010, in
http://www.giustizia-amministrativa.it, 25 novembre 2010, nonché M. Ramajoli,
Le tipologie delle sentenze del giudice amministrativo, cit., 589 e 615 ed E.
Follieri, L'azione di nullità dell'atto amministrativo, in Giust.Amm.it, aprile 2012).
Nel senso che il c.p.a. avrebbe aperto all'atipicità delle azioni, Cons. Stato, ad.
plen., 23 marzo 2011, n. 3, punto 3.1 della motivazione in diritto, nonché Id., 29
luglio 2011, n. 15, punti 6.4.1. e 6.5.1. della motivazione in diritto. Sul tema, con
riferimento soprattutto ai profili della tutela in caso di silenzio-assenso e di
s.c.i.a., E. Scotti, Tra tipicità e atipicità delle azioni nel processo amministrativo (a
proposito di ad. plen. 15/11), in Dir. amm., 2011, 765 ss. I. Pagni, L'azione di
adempimento nel processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 2012, 328 ss.
(nonché in GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 11 giugno 2012),
distingue tra atipicità del diritto di azione e atipicità delle forme di tutela.
(6) Peraltro il nuovo progetto di decreto correttivo del codice processuale
amministrativo, elaborato dalla medesima Commissione di studio (integrata)
costituita presso il Consiglio di Stato, dovrebbe proporre l'aggiunta, in principio
del capo II (Azioni di cognizione) del titolo III (Azioni e domande) del libro I
(Disposizioni generali) del codice di un nuovo art. 28-bis, del seguente tenore:
“Le parti possono proporre le azioni costitutive, dichiarative e di condanna idonee
a soddisfare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio”. Il che
testimonia la perdurante incertezza del tema.
(7) Si ricorda che l'art. 3, comma 6-bis, del decreto legge n. 35 del 2005,
aggiunto dalla legge di conversione n. 80 del 2005, nel modificare l'art. 2 della
legge n. 241 del 1990, vi aveva aggiunto un comma 5 del seguente tenore: “Salvi
i casi di silenzio assenso, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso
il silenzio dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo 21-bis della legge 6 dicembre
1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida
all'amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e
comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai predetti commi 2
o 3. Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza. È fatta
salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i
presupposti”. L'art. 21-bis [poi abrogato dal n. 10) del comma 1 dell'art. 4
dell'allegato 4 al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, a decorrere dal 16 settembre 2010],
era stato inserito nella legge n. 1034 del 1971 dalla legge n. 205 del 2000. Su
queste norme cfr. G. Fonderico, Il nuovo tempo del procedimento, la d.i.a. e il
silenzio assenso, in Giorn. dir. amm., 10/2005, 1017 ss. (che richiama Tar
Calabria, Catanzaro, sez. I, 21 luglio 2005, n. 1356). Si vedano altresì Tar
Campania, Napoli, sez. I, 13 giugno 2005, n. 7817; Tar Toscana, sez. I, 20
giugno 2005, n. 3044; Tar Lazio, sez. II-bis, 11 gennaio 2006, n. 213, che
restringe l'accesso al merito “alle sole ipotesi di manifesta fondatezza o
infondatezza della pretesa sostanziale”; Tar Lazio, sez. II-ter, 20 gennaio 2006,
n. 429, Id., II-quater, 23 maggio 2006, n. 3778; Tar Campania, Napoli, VI, 17
marzo 2006, n. 3099; Tar Latina, 12 aprile 2006, n. 249 (le decisioni citate sono
tutte reperibili al sito http://www.giustizia-amministrativa.it).
(8) Tema peraltro variamente frammisto o confuso, in quel dibattito, alla diversa
questione, contigua ma distinta, della “reintegrazione in forma specifica” di cui
all'articolo 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 e al nuovo testo dell'articolo 7 della legge
n. 1034 del 1971 modificato dalla legge n. 205 del 2000, in tema di cd.
“aggiudicazione sostitutiva”, disposta jussu judicis in favore del ricorrente
vincitore (cfr., ad es., Tar Lombardia, Brescia, 23 aprile 2002 n. 787, in Urb.
app., 2002, 1456 e ss.). Sulla distinzione tra reintegrazione in forma specifica
(riconducibile all'art. 2058 c.c.), azione di adempimento ed esecuzione in forma
specifica cfr. A. Travi, La reintegrazione in forma specifica nel processo
amministrativo tra azione di adempimento e azioni risarcitorie, nota di commento
a Cons. St., sez. VI, 18 giugno 2002 n. 3338, in questa Rivista, 2003, 208 ss.;
Id., Processo amministrativo e azioni di risarcimento del danno: il risarcimento in
forma specifica, ivi, 2003, 994 ss. Tale distinzione è bene tratteggiata in Cons.
St., Sez. VI, 25 marzo 2003, n. 1551, 3 aprile 2003, n. 1716, 30 maggio 2008, n.
2621; Sez. IV, 12 gennaio 2005, n. 45. Un'ampia ricognizione su tali tematiche in
G. Guidarelli, La reintegrazione in forma specifica nella tutela giurisdizionale
dell'interesse legittimo, in questa Rivista, 2006, 644 ss. Sull'azione di condanna
del diritto tedesco cfr. A. Masucci, La legge tedesca sul processo amministrativo,
Milano, 1991, 23, ove si osserva come “(la previsione dell'azione di condanna in
diritto tedesco) riflette il superamento di una concezione della pubblica
amministrazione come soggetto meramente autoritatitvo e la rilevanza che
l'amministrazione ha acquisito come soggetto erogatore di servizi, come soggetto
che promette utilità”. Osservazione rinvenibile anche in M. Nigro, Giustizia
amministrativa, Bologna, 4ª ed., 1994, 316. In generale, F. Liguori, La
reintegrazione in forma specifica nel processo amministrativo, Napoli, 2003; L.
Tarantino, L'azione di condanna nel processo amministrativo, Milano, 2003; I.
Franco, Gli strumenti di tutela nei confronti della pubblica amministrazione.
Dall'annullamento dell'atto lesivo al risarcimento, Padova, 2003; D. Vaiano, La
pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, 644 ss.; M.
Carrà, Risarcimento in forma specifica e Folgenbeseitigung: le frontiere mobili
della responsabilità pubblica tra annullamento dell'atto e risarcimento per
equivalente, in Dir. amm., 2004, 784 ss. Un'ampia ricognizione su tali tematiche
in M. Clarich, L'azione di adempimento nel sistema di giustizia amministrativa in
Germania: linee ricostruttive ed orientamenti giurisprudenziali, in questa Rivista,
1985, 66 ss., nonché Id., con specifico riguardo alle novità normativa del 2005,
Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, ivi,
2005, 557 ss.
(9) È noto che non esiste in diritto italiano una “riserva di amministrazione” nei
confronti del legislatore, a differenza di quanto accade in Francia (art. 37 della
Costituzione: Les matières autres que celles qui sont du domaine de la loi ont un
caractère réglementaire). Nulla vieta al legislatore di introdurre provvedimenti
(sul tema, da ultimo, cfr. N. Guasconi, Dalle pronunce sui calendari venatori
nuove indicazioni in materia di leggi - provvedimento (nota a Corte cost., sent.
nn. 20 e 105 del 2012), in GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 15 giugno
2012). Può invece affermarsi l'esistenza di una riserva di amministrazione nei
confronti della giurisdizione, nel senso di un limite al sindacato del giudice in
determinate aree riservate all'amministrazione, quali il merito amministrativo (e,
in tesi, quel segmento della scelta tecnico-discrezionale non sostituibile con un
sindacato “forte” da parte del giudice). Sul merito amministrativo cfr. G.
Coraggio, voce Merito amministrativo, in Enc. Dir., XXVI, Milano, 1970, 130 ss.
Sui rapporti tra legge, provvedimento e sentenze del giudice, nel sistema delle
fonti produttive della normazione, in un contesto gradualista, cfr. R. Carré de
Malberg, La teoria gradualistica del diritto, a cura di A. Chimenti, Milano, 2003,
passim. Si rileva, tuttavia, che, prima di Montesquieu e della Rivoluzione
francese, la separazione dei poteri riguardava solo l'esecutivo e il legislativo (tesi,
come è noto, ripresa da H. Kelsen, Problemi fondamentali della dottrina del diritto
pubblico, trad. it. di A. Carrino e G. Stella, Napoli, 1997, 562, nonché 492, nota
10; sulla radicale critica del Kelsen alla distinzione tra potere esecutivo e potere
giudiziario, sull'assunto che le funzioni statali sono due e soltanto due, la funzione
normativa e quella esecutiva: legis latio e legis executio, cfr. F. Modugno, voce
Poteri (divisione dei), in Noviss. Dig. it., vol. XIII, Torino, 1957, 482 ss.). Il
rapporto tra giudice amministrativo e amministrazione è indagato di recente da
G. Tropea, L'ibrido fiore della conciliazione: i nuovi poteri del giudice
amministrativo tra giurisdizione ed amministrazione, in questa Rivista, 2011, 965
ss. Il tema della riserva di amministrazione come limite esterno alla giurisdizione
è ripreso da recenti pronunce delle Sezioni unite della Cassazione (Cass., ss.uu.,
9 novembre 2011, n. 23302, in questa Rivista, 2012, 127 ss., con nota di G. Mari,
nonché Cass., ss.uu., n. 3712 del 2012, richiamata nella parte finale di questo
contributo, sub nota 50).
(10) G. Tropea, L'ibrido fiore della conciliazione: i nuovi poteri del giudice
amministrativo tra giurisdizione ed amministrazione, cit., 1031.
(11) A. Romano Tassone, Sui rapporti tra legittimazione politica e regime
giuridico degli atti dei pubblici poteri, in Studi in onore di L. Mazzarolli, I, Padova,
2007, 257 ss., nonché Id., Situazioni giuridiche soggettive e decisioni delle
amministrazioni indipendenti, in Dir. Amm., 2002, 465; S. Civitarese Matteucci,
Funzione, potere amministrativo e discrezionalità in un ordinamento democratico,
in Dir. Pubbl., 2009, 739 ss. Su di un piano ancor più ampio cfr. N. Luhmann,
Diritto e differenziazione, Bologna, 1990, dove la differenziazione nel diritto è
vista, nell'ambito della teoria dei sistemi, nel rapporto con gli altri sistemi sociali
(cfr., per es., 68 ss.) fino alla differenziazione tra Stato e società, nonché Id.,
Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Milano, 1995 (soprattutto cap. 3,
La differenziazione funzionale, ove si riferisce della teoria della differenziazione
funzionale dei sistemi sociali di Spencer e Durkheim). La divisione del lavoro
secondo criteri di specializzazione e di professionalizzazione della burocrazia ha
profonde radici nell'evoluzione storica delle società occidentali, soprattutto di
quelle europeo-continentali (M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione,
Torino, 1948). C. Schmitt, Dottrina della costituzione, trad. it. di A. Caracciolo,
Milano, 1984, 178, rileva che “come Stato di diritto è considerato solo uno Stato,
la cui attività sia completamente racchiusa in una somma di competenze
esattamente circoscritte. La divisione e la distinzione dei poteri contiene il
principio fondamentale di questa generale misurabilità di tutte le manifestazioni
statali di potere ... La generale misurabilità è il presupposto della generale
controllabilità”.
(12) Sul tema cfr. G. Tropea, op. cit., 1023.
(13) Osserva come la crisi della legge ampli il potere discrezionale
dell'amministrazione, che, per disciplinare il fatto in modo razionale e
proporzionato, è sempre più chiamata a compiere una complessa operazione
ermeneutica tra le sempre più numerose fonti e norme concorrenti e nel
bilanciamento dei valori L. Torchia, Le nuove pronunce e l'ambito di decisione del
giudice, cit., 12 ss., in particolare nel par. significativamente intitolato La nuova
legalità: amministrare è già giudicare.
(14) G. Coraggio, Discorso di insediamento del 18 aprile 2012 (reperibile al sito
http://www.giustizia-amministrativa.it), ha rilevato che “il processo
amministrativo ... è volto in primo luogo a ricondurre a correttezza l'azione
amministrativa” ed ha condivisibilmente chiarito come questa sua natura “è
legata alla struttura stessa delle situazioni soggettive in gioco, struttura che lega
indissolubilmente la soddisfazione della pretesa del privato alla corretta gestione
del potere e quindi dell'interesse generale”. P. de Lise, Discorso di inaugurazione
dell'anno giudiziario 2011 (ivi), ha considerato come “il processo amministrativo
guarda innanzitutto al “fatto”, alla vicenda concreta in cui si attua la dialettica
autorità-libertà, e su tale vicenda modella il giudizio, avvalendosi di un sindacato
per clausole generali (correttezza, proporzionalità, ragionevolezza) che consente
di salvaguardare la sfera giuridica del cittadino penetrando le logiche del potere
pubblico”.
(15) La centralità dell'effetto conformativo della sentenza di annullamento
costituisce un'acquisizione pacifica già da decenni ed è ricollegabile anche alla
nozione tedesca di “azzeramento della discrezionalità per assenza di alternative
nel caso concreto”. La giurisprudenza già da anni aveva forgiato il principio —
tutto pretorio — del limite alla reiterazione del diniego, dopo l'annullamento, per
motivi nuovi e diversi mai esaminati nel rapporto amministrativo (Cons. Stato,
Sez. IV, 5 agosto 2003, n. 4539; Sez. V, 28 giugno 2004, n. 4775; Sez. VI, 3
dicembre 2004, n. 7858; Sez. IV, 4 marzo 2011, n. 1415; sul tema cfr. M.
Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo
amministrativo, cit., 580, nota 47; G. Guidarelli, La reintegrazione in forma
specifica, cit., 707; D. Vaiano, Sindacato di legittimità e “sostituzione” della
pubblica amministrazione, sulla rivista di diritto pubblico on line GiustAmm.it, al
sito http/www.giust.ammit/, 23 maggio 2012, nota 28 di p. 12).
(16) C. Calabrò, voce Giudicato, diritto processuale amministrativo, in Enc. giur.,
Roma, 2003; F. Satta, voce Giurisdizione esclusiva, in Enc. Dir., Aggiornamento,
vol. V, Milano, 2001, 571 ss., soprattutto, 581 e nota 27.
(17) G. Verde, Commento a TAR Lombardia, sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428,
richiamato da I. Pagni, op. cit., 339, nota 24, nonché Id., Sguardo panoramico al
libro primo e in particolare alle tutele e ai poteri del giudice, in questa Rivista
2010, 795 ss.
(18) G. Coraggio, Discorso di insediamento, cit., rileva come “Quella di
salvaguardare l'autonomia decisionale dell'amministrazione e la responsabilità
delle sue scelte è un'esigenza pratica prima ancora che teorica: una cognizione
invasiva la delegittima e sostituisce ad una visione che è — o dovrebbe essere —
globale, la frammentarietà connaturata all'intervento giudiziale”.
(19) Né vale obiettare contra che, già nello schema tradizionale bipartito, il
giudice si sostituisce all'amministrazione con il commissario ad acta: è evidente
che, in questo quadro, la sostituzione è l'eccezione, che pone rimedio alla doppia
patologia dell'agire amministrativo (che, dopo aver adottato un atto illegittimo,
persevera nell'errore, violando il giudicato); nella tesi, nuova, della fusione
cognizione-esecuzione in un'unica fase, invece, la sostituzione diventerebbe la
norma (e non più l'eccezione).
(20) D. Vaiano, Sindacato di legittimità e “sostituzione” della pubblica
amministrazione, cit., fa leva sulla “saldatura” delineata dall'art. 34 c.p.a. tra le
fasi della cognizione e quella dell'ottemperanza e ipotizza un superamento della
giurisdizione estesa al merito, ormai riassorbita nei più ampi e sostitutori poteri
del giudice nella sua generale ed unitaria attribuzione di giurisdizione. L'A.
condivisibilmente rileva (13) come “in questo caso, più che di una vera e propria
sostituzione dell'amministrazione, ci si trovi piuttosto in presenza
dell'affermazione di un principio di preclusione temporale che incombe
sull'amministrazione la quale, in virtù dei sopra richiamati principi di
ragionevolezza, adeguatezza della motivazione, completezza dell'istruttoria, etc.,
non può ritenere di poter continuamente riesercitare poteri discrezionali di
valutazione di una domanda ad essa rivolta da un interessato, ma deve
soggiacere a precisi limiti temporali entro i quali, se vi sono cause ostative
all'accoglimento della stessa, debbono essere evidenziate. Altrimenti, si dovrà
ragionevolmente concludere che legittimi motivi ostativi non ve ne siano”.
(21) D. Sorace, C. Marzuoli, Concessioni amministrative, in Digesto IV, Disc.
pubbl., IV, vol. III, Torino, 1989, 280 ss.; V. Cerulli Irelli, Diritto amministrativo e
diritto comune: principi e problemi, in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, I,
Milano, 1998, 558; da ultimo, F. Trimarchi Banfi, L'atto autoritativo, in Dir. amm.,
2011, 665 ss. Sulla critica della qualificazione dell'atto favorevole su domanda in
termini di atto non autoritativo — teoria solo descrittiva della struttura esteriore
dell'atto e del rapporto, ma che oblitera la sua causa formale e finale — e per
un'analisi del comma 1-bis dell'art. 1 della legge n. 241 del 1990, sia consentito,
per mera sintesi, il rinvio a P. Carpentieri, La razionalità complessa dell'azione
amministrativa come ragione della sua irriducibilità al diritto privato, in Foro
Amm. - TAR, 2005, 2652 ss., nonché Id., La razionalità complessa dell'azione
amministrativa. Note a margine del nuovo comma 1-bis dell'art. 1 della legge 241
del 1990, in P. Stanzione e A. Saturno (a cura di), Il diritto privato della pubblica
amministrazione, Padova, 2006, 80 ss.
(22) L. Iannotta, L'interesse legittimo nell'ordinamento repubblicano, in questa
Rivista, 2007, 935 ss., 947 ss., che propone l'idea dell'interesse legittimo come
diritto amministrativo, ossia l'idea della “riconduzione dell'interesse legittimo al
diritto, vale a dire alla rivendicazione da parte di un soggetto di una res in quanto
a lui dovuta, a lui spettante — da attribuire, concedere, lasciar utilizzare,
valorizzare, non sottrarre, non attribuire ad altri, conformare in modo adeguato”,
che “porta alla configurazione, in capo alla pubblica amministrazione — tenuta
all'efficacia, all'economicità, alla pubblicità, alla trasparenza — di un vincolo
giuridico riferibile al titolare del diritto”.
(23) Anche G. Falcon, La responsabilità dell'amministrazione e il potere
amministrativo, Torino, 2001, 247, osserva come “nell'interesse legittimo esiste
dunque un profilo di spettanza, ma questa non forma il contenuto di una
obbligazione che a priori stringa due soggetti, bensì il risultato dell'esercizio
legittimo del potere, il quale lo definisce” (sul tema si veda anche Id., Giudice
amministrativo e interesse legittimo, in Dir. amm., 2006, 273 ss.). Sottolinea
bene la natura affatto speciale di questo “rapporto” amministrativo E. Scotti, Tra
tipicità e atipicità delle azioni nel processo amministrativo (a proposito di ad.
plen. 15/11), cit., 808.
(24) N. Paolantonio, Articolo 1, comma 1-bis, Principi generali dell'azione
amministrativa, in N. Paolantonio, A. Police, Zito, La pubblica amministrazione e
la sua azione, Torino, 2006; F. Liguori, L'attività non autoritativa tra diritto
privato e diritto pubblico. A proposito del comma 1 bis, in Giustamm.it, rivista
informatica al sito http://www.giustamm.it, n. 11/2006; F. Trimarchi Banfi, L'atto
autoritativo, cit., 669 ss.
(25) L. Iannotta, L'adozione degli atti non autoritativi secondo il diritto privato, in
Dir. amm., 2006, 353 ss., che richiama la nozione di “diritto soggettivo
amministrativo” (A. Klitsche De Lagrange, F. Cammeo richiamati ivi, 363 e note
48-50).
(26) Su cui si vedano anche L. Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento
amministrativo, Padova, 1996; E. Boscolo, I diritti soggettivi a regime
amministrativo, Padova, 2001; G. Falcon, Il giudice amministrativo tra
giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001,
287 ss. che richiama la nozione di Rechte di cui al par. 42, comma 2, della legge
processuale tedesca (VwGO), ovvero dei cd. “interessi pretensivi
prognosticamente fondati”, o “finali”, o “a risultato garantito”, come descritto da
altri commentatori.
(27) È per certi versi curiosa la contraddizione cui conducono queste
impostazioni: da un lato si mira a smantellare i controlli preventivi di funzione
pubblica; dall'altro lato si propongono costruzioni elaborate e fantasiose per
conservare comunque azioni amministrative di controllo sull'inerzia o sul modo di
esercizio del potere (intanto abolito). Così si spiega il pasticcio della tutela del
terzo in caso di d.i.a. o s.c.i.a. (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., n. 15 del 2011, che
aveva inventato l'impugnativa del “silenzio-diniego” di controllo successivo,
contraddetta però dal decreto legge n. 138 del 2011, art. 6, comma 1, che ha
previsto, invece, per tali casi, l'azione avverso il silenzio-inadempimento della
p.a.). Su questi temi sia consentito il rinvio al mio La riforma dell'art. 41 della
Costituzione e la tutela del patrimonio culturale, pubblicato sulla rivista di diritto
pubblico on line GiustAmm.it, al sito http/www.giust.ammit/, 26 ottobre 2011,
dove ho rilevato la riduzione del diritto amministrativo a diritto sanzionatorio, con
uno slittamento della tutela dall'azione regolatrice preventiva dell'amministrazione
(in funzione di cura dell'interesse generale) all'azione individuale successiva di
diritto soggettivo a tutela della proprietà privata (secondo lo schema dei limiti alla
proprietà del codice civile, posti solo a tutela del vicino e rimessi alla sua
attivazione). Il tema della s.c.i.a. dopo la plenaria n. 15 del 2011 e l'art. 6 del d.l.
n. 138 del 2011 è di recente trattato, con ampia sintesi, da R. Ferrara, La
segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del
giudice amministrativo, nota a Cons. Stato, ad. plen., 19 luglio 2011, n. 15, in
questa Rivista, 2012, 171 ss., nonché da L. Bertonazzi, Natura giuridica della
S.c.i.a. e tecnica di tutela del terzo nella sentenza dell'Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato n. 15/2011 e nell'art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/90,
ivi, 215 ss., e M. Ramajoli, La s.c.i.a. e la tutela del terzo, ivi, 329 ss. Ravvisa
spazi applicativi per formule atipiche di accertamento/condanna idonee a dare
tutela effettiva al terzo E. Scotti, Tra tipicità e atipicità delle azioni nel processo
amministrativo (a proposito di ad. plen. 15/11), cit., 781, 782, nonché 799 ss.
(28) R. Caroccia, op. cit., pp. 5 e 6 del documento e nota 30. L'argomento è
tautologico: posto il dogma assiomatico dell'estensione e del potenziamento della
nuova azione di adempimento, di fronte al rilievo che l'attività vincolata è ormai
quasi tutta “consegnata” all'autocertificazione e al silenzio assenso e che in questi
casi — artt. 19 e 20 della legge n. 241 del 1990 — l'azione avverso il silenzio (che
è il veicolo normale dell'azione di adempimento) non è esperibile — si vorrebbe
pervenire alla conclusione per cui l'azione di adempimento deve essere ammessa
proprio e soprattutto nelle materie “sensibili”, escluse dalla s.c.i.a. e dal silenzioassenso, ossia nelle materie in cui di regola maggiore è la presenza di
discrezionalità tecnica. Restano da dimostrare sia l'assioma di partenza che la
pretesa conclusione (che dequota la discrezionalità tecnica ad attività interamente
vincolata).
(29) Condivisibile appare dunque il rilievo di R. Giovagnoli, Liberalizzazioni,
semplificazioni ed effettività della tutela, in GiustAmm.it, al sito
http/www.giust.ammit/, 14 giugno 2012, par. 5, dal titolo La valorizzazione della
discrezionalità e la necessità di riscoprire l'eccesso di potere, secondo cui “Un
ulteriore elemento di interesse che emerge dai provvedimenti di liberalizzazione
di cui ci occupiamo è la valorizzazione della discrezionalità amministrativa come
forma normale di esercizio del potere pubblico. Il potere vincolato è certamente
recessivo, perché laddove le condizioni di accesso sono rigidamente fissate dalla
legge e si tratta solo di verificarne l'esistenza, il legislatore opta chiaramente per
forme di liberalizzazione che vanno dalla totale eliminazione del titolo
all'introduzione di titoli “leggeri” quali la d.i.a. o s.c.i.a., in cui il controllo della
p.a. è eventuale e successivo. Laddove, invece, proprio la ricordata presenza di
interessi costituzionalmente rilevanti richiede una valutazione comparativa da fare
caso per caso, secondo il modello tipico di discrezionalità amministrativa, il ruolo
dell'Amministrazione rimane ineliminabile. L'attività amministrativa quindi diventa
sempre meno vincolata e sempre più discrezionale. E questo comporta, sul piano
della tutela, la necessità di rimettere al centro la figura dell'eccesso di potere”.
(30) A. Orsi Battaglini e C. Marzuoli, La Cassazione su risarcimento del danno
arrecato dalla pubblica amministrazione: trasfigurazione e morte dell'interesse
legittimo, in Dir. pubbl., 1999, 487 ss.; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al
processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel
nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003; F. Volpe, Norme
di relazione, norme d'azione e sistema italiano di giustizia amministrativa,
Padova, 2004, 269 ss. — che ipotizza un rapporto obbligatorio di fonte legale a
contenuto non patrimoniale in cui sulla p.a. gravano contestualmente un obbligo
di prestazione verso il privato e un dovere a presidio dell'interesse pubblico, posto
da norme d'azione; A. Proto Pisani, Appunti sul giudice delle controversie tra
privati e pubblica amministrazione, in Foro it., 2009, V, 369 ss. — secondo cui la
figura dell'interesse legittimo sarebbe scomparsa e residuerebbe, nel confronto
tra p.a. e cittadino, la sola, tradizionale coppia pretesa-obbligo. Secondo queste
posizioni, dunque, verrebbe meno la distinzione tra dovere e obbligo, come
tratteggiata da Santi Romano (Doveri, Obblighi, in Frammenti di un dizionario
giuridico, Milano, 1983, ristampa inalterata dell'opera del 1947, 98) e l'idea, ivi
lumeggiata, di doveri — tipicamente quelli della funzione pubblica — non
correlativi a specifici diritti soggettivi “e che quindi rimangono fuori l'orbita di ogni
rapporto giuridico con singole cose o singole persone” (104). Del tutto
condivisibile appare, dunque, riguardo a quelle tesi, la critica di R. Villata, Corte di
cassazione, Consiglio di Stato e c.d. pregiudiziale amministrativa, in questa
Rivista, 2009, 915 ss.). Un richiamo netto e chiaro ai principi in M. Mazzamuto, A
cosa serve l'interesse legittimo?, in Dir. proc. amm., n. 1/2012, 46 ss.
(31) I. Pagni, op. cit., 336, 337, dove si rammenta, altresì, la stretta similitudine
con il diritto societario, nel quale, è utile sottolinearlo, sarebbe improponibile
un'azione di un socio diretta alla condanna della società ad adottare una
determinata delibera sociale, con i contenuti desiderati dall'attore. Ma, tant'è,
come già avvenuto nella vicenda, per certi versi paradossale, dell'azione
risarcitoria autonoma, i fautori dell'effettività-satisfattività pretendono contro
l'amministrazione molto di più di quanto sia lecito a un privato chiedere a un altro
privato in un rapporto di diritto civile.
(32) F. Merusi, Il diritto privato della pubblica amministrazione alla luce degli
studi di Salvatore Romano, in Dir. Amm., 2004, 649 ss., che richiama Salv.
Romano (L'atto esecutivo nel diritto privato, Milano, 1958).
(33) Sulla discrezionalità tecnica cfr. V. Bachelet, L'attività tecnica della pubblica
amministrazione, Milano, 1967; F. Ledda, Potere, tecnica e sindacato giudiziario
sull'amministrazione pubblica, in questa Rivista, 1983, 371 e ss., ora anche in F.
Ledda, Scritti giuridici, Padova, 2002, 179 e ss.; C. Marzuoli, Potere
amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985; F. Salvia, Attività
amministrativa e valutazioni tecniche, in questa Rivista, 1992, 685 ss.; D. de
Pretis, Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995; A.
Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative, Napoli, 1998. Per una
recente trattazione di sintesi completa ed efficace, cfr. G.C. Spattini, Le decisioni
tecniche dell'amministrazione e il sindacato giurisdizionale, in questa Rivista,
2011, 133 ss. Sulla discrezionalità in generale M. S. Giannini, Il potere
discrezionale della Pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939
(oltre a Diritto amministrativo, Milano, 1970, 486); C. Mortati, voce
Discrezionalità, in Noviss. Dig. it., vol. V, Torino, 1960, 1098 e ss.; A. Piras,
Discrezionalità amministrativa, in Enc. Dir., Milano, 1964, 69 e ss.; G. Pastori,
Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità, in Foro amm., 1987, II,
3165 ss.; L. Benvenuti, La discrezionalità amministrativa, Padova, 1986; G.
Azzariti, Dalla discrezionalità al potere, Padova, 1989; G. Berti, Procedimento,
procedura, partecipazione, in Studi in memoria di Guicciardi, Padova, 1975; F.G.
Scoca, Attività amministrativa, in Enc. Dir., IV, aggiornamento, Milano, 2002, 75
e ss.; A. Pubusa, Merito e discrezionalità amministrativa, in Dig. IV, Disc. Pubbl.,
vol. IX, Torino, 1994, 401 ss. Soprattutto sulle distinzioni tra sindacato “deboleestrinseco” e sindacato “forte-sostitutivo”, F. Cintioli, Consulenza tecnica d'ufficio
e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, in Cons. St., 2000, II,
2371 ss.; Id., Tecnica e processo amministrativo, in questa Rivista, 2004, 986
ss.; S. Baccarini, Giudice amministrativo e discrezionalità tecnica, in questa
Rivista, 2001, 80 ss.
(34) P. Carpentieri, Risarcimento del danno e provvedimento amministrativo, in
questa Rivista, 2010, 857 ss. Spunti innovativi e importanti nel senso dello
sviluppo di una teoria dell'azione amministrativa, oltre lo schema dell'atto, come
“decisione a base (o legittimazione) oggettiva”, in quanto legata alla cura
funzionale dell'interesse generale, al di là dell'imputazione soggettiva a un ente
pubblico, in A. Romano Tassone, Esiste l'”atto amministrativo” della pubblica
amministrazione? (in margine al recente convegno dell'AIPDA), in Dir. amm.,
2011, 763.
(35) F. Merusi, La teoria generale di Enzo Capaccioli nel dibattito amministrativo
contemporaneo, in Dir. civ., 2009, 873 ss., soprattutto 880 ss., che riprende la
nota declinazione tutta civilistica fornita riguardo agli schemi logici di Capaccioli
da A. Orsi Battaglini - Attività vincolata e situazioni soggettive - Nota su alcuni
temi di Enzo Capaccioli, in Studi in ricordo di Enzo Capaccioli, Milano, 1988,
nonché in Riv. trim. dir. civ., 1988, 3 ss.. Secondo F. Merusi (op. cit., 882) “alla
conclusione processuale fondata sull'identificazione inevitabile di un diritto
soggettivo negli atti a presupposto vincolato” non potrebbero rimediare “né la
teoria della fattispecie precettiva, né la teoria di una generale funzione di
accertamento” del provvedimento amministrativo (tesi, questa, ribadita in Id.,
Giurisdizione e amministrazione: ancora separazione dopo il codice sul processo
amministrativo? relazione al 56º Convegno di Studi Amministrativi, Varenna, 2325 settembre 2010, nonché in Il codice del giusto processo amministrativo, cit., 2
ss.). Condivide un nozione “ristretta” di discrezionalità anche P. Lazzara, L'opera
scientifica di Enzo Capaccioli tra fatto, diritto e teoria generale, ivi, 955 ss.
(soprattutto 971 e 974), secondo il quale già nella impostazione del Capaccioli
l'intera area della discrezionalità tecnica (nozione giudicata errata dall'Illustre A.)
rifluirebbe nello schema “norma-fatto” (generando, dunque, attività interamente
vincolata e, correlativamente, diritti soggettivi); in tal senso sarebbe interamente
vincolata l'attività di apprezzamento del carattere “lussuoso” dei beni danneggiati
dagli eventi di guerra — E. Capaccioli, Sulla natura della pretesa al risarcimento
dei danni da guerra, in Id., Diritto e processo, scritti vari di diritto pubblico,
Padova, 1978 — o, per guardare a fattispecie di più recente rilievo, la
determinazione del mercato rilevante da parte dell'Autorità di regolazione del
settore. Su questa linea riduttiva della discrezionalità tecnica ad attività vincolata
è anche N. Paolantonio, Il sindacato di legittimità sul provvedimento
amministrativo, Padova, 2000.
(36) In tal senso restano del tutto condivisibili le tesi elaborate sul tema da C.
Marzuoli (Potere amministrativo e valutazioni tecniche, Milano, 1985, cit.) e D. de
Pretis (Valutazione amministrativa e discrezionalità tecnica, Padova, 1995, cit.),
bene richiamate di recente nella sintesi fornita da G.C. Spattini, Le decisioni
tecniche dell'amministrazione e il sindacato giurisdizionale, cit., 148 ss. Per
riflessi applicativi nella materia “paradigmatica” dei beni culturali cfr. S. Benini, La
discrezionalità nei vincoli culturali e ambientali, in Foro it., 1998, III, 328. A.
Rota, La tutela dei beni culturali tra tecnica e discrezionalità, Padova, 2002,
soprattutto 69 e 260; A. L. Tarasco, Beni culturali e sindacato giurisdizionale sulla
discrezionalità tecnica. Nota a Tar Lombardia, Milano, sez. I, 17 giugno 2004, n.
2440, in Foro amm. - T.A.R., 2004, fasc. 9. Le posizioni sono compendiate in G.
Tropea, Il vincolo etnoantropologico tra discrezionalità tecnica e principio di
proporzionalità: “relazione pericolosa” o “attrazione fatale”?, nota a CGA, 10
giugno 2011, n. 418, in questa Rivista, 2012, 718 ss.
(37) P. Lazzara, op. cit., 975.
(38) Profilo bene evidenziato da C. Marzuoli, op. cit., 79 ss. Nello stesso senso F.
Volpe, Discrezionalità tecnica e presupposti dell'atto amministrativo, in Dir. amm.,
2008, 792 ss. (il quale pone giustamente l'accento sulla nozione di discrezionalità
mista — ivi, 830 — ed esclude la c.t.u. sulla discrezionalità tecnica, che, sostiene,
afferisce al merito amministrativo, poiché “anche la discrezionalità tecnica dà
luogo ad una valutazione su interessi, non troppo dissimilmente dalla
discrezionalità amministrativa”). Si veda anche Id., Il sindacato sulla
discrezionalità tecnica tra vecchio e nuovo rito (considerazioni a margine della
sentenza Cass. SS. UU., 17 febbraio 2012, n. 3712), in GiustAmm.it, al sito
http/www.giust.ammit/, 28 febbraio 2012.
(39) D. de Pretis, op. cit., ove sono indicati esemplificativamente gli indici cui fare
riferimento per rinvenire una siffatta volontà della legge di riserva della
valutazione all'amministrazione.
(40) Sulla teoria logica del giudizio e la figura del sillogismo giudiziale cfr. B.
Tonoletti, L'accertamento amministrativo, Padova, 2001, 17 e 75 ss. (ed ivi
richiami). Evidenzia la struttura di tipo sillogistico del provvedimento G. Corso,
Motivazione dell'atto amministrativo, in Enc. Dir., aggiorn., Milano, 2001, 776. In
generale, F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla
legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995, 1 ss., dove si pone l'accento sul
contenuto precettivo del provvedimento, nonché R. Villata, M. Ramajoli, Il
provvedimento amministrativo, Torino, 2006. Conforta questa impostazione, in
teoria generale del diritto, l'indicazione desumibile da L. Ferrajoli, Principia juris.
Teoria del diritto e della democrazia. I. Teoria del diritto, Roma-Bari, 2007, 508
ss., che include il provvedimento amministrativo tra le decisioni, che si pongono a
loro volta come la principale specie di atti precettivi.
(41) I. Copi, Introduzione alla logica, Bologna, 1964, 197.
(42) I. Copi, op. cit., 133.
(43) Sul tema cfr. F. Roselli, Il controllo della Cassazione sull'uso delle clausole
generali, Napoli, 1983; L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali,
in Riv. crit. dir. priv., 1986, 5 ss., nonché, per una utile sintesi alla luce di recenti
pronunce della Cassazione, sez. lavoro, in tema di “principi propri
dell'ordinamento lavoristico costituenti il cd. diritto vivente della “civiltà del
lavoro”, E. Fabiani, Norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, clausole
generali, « standards » valutativi e principi generali dell'ordinamento, in Foro It.,
1999, I, 3558 e ss., in nota a Cass., sez. lav., 13 aprile 1999 n. 3645.
(44) H. Putnam, Etica senza ontologia, trad. it., di E. Carli, Milano, 2005, 105;
Id., Fatto/valore; fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Roma, 2004, 39
ss.
(45) Il punto è posto in luce da D. de Pretis, Valutazione amministrativa e
discrezionalità tecnica, cit., 397 ss.: “ci possiamo anche chiedere se l'autorità
preposta alla tutela delle cose di interesse storico e artistico che si accinge ad
assumere un provvedimento di vincolo di un determinato bene abbia un potere di
valutazione della fattispecie normativa astratta (e quindi un potere di stabilirne in
astratto e a priori la portata, confrontando poi con essa una situazione di fatto
data, rispetto alla quale ad essa non compete alcun intervento di valutazione)
oppure abbia un potere di apprezzamento del fatto (e quindi un potere di
rapportare quest'ultimo, come da essa accertato sulla base di una propria
valutazione, ad una fattispecie normativa fissa) o ancora disponga di un vero e
proprio potere di apprezzamento e di scelta su entrambi i versanti dell'operazione
sillogistica di sussunzione del fatto nella norma. Così possiamo discutere se
l'attività di valutazione — ancora prima di essere un potere — concerna la norma
o il fatto concreto da sussumere nella norma; se essa riguardi, ad un tempo — e
magari indistintamente entrambi gli aspetti; se essa si risolva nella mera attività
di interpretazione della legge o se involga attività di accertamento del fatto
concreto; se la pluralità di soluzioni applicative connesse con la norma imprecisa
derivi dall'opinabilità della interpretazione della norma o dall'opinabilità del dato
della realtà da sussumere in essa; e così via. Tuttavia, ciò che a noi interessa,
nella prospettiva che ci siamo posti, che è quella di individuare un fenomeno
valutativo al quale sia corretto assegnare un regime giuridico di affidamento
riservato all'amministrazione (con la conseguenza della sua sottrazione ad un
controllo pieno del giudice di legittimità) è di capire se l'amministrazione si trovi
in relazione all'attuazione della norma che disciplina gli interventi amministrativi
di vincolo a fini storici e artistici in una condizione di potere in ordine alla
valutazione delle condizioni di particolare pregio artistico e storico del bene (che
possiamo anche convenzionalmente chiamare potere di valutazione del fatto) o se
la sua attività di valutazione costituisca mera attuazione della norma e possa
essere come tale riesaminata in sede di sindacato di legittimità alla stregua di
qualsiasi altra attività semplicemente applicativa della legge; e per comprendere
questo non possiamo che risalire alla legge e definire, mediante l'attività
interpretativa, se, alla stregua dei criteri di carattere soggettivo e di carattere
sostanziale (...), siamo o meno in presenza di un'attribuzione di potere avente ad
oggetto la valutazione del fatto”.
(46) L'enunciato afferma la singolarità, in modo vero o falso. La proposizione
diventa unità se afferma o nega l'esistenza di una singola entità con i suoi
attributi (D. Davidson, Truth and Predication, 2005; trad. it. di S. Levi, Sulla
verità, Roma-Bari, 2006, 83 e 89). Occorre riflettere sulla differenza tra
riferimento e predicazione (o significato) di una proposizione (ossia del significato
dell'enunciato che la esprime). Mentre la relazione tra nome e cosa nominata è
ciò che dobbiamo conoscere per comprendere il nome, ma non qualcosa che
l'enunciato esprima, la relazione fra una proprietà o una relazione e l'entità o le
entità nominate deve venir espressa dall'enunciato. Mentre i nomi si riferiscono a
entità i verbi connettono proprietà o relazioni alle entità nominate (D. Davidson,
op. cit., 77, 78).
(47) L'ulteriore contributo sul pensiero del Capaccioli rinvenibile nel citato n.
4/2009 della Rivista Dir. amm. — P. Russo, L'accertamento tributario nel pensiero
di Enzo Capaccioli: profili sostanziali e processuali, 1033 ss. — dimostra come
l'idea “estesa” dell'attività vincolata trovi la sua più adeguata e coerente
collocazione proprio con riferimento all'accertamento del rapporto di obbligazione
tributaria, che è ricostruibile come dichiarazione e recupero di un credito e poco
ha a che fare con il provvedimento amministrativo in senso proprio.
(48) P. de Lise, nella Relazione sull'attività della Giustizia amministrativa per
l'anno 2012, 1º febbraio 2012, reperibile al sito http://www.giustiziaamministrativa.it, ha osservato come “Il giudice amministrativo cura, ove
possibile, le patologie dell'amministrazione; non ne demolisce le funzioni, ma
fornisce insegnamenti e indirizzi per migliorarne l'esercizio”, ma ha nel contempo
rilevato come “dopo gli obiettivi dell'effettività e della pienezza della tutela stiamo
per raggiungere un più alto traguardo: quello della sua satisfattività, affinché
l'effetto delle pronunce di accoglimento non sia più soltanto quello di “dare torto”
all'amministrazione ma anche quello di “dare ragione” al privato, ovviamente nei
limiti e con le garanzie delle tecniche processuali”.
(49) Per un esempio pratico sia consentito il rinvio al mio contributo Diritto alla
salute, localizzazione degli impianti e giudice ordinario, in Urb. App., 2007, 797
ss.
(50) Su cui si veda il commento, del tutto condivisibile, di F. Volpe, Il sindacato
sulla discrezionalità tecnica tra vecchio e nuovo rito (considerazioni a margine
della sentenza Cass. SS.UU. 17 febbraio 2012, n. 2312), in Giust. amm., 28
febbraio 2012. Il tema del limite esterno della giurisdizione amministrativa, “cui
non è consentito invadere arbitrariamente il campo dell'attività riservata alla
pubblica amministrazione attraverso l'esercizio di poteri di cognizione e di
decisione non previsti dalla legge” è di recente ripreso da Cass., Ss.uu., n. 23302
del 2011 (ed ivi richiami di precedenti in termini), qui citata in nota 12. Su Cass.,
ss.uu., 2312 del 2012, cfr. la critica — condivisibile — in rito (rispetto al
parametro dell'art. 111 Cost.) di B. Sassani (Sindacato sulla motivazione e
giurisdizione: complice la translatio, le Sezioni Unite riscrivono l'articolo 111 della
Costituzione, in questa Rivista, 2012, 1589 ss.) e quella — non condivisibile — sui
contenuti, rispetto al limite di sindacato della discrezionalità tecnica — di M.
Allena (Il sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche
complesse: orientamenti tradizionali versus obblighi internazionali, ivi, 1602 ss.).
Riguardo a quest'ultimo contributo mette conto di evidenziare come esso,
secondo un trend molti diffuso negli ultimi anni, ricorrendo all'argumentum ad
auctoritatem della citazione delle varie Corti internazionali (qui è la CEDU), filtrato
attraverso l'art. 117 Cost., tenda a sovvertire il sistema del diritto processuale
amministrativo assegnando al G.A., in base a una lettura ampliativa del principio
elaborato dalla CEDU della full jurisdiction, non più il ruolo di giudice di cassazione
(di legittimità), rispetto all'azione amministrativa, bensì quello di “giudice di
appello” (novum judicium, ivi, 1633), travolgendo anche il tradizionale limite
dell'insindacabilità del merito della decisione amministrativa. Il che significa
confondere il ricorso giurisdizionale con quello amministrativo gerarchico (ossia
confondere, per l'appunto, giurisdizione e amministrazione). Ora, affermare i
principi (del tutto condivisibili) di piena giurisdizione (come, tra l'altro, cognizione
piena del fatto) e del contraddittorio processuale (come parità delle armi nel
processo), non implica affatto l'imposizione al G.A. del ruolo di amministratore di
secondo grado, che deve e può sostituire sempre il suo libero convincimento e il
suo giudizio di attendibilità della ricostruzione dei fatti al giudizio (sia pur
razionalmente e proporzionalmente) elaborato ed enunciato dall'amministrazione.
Occorrerebbe una seria e approfondita riflessione sui limiti di senso di questo
appello indiscriminato a queste Corti internazionali, usate come “grimaldelli” per
ribaltare dall'esterno i sistemi processuali nazionali. La teoria della full jurisdiction
come novum judicium esteso al merito fa il paio con la nota tesi, così detta, in
gergo, del “one shot only” per l'amministrazione, secondo cui l'amministrazione,
una volta pronunciatasi sull'affare con il suo provvedimento, in caso di
impugnazione verrebbe immediatamente spogliata della funzione, assegnata da
subito al giudice, chiamato a riprovvedere direttamente sull'affare, senza alcun
remand all'amministrazione (ritenuta, in quanto parte in causa, non più
imparziale e inadatta a pronunciarsi nuovamente sull'affare dedotto). Queste
soluzioni hanno il lieve difetto di rendere il GA un duplicato autoreferenziale
dell'amministrazione: la funzione pubblica non sarà più svolta
dall'amministrazione, nel parametro dell'art. 97 Cost., ma — su semplice reclamo
— dal Giudice amministrativo, dagli avvocati e dai loro consulenti tecnici.
(51) Il rilievo è desunto da G. Coraggio, Discorso di insediamento, cit.
PROCESSO AMMINISTRATIVO E DISCIPLINA DELLE AZIONI: NUOVE
OPPORTUNITÀ, VECCHI PROBLEMI E QUALCHE LACUNA NELLA TUTELA
DELL'INTERESSE LEGITTIMO
Dir. proc. amm., fasc.2, 2012, pag. 503
FABRIZIO LUCIANI
Classificazioni: GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA - Giudizio amministrativo - - in
genere
Sommario: 1. Premessa. — 2. Interessi giuridici come oggetti di pretesa
sostanziale. — 3. Azione giurisdizionale e pretesa sostanziale. — 4. Pienezza ed
effettività della tutela giurisdizionale. — 5. Pienezza e effettività della tutela nel
Codice del processo amministrativo. — 6. Processo amministrativo e atipicità delle
azioni. — 7. Il difficile coordinamento tra l'azione di annullamento e l'azione
risarcitoria. Ancora in tema di pregiudiziale amministrativa. — 7.1. L'art. 1227
c.c. e l'illecito da comportamento privato. — 7.2. L'art. 1227 c.c. e l'illecito da
provvedimento amministrativo. — 8. Lacune e incertezze della normativa: l'azione
di nullità. — 8.1. Sul termine dell'azione. — 8.2. Sulla legittimazione all'azione. —
8.3. Sulla rilevabilità d'ufficio del vizio di nullità. — 8.3.1. Tesi restrittive e
ampliative sui poteri officiosi del giudice civile in tema di nullità. — 8.3.2. I poteri
officiosi del giudice amministrativo in tema di nullità.
1. Nel presente saggio si analizzeranno alcuni aspetti della disciplina sulle azioni
e sulle pronunce giurisdizionali che nel recente Codice del processo
amministrativo è stata indubbiamente potenziata e arricchita (1). In particolare,
si cercherà di verificare se a questa reale diversificazione di mezzi di tutela
corrisponda
maggiore
garanzia
giurisdizionale
dell'interesse
legittimo;
soprattutto, una garanzia più calibrata sulle effettive esigenze che l'interesse
legittimo ormai reclama a protezione di interessi sostanziali, a vario titolo
coinvolti nell'esercizio del potere pubblico.
Lo stretto rapporto che lega l'interesse giuridico ai rimedi per la sua tutela spiega
come a bisogni sostanziali differenziati corrisponda una pluralità di strumenti di
protezione; di qui l'opinione condivisa che “la funzione del processo è pur sempre
di costituire un rimedio alla carenza di cooperazione” nei rapporti tra soggetti (2). Per questo motivo, prima di affrontare la disciplina del Codice del processo
amministrativo per le anzidette finalità di indagine, sembra opportuno richiamare
— in funzione meramente riepilogativa — alcune idee generali, sui contenuti
sostanziali dell'interesse giuridico in rapporto agli strumenti per la sua piena ed
effettiva protezione giurisdizionale.
2. Per comodità espositiva, si possono distinguere due categorie di interessi
giuridici: a) interessi a conservare un'utilità già appartenente al soggetto; b)
interessi a conseguire un'utilità alla quale il soggetto aspira (3). In ogni caso,
l'interesse a conservare o a conseguire esprime la sua giuridicità in una relazione:
tra soggetti (relazione di pretesa); ovvero tra soggetti e beni (relazione di
appartenenza).
Il diritto sostanziale individua il contenuto giuridico di tali interessi (quale bene e
a che titolo deve essere conservato da Tizio; quale pretesa e a che titolo Tizio
deve realizzare a favore di Caio); e ne stabilisce le forme e l'intensità della loro
tutela. In questo modo, il diritto sostanziale detta la c.d. garanzia primaria
dell'interesse giuridico.
Le forme e le tecniche di tutela ascrivibili a questa garanzia primaria si
differenziano in base al tipo di relazione intersoggettiva che coinvolge l'interesse.
Nel caso di rapporti che si instaurano tra individui in posizione asimmetrica, nei
quali un soggetto può unilateralmente sottrarre utilità già appartenenti ad altri
ovvero soddisfare l'altrui aspirazione a conseguire nuove utilità (rapporti
verticali), la tutela si realizza attraverso norme giuridiche che disciplinano
l'esercizio del potere, condizionandone la legittimità. Nei rapporti verticali, la
garanzia primaria avverso arbitrari esercizi di potere consiste nell'immediata
condizione di invalidità dell'atto, che gli interessati dovrebbero spontaneamente
constatare, orientando di conseguenza i propri comportamenti.
Nel caso di rapporti paritetici (orizzontali), la garanzia primaria si realizza innanzi
tutto attraverso l'imposizione di obblighi di cooperazione, aventi ad oggetto
comportamenti positivi o negativi di contenuto materiale o giuridico. Rispetto
all'eventuale inadempimento di tali obblighi, l'ordinamento fa fronte imponendo
ulteriori obblighi di cooperazione che mirano alla spontanea rimozione delle
conseguenze materiali o giuridiche di tale inadempimento (nei diversi casi,
obblighi di restituire la cosa sottratta, di reintegrare in forma specifica la perdita
subita, di adempiere coattivamente alla prestazione richiesta ovvero, in via
residuale, di risarcire il danno per equivalente) (4). Nei rapporti orizzontali, la
garanzia primaria si realizza, dunque, imponendo in sequenza obblighi di
cooperazione e sanzionando come illecito il loro rispettivo inadempimento.
Laddove si registri il fallimento della garanzia primaria — quando cioè nonostante
l'invalidità dell'atto, non cessa l'esercizio del relativo potere; ovvero quando resta
insoddisfatto anche il successivo obbligo sostanziale che avrebbe dovuto
rimediare all'originario difetto di cooperazione — l'ordinamento attiva la garanzia
secondaria che consiste, nella sua manifestazione più significativa, nella tutela
giurisdizionale (5).
Garanzia primaria dell'interesse giuridico e garanzia secondaria nelle forme della
tutela giurisdizionale si incontrano, come subito si dirà, sul terreno della disciplina
delle azioni processuali (e delle pronunce del giudice) (6).
3. Si descrive autorevolmente l'azione giurisdizionale come il complesso dei
poteri, facoltà, oneri e doveri attribuiti all'individuo per consentirgli di avviare e
proseguire una fase processuale e di ottenere dal giudice una pronuncia di merito,
che sarà a lui favorevole nel caso in cui si dimostri fondata la pretesa sostanziale
fatta valere (7); nel caso in cui, cioè, in esito al processo, il giudice riesca ad
accertare che il ricorrente ha subito una concreta lesione del proprio interesse
giuridico per effetto di un atto invalido (per violazione di norme sull'esercizio del
potere) o di un comportamento illecito (per inadempimento di obblighi di
cooperazione tra soggetti).
Diritto di azione e pretesa sostanziale protetta sono, secondo una visione ormai
tradizionale, in un rapporto di autonomia (8): da una parte, sta la legittimazione
ad agire del ricorrente a difesa di un suo interesse (art. 24 Cost.), dall'altra, la
sua legittimazione ad ottenere una sentenza di accoglimento della domanda. Il
diritto di agire è riconosciuto al ricorrente per il solo fatto di essere titolare di un
interesse giuridicamente rilevante, di cui si lamenta l'altrui violazione, e per il
fatto di avere un concreto interesse ad una pronuncia giurisdizionale di
accoglimento della sua domanda di protezione; queste sono le condizioni
dell'azione, il cui difetto (accertato dal giudice) rende inammissibile l'esercizio
dell'azione o il suo proseguimento (9). Tale legittimazione al processo consente
al ricorrente di fare attività processuale fino alla sentenza di merito, che sarà di
accoglimento se e quando l'accertamento finale della fondatezza della domanda
legittimerà lo stesso ricorrente ad ottenere (e il giudice a concedere)
l'accoglimento del ricorso.
Rapporto di autonomia, dunque, tra diritto ad agire e situazione sostanziale da
proteggere attraverso l'azione. Tuttavia, nonostante questa autonomia, la
disciplina dell'azione processuale non viene elaborata a prescindere da quella
situazione sostanziale che ne costituisce l'oggetto; anzi, le è costruita “su
misura”, in funzione delle sue caratteristiche. L'interesse sostanziale da
proteggere esprime bisogni di tutela rispetto ai quali occorre prevedere idonei
rimedi di protezione e consentire al giudice adito — laddove ritenga fondata la
pretesa dell'agente — di offrire tutte le misure necessarie alla sua garanzia.
Il diritto sostanziale individua, come detto, i contenuti dell'interesse giuridico
(esigenze di conservare o di conseguire utilità) e predispone strumenti iniziali per
la tutela di tali interessi (qualificando invalido l'atto o illecito il comportamento
lesivo); così la disciplina delle azioni processuali che mira successivamente alla
protezione dei medesimi interessi contiene — oltre a norme di carattere
prettamente processuale — regole di tipo più sostanziale (un “diritto giudiziario
materiale”) (10), che individuano, se così si può dire, il “se”, il “cosa” della
tutela, lasciando alle norme processuali soprattutto la disciplina del “come” (11).
Non a caso, la disciplina delle azionidi cognizione contenuta nel Codice del
processo amministrativo contiene molte norme provenienti, non da precedenti
testi processuali ma da fonti del diritto amministrativo sostanziale che
contribuiscono a qualificare il suddetto Codice “della giustizia amministrativa”,
oltre che “del processo amministrativo” (12).
La disciplina delle azioni, dunque, esprime innanzi tutto l'area giuridica
sostanziale dei rapporti tra i soggetti, nella quale si manifesta il bisogno di tutela;
si arricchisce delle norme tipicamente processuali e con una sorta di movimento
circolare ritorna a tutela dell'interesse protetto, attraverso l'esercizio dell'attività
giurisdizionale.
4. Nel suo complesso, la disciplina delle azioni processuali è formulata in vista
del perseguimento di taluni obiettivi di fondo, giuridicamente rappresentati da
principi generali ai quali quella disciplina deve ispirarsi. In questa sede ci basta
indicare il principio di pienezza e il principio di effettività della tutela
giurisdizionale.
Pienezza della tutela indica che per un determinato interesse giuridico
l'ordinamento mette a disposizione tutti gli strumenti di tutela idonei a garantirne
la protezione. Effettività della tutela giurisdizionale indica invece la capacità del
processo di rimediare ai fallimenti della tutela sostanziale (effettività della
garanzia secondaria che corregge l'ineffettività della garanzia primaria). Quanto
più si attenua lo scarto tra garanzia secondaria e primaria, tanto più la tutela
giurisdizionale può dirsi effettiva (13).
Risultati di pienezza e di effettività della tutela giurisdizionale non sono però in un
rapporto di automatica e contestuale realizzazione. Una disciplina legislativa delle
azioni processuali che ottiene il risultato della tutela piena non necessariamente
approda anche al risultato dell'effettività. Anzi paradossalmente, molti rimedi
previsti a garanzia di un interesse possono essere controproducenti laddove non
siano opportunamente coordinati tra loro, secondo criteri di efficienza ed efficacia.
Per semplificare il quadro si può sostituire la corrente terminologia
processualistica con i modelli elaborati dall'analisi economica del diritto e
distinguere tra rimedi di tutela “proprietari” e “di responsabilità” (14). Si ipotizzi
un certo assetto distributivo che già attribuisca utilità ad un soggetto, nonché un
assetto in fieri, che garantisca soltanto la pretesa a conseguire utilità future; e si
ipotizzi la violazione di tali garanzie a conservare o a conseguire: è “proprietario”
lo strumento di tutela che consente di rimediare a tale violazione in termini reali,
recuperando l'utilità perduta o soddisfacendo in forma specifica l'aspirazione; è
“di responsabilità” invece lo strumento che lascia intatto l'ingiustificato
spostamento distributivo, ma fa pagare il prezzo all'autore della violazione. I
rimedi proprietari sono dunque quelli che tutelano situazioni giuridiche ad
appartenenza necessaria e possono individuarsi nei tradizionali rimedi costitutivi,
restitutori, reintegrativi, coattivi all'adempimento; i rimedi di responsabilità, che
garantiscono invece situazioni ad appartenenza mobile sono le pronunce di
condanna al risarcimento del danno per equivalente.
I rimedi proprietari e di responsabilità sono tra loro in rapporto di
complementarietà e di alternatività (di fronte all'inadempimento contrattuale si
può agire per l'adempimento del contratto, per il risarcimento del danno o
attraverso entrambe le azioni). Chi stabilisce se l'interesse giuridico da tutelare in
concreto è garantito in astratto secondo il regime dell'appartenenza necessaria o
dell'appartenenza mobile, ovvero da entrambi gli strumenti, in via
complementare? Provvede a tale scopo la c.d. regola di trasferibilità (Rule
Inalienability) in base alla quale l'ordinamento stabilisce in via generale ed
astratta se la tutela di un dato interesse ammetta o meno spostamenti
ingiustificati di diritti o risorse; tale regola in certi casi la stabilisce il legislatore (15), in altri casi il giudice (16), residualmente la parte interessata che agisce in
giudizio. Nelle prime due ipotesi, la regola di trasferibilità garantisce interessi
pubblici o sovraindividuali e segue criteri di efficienza collettiva; nel secondo caso
essa garantisce l'interesse individuale a scegliere il rimedio di tutela più idoneo in
base alla convenienza personale.
Anticipando argomenti che saranno esaminati nei successivi paragrafi, la
disciplina dettata dal d.lgs. n. 53 del 2010 e confluita adesso in parte nel Codice
del processo amministrativo (artt. 120 ss.) (17), manifesta integralmente questo
modello di coordinamento tra rimedi di tutela proprietaria e di responsabilità. In
alcuni casi, è il legislatore a prevedere che a seguito dell'annullamento
dell'aggiudicazione debba derivare l'inefficacia del contratto pubblico nel
frattempo stipulato ovvero debba ammettersi solo la tutela risarcitoria (artt. 121
e 125); in altri casi la scelta tra l'inefficacia del contratto o la conservazione della
sua efficacia in cambio della misura risarcitoria è rimessa al giudice (art. 122);
ferma restando comunque la possibilità dell'interessato di limitarsi alla richiesta
risarcitoria, rinunciando al subentro nella posizione del precedente vincitore e alla
dichiarazione di inefficacia del contratto (art. 124) (18).
5. Nel nuovo Codice del processo amministrativo si rappresenta un quadro, se
non di compiuta pienezza, senz'altro di arricchimento della tutela degli interessi
sostanziali coinvolti dall'azione delle amministrazioni pubbliche; e senz'altro di
quelli protetti come interessi legittimi (19). Naturalmente è l'interesse legittimo
la situazione soggettiva che attrae oggi l'attenzione dell'interprete; per il diritto
soggettivo la tutela (almeno dal 1998) è affidata alle cure della “piena
giurisdizione” esclusiva (equiparata per pienezza ed effettività alla giurisdizione
ordinaria) (20).
La tutela dell'interesse legittimo è oggi l'argomento in agenda fra gli studiosi del
processo amministrativo, perché ad esso si riferiscono le maggiori trasformazioni
contenute nella nuova disciplina delle azioni. L'interesse legittimo indica il punto
di coesistenza tra l'interesse generale e l'interesse del privato coinvolto
dall'esercizio della funzione amministrativa. Le regole di tale coesistenza
misurano la protezione che l'ordinamento assegna a quest'interesse privato. Se
cambiano quelle regole, cambia la qualità della protezione del singolo di fronte
alle ragioni della sfera pubblica; cambia la garanzia primaria e la garanzia
secondaria deve allinearsi.
Sul piano della garanzia primaria, dopo il 1999, l'interesse legittimo si è
trasformato, da strumento processuale finalizzato alla mera rimozione di atti
amministrativi, in situazione soggettiva che rende giuridicamente pretendibile nei
confronti del potere pubblico la conservazione o il conseguimento di utilità
sostanziali e che guarda (soprattutto) al processo come alla sede idonea per
soddisfare quelle pretese (21). Sul piano della disciplina processuale, dunque,
occorreva intervenire con maggiore decisione per completare quella
trasformazione, articolando rimedi di protezione adeguati alla nuova identità
dell'interesse legittimo, che aspira adesso a far riconoscere dal giudice (tutte, ma
proprio tutte) le ragioni sostanziali del ricorrente che ha ragione (22). Nella
complessa area della giustizia amministrativa — specialmente su impulso del
diritto comunitario che tende ad uniformare tra gli Stati membri la disciplina delle
decisioni amministrative per arrivare all'uniformità della disciplina processuale
(perché è lì che si realizza una tappa importante dell'integrazione) (23) — si
delineano con maggiore nitidezza due diverse aree:
a) quella
del
potere
amministrativo
discrezionale,
nella
quale
all'amministrazione sono imposti, a tutela dei controinteressati (pubblici o
privati), obblighi di giusto procedimento, che rappresentano l'unico reale
parametro per valutare la scelta finale, fondata sulla ponderazione di interessi di
per sé insindacabile;
b) quella del potere amministrativo vincolato (che il Codice espressamente
riconosce all'art. 31, a proposito dell'azione propulsiva contro l'inerzia della p.a. e
che sarà la giurisprudenza a definire con maggior precisione) (24). In questa
area, l'amministrazione arriva al risultato finale attraverso l'accertamento
(tecnicamente più o meno complesso) di presupposti legali; in questi casi cioè,
l'amministrazione sceglie, non selezionando interessi ma adempiendo ad obblighi
legali di cooperazione imposti a tutela degli amministrati (25).
In queste aree del potere discrezionale e vincolato, il cambiamento della garanzia
primaria ha influito fortemente sulla garanzia secondaria. Dalla l. n. 241 del 1990
— e passando per le leggi n. 205 del 2000, n. 15 del 2005, n. 69 del 2009 — la
tutela esperibile a favore dell'interesse legittimo si è arricchita di importanti
strumenti (avverso il danno da provvedimento illegittimo o ritardato, avverso
l'inerzia dell'amministrazione, avverso il diniego di accesso ai documenti), via via
concentrati presso la giurisdizione amministrativa di legittimità.
Il Codice del processo contiene significative novità, nella prospettiva di
completezza ed effettività della tutela giurisdizionale dell'interesse legittimo. In
base all'art. 7, il giudice amministrativo cessa di essere semplicemente l'arbitro
della legittimità degli atti o della liceità dei loro effetti, diventando il giudice della
funzione pubblica. Al giudice amministrativo appartiene adesso la complessiva
area delle controversie di diritto pubblico e su questo ambito di azione il giudice
deve essere in grado di assicurare la tutela più ampia ed efficace possibile.
Rispetto a un ventennio fa, in cui ci si domandava, al più, come il giudice potesse
massimizzare la tutela dell'interesse legittimo attraverso l'unica azione
disponibile, oggi il nuovo Codice offre agli interessati un catalogo di azioni
disponibili: oltre che per l'annullamento dell'atto (art. 29), l'interessato può agire
in sede giurisdizionale di legittimità contro il silenzio dell'amministrazione (con
richieste di adempimento nel caso di provvedimenti vincolati: art. 31); per la
dichiarazione di nullità dei provvedimenti (art. 31, comma 4); per la condanna
dell'amministrazione al pagamento di somme di danaro, alla reintegrazione in
forma specifica, al risarcimento del danno per equivalente (art. 30), nonché
all'adozione di tutte le misure idonee a tutelare la propria situazione giuridica
(c.d. condanna atipica: art. 34, comma 1, lett. c).
La novità più evidente è proprio nello spostamento della prospettiva: dalla
possibilità “creativa” della giurisprudenza pretoria, che tanto ha lavorato per
rendere elastico l'impianto impugnatorio del processo amministrativo (sentenze di
annullamento in funzione dichiarativa; in funzione conformativa a protezione di
interessi pretensivi; in funzione propulsiva di fronte all'inerzia, ecc.), alla
possibilità dell'interessato di disporre di una serie di azioni, tra loro coordinate e
talora in un rapporto di dichiarata autonomia (nel caso dell'azione risarcitoria
rispetto all'azione di annullamento) (26).
Ma soprattutto, l'ampia disciplina sulle azioni di condanna — che, coordinata con
la disciplina dei poteri del giudice, sembrerebbe aperta a tutte le declinazioni
ammesse per questo genere di tutela, segnatamente quanto all'area del potere
vincolato — sottolinea il definitivo “assorbimento” nella giurisdizione
amministrativa, della tutela “civile” dell'interesse legittimo; al giudice
amministrativo si guarda ormai come al “giudice ordinario” dell'interesse
legittimo (27). Anzi, la nuova disciplina delle azioni offre all'interprete una
possibile chiave di lettura che traduce i problemi di coordinamento tra l'azione di
annullamento e gli altri rimedi di tutela nella questione più generale del rapporto
tra tutela demolitoria che rimuove il potere illegittimo e tutela che accerta la
violazione di obblighi cooperazione e che condanna a dare, fare o risarcire il
danno. Insomma, interpretare la disciplina delle azioni proponibili a tutela
dell'interesse legittimo significa risolvere alcuni immancabili problemi di
assestamento nei rapporti tra garanzia primaria e secondaria, conseguenti
all'avvenuta “incorporazione” della tutela civile degli interessi sostanziali dentro la
giurisdizione amministrativa (28).
Letto in quest'ottica, il Codice rappresenta un indubbio passo avanti sulla strada
della completezza della tutela attribuita all'interesse legittimo nei confronti del
potere amministrativo; nonché sulla strada del razionale coordinamento tra
azioni. Ma è sugli aspetti critici che l'interprete è chiamato soprattutto ad
esprimersi, sottolineando lacune e reali esigenze correttive, opportunamente
distinte dai falsi problemi generati dall'eccesso di aspettative che
immancabilmente accompagna riforme di questa portata.
Sotto questa lente critica, la nuova disciplina delle azioni contenuta nel Codice
manifesta a giudizio di chi scrive almeno tre diverse questioni.
a) La prima riguarda la mancata codificazione di alcuni tipi di azione, previsti
nei testi preparatori e successivamente espunti dalla versione definitiva del
Codice; come si dirà, si tratta di un problema apparente, collegato all'esigenza
fisiologica della normativa di trovare nel tempo il giusto assestamento nel
quotidiano lavoro dei tribunali.
b) La seconda questione riguarda i rapporti di coesistenza (che talora
sembrano veri e propri “rapporti di forza”) tra l'azione di annullamento e l'azione
risarcitoria. Si tratta di una questione di coordinamento tra rimedi di tutela che il
Codice affronta ma non risolve in modo soddisfacente, almeno secondo quei
criteri di effettività in precedenza descritti (retro, par. 3); finendo per riaccendere
la “antica” questione della c.d. pregiudizialità amministrativa.
c) La terza questione ha ad oggetto incertezze e vere e proprie lacune della
normativa che, specialmente nel caso dell'azione di nullità, lasciano l'interprete di
fronte a serie difficoltà applicative.
Nei paragrafi successivi si cercherà di valutare, dunque, la nuova disciplina delle
azioni, distinguendo tra mere esigenze di assestamento, esigenze di miglior
coordinamento ed esigenze di necessaria integrazione e/o correzione di tale
disciplina.
6. Il Codice propone una serie di azioni che taluno avrebbe voluto più ricca,
lamentando la “scomparsa” — rispetto ai testi dei lavori preparatori — dell'azione
generale di accertamento e dell'azione di adempimento (29). In verità, s'è detto,
la prassi giurisprudenziale e le riflessioni della scienza giuridica sapranno dirci in
un futuro prossimo se la mancata previsione di tali azioni effettivamente
costituisca una lacuna grave, un vuoto da colmare con un'integrazione legislativa;
ovvero se quella mancanza possa essere sostanzialmente “coperta” a legislazione
invariata. Per il momento, questa seconda possibilità ci sembra la più plausibile
(come la più recente giurisprudenza amministrativa sembra confermare; v.
infra) (30).
Se si richiamano le precedenti considerazioni sull'affermata centralità
dell'interesse legittimo e della sua tutela nella vicenda processuale, si può
sostenere senza eccessivo sforzo che il Codice nasce avendo già recepito il
principio di atipicità dell'azione (31). Il punto logico di partenza si è invertito;
non più il rimedio codificato da norme proprietarie o di responsabilità, da
applicare in modo rigido a tutela di specifiche tipologie di interessi, bensì il
bisogno concreto di protezione che occorre garantire nelle diverse fattispecie,
attraverso gli strumenti idonei ed atipici, purché compatibili con l'ordinamento.
Non è un caso che, mentre l'amministrazione vede accentuare i contenuti
vincolati della sua azione, di modo che sempre più la sua scelta legittima coincide
con l'adempimento di puntuali obblighi di cooperazione, contestualmente il
giudice amministrativo vede ampliata — soprattutto in quell'area di potere
vincolato — la sua capacità di modulare la qualità della tutela dell'interesse
legittimo (32).
In questa possibilità attribuita al giudice amministrativo — di non limitarsi
all'applicazione dei soli rimedi conformi alle norme processuali, ma di cercare
anche ogni soluzione compatibile con il principio della domanda e con le altre
regole generali di sistema — consiste invero l'aspetto più significativo della tutela
giurisdizionale effettiva, ispirata al principio dell'atipicità dell'azione e al criterio
del ubi remedium ibi ius (33).
La legge delega per il riassetto della disciplina del processo amministrativo —
anche sulla scorta di inequivoche ed importanti aperture della giurisprudenza (34) — ha sollecitato il Governo ad organizzare la tutela (segnatamente)
dell'interesse legittimo intorno a “pronunce dichiarative, costitutive e di condanna
idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa” (35).
Il Codice contiene delle norme che vanno senz'altro nella direzione della “atipicità
della tutela” indicata dalla delega (36). L'art. 29, quanto all'azione di
annullamento, sopprime l'inciso “salvi gli ulteriori provvedimenti dell'autorità
amministrativa” (di cui all'abrogato art. 45 r.d. n. 1054 del 1924); l'art. 34,
comma 1, lett. e), consente al giudice di disporre nella sentenza di merito “le
misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non
sospese”. In combinazione tra loro, queste norme attribuiscono direttamente al
giudice amministrativo il potere di individuare, già nel giudizio di cognizione, i
rimedi di tutela più adeguati, per qualità ed intensità, rispetto alle esigenze
espresse dall'interesse sostanziale.
L'art. 34, comma 3 stabilisce che, quando nel corso del giudizio l'annullamento
del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice può
limitarsi ad accertare l'illegittimità dell'atto, di fatto convertendo l'azione di
annullamento in azione risarcitoria.
Ma soprattutto, l'art. 34, comma 1, lett. c), consente al giudice che intenda
accogliere il ricorso, di condannare l'amministrazione “all'adozione delle misure
idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio” (37).
Le norme sulle “azioni di cognizione”, combinate con la disciplina sulle “pronunce
giurisdizionali”, sembrano capaci di costruire uno spazio di garanzia secondaria
sufficientemente attrezzato per la effettiva protezione della pretesa sostanziale
del ricorrente ed in grado di sopperire all'assenza di un'esplicita codificazione
dell'azione di accertamento e di adempimento. Questo è, d'altra parte,
l'orientamento espresso dal legislatore delegato che nella propria relazione sul
Codice ha giustificato quelle “mancanze” (ed escluso la violazione della delega)
“ritenendo adeguata e completa la tutela apprestata dalle azioni già previste dal
Capo II”.
Al di là di questi spunti ricostruttivi ed esegetici delle norme del Codice, la stessa
giurisprudenza comincia a dare segnali tangibili di questo orientamento
interpretativo. Quella capacità del giudice amministrativo di provvedere alla tutela
dell'interesse sostanziale attraverso l'impiego di rimedi atipici, seppur compatibili
con l'ordinamento, viene riconosciuta in alcune interessanti decisioni del Consiglio
di Stato.
L'Adunanza plenaria 29 luglio 2011, n. 15 qualifica la segnalazione certificata di
inizio di attività (Scia) come un atto privato di colui al quale la legge direttamente
consente di intraprendere una certa attività nel rispetto di taluni presupposti;
resta all'amministrazione il controllo di tali presupposti ed il conseguente potere
interdittivo che si ritiene “negativamente” esercitato, decorsi sessanta giorni dal
ricevimento della segnalazione (38).
Si consideri adesso la questione dalla prospettiva dei controinteressati e dei mezzi
di tutela esperibili da costoro. Il giudice amministrativo ritiene che i terzi, a
completamento ed integrazione della domanda di annullamento del silenzio
significativo negativo, possano agire anche con il rimedio “dell'azione di condanna
pubblicistica (c.d. azione di adempimento), tesa ad ottenere una pronuncia che
imponga all'amministrazione l'adozione del negato provvedimento inibitorio ove
non vi siano spazi per la regolarizzazione della denuncia” (39). Nell'area del
potere vincolato (com'è nella fattispecie), la condanna dell'amministrazione a
provvedere (in questo caso, negativamente) è considerata dal giudice un rimedio
pienamente compatibile con l'attuale sistema della giustizia amministrativa; così
come, dal lato della domanda, il giudice ammette l'azione di adempimento,
finalizzata a sollecitare quel tipo di pronuncia.
Il Consiglio di Stato ritiene inoltre che, quando ancora non sia scaduto il termine
per l'esercizio del potere interdittivo, il controinteressato possa chiedere
l'accertamento dell'inesistenza dei presupposti legali dell'iniziativa oggetto di
segnalazione; tale azione consente di ottenere misure cautelari, ancorché non
possa concludersi con una sentenza dichiarativa in via principale, stante il diniego
imposto dall'art. 34, comma 2, cod. proc. amm. (40). Quella richiesta di
accertamento non è comunque destinata ad una pronuncia di inammissibilità:
sarà dichiarata la cessazione della materia del contendere, qualora
l'amministrazione finisca per interdire l'attività oggetto di segnalazione;
viceversa, l'azione di accertamento si convertirà in azione di impugnazione della
sopravvenuta negazione tacita di interdizione (41).
Sul tema dell'atipicità dell'azione come garanzia di effettività della tutela si
registra un'altra interessante decisione del giudice amministrativo (42).
Un'associazione ambientalista ricorre avverso un piano faunistico venatorio
regionale, lamentando (tra l'altro) la mancata attivazione del procedimento per la
valutazione ambientale strategica, prevista dalla legislazione statale. Il giudice
amministrativo accerta la fondatezza del motivo; tuttavia, benché ritenga che
l'accoglimento dell'azione di annullamento comporti in genere la privazione degli
effetti del provvedimento illegittimo, considera questa una regola non assoluta,
potendo in certe fattispecie — come quella in esame — risultare incongrua e
manifestamente ingiusta, ovvero in contrasto col principio di effettività della
tutela giurisdizionale. In queste ipotesi, lo stesso giudice amministrativo (anche
sulla scorta del diritto europeo e della recente legislazione nazionale) (43)
riconosce a se stesso il potere di differire o addirittura di escludere del tutto gli
effetti di annullamento degli atti impugnati e risultati illegittimi, “statuendo [in tal
caso] solo gli effetti conformativi, volti a far sostituire il provvedimento risultato
illegittimo” (44).
Insomma, nella fattispecie, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l'annullamento ex
tunc del piano venatorio avrebbe comportato la gravissima e paradossale
conseguenza di privare il territorio regionale di qualsiasi regolamentazione e di
tutte le prescrizioni di tutela sostanziali contenute in quel piano (ancorché
illegittimo); con evidente e irreparabile pregiudizio per gli stessi interessi
sostanziali di cui è esponenziale l'associazione appellante. Di conseguenza,
accogliendo il ricorso di annullamento, il giudice ha conservato temporaneamente
gli effetti del piano illegittimo (una sorte di misura di salvaguardia), dichiarando
contestualmente “il dovere della regione (...) di procedere alla rinnovata
emanazione (...) del piano faunistico venatorio regionale”, in conformità alla
normativa vigente (statale o regionale) sulla valutazione di impatto strategico.
Benché il giudice amministrativo qualifichi il suo intervento come statuizione di
“effetti conformativi (...) volti a far sostituire il provvedimento illegittimo”, la
nuova disciplina del codice consente di qualificare quello in esame come un vero e
proprio dispositivo di condanna, finalizzata alla corretta riedizione del
procedimento e alla sostituzione ex nunc del provvedimento illegittimo. In ciò si
ravvisa l'atipicità e l'idoneità della condanna come rimedio di tutela degli interessi
ricorrenti: la pianificazione illegittima viene sostituita senza necessità del suo
formale annullamento e della contestuale cancellazione retroattiva degli effetti (45).
La decisione in esame dimostra consapevolezza di come le regole sui poteri del
giudice si combinino con la disciplina delle azioni, secondo schemi atipici e non
rigidamente prestabiliti. Domande e risposte di tutela giurisdizionale si incontrano
in un punto mediano in cui, di volta in volta, quella tutela si dimostra effettiva
rispetto alle esigenze dell'interesse protetto.
7. Il codice del processo amministrativo afferma espressamente l'autonomia
dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento (46). In via di
principio, il legislatore certifica la fine del monopolio della tutela costitutiva e del
rimedio proprietario “ad ogni costo”, anche nei casi in cui esso si dimostri
palesemente insufficiente o addirittura inutile. Autonomia tra le azioni significa,
infatti, che il Codice rimette all'interessato la scelta del rimedio di tutela più
idoneo rispetto al bisogno di protezione espresso dal suo interesse sostanziale
(naturalmente l'annullamento resta pregiudiziale rispetto ad altri rimedi
“proprietari” come la reintegrazione in forma specifica o la “condanna atipica”, i
quali presuppongono la preventiva rimozione dell'atto: art. 30 cod. proc. amm.) (47).
L'autonomia tra azione di annullamento e azione risarcitoria conferma come la
regola di trasferibilità ammetta, anche nell'area della giurisdizione amministrativa
e di fronte all'esercizio del potere pubblico, l'utilizzo alternativo (o parzialmente
combinato) dei rimedi di tutela proprietari e di responsabilità (retro, par. 3). A
questo riguardo, anzi — nonostante alcune resistenze della giurisprudenza (48)
— si può ritenere che il dibattito se il nuovo Codice attribuisca ancora una
posizione di centralità all'azione di annullamento contenga un falso problema.
L'azione di annullamento costituisce senza dubbio la tutela tipica dell'individuo
contrapposto a situazioni di potere: segnatamente di fronte al potere pubblico
autoritativo, l'interesse legittimo si difende attraverso la tutela costitutiva,
rimuovendo gli atti contra legem. Tuttavia, quando l'individuo chiede protezione
di fronte a comportamenti illeciti — nel caso in cui il provvedimento illegittimo
rileva contestualmente come fatto illecito — la tutela è quella tipica delle relazioni
orizzontali: azioni restitutorie, di accertamento, di condanna, ecc. Insomma, le
diverse forme di tutela sono tra loro in una relazione non gerarchica bensì di
competenza funzionale: intervengono lì dove sono necessarie, in alternativa o in
modo complementare (per la pienezza ed effettività della tutela); senza vincoli di
subordinazione (49).
Si tratta a ben vedere, e come già anticipato, di considerazioni valide in via di
principio, atteso che nei rapporti tra azione di annullamento e azione risarcitoria
disegnati dal Codice restano alcuni motivi di attrito. In particolare, l'art. 30,
comma 3 pone un problema interpretativo quando afferma che “nel determinare il
risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento
complessivo delle parti e comunque esclude il risarcimento dei danni che si
sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza anche attraverso
l'esperimento degli strumenti di tutela previsti” (50). Dato anche l'irrigidimento
del testo finale della norma, rispetto a quanto proposto dalla Commissione
istituita presso il Consiglio di Stato (51), è sembrata in qualche modo riaffiorare,
sotto spoglie diverse, l'antica questione della pregiudizialità dell'azione di
annullamento rispetto a quella risarcitoria (52).
Nella decisione n. 3 del 23 marzo 2011, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
riconosce che l'art. 30, comma 3 cit. ha ormai superato la tesi dell'inammissibilità
dell'azione risarcitoria esperita in assenza di una tempestiva azione di
annullamento; d'altra parte, secondo il giudice amministrativo, la norma
manterrebbe comunque una pregiudiziale di merito, nel senso che la mancata
promozione della domanda impugnatoria “è idonea ad incidere sulla fondatezza
della domanda risarcitoria” (53).
Nella propria interpretazione dell'art. 30, comma 3, il Consiglio di Stato concentra
la sua attenzione sull'omissione del privato (che non si attiva in sede
giurisdizionale per la rimozione dell'atto e dei suoi effetti lesivi), richiamando lo
schema di cui all'art. 1227, comma 2, c.c. secondo il quale “il risarcimento non è
dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria
diligenza” (54). L'impressione è che il giudice amministrativo, in tale
ricostruzione, finisca per dilatare eccessivamente l'area dell'ordinaria diligenza
imposta al privato.
7.1. L'interpretazione prevalente dell'art. 1227 c.c. distingue l'ipotesi del primo
comma, in cui il creditore (o il danneggiato ex art. 2056 c.c.) concorre
attivamente insieme al debitore (o al danneggiante) alla produzione del danno
base (danno-evento); dall'ipotesi del secondo comma, in cui il danneggiato
colpevolmente non si attiva per evitare i danni ulteriori (danni-conseguenze),
derivanti dall'evento principale, già verificatosi ed imputabile al solo
danneggiante (55).
Il secondo comma dell'art. 1227 c.c. impone al danneggiato uno specifico dovere
di cooperazione (coincidente con il dovere di lealtà e correttezza di cui all'art.
1175 c.c.), finalizzato a limitare la maggiore incidenza del danno cagionato dal
(solo) danneggiante (56). La violazione di quest'obbligo di correttezza manifesta
un abuso di diritto, che la giurisprudenza intende come “comportamento lesivo
dell'interesse del debitore che esorbiti dal limite della ragionevole tutela
dell'interesse del creditore” (57). Il danneggiato, attraverso il comportamento
colpevolmente omissivo, altera lo schema formale del proprio diritto al
risarcimento per conseguire utilità diverse e maggiori di quelle in vista delle quali
quel diritto gli è stato attribuito. L'abuso del diritto segna, dunque, il punto in cui
l'interesse del creditore (o del danneggiato) diviene recessivo rispetto alle istanze
di solidarietà sociale.
Nella sua attività di contemperamento degli opposti interessi, il giudice individua il
limite oltre il quale l'omissione del danneggiato è colpevole e le conseguenze
dannose evitabili sono irrisarcibili ex art. 1227, comma 2 c.c..
In generale, si afferma che l'ordinaria diligenza del danneggiato riguarda i danni
ulteriori che possono essere evitati senza sforzo eccessivo (58). Ma soprattutto,
riguarda i danni ulteriori che possono essere evitati esclusivamente dal
danneggiato, la cui evitabilità, cioè, ricada sotto il suo “esclusivo controllo
giuridico ed economico” (59). Solo per questi danni valgono gli anzidetti principi
di diligenza e di buona fede che rendono esigibile l'intervento del danneggiato ex
art. 1227, comma 2, interrompendo il nesso di causalità con il danno principale,
imputabile al danneggiante. Va da sé che, qualora sui quei danni ulteriori potesse
intervenire (anche) il danneggiante, si ripristinerebbe ex art. 1223 c.c. il nesso di
causalità con il danno principale, venendo meno l'applicabilità dell'art. 1227 c.c.
D'altra parte, ad applicare l'art. 1227, comma 2, c.c. anche ai danni ulteriori
evitabili dal danneggiante, si finirebbe per qualificare l'obbligo di correttezza del
danneggiato come un dovere assoluto, equiparato al dovere generale del
neminem laedere violato dal danneggiante. Più in generale, si arriverebbe ad
esigere dal creditore lo stesso grado di diligenza imposto al debitore per
l'esecuzione dell'obbligazione; ad attribuire, cioè, “al creditore, in quanto tale, la
posizione di obbligato nell'ambito dello stesso rapporto obbligatorio” (60).
In questa complessa prospettiva, che tiene conto degli effettivi ruoli dei
protagonisti attivi e passivi del rapporto obbligatorio (e dei rapporti tra l'esercizio
del diritto e il rispetto dei vincoli di solidarietà sociale), la giurisprudenza
prevalente — per quanto in questa sede interessa — non considera come
omissione colpevole del danneggiato il non aver agito giudizialmente contro il
danneggiante per l'adempimento o l'annullamento dell'atto lesivo (61); a
maggior ragione, si direbbe, la colpevolezza dell'omissione non potrebbe rilevarsi
qualora la rimozione del fatto lesivo non fosse nella esclusiva disponibilità del
danneggiato (62).
Passiamo ora ad esaminare, nella nostra materia, i possibili rapporti tra l'art. 30,
comma 3 cod. proc. amm. e la disciplina di cui all'art. 1227 c.c.
7.2. Come anticipato, attraverso il richiamo dell'art. 1227, comma 2, c.c., la
decisione della Plenaria n. 3/2011 stabilisce che la mancata promozione
dell'azione di annullamento dell'atto illegittimo costituisce un motivo di
infondatezza (non più una condizione di ammissibilità) dell'eventuale azione
risarcitoria avente ad oggetto i danni cagionati dal provvedimento non rimosso.
Secondo il giudice amministrativo, la scelta di non agire per l'annullamento del
provvedimento illegittimo — scelta colpevole quando l'annullamento avrebbe
plausibilmente evitato il danno in tutto o in parte — integra la “violazione
dell'obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l'effetto, impedisce
il risarcimento del danno evitabile”.
In sostanza, l'omessa proposizione dell'azione per il risarcimento del danno, che
avrebbe potuto (“più probabilmente che non”) essere evitato attraverso
l'annullamento dell'atto, configura “un comportamento complessivo di tipo
opportunistico, che viola il canone della buona fede e quindi, in forza del principio
di autoresponsabilità cristallizzato dall'articolo 1227, co. 2, implica la non
risarcibilità [di quel] danno conseguenza” (63).
Si condivide ovviamente il richiamo del giudice amministrativo agli obblighi di
solidarietà ed ai principi di diligenza e buona fede, che vigono anche nei rapporti
obbligatori tra amministrazione e privati. D'altra parte, quando l'art. 30, comma
3, del Codice dichiara l'irrisarcibilità dei danni evitabili dal danneggiato con
l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento di rimedi di tutela, il rinvio
all'art. 1227, comma 2, c.c. è evidente.
Quello che però non convince del tutto, nell'articolata tesi del Consiglio di Stato, è
l'assoluta concentrazione sulla condotta omissiva del danneggiato (nonostante
l'art. 30 chieda al giudice di valutare il “comportamento complessivo delle parti”);
con conseguente dilatazione dell'area entro la quale l'impugnazione del
provvedimento illegittimo finisce per rilevare a carico del danneggiato come
comportamento ordinariamente esigibile. Un'estensione che appare eccessiva
rispetto alle reali possibilità consentite dallo stesso art. 1227, comma 2, che —
per le ragioni evidenziate — è applicabile ai danni-conseguenze che solo il
danneggiato è in grado di evitare.
L'amministrazione danneggiante, responsabile della sua azione, resta anche
“arbitro” del danno cagionato, potendo rimuovere l'atto in autotutela. Di tal che,
gli eventuali ulteriori danni conseguenti alla mancata rimozione dell'atto, devono
imputarsi
direttamente
ex
art.
1223
c.c.
all'ingiustificata
inerzia
dell'amministrazione e non ex art. 1227, comma 2, c.c., alla mancata azione del
privato. Insomma, per i danni da mancata rimozione del provvedimento lesivo,
l'ingiustificata passività dell'amministrazione, rispetto ad un possibile intervento
unilaterale su quella fonte di danno, esclude l'esigibilità dell'impugnazione
giurisdizionale (64).
D'altra parte, secondo il costante insegnamento della Suprema Corte, sul
danneggiante incombe la prova della violazione del dovere di cooperazione e di
intervento del danneggiato; la prova cioè di un fatto modificativo della pretesa
risarcitoria dell'attore (art. 2697 c.c.) (65). Ma se l'amministrazione fosse in
grado di dimostrare l'utilità dell'annullamento riesce difficile capire le ragioni per
le quali essa stessa non vi abbia già provveduto in autotutela, alimentando il
fondato dubbio che con la sua omissione essa abbia direttamente contribuito alla
produzione di quei danni ulteriori che si imputano al danneggiato. A questo
riguardo, una volta accertato (anche dal giudice ex officio) (66) che la rimozione
dell'atto avrebbe evitato o mitigato il danno, non si vede perché il comportamento
omissivo causalmente rilevante sia “per definizione” quello del danneggiato che
non ha proposto l'azione di annullamento e non anche quello dell'amministrazione
— che è pur sempre il soggetto danneggiante — che non ha agito in autotutela
senza una motivazione plausibile. In definitiva, non è dato capire le ragioni per le
quali, nell'economia del giudizio che pondera i contrapposti interessi tra chi deve
dare e chi ha diritto di ricevere in sede risarcitoria, il peso specifico dell'omessa
azione giurisdizionale sia così prevalente rispetto all'omesso annullamento
d'ufficio.
Né si dica che l'amministrazione deve essere sollecitata all'autotutela e, quindi,
che l'art. 30, comma 3 del Codice presuppone un tale onere del danneggiato,
analogamente a quanto espressamente prevede l'art. 243-bis d.lgs. n. 163 del
2006 per il settore degli appalti pubblici. Al di là della diversa formulazione tra le
due norme — cui sembra corrispondere la consapevole intenzione legislativa di
differenziare una lex specialis rispetto alla disciplina generale sull'azione
risarcitoria — resta il fatto che lo stesso art. 243-bis impone al giudice di
valutare, non solo l'omessa sollecitazione del privato, ma anche l'omesso
esercizio dei poteri di autotutela dell'amministrazione. E comunque, con riguardo
all'inerzia del privato, anche a voler attribuire all'art. 243-bis cit. una portata
generale, il comportamento omissivo imputabile al danneggiato sarebbe di molto
“alleggerito”, posto che coinciderebbe con la mancata sollecitazione all'autotutela
e non addirittura con l'omesso avvio dell'azione giurisdizionale di annullamento.
La tesi della pregiudizialità “di merito” tra azione di annullamento e azione
risarcitoria, applicata a prescindere dalle ragioni del comportamento omissivo
dell'amministrazione, finisce per alterare l'equilibrio tra i soggetti del rapporto
risarcitorio; nonché il rapporto virtuoso tra garanzia primaria e secondaria, che il
codice del processo si propone di garantire, puntando sulla completezza e
sull'effettività della tutela.
Nella transazione dei reciprochi obblighi di cooperazione e solidarietà — ed a
parità di inerzia rispetto alla rimozione dell'atto illegittimo — l'amministrazione
danneggiante “prende tutto” mentre il privato danneggiato “perde tutto”. Una
transazione sbilanciata, soprattutto, se si considera l'asimmetria che caratterizza
la nostra materia. Il richiamo agli obblighi di cooperazione e di buona fede nelle
vicende tra privati si giustifica invero con il fatto che ciascun individuo può
trovarsi di volta in volta a recitare ruoli diversi: oggi è il debitore che chiede,
domani è il creditore che offre solidarietà, attivandosi per evitare i danni evitabili.
Nelle vicende risarcitorie collegate all'esercizio del potere amministrativo, invece,
si recita a soggetto fisso: l'amministrazione è comunque il danneggiante che
invoca la buona fede dell'altro (senza dar conto delle ragioni della propria
inerzia); il privato è comunque il danneggiato al quale si richiede di agire per
l'annullamento dell'atto amministrativo illegittimo come condizione per la
fondatezza della sua azione risarcitoria.
In ogni caso, anche quando l'azione di annullamento possa considerarsi come una
condotta esigibile ex art. 1227 c.c., l'interpretazione preferibile dell'art. 30,
comma 3 ricollega alla colpevole inerzia del privato tutt'al più la rideterminazione
del quantum risarcitorio, con esclusione dei (soli) danni che sarebbe stato
possibile evitare attraverso gli strumenti di tutela; mentre riesce difficile
ipotizzare l'infondatezza dell'azione risarcitoria, anche in relazione ai danni che
sono conseguenza immediata e diretta dell'evento principale (imputabile
all'amministrazione), rispetto ai quali l'omissione del privato non svolge alcuna
rilevanza causale. Invero, questa distinzione tra danno-evento e danniconseguenze sembra sfumare un po' nei dispositivi che dichiarano la (generica)
infondatezza della richiesta risarcitoria (67).
Vi è poi un'ulteriore considerazione. La tesi della pregiudiziale di merito fondata
sull'art. 1227, comma 2, appare principalmente riferibile alle ipotesi risarcitorie
che coinvolgono gli interessi legittimi oppositivi, per i quali mantenere in vita
l'atto significa propagarne gli effetti negativi sulla sfera giuridica del destinatario;
per gli interessi oppositivi, cioè, al danno da adozione dell'atto ablatorio illegittimo
possono aggiungersi i danni da mancata rimozione di quell'atto. Per gli interessi
pretensivi lesi da un diniego illegittimo, la norma civilistica appare più
difficilmente applicabile. Al di là del fatto che il diritto privato non riconosce gli atti
negativi, gli è che l'illegittimità di tali dinieghi può produrre tutt'al più un danno
da adozione ma non anche apprezzabili danni da mancata rimozione, posto che il
diniego illegittimo lascia inappagata l'aspirazione iniziale dell'interessato rispetto
al contenuto della sua istanza.
In conclusione. La scadenza del termine per proporre l'annullamento rende l'atto
intangibile per il privato, ma non per l'amministrazione che quello stesso atto può
rimuovere in autotutela (68). L'ingiustificato mancato esercizio dell'autotutela
rende l'amministrazione due volte responsabile: a) per aver adottato l'atto
illegittimo (danno da adozione); b) per non averlo rimosso (danno da mancata
rimozione). Nel rapporto di causalità con il danno da provvedimento
amministrativo entrano in gioco una commissione e una omissione:
comportamenti entrambi direttamente imputabili all'amministrazione che è
responsabile dei rispettivi danni. Per le altre ipotesi, in cui i danni ulteriori siano
invece in un esclusivo rapporto causale con l'inerzia colpevole del danneggiato
(l'autotutela non poteva essere esercitata), si attiva la disciplina di
rideterminazione-riduzione secondo le indicazioni dell'art. 30, comma 3, cod.
proc. amm., che, entro questi limiti, effettivamente richiama l'art. 1227, comma
2, c.c.
8. I paragrafi finali di questo studio sono dedicati ad una parte della disciplina
sulle azioni nel processo amministrativo, le cui difficoltà applicative non derivano
da necessità di “rodaggio” della normativa, né da questioni di coordinamento tra i
diversi rimedi i tutela; per l'azione di nullità, i problemi sembrano collegati
all'eccessiva ellitticità della disciplina nonché all'assoluta novità del tema nella
nostra materia e quindi anche ad una prassi giurisprudenziale piuttosto scarsa (69); circostanze, queste, che costringono l'interprete ad un arduo e complesso
lavoro ricostruttivo, viste anche, come si dirà, talune difficoltà intrinseche ad
applicare nel processo amministrativo le regole e l'esperienza del processo civile.
La pagine che seguono affrontano, in particolare, le questioni del termine
dell'azione, della legittimazione ad agire e della rilevabilità d'ufficio del vizio di
nullità (70).
8.1. Innanzitutto, si chiarisce che il termine di decadenza semestrale previsto
dall'art. 31, comma 4, cod. proc. amm., riguarda la giurisdizione amministrativa
di legittimità e cioè lo schema provvedimento-nullità-interesse; per i rapporti
paritetici, che collegano l'atto amministrativo nullo al diritto soggettivo, la regola
applicabile resta ovviamente quella del codice civile (per le nullità da violazione ed
esecuzione del giudicato, il termine è quello della prescrizione decennale prevista
per l'actio iudicati) (71).
L'apposizione di un termine decadenza all'azione di nullità può sembrare a prima
vista un fatto singolare; sennonché l'invalidità e le sue regole — come già si
ricordava autorevolmente quasi mezzo secolo fa (72) — non costituiscono una
categoria logica, ma sono nella piena disponibilità del legislatore. Anche il diritto
commerciale prevede d'altra parte talune ipotesi di decadenza per le azioni di
nullità avverso delibere societarie (73). La verità è che — nei settori che più da
vicino coinvolgono l'interesse dei terzi di fronte all'esercizio di potere unilaterale
— l'ordinamento sceglie talora di porre un termine finale alle contestazioni, oltre il
quale l'atto, ancorché nullo, è lasciato “al suo destino” (74).
Il provvedimento nullo non impugnato nel termine — al di là delle conseguenze di
carattere processuale che saranno descritte infra — resta ovviamente privo della
sua efficacia tipica (primaria). Ma attenzione all'equivoco: l'atto nullo è comunque
rilevante, e laddove non rimosso come fattispecie giuridicamente rilevante (ed
apparentemente efficace), esso è in grado di essere eseguito ovvero di essere
attratto come porzione elementare in altre fattispecie giuridiche che lo assorbono
e se ne servono utilmente per produrre a loro volta effetti giuridici indiretti (75).
Insomma, anche dopo 180 giorni, l'atto nullo resta una fattispecie giuridica
tipicamente inefficace e tuttavia fonte di tutti gli (altri) effetti indiretti che è in
grado di produrre, attraverso la sua esecuzione o l'integrazione di altre
fattispecie.
L'art. 31, comma 4 del Codice precisa che l'interessato decade dall'azione, ma la
“parte resistente” può eccepire in ogni tempo la nullità. La norma si spiega come
una scelta di compromesso rispetto alla soluzione del codice civile. Dopo 180
giorni, come s'è detto, l'atto amministrativo nullo va lasciato alla sua capacità di
atto giuridicamente rilevante di ricevere comunque esecuzione e/o di interagire
con altre fattispecie giuridiche. Ma se e quando questo atto viene al cospetto di
terzi controinteressati, costoro potranno resistere ai suoi effetti indiretti,
eccependone la nullità ed evitando che attraverso esso, altri possa acquisire
vantaggi indebiti. Questo è il senso della norma: l'atto è lasciato “al suo destino”,
se non rimosso nei termini, ferma restando la possibilità dei terzi interessati di
difendersi in eventuali giudizi attraverso la proposizione di eccezioni che
paralizzino la pretesa avversaria fondata su quell'atto, determinando il rigetto
dell'azione (l'atto è in sostanza disapplicato).
Insomma, per l'atto amministrativo nullo l'ordinamento, dopo un certo periodo,
considera prevalente il valore della funzionalità rispetto a quello della stretta
legalità; la quale tuttavia riacquista preminenza a tutela di talune categorie di
soggetti (quelli coinvolti in giudizi in cui si pretende di far valere l'efficacia di un
provvedimento nullo). Si tratta di un sistema “inutilmente complicato” (76) e
rispetto al quale si pongono almeno due ordini di perplessità.
a) In primo luogo, tra le parti resistenti, c'è l'amministrazione. Ma anche
quella che ha adottato l'atto nullo e che avrebbe potuto eliminare l'atto in
autotutela? L'esempio che si può fare è quello del concorso universitario nullo a
seguito di una sentenza del giudice penale (77); nessun controinteressato
ricorre avverso gli atti di quella procedura e il vincitore entra (invalidamente) nei
ruoli dell'amministrazione universitaria, cominciando a svolgere le proprie
funzioni. Sulla base di questo rapporto giuridico (invalidamente costituito), il
professore chiede all'amministrazione l'adozione di un certo provvedimento
favorevole alla sua carriera (siamo fuori del lavoro contrattualizzato). Di fronte al
diniego, il professore ricorre e l'amministrazione, per paralizzarne la pretesa,
eccepisce addirittura la nullità della nomina.
L'ipotesi, ove ammessa, sarebbe assai singolare. L'eccezione prevista dall'art. 31,
comma 4 del Codice va a vantaggio dei terzi che in un certo momento si
imbattono nell'atto nullo che li sfavorisce e al quale essi non hanno in qualche
modo dato causa; nell'esempio fatto, l'amministrazione che ha adottato l'atto non
è una qualunque “parte resistente”. Possono esserlo le altre amministrazioni, ma
non quella “padrona” dell'atto, che può agire per la sua rimozione in autotutela (78). In questo senso la norma dovrebbe essere interpretata.
b) La seconda perplessità riguarda il fatto se tra i controinteressati ci possano
essere anche coloro che avrebbero avuto l'onere di domandare in via principale,
entro 180 giorni, l'accertamento della nullità dell'atto. Si ipotizzi un bando di
concorso contenente una clausola escludente nulla (per difetto di attribuzione, per
una nullità testuale, ecc.). L'interessato presenta comunque la domanda e
l'amministrazione, non accorgendosi della clausola, non solo non lo esclude ma
addirittura lo dichiara vincitore del concorso. Il controinteressato impugna la
graduatoria e fa valere la clausola che avrebbe dovuto escludere il vincitore, il
quale però ne eccepisce la nullità. Solo che in questo modo, dopo 180 giorni, il
vincitore resistente, attraverso l'eccezione, disinnesca l'atto che avrebbe dovuto
aggredire tempestivamente in via principale. Anche su questo punto è lecito
nutrire qualche perplessità.
8.2. L'atto amministrativo nullo, s'è detto, non è affatto quella fattispecie del
tutto inefficace ab origine, come spesso un po' troppo schematicamente si tende
a ritenere. Salvo che le parti spontaneamente concordino sul regime effettuale
dell'atto, fin quando non si pronuncia il giudice, l'assoluta inefficacia dell'atto nullo
è tutta da accertare. L'interesse all'azione di nullità, dunque, è per l'accertamento
negativo di tale efficacia nonché per la rimozione di situazioni di incertezza (oltre
che di eventuale ripristino dello status quo) (79).
Nel processo civile, la legittimazione estesa ex art. 1421 c.c. si spiega con le
ragioni pubblicistiche della tutela: il vizio di nullità potrebbe essere trascurato
dalle parti del negozio (che possono non avere interesse a farlo valere); allora il
controllo di legalità si estende, legittimando all'azione una più ampia categoria di
soggetti (terzi rispetto all'atto), i quali devono comunque avere interesse
all'accertamento (alla sentenza che dichiara la nullità o che rigetta la domanda).
Nel processo civile i (terzi) legittimati aumentano di numero poiché si riduce la
distinzione tra situazione legittimante e interesse a ricorrere: la legittimazione
coincide (pressoché) con l'interesse all'accertamento.
Nel processo amministrativo, tradizionalmente, questa più estesa legittimazione
dei terzi all'azione c'è già, poiché possono agire tutti coloro che siano interessati a
far pronunciare il giudice sulla validità dell'atto. Di più non si può chiedere al
processo amministrativo, a meno di non voler sfociare nell'azione popolare o in
una sorta di “azione di classe” (che però ha tutt'altra disciplina e obiettivi) (80).
Insomma, legittimati all'azione di nullità di fronte al giudice amministrativo sono il
destinatario di un diniego nullo (titolare dell'interesse pretensivo); i
controinteressati rispetto ad un provvedimento ampliativo nullo (interesse
oppositivo); nonché qualunque terzo che sia comunque in grado di dimostrare la
titolarità di uno specifico e differenziato interesse all'azione (81).
Per quanto riguarda l'azione di nullità avverso atti elusivi o violativi del giudicato,
la legittimazione è ristretta alle parti interessate all'esecuzione della sentenza. Ma
la nullità in questo caso è una questione particolare, quasi eccentrica rispetto
all'art. 21-septies legge 241/90; serve infatti, più che altro, a contrastare
definitivamente il principio che l'atto contrario al giudicato debba essere
impugnato entro il termine di decadenza. In realtà, più che nell'istituto delle
nullità, tale fattispecie sembra inquadrarsi nel tema della forza del giudicato e
della relativa azione di ottemperanza. Di qui giustamente, l'azione di nullità per
contrasto al giudicato è disciplinata non dall'art. 31, co. 4º, ma dall'art. 114 cod.
proc. amm.
8.3. Il profilo della rilevabilità d'ufficio del vizio di nullità da parte del giudice
amministrativo entro certi limiti rafforza un'impressione. Quella che, al di là dei
casi di nullità per contrasto al giudicato, le vicende processuali relative agli altri
casi di nullità siano destinate a restare questione un po' di nicchia, di sicuro
interesse teorico ma di scarsa rilevanza pratica. Infatti, oltre al ristretto termine
di decadenza per promuovere l'azione — che di fatto scarica sulle eventuali
eccezioni il compito di far valere la nullità dell'atto amministrativo — sulla vicenda
influisce anche quell'interpretazione restrittiva sui poteri officiosi del giudice, che
nel processo civile la Corte di cassazione giustifica in difesa del principio della
domanda (artt. 99 e 112 c.p.c.), ma che — come si vedrà — nel processo
amministrativo produce una singolare asimmetria a favore dell'amministrazione
resistente.
Sul tema della rilevabilità d'ufficio, l'art. 31, comma 4, coincide con l'art. 1421
c.c.; quindi i problemi della sua applicazione sembrano in parte comuni a quelli
del processo civile. Proprio dal processo civile sarà opportuno, dunque, avviare la
successiva analisi.
8.3.1. La posizione maggioritaria della giurisprudenza civile ritiene che il giudice
possa rilevare d'ufficio la nullità solo quando il vizio di validità si ponga in un
giudizio avente ad oggetto l'esecuzione di un atto; viceversa nega i poteri di
rilevazione officiosa di fronte ad azioni mirate alla sua caducazione (risoluzione,
rescissione, annullamento) (82).
Una posizione giurisprudenziale minoritaria (83) ammette la rilevabilità d'ufficio
del vizio di nullità di un atto impugnato anche ai fini della sua caducazione
(risoluzione, rescissione, annullamento), suscitando però molte riserve laddove
sembra favorire l'accoglimento della domanda del ricorrente, in violazione del
principio di ultrapetizione. Tali critiche, a ben vedere, sono state alimentate da
almeno due equivoci che hanno penalizzano oltre misura quella soluzione
estensiva.
a) Il primo equivoco è che l'accertamento d'ufficio potesse acquistare valore di
giudicato; nel caso della richiesta di caducazione, questa soluzione si risolveva
effettivamente in una modifica della domanda e in un vantaggio per l'attore. A
questo primo equivoco ha contribuito, se così si può dire, proprio la nota sentenza
della Cassazione n. 6170/2005, che ha distinto tra questioni pregiudiziali in senso
tecnico (punti pregiudiziali che diventano questioni in quanto sono oggetto di una
domanda di parte) e pregiudiziali in senso logico (punti pregiudiziali che non
diventano questioni eppure condizionano logicamente la decisione), definendo
l'accertamento incidentale sulla nullità (punto pregiudiziale in senso logico) come
“idoneo a diventare giudicato”. Si è trattato di un'affermazione indubbiamente
“forte” che la stessa Cassazione l'anno successivo ha riformulato, precisando che
quel giudicato (sul punto pregiudiziale logico) non copre il “dedotto” e il
“deducibile” (84).
Quest'ultima affermazione fa giustizia delle reali possibilità ed intenzioni della
soluzione estensiva e viene incontro alle posizioni più miti di una dottrina convinta
che il giudice decide con effetto di giudicato sulla nullità, pronunciando su
domanda di parte; mentre, in difetto di tale domanda, il giudice può rilevare la
nullità d'ufficio (con ampiezza di poteri), attraverso però un accertamento
meramente incidentale (85).
b) La correzione sopra indicata consente di estendere i poteri officiosi del
giudice senza violare il principio di domanda e finisce per svelare anche il secondo
equivoco: l'accertamento d'ufficio della nullità (ancorché incidentale) non
costituisce il presupposto per l'accoglimento della domanda di caducazione;
semmai per il suo rigetto (e la sentenza di rigetto è destinata a fare stato in base
alle regole applicabili a questo tipo di sentenza) (86).
A questo punto però, per evitare ulteriori torsioni al sistema, la tesi estensiva —
opportunamente precisata nel senso che l'accertamento ha valore meramente
interno al processo e comunque serve tutt'al più al rigetto della domanda
caducatoria — si articola a sua volta, ammettendo il potere officioso di rilevazione
nei casi in cui la caducazione significhi risoluzione del contratto ed escludendola
invece quando la caducazione equivalga all'annullamento o alla rescissione
dell'atto.
a) Nel caso di un'azione di risoluzione del contratto, il giudice deve accertare
l'inadempimento come causa estintiva del contratto. Ma se rileva un motivo di
nullità, individua una causa impeditiva della validità che precede logicamente;
evidentemente cause impeditive ed estintive non possono coesistere, giacché
rispetto ad un contratto nullo non si può accertare un inadempimento. E poiché la
domanda di risoluzione presuppone un contratto valido, la nullità è rilevata
incidenter ex art. 1421 c.c., per evitare al giudice di dover considerare valido un
contratto che valido non è (cioè di negare un aspetto costitutivo della domanda) e
comunque al solo scopo di rigettare la stessa azione di risoluzione. Ovviamente,
nei casi in cui è ammessa, la rilevabilità d'ufficio deve comunque consentire il
contraddittorio tra le parti interessate, pena la radicale nullità della c.d. sentenza
“a sorpresa” (87).
b) Nel caso di annullamento (o di rescissione), invece, nullità e annullabilità
sono entrambe cause impeditive del negozio impugnato; la domanda di
annullamento di per sé presuppone l'invalidità del medesimo negozio e quindi non
richiede l'intervento difensivo del giudice per evitare che venga acquisita la
validità di un atto che valido non è: in tal caso non occorre negare un aspetto
costitutivo della domanda perché la validità del negozio è già contestata dal
ricorrente che lo vuole annullare (88).
In questo caso, si esclude il potere del giudice di rilevare ex officio la nullità,
neppure incidentalmente e neppure come motivo di rigetto dell'azione di
annullamento: altrimenti, si avvantaggerebbe troppo il convenuto che otterrebbe
il rigetto dell'azione avversaria, con contestuale accertamento della validità di un
atto di cui pur si è rilevata la nullità; paradossalmente l'accertata nullità ex officio
sarebbe il motivo che — attraverso il rigetto dell'azione di annullamento —
consentirebbe all'atto di essere definitivamente considerato valido.
Di fronte all'azione di annullamento, il giudice che pure abbia rilevato un vizio di
nullità dell'atto, passa oltre, all'esame della domanda di annullamento e su questa
giudica in piena autonomia (89).
8.3.2. È facile immaginare come la questione della rilevabilità d'ufficio della
nullità nell'ambito di azioni di annullamento, riguardi particolarmente da vicino il
processo amministrativo. E la giurisprudenza amministrativa — piuttosto scarsa e
formatasi prima dell'art. 21-septies l. n. 241 del 1990, per lo più sulle c.d. nullità
testuali — si è orientata principalmente verso la tesi più restrittiva che, come
detto, consente al giudice di rilevare d'ufficio la nullità solo al fine di paralizzare la
pretesa del ricorrente. A questo proposito possono richiamarsi le seguenti
pronunce:
a) Consiglio di Stato, Sez. IV, 6 novembre 1996, n. 1190: rilevando d'ufficio la
nullità di un atto, il giudice ha accolto l'appello e respinto il ricorso di primo grado.
In quella sede è stata rilevata d'ufficio la nullità dell'inquadramento di alcuni
lavoratori e considerato legittimo l'atto che ha impedito l'esecuzione di tale
inquadramento;
b) TAR Veneto, Sez. I, 12 febbraio 2009, n. 347: per evitare la restituzione
dell'area o il risarcimento del danno a causa di un'occupazione abusiva per
scadenza dei termini di espropriazione, l'amministrazione aveva fondato la propria
eccezione su taluni atti di esproprio che avrebbero dovuto paralizzare la pretesa
del ricorrente. Il giudice ha accertato però che quegli atti erano stati adottati fuori
termine e quindi ha rilevato d'ufficio la loro nullità, paralizzando la domanda
dell'amministrazione;
c) TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 14 marzo 2005, n. 1534: alcuni lavoratori
socialmente utili hanno impugnato una delibera che ritenevano peggiorativa di un
precedente provvedimento che li avrebbe (a loro dire) stabilizzati nei ruoli
dell'amministrazione. Il giudice, rilevando d'ufficio la nullità di tale stabilizzazione,
ha dichiarato inammissibile l'azione di annullamento promossa avverso la seconda
delibera.
Non v'è dubbio che l'interpretazione restrittiva, applicata nel processo
amministrativo, finisca per favorire l'amministrazione resistente nei giudizi di
annullamento. D'altra parte, viste le precedenti considerazioni, non si può dire
neppure che la tesi estensiva sia per definizione favorevole al ricorrente, essendo
preordinata al rigetto del ricorso.
La verità è che nel processo amministrativo non sembrano assorbibili tout court le
tesi elaborate per il processo civile, nel quale le azioni costitutive sono quelle
tipiche (art. 2908 c.c.) e si alternano alle altre, in modo da giustificare la
distinzione tra casi di esecuzione e casi di caducazione dell'atto. Viceversa, nel
processo amministrativo l'azione di annullamento è generale e quindi — con un
certo distacco dalle tesi processulcivilistiche — occorre attentamente riflettere
sull'effettiva capacità del giudice, nell'ambito di questi giudizi, di rilevare d'ufficio
la nullità del provvedimento, ai sensi dell'art. 31, co. 4; pena altrimenti il rischio
di una sostanziale inutilità di questa norma.
L'esame della (scarsa) casistica dimostra che la giurisprudenza amministrativa
non esclude la rilevabilità d'ufficio della nullità nell'ambito di giudizi di
annullamento; e dimostra soprattutto che il giudice amministrativo segue, a
questo riguardo, percorsi e “stili” differenti.
a) Il primo “stile” può definirsi minimale, sulla scia delle tesi
processualcivilistiche.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 265, dopo aver accolto due
motivi di annullabilità del provvedimento (riformando la sentenza del TAR), di
fronte ad un motivo aggiunto ritenuto irricevibile per tardività dal TAR, ha rilevato
d'ufficio la nullità dell'atto impugnato sotto quel profilo (il ricorrente lo ha
censurato tardivamente, il giudice lo ha considerato nullo e ha superato la
tardività). Ad ogni modo, tale accertamento è puramente incidentale e non lascia
alcuna traccia, posto che la sentenza si conclude con l'accoglimento del ricorso di
primo grado e con l'annullamento dell'atto impugnato. Un singolare fenomeno di
annullamento dell'atto nullo, che però non suscita eccessivi problemi sul piano
pratico, posto che la rilevazione d'ufficio resta interna al processo, che si conclude
con l'annullamento dell'atto in accoglimento della domanda (90).
b) Il secondo “stile” accentua i poteri officiosi del giudice amministrativo.
Il TAR Lazio, Sez. I, 19 novembre 2010, n. 33666 affronta il caso di un
magistrato della Corte dei conti, già consigliere comunale, che agisce per
l'annullamento del diniego dell'autorizzazione a proseguire nell'incarico di
amministratore locale. Il TAR, riformulando le doglianze del ricorrente, rileva
d'ufficio un difetto assoluto di attribuzione, dichiarando in via principale la nullità
del diniego. Il TAR in questa fattispecie, non solo non si disinteressa del vizio di
nullità (come invece si teorizza per il processo civile) ma addirittura lo accerta in
via principale, posto che la sentenza è dichiarativa della nullità del provvedimento
di cui il ricorrente aveva chiesto l'annullamento; in questa fattispecie, il giudicato
si forma sulla dichiarata nullità.
Come si è già anticipato, la sensazione è che nel processo amministrativo non si
possa essere drastici più di tanto rispetto a simili evenienze, se non si vuole
depotenziare oltre il ragionevole la previsione dell'art. 31, co. 4, cod. proc. amm.
Sembra quindi opportuno distinguere i casi in cui l'azione di annullamento è
fondata rispetto alle altre ipotesi. Se l'azione di annullamento è comunque
fondata, sostituire la pronuncia di nullità a quella di annullamento può forse
considerarsi una forzatura teorica, che rende però giustizia al ricorrente, in
un'ottica di effettività della tutela.
Non si può invece utilizzare il mezzo della rilevazione d'ufficio per sanare azioni di
annullamento irricevibili (per tardività), inammissibili (per mancata impugnazione
dell'atto presupposto) o infondate. Nella fattispecie testé esaminata, la pretesa
era manifestamente fondata, essendo l'azione amministrativa affetta da grave
invalidità; e non dimentichiamo, peraltro, che in sede giurisdizionale di legittimità,
il giudice amministrativo fa comunque il suo “mestiere”, che è quello di rimuovere
i prodotti del potere esercitato extra ordinem.
c) Il terzo “stile” massimizza i poteri officiosi del giudice amministrativo
Si consideri la decisione del Consiglio di Stato, Sez. V, 1 marzo 2010, n. 1156 (91). A fronte del ricorso per la risoluzione del contratto di cessione azionaria
(privatizzazione di una società comunale), il giudice ha respinto la tesi della
risolubilità e ha rilevato d'ufficio la nullità del contratto (e dei precedenti atti della
selezione pubblica). In questo caso, la sentenza, non solo non si limita
all'accertamento incidentale della nullità, dichiarandola in via principale (92); ma
addirittura, tale dichiarazione principale avviene dopo l'accertamento
dell'infondatezza della domanda originaria del ricorrente (che aveva agito per la
risoluzione del rapporto). Si tratta invero di una posizione “estrema”, che suscita
qualche perplessità e rispetto alla quale sarà interessante osservare i futuri
sviluppi giurisprudenziali.
Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin:
10px 10px;">
Note:
(1) Il c.d. Codice del processo amministrativo è stato adottato con il d.lgs. n. 104
del 2010 recante “Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69,
recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo”.
(2) A. di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 5; A. ProtoPisani, Lezioni di
diritto processuale civile, Napoli, 2006, 5 ss., 32 ss.
(3) Per tutti, R. Nicolò, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1962, 11 ss.
(4) Per questi argomenti, in termini generali, per tutti, A. diMajo, La tutela civile,
cit., 55 ss.
(5) Sulla distinzione tra garanzia primaria e secondaria, L. Ferrajoli, Garantismo e
poteri selvaggi, in Teoria politica, XIV, 1998, 3, 15 ss.; Id., Principia juris. Teoria
del diritto e della democrazia, I, Bari, 2007, 668 ss.
(6) Sul diritto di azione e sui rapporti tra diritto sostanziale e processo, per tutti,
A. ProtoPisani, Lezioni di diritto processuale, cit., 51 ss., 196 ss.
(7) E. Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1989, 399 ss.
(8) Il diritto di azione non coincide con il diritto soggettivo da proteggere, ma
corrisponde al “potere giuridico di porre in essere le condizioni per l'attuazione
della legge”, secondo la nota definizione di G. Chiovenda, L'azione nel sistema dei
diritti, in Saggi di diritto processuale civile (1900-1930), I, Roma, 1930, 6.
(9) Sulla distinzione tra “legittimazione al ricorso” e “interesse al ricorso”, da
ultimo, Cons. Stato, Ad. plen., 7 aprile 2011, n. 4.
(10) J. Goldschmidt, Prozes als Rechtslage Eine Kritik des prozessualem, Berlin,
1925, 245. In termini riepilogativi, A. Bonsignori, Tutela giurisdizionale dei diritti.
Tutela dei diritti, artt, 2907-2909, in Commentario del Codice civile ScialojaBranca (a cura di F. Galgano), 1 ss. Il codice civile contiene norme sostanziali di
tutela dei diritti soggettivi, seppure discutibilmente concentrate nel VI Libro e
disposte in modo piuttosto disomogeneo, anziché distribuite nei diversi settori di
disciplina sostanziale del diritto; sul punto, tra gli altri, E. Fazzalari, Tutela
giurisdizionale, in Enc. dir., Milano, 1992, 403.
(11) Nella Relazione al Titolo IV del Libro VI (“Della tutela giurisdizionale dei
diritti”) si precisa che la finalità non è quella di disciplinare modi e forme della
tutela “bensì la natura e la figura dei provvedimenti con cui essa si attua, le
condizioni sostanzialmente richieste per provocarne l'emanazione e infine gli
effetti che quei provvedimenti producono in quanto operino o incidano sui rapporti
e sulle situazioni sostanziali fuori del processo” (Relazione al Re, n. 1065).
(12) Ad es. sul danno da ritardo (art. 2-bis l. n. 241 del 1990); sulla tutela
avverso il silenzio della p.a. (art. 2 l. n. 241 cit.); sulla tutela avverso il diniego
all'accesso ai documenti amministrativi (art. 25 l. n. 241 cit.). Sull'opportunità “di
chiamare la legge delega non ‘codice del processo amministrativo', ma ‘codice
della giustizia amministrativa' [in base all'insegnamento che] ‘niente è nel
processo che non sia prima e fuori del processo”, Giovanni Pellegrino, Un codice
della giustizia amministrativa (più che del processo), in Verso il codice del
processo amministrativo, a cura di Gianluigi Pellegrino), Roma, 2009, 71 ss.,
spec. 76. Cfr. anche V. Carbone, Un ponte tra le giurisdizioni, in Verso il codice,
cit., 219.
(13) Sull'interazione tra effettività della garanzia primaria e secondaria, in termini
generali, L. Ferrajoli, Principia juris, cit., 701.
(14) Per approfondimenti e riferimenti bibliografici, si rinvia a F. Luciani, Funzione
amministrativa, situazioni soggettive e tecniche giurisdizionali di tutela, in questa
Rivista, 2009, 987 ss.
(15) Per alcuni diritti della personalità, ad es., non si ammette il rimedio di tutela
risarcitorio.
(16) Ad es., secondo l'art. 2058 c.c., il giudice ordina la reintegrazione in forma
specifica, salvo nei casi in cui tale rimedio sia eccessivamente oneroso per il
debitore.
(17) Si tratta, com'è noto, di una disciplina che recepisce le indicazioni del
legislatore comunitario: cfr. dir. 2007/66/CE dell'11 dicembre 2007 del
Parlamento Europeo e del Consiglio, che modifica le direttive 89/665/CEE e
92/13/CEE del Consiglio per quanto riguarda il miglioramento dell'efficacia delle
procedure di ricorso in materia d'aggiudicazione degli appalti pubblici.
(18) Sulla nuova disciplina della sorte del contratto stipulato in base ad
un'aggiudicazione successivamente annullata dal giudice amministrativo, per
tutti, R. DeNictolis, Commento agli artt. 121-125, in Il processo amministrativo, a
cura di A. Quaranta e V. Lopilato, Milano, 2011, 1012 ss.
(19) Sulla disciplina contenuta nel Codice del processo amministrativo, tra gli
altri, cfr. Codice del processo amministrativo, a cura di M. Sanino, Torino, 2011;
Giustizia amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2011; Il processo
amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, cit.; Codice del nuovo
processo amministrativo, a cura di F. Caringella e M. Protto, Roma, 2010; R.
Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010; Codice del processo
amministrativo, a cura di R. Garofoli e G. Ferrari, Roma, 2010.
(20) Cfr. Corte cost. n. 140/2007; da ult. Cass., Sez. un., ord. 5 marzo 2010, n.
5290. Sulla completezza ed adeguatezza della tutela processuale amministrativa,
anteriormente al Codice, S. Tarullo, Il giusto processo amministrativo, Milano,
2004, 153 ss.; F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, cit., 18 ss.
(21) Sulla ricostruzione dell'interesse legittimo come situazione a garanzia di
pretese sostanziali, con ampiezza di argomenti, da ultimo, Cons. Stato, Ad. plen.,
23 marzo 2011, n. 3. Cfr. anche A. Romano Tassone, Risarcimento del danno per
lesione di interessi legittimi, in Enc. dir. Aggiornamento, VI, Milano, 2002, part.
996 ss.
(22) Parafrasando, l'affermazione di G. Chiovenda, “il processo deve dare per
quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello
che egli ha diritto di conseguire”, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1912
(ristampa inalterata, Napoli, 1965), 81.
(23) Sul punto, F. Merusi, Giurisdizione e amministrazione: ancora separazione
dopo il codice amministrativo?, in www.giustamm.it, n. 10/2010.
(24) L'art. 31, comma 3, invero, affianca ai casi di attività vincolata, le altre
ipotesi di attività (astrattamente discrezionali) per le quali non residuano in
concreto “ulteriori margini di esercizio della discrezionalità”, nonché le ipotesi di
attività (tecnicamente complesse) per le quali “non sono necessari adempimenti
istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione”.
(25) Nell'area del potere vincolato, all'obbligo di cooperazione
dell'amministrazione corrisponde pur sempre un interesse legittimo del privato,
secondo lo schema a suo tempo tracciato dal Cons. Stato, Ad. plen., 5 luglio
1999, n. 19. Sul ruolo dell'amministrazione che, di fronte al carattere sempre più
dettagliato delle norme, al fine di risolvere il conflitto tra pretese in contrasto,
“non attua la legge, ma sceglie — tra una pluralità di interessi — tenendo conto di
tanti ed articolati principi e canoni di azione: l'imparzialità, la ragionevolezza, il
contraddittorio, la proporzionalità la trasparenza”, cfr. però L. Torchia, Le nuove
pronunce nel Codice del processo amministrativo, in www.giustiziaamministrativa.it, par. 3 ss.
(26) Sull'autonomia dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento, cfr.
l'art. 7, comma 4; l'art. 30; l'art. 34 commi 2 e 3, cod. proc. amm.. In dottrina,
tra gli altri, R. Gisondi, La disciplina delle azioni di condanna nel nuovo codice del
processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it. Per ulteriori
approfondimenti su tale argomento, v. infra, par. 7 ss.
(27) P. de Lise, sottolinea che “il giudice amministrativo è il ‘giudice ordinario'
delle situazioni soggettive attribuite alla sua cognizione”, Dialogo tra le
giurisdizioni partito da Lecce (Varenna del Sud), in Verso il codice, cit., 214.
Sull'assorbimento della tutela civile dell'interesse legittimo in quella
amministrativa, F. Satta, Giustizia amministrativa, in Enc. dir., Agg., Milano,
2002. Cfr. anche M. Clarich, Il processo amministrativo a “rito ordinario”, in Riv.
dir. proc., 2002, 1075; Id., La « tribunalizzazione » del giudice amministrativo
evitata: commento alla sentenza della Corte costituzionale 5 luglio 2004, n. 204,
in Giorn. dir. amm., 2004, 969. In senso critico, A. Romano, La giurisdizione
amministrativa esclusiva dal 1865 al 1948, in questa Rivista, 2004, 442.
(28) L'efficace espressione è di F. Satta, Giustizia amministrativa, cit., 416-417,
secondo il quale, con l'art. 7, comma 3 della legge TAR, modificato dalla legge n.
205 del 2000, “(...) cadeva la contrapposizione tra giurisdizione ordinaria e
amministrativa, per sostanziale incorporazione della prima nella seconda, nelle
controversie in cui parte è una pubblica amministrazione. Cadeva insomma il
fondamento storico della giustizia amministrativa, secondo cui la tutela
giurisdizionale variava in funzione del grado di intensità che la legge sembrava
dare agli interessi dedotti in giudizio”.
(29) Nel testo elaborato dalla Commissione istituita presso il Consiglio di Stato,
l'art. 36 disciplinava l'azione di accertamento (“chi vi ha interesse può chiedere
l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza di un rapporto giuridico contestato
con l'adozione delle consequenziali pronunce dichiarative”); l'art. 40 prevedeva
espressamente l'azione di adempimento (“il ricorrente può chiedere la condanna
dell'amministrazione all'emanazione del provvedimento richiesto o denegato [...].
L'azione è proposta contestualmente a quella di annullamento o avverso il silenzio
entro i termini previsti per tali azioni”).
(30) Al riguardo, cfr. già, Cons. Stato, Ad. plen., 29 luglio 2011, n. 15; Sez. VI,
10 maggio 2011, n. 2755; Tar Puglia, Bari, Sez. III, 25 novembre 2011, n. 1807;
Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428; R. Chieppa, Commento
all'art. 30, in Il processo amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, cit.,
278 ss.
(31) Sul punto, F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, cit. 35; M. Clarich, Le azioni
nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, in
www.giustizia-amministrativa.it.; L. Torchia, Le nuove pronunce, cit. Ritiene che
la disciplina del Codice sia « ispirata ad un canone di tipicità “moderata” », A.
Travi, La tipologia delle azioni nel nuovo processo amministrativo, in AA.VV., La
gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti organizzaivi e riforme
strutturali (Atti del LVI Convegno di studi di scienza dell'amministrazione), Milano
2011, 87.
(32) Cfr. l'art. 29 (nella parte in cui sopprime l'art. 88 r.d. n. 642/1907), l'art. 31
e l'art. 34, comma 1, lett. c) del Codice. La giurisprudenza amministrativa sembra
confermare questo orientamento: “il decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, sia
pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un
provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di
profili di discrezionalità amministrativa o tecnica, l'azione di condanna volta ad
ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto” (Cons. Stato, Ad. plen., n.
15/2011 cit., par. 6.4.1.).
(33) Il passaggio è chiaramente avvertito dalla giurisprudenza secondo la quale
“il giudice amministrativo, nel determinare gli effetti delle proprie statuizioni,
deve ispirarsi al criterio per cui esse, anche le più innovative, devono produrre
conseguenze coerenti con il sistema (e cioè armoniche con i principi generali
dell'ordinamento, e in particolare con quello di effettività della tutela) e
congruenti (in quanto basate sui medesimi principi generali, da cui possa
desumersi in via interpretativa la regula iuris in concreto enunciata)”: Cons.
Stato, Sez. VI, 2755/2011 cit., sulla quale v. anche infra.
(34) Sull'esistenza di una generale azione di accertamento, cfr. Cons. Stato,
717/2009; più recentemente, Cons. Stato, Ad. plen., n. 15/2011 cit.
(35) Cfr. art. 44, comma 2, lett. b), n. 4), l. n. 69 del 2009.
(36) Sul punto, in particolare, Cons. Stato, Ad. plen., n. 3/2011 e n. 15/2011 citt.
(37) Non si scorgono, invero, particolari preclusioni a considerare la condanna
atipica un rimedio attivabile a tutela dell'interesse legittimo. D'altra parte, non si
vede perché il giudice possa conoscere la fondatezza della pretesa a fronte
dell'inerzia dell'amministrazione (art. 31 cod. proc. amm) e non anche a fronte di
un diniego. Come è stato giustamente sottolineato (F. Caringella, Il giudice
amministrativo conquista il bene della vita, in Verso il codice, cit., 56), il
legislatore, che nel 2005 ha certificato l'esistenza di casi in cui l'annullamento di
provvedimenti illegittimi è una misura di tutela superflua (art. 21-octies, comma
2, l. n. 241 del 1990), nel 2010 sembra ammettere la possibilità che in altre
circostanze l'azione di annullamento possa essere un rimedio di tutela
insufficiente (art. 34 cod. proc. amm.). In particolare, per gli interessi pretensivi
contrapposti ad attività vincolata non dovrebbe operare il principio di separazione
di poteri, prospettandosi piuttosto un obbligo dell'amministrazione a cooperare ad
un facere giuridico.
(38) Con l'art. 6, comma 1, lett. c) del d.l. n. 138 del 2011, conv. in l. n. 148 del
2011 il legislatore è però intervenuto su questa materia in senso contrario a tale
orientamento giurisprudenziale; aggiungendo il comma 6-ter all'art. 19 l. n. 241
del 1990 ha stabilito che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia
e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti
direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle
verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire
esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2
luglio 2010, n. 104”. In sostanza, si esclude che il mancato intervento
dell'amministrazione configuri un silenzio significativo negativo direttamente
impugnabile dai controinteressati, per i quali resta la strada dell'espressa
sollecitazione dell'amministrazione all'intervento interdittivo e in caso di ulteriore
inerzia la via dell'azione propulsiva avverso il silenzio inadempimento.
(39) Cons. Stato, Ad. plen., n. 15/2011 cit., par. 6.4.2. La recente integrazione
legislativa dell'art. 19 l. 241 del 1990, illustrata nella nota precedente, ancorché
metta in discussione tale ricostruzione giurisprudenziale (quanto alla
qualificazione sostanziale da dare al mancato intervento repressivo
dell'amministrazione e quanto ai mezzi di tutela esperibili dai controinteressati),
non cancella però l'importanza di questa apertura del giudice amministrativo a
favore della rinvenibilità nel Codice del principio di atipicità delle azioni.
(40) Secondo tale norma, “in nessun caso il giudice può pronunciare con
riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.
(41) “(...) in forza del principio di economia processuale, l'azione di
accertamento, una volta maturato il termine per la definizione del procedimento
amministrativo, si converte automaticamente in domanda di impugnazione del
provvedimento sopravvenuto. (...) il giudice potrà pronunciarsi sul merito del
ricorso senza che sia all'uopo necessaria la proposizione, da parte del terzo
ricorrente, di motivi aggiunti, ex art. 43 cod. proc. amm. poiché oggetto
dell'accertamento invocato con l'azione iniziale non può essere solo la mera
sussistenza o insussistenza dei presupposti per svolgere l'attività sulla base di
una semplice denuncia ma, in coerenza con i caratteri della giurisdizione
amministrativa come giurisdizione avente ad oggetto l'esercizio del potere
amministrativo, la sussistenza o l'insussistenza dei presupposti per l'adozione dei
provvedimenti interdittivi doverosi, e, quindi, la fondatezza dell'interesse
pretensivo all'uopo azionato del terzo”: Cons. Stato, Ad. plen., n. 15/2011 cit.
(42) Cons. Stato, Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755.
(43) Viene richiamato l'art. 264 TFUE; nonché, Corte di Giustizia, 5 giugno 1973,
Commissione c. Consiglio, in C-81/72; Corte di Giustizia, 25 febbraio 1999,
Parlamento c. Consiglio, in C-164/97 e 165/97. In ambito nazionale, cfr. gli artt.
121 e 122 cod. proc. amm.
(44) Cons. Stato, Sez. VI, n. 2755/2011 cit.
(45) Sull'atipicità delle statuizioni di condanna ammissibili nel nostro ordinamento
e sul confronto con l'azione di adempimento prevista nell'ordinamento tedesco, R.
Chieppa, Commento all'art. 30, in Il processo amministrativo, a cura di A.
Quaranta e V. Lopilato, cit., 276 ss.; A. Masucci, La legge tedesca sul processo
amministrativo, Milano, 1991; M. Clarich, L'azione di adempimento del sistema di
giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive e orientamento
giurisprudenziale, in questa Rivista, 1985, 60 ss.
(46) Oltre all'art. 30, comma 1, cfr., in particolare, l'art. 7, comma 4 e l'art. 34,
commi 2 e 3, del Codice.
(47) Autonomia di scelta riconosciuta, oltre che dal legislatore (cfr. artt. 121-125
del Codice), anche dal giudice amministrativo secondo il quale “spetta al
ricorrente (...) la scelta tra il conseguimento degli effetti della tutela demolitorioconformativa e della tutela risarcitoria, nel caso in cui comunque il bene della vita
controverso sia ormai conseguibile solo in parte; (...) del resto, la possibilità di
optare per il risarcimento per equivalente e di rifiutare l'esecuzione, ormai solo
parziale, del giudicato deriva anche dall'applicazione del principio di carattere
generale, desumibile dall'art. 1181 c.c., secondo cui il creditore può sempre
rifiutare l'offerta di un adempimento parziale rispetto all'originaria configurazione
del rapporto obbligatorio” (Cons. Stato, Sez. VI, 25 gennaio 2008, n. 213).
(48) Non senza una qualche contraddizione, invero, con il principio dell'autonomia
dell'azione risarcitoria rispetto all'azione di annullamento, il Consiglio di Stato
giudica come irragionevole la “duplicazione di offerta di tutele a fronte di un atto
illegittimo, alternative o concorrenti a piacimento e con scelta rimessa alla mera
scelta di convenienza del destinatario dell'atto (...)”; ciò che “innalzerebbe
l'azione risarcitoria a rimedio facilmente prescelto per neutralizzare gli effetti di
un atto lesivo, svilendo così lo strumento preminente di tutela contro le
illegittimità amministrative, che è l'apposita azione di annullamento” (Cons.
Stato, Sez. VI, 31 marzo 2011, n. 1983).
(49) Correttamente si sostiene che “finché il processo amministrativo manterrà la
sua impostazione tradizionale, non superata dal Codice, di processo sull'atto,
anziché di processo sul rapporto nel quale l'impugnazione dell'atto illegittimo
costituisce solo l'occasione per accertare nella sua interezza il modo di essere del
rapporto (...) ragioni logiche prima ancora che giuridiche, porranno al centro
dell'universo processuale l'azione di annullamento: al carattere imperativo del
provvedimento corrisponde di necessità il carattere costitutivo della sentenza del
giudice amministrativo”: M. Clarich, Commento all'art. 29, in Il processo
amministrativo, a cura di A. Quaranta e V. Lopilato, cit., 272 ss. Resta il fatto
che, quando il Codice afferma l'autonomia dell'azione risarcitoria, l'indubbia
centralità che l'azione di annullamento mantiene anche nel sistema vigente
dovrebbe manifestare una prevalenza quantitativa (nel senso che di fronte
all'esercizio del potere autoritativo la tutela dell'interesse sostanziale si realizza
per lo più con l'eliminazione dell'atto illegittimo); non una preminenza logica, ben
potendo la tutela di quell'interesse prescindere interamente dalla rimozione
dell'atto. In concreto, però, la questione non è affatto così nitida, giacché si
collega all'altra questione, particolarmente incerta, dell'effettivo grado di
autonomia che, interpretando l'art. 30 del Codice, può riconoscersi dell'azione
risarcitoria; sul punto, v. infra.
(50) In dottrina si rileva che questa formulazione dell'art. 30, comma 3,
chiaramente ispirata alla regola di cui all'art. 1227, comma 2, c.c., conferma che
il Codice, ancorché escludendo il vincolo di pregiudizialità, ha risolto la questione
dei rapporti tra impugnazione dell'atto e domanda risarcitoria secondo un
rapporto di prevalenza e non di indifferenza (della prima sulla seconda); una
soluzione comunque idonea “a far finalmente cessare i contrasti tra le due
giurisdizioni sulla questione della pregiudiziale”, cfr. R. Chieppa, Commento
all'art. 30, in Il processo amministrativo, cit., 295 ss. Altri Autori sottolineano
invece come la formulazione dell'art. 30 del Codice smentisca, in realtà, la tesi
della piena autonomia dell'azione risarcitoria, lasciando dubitare che tale
disciplina “risulti in linea con la legge delega che poneva come criterio il rispetto
degli orientamenti delle giurisdizioni superiori visto che la Corte di cassazione,
proprio con la sentenza del 2008 delle Sezioni unite [n. 30254], si era attestata
su una posizione certamente avanzata rispetto a quella accolta nel codice e che,
più in generale, essa sia conforme al principio costituzionale dell'effettività della
tutela (...)”: M. Clarich, Commento all'art. 29, cit., 270.
(51) Nel proprio testo, la Commissione, oltre al termine di 180 giorni per la
proposizione dell'azione risarcitoria, aveva anche previsto che, per la
determinazione del risarcimento, “il giudice (...) può escludere i danni che si
sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esercizio
dei mezzi di tutela o l'invito all'autotutela”.
(52) Al momento dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, lo
stato dell'arte in tema di pregiudizialità amministrativa vedeva la giurisprudenza
amministrativa contrapposta alle tesi della Corte di Cassazione. In estrema
sintesi, l'Adunanza plenaria n. 12/2007 del Consiglio di Stato aveva condizionato
l'ammissibilità dell'azione risarcitoria alla previa proposizione dell'azione di
annullamento in quanto: a) l'azione risarcitoria non sarebbe stata autonoma ma
consequenziale rispetto all'azione di annullamento; b) sarebbe esistita una
presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo; c) al giudice
amministrativo sarebbe stato precluso l'accertamento incidentale dell'illegittimità
dell'atto; d) non ci sarebbe stato danno ingiusto a fronte di un provvedimento
divenuto inoppugnabile; e) il giudice non avrebbe potuto neppure disapplicare
quel provvedimento. Di contro, le Sezioni unite della Suprema Corte (23 dicembre
2008, n. 30254) avevano cassato tale decisione per violazione delle regole sulla
giurisdizione, ritenendo che il giudice amministrativo (dal 2000, arbitro della
risarcibilità dell'interesse legittimo) non potesse evitare sistematicamente ed in
via di principio di pronunciarsi sul merito di istanze risarcitorie autonome rispetto
all'impugnazione del provvedimento lesivo (da ult., ord. 2 luglio 2010, n. 15689).
In termini ricostruttivi, R. Garofoli, La pregiudiziale: per un superamento regolato,
in Verso il nuovo processo, cit., 79 ss.
(53) Cons. St., Ad. plen., n. 3/2011 cit., par. 6.
(54) Il fatto che la regola contenuta nell'art. 30, comma 3, non sia innovativa ma
ricognitiva del principio generale espresso dall'art. 1227, comma 2, c.c., fa sì che
quella regola sia ritenuta applicabile “anche ai giudizi proposti innanzi al giudice
amministrativo prima dell'entrata in vigore del codice del processo
amministrativo” (Cons. St., Sez. VI, n. 1983/2011 cit.).
(55) Per la distinzione tra danno-evento e danni-conseguenze, quanto
all'applicazione dell'art. 1227 c.c., P. Rescigno, Studi per Asquini, IV, Padova,
1965, 1646; A. di Majo, Obbligazioni e contratti. L'adempimento dell'obbligazione,
Bologna, 1993, 244; F.D. Busnelli, Illecito civile, in Enc. giur., Roma, 1989, 16. In
giurisprudenza, Cass. 30 ottobre 1965, in Mass. Foro it., 1965, 2319; più
recentemente, tra le altre, Cass. 26 marzo 2010, n. 7344; 24 aprile 2007, n.
9864. Per una diversa ricostruzione, che non limita l'applicazione dell'art. 1227,
comma 2, ai soli danni ulteriori, C.M. Bianca, Dell'inadempimento delle
obbligazioni. Artt. 1218-1229, in Commentario del Codice civile, a cura di A.
Scialoja e G. Branca), Bologna-Roma, 1967, 338 ss.; in giurisprudenza, Cass., 13
febbraio 2002, n. 2067 che assegna al comma 1 la disciplina dei rapporti tra colpa
ed evento ed al comma 2 la disciplina dei rapporti tra evento e danno (nel quale
può rientrare anche il c.d. danno base).
(56) “L'esigenza che qui si manifesta è quella di una cooperazione secondo
correttezza del titolare dell'interesse leso, al fine di limitare il contenuto della
responsabilità del danneggiante”: C.M. Bianca, Dell'inadempimento, cit., 335; C.
Rossello, Il danno evitabile. La misura della responsabilità tra diligenza ed
efficienza, Padova, 1990, 67 ss.; V. Carbone, Il fatto dannoso nella responsabilità
civile, Napoli, 1969, 336 ss. In giurisprudenza, Cass., 30 marzo 2005, n. 6735;
19 gennaio 1992, n. 320; 4 maggio 1990, n. 3279.
(57) Cass., 28 agosto 2004, n. 17205; Cass., 18 settembre 2009, n. 20106. La
nozione di abuso di diritto è stata elaborata, oltre che in relazione all'inosservanza
dei doveri di lealtà e correttezza di cui all'art. 1175, anche con riguardo a
tematiche diverse, come ad esempio il diritto di recesso (Cass., 16 ottobre 2003,
n. 15482) e l'amministrazione del bene comune (Cass., 4 giugno 2008, n.
14759). Sul concetto di abuso del diritto, per gli aspetti teorico-generali, F.
Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1946, 63, che lo qualifica come
concetto “finitimo a quello di eccesso di potere” e lo intende come “esercizio
dell'autonomia privata, in cui lo svolgimento dell'interesse in conflitto non sia
temperato dal senso della solidarietà sociale”. Nella letteratura più recente, tra gli
altri, F. Borghi, Osservazioni sulla figura dell'abuso di diritto, in Dir. e giur., 2004,
525; E. Bergamo, L'abuso del diritto ed il diritto di recesso, in Giur. it., 2004,
2065.
(58) Fra le altre, cfr. Cass., 5 luglio 2007, n. 15231; 10 ottobre 1997, n. 9874.
(59) C.M. Bianca, Dell'inadempimento, cit., 359. La giurisprudenza sottolinea che
l'applicabilità dell'art. 1227, comma 2, “presuppone che il comportamento del
danneggiato sia stato unica causa efficiente del predetto evento e si riferisce alle
ulteriori conseguenze dannose che, a causa del mancato uso della ordinaria
diligenza, abbiano aggravato il danno diretto”: Cass. 15 marzo 1989, n. 1306.
(60) C.M. Bianca, Dell'inadempimento, cit.; Cass., 13 dicembre 1980, n. 6430.
Sul diverso grado di diligenza esigibile dal creditore rispetto a quello richiesto al
debitore nell'esecuzione dell'obbligazione, A. Venchiarutti, Art. 1227, in
Commentario al codice civile, a cura di P. Cendon, Milano, 2009, 1187.
(61) Fra le altre, cfr. Cass., 21 agosto 2004, n. 16530 (“il dovere di correttezza
imposto al danneggiato dall'art. 1227 c.c. presuppone un'attività idonea, con
certezza, a evitare o ridurre il danno e non implica l'obbligo di iniziare un'azione
giudiziaria, non essendo il creditore tenuto ad un'attività gravosa e comportante
rischi e spese”); 29 luglio 1999, n. 8231; 21 aprile 1993, n. 4672; Cons. Stato,
Sez. V, 19 maggio 2009, n. 3066. In senso contrario, Corte App., Milano, 25
novembre 2009, in Riv. crit. dir. lav., 2009, 1039.
(62) Cfr., ad es., Corte cost., n. 308/1999, secondo la quale “l'onere di diligenza
che questa norma [l'art. 1227 c.c.] fa gravare sul creditore non si estende alla
sollecitudine nell'agire a tutela del proprio credito onde evitare maggiori danni, i
quali viceversa sono da imputare esclusivamente alla condotta del debitore,
tenuto al tempestivo adempimento della sua obbligazione”.
(63) Nella decisione della Sez. VI, n. 1983/2011 cit., il Consiglio di Stato ha
precisato che “la pretermissione, da parte del danneggiato da un atto
dell'amministrazione, della previa domanda di giustizia contro l'atto stesso non
costituisce sempre e comunque una violazione del canone di ordinaria diligenza ai
sensi dell'art. 1227, cpv., cod. civ.; infatti, una tale pretermissione può impedire,
o limitare, il sorgere del diritto al risarcimento se, in concreto, emerge che: a) la
mancata azione giudiziale è caratterizzata da colpevolezza (secondo una concreta
e ordinaria esigibilità); b) fra la pretermissione e l'insorgenza del danno sussiste
un nesso di conseguenzialità diretta, perché il secondo non si sarebbe verificato
se l'interessato avesse debitamente svolto l'azione di annullamento “. Cfr. anche
Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 21 marzo 2011, n. 759.
(64) Non a caso l'art. 124 del Codice, a differenza dell'art. 30, espressamente
richiama l'applicazione dell'art. 1227 c.c. in danno del privato che non domanda di
conseguire l'aggiudicazione o di subentrare nel contratto. L'obiettivo dell'art. 124
è, infatti, l'irrisarcibilità (ex art. 1227 c.c.) di quei danni che esclusivamente il
danneggiante poteva evitare attraverso una (diversa) scelta personale ed
infungibile.
(65) Occorre in altri termini “che il danneggiante provi la sussistenza dello
specifico dovere del danneggiato di evitare il danno [ed occorre anche la prova]
della certa o probabile utile incidenza che l'intervento avrebbe avuto nel senso di
limitare la produzione del danno”; per tutte, Cass, 2 marzo 2007, n. 4954; 27
giugno 2007, n. 14853; 16 ottobre 2007, n. 21619; 28 luglio 2004, n. 14235; 20
novembre 2001, n. 14592. In dottrina, C.M. Bianca, Dell'inadempimento, cit.,
374.
(66) La Plenaria n. 3/2011 cit. ha ritenuto che “sulla base di principi già
desumibili dal quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall'art. 30, comma
3, del codice del processo amministrativo, il Giudice amministrativo sia chiamato
a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed acquisendo anche d'ufficio gli
elementi di prova all'uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di
annullamento e dell'utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo
un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il
comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in parte il danno”. Cfr.
anche Cons. Stato, Sez. VI, n. 1983/2011 cit.
(67) Nella decisione 2 dicembre 2011, n. 636, la III Sez. del Consiglio di Stato ha
diminuito l'ammontare del risarcimento liquidato dal Tar, ritenendo che il
danneggiato “avrebbe dovuto azionare i rimedi giurisdizionali previsti
dall'ordinamento al fine di ottenere, nelle more dell'esaurimento del giudizio di
appello, l'esecuzione delle favorevoli statuizioni contenute prima nell'ordinanza
interlocutoria cautelare e poi nella sentenza del Tar (...)”. Anche quando, come
nella fattispecie, il giudice distingue tra danno-evento e danno-conseguenza, la
sua valutazione resta però concentrata sulle omissioni del danneggiato senza
approfondimento anche delle regioni dell'inerzia dell'amministrazione
danneggiante.
(68) A questo riguardo non bisogna sovrapporre la stabilità irreversibile tipica del
giudicato alla condizione di semi-stabilità tipica dell'atto amministrativo
inoppugnabile. Il punto era già stato sottolineato con grande chiarezza dalla
dottrina meno recente; cfr. M. Bracci, L'atto amministrativo inoppugnabile e i
limiti dell'esame del giudice civile, in Studi in onore di Federico Cammeo, Padova,
1933, 151 ss.
(69) Questa ellitticità della disciplina del Codice sull'azione di nullità si riscontra
anche nella mancata coordinazione tra azione di nullità ed azione risarcitoria;
nella mancata previsione della nullità dell'aggiudicazione come una delle ipotesi di
cui agli artt. 120 ss.; nella mancata previsione della dichiarazione di nullità, tra le
sentenze di merito elencate all'art. 34.
(70) Su queste tematiche, cfr. anche E. Follieri, L'azione di nullità dell'atto
amministrativo, in www.giustamm.it, 2012; A. Carbone, Dubbi e incertezze
sull'art. 31 del Codice del processo amministrativo in, Foro amm.-Tar, 2011, 1111
ss.
(71) Cfr. l'art. 114, comma 1, cod. proc. amm.
(72) M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. dir.
proc., 1963, 536 ss.
(73) Cfr. ad es. l'art. 2379-ter c.c.
(74) Sembrano plausibili, d'altra parte, le perplessità manifestate di fronte alla
previsione di un termine di decadenza per l'impugnazione di atti amministrativi la
cui nullità, ai sensi dell'art. 21-septies l. n. 241 del 1990 deriva da patologie
particolarmente gravi (segnatamente, il difetto assoluto di attribuzione); cfr. V.
Lopilato, Commento all'art. 31, in Il processo amministrativo, a cura di A.
Quaranta e V. Lopilato, cit., 321 ss.
(75) L'assoluta inefficacia ed inesecutività dell'atto nullo sono un mito fuorviante
dal quale la dottrina più attenta mette in guardia: “il vero è che tutte le pronunce
dei giudici, rese sui contratti invalidi, non possono esercitare la loro concreta
funzione di tutela che nel momento in cui vengono rese. Per il periodo anteriore,
tanto il negozio nullo come quello che si definisce annullabile produrranno tutti gli
effetti di cui sono capaci. Potranno ad es. legittimare esecuzioni spontanee o
coatte, esecuzioni che dovranno essere ex post eliminate quando il negozio verrà
dichiarato invalido”, A. diMajo, La tutela civile dei diritti, Milano, 2003, 378.
Inoltre, il fatto che la fase dell'esecuzione sia in grado di condizionare fortemente
il profilo effettuale degli atti nulli è una circostanza conosciuta e sottolineata in
modo altrettanto autorevole: “in tema di nullità ciò che è determinante è
l'esecuzione o no del contratto. Se vi è stata esecuzione non è vero che l'azione di
nullità sia imprescrittibile, giacché le azioni di ripetizione possono essere fatte
valere entro il termine decennale di prescrizione; solo se non vi è stata
esecuzione non sussiste prescrizione alcuna a far valere l'inesistenza delle
situazioni sorte dal contratto nullo”, A. ProtoPisani, Lezioni di diritto processuale
civile, Napoli, 2002, 186. Su questi aspetti della rilevanza e dell'efficacia indiretta
dell'atto amministrativo nullo, sia consentito rinviare anche a F. Luciani,
Contributo allo studio del provvedimento amministrativo nullo, Torino, 2010, 13
ss.; 137 ss.
(76) Così V. Lopilato, Commento all'art. 31, cit., 322.
(77) Sulla nullità degli atti di un concorso per professore universitario a seguito
dell'intervento del giudice penale, cfr. Tar Campania, Sez. II, 30 settembre 2005,
n. 15772.
(78) In una recente decisione il Consiglio di Stato esclude, tuttavia, che la nullità
possa essere “rilevata ex officio dalla pubblica amministrazione” posto che tale
prerogativa sarebbe demandata dal Codice del processo amministrativo “al solo
giudice” (Sez. IV, 28 ottobre 2011, n. 5799).
(79) Sul tema (e sul successivo), M. Ramajoli, Legittimazione ad agire e
rilevabilità d'ufficio della nullità, in questa Rivista, 2007, 999 ss.
(80) Cfr. il d.lgs. n. 198 del 2010, sulla c.d. class action nel settore dei servizi
pubblici.
(81) Cfr. Tar Lazio, Sez. I, 5 gennaio 2006, n. 100. In questa fattispecie, alcuni
cittadini residenti in un comune (ed utenti del servizio di igiene urbana) avevano
agito per la nullità di una delibera con cui si disponeva la privatizzazione
dell'azienda municipale, precedente titolare del servizio. Il giudice ha qualificato i
cittadini ricorrenti come portatori di “un interesse di mero fatto alla legittimità
dell'azione amministrativa” ed ha conseguentemente dichiarato il difetto di
legittimazione dei cittadini poiché “l'azione di nullità non esime l'attore dal
dimostrare il proprio concreto interesse all'agire, per cui l'azione stessa non è
proponibile in mancanza della prova, da parte dell'attore, della necessità di
ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il
conseguente danno alla propria sfera giuridica” (la citazione corrisponde alla
massima della Corte di Cassazione, 15 aprile 2002, n. 5420).
(82) Più recentemente, cfr. Cass., 28 maggio 2007, n. 12398; 28 novembre
2008, n. 28424; 26 giugno 2009, n. 15093.
(83) Per tutti Cass., 22 marzo 2005 n. 6170, in Corr. giur., 2005, 957 ss., con
nota critica di V. Mariconda; in dottrina, M. Mantovani, Le nullità ed il contratto
nullo, IV, Rimedi, Trattato del Contratto, diretto da V. Roppo, Milano, 2006, 92.
(84) Secondo Cass., 16 maggio 2006, n. 11356, in Corr. giur., 2006, 1418 ss.
con nota di C. Consolo, la circostanza che il giudicato possa estendersi anche ai
punti logici pregiudiziali (oltre che alle questioni pregiudiziali in senso tecnico, ex
art. 34 c.p.c.) “può condurre a risultati eccessivi”.
(85) Tra gli altri, cfr. R. Sacco, Trattato di diritto civile, a cura di Id., Torino,
1993, 2, 531 ss.; F. Corsini, Rilevabilità d'ufficio della nullità contrattuale,
principio della domanda e poteri del giudice, in Riv. dir. civ., 2004, 683 ss.; A.
Albanese, Violazione di norme imperative e nullità del contratto, Napoli, 2003, 36
ss.
(86) Cfr. C. Consolo, Poteri processuali e contratto invalido, in Eur. dir. priv.,
2010, 959.
(87) Cfr. l'art. 101, co. 2, c.p.c.; nonché Cass., Sez. un., n. 20935/2009. Per il
processo amministrativo, v. adesso l'art. 73, co. 3, cod. proc. amm.
(88) Non che la nullità sia in tale ipotesi irrilevante: essa può essere oggetto di
eccezioni tese al rigetto della pretesa avversaria (previo coinvolgimento
dell'attore chiamato a controdedurre): in tal caso l'attore potrà proporre, lui
stesso, una questione preliminare di nullità ex art. 34 c.p.c. e (sperare di)
ottenere una dichiarazione di nullità con efficacia esterna al processo; in caso
negativo, comunque otterrebbe il rigetto nel merito della sua domanda di
annullamento.
(89) Su questi aspetti, per tutti, C. Consolo, Poteri processuali, cit., 962 ss.
(90) Non che la rilevazione incidentale della nullità (pronunciata in primo grado)
sia inutiler data, posto che in appello, le parti potrebbero trasformarla in proprie
eccezioni difensive; tuttavia, in mancanza di appello o di riforma della sentenza
(come nel caso in esame), il giudicato si forma comunque su una statuizione di
annullamento.
(91) La decisione ha confermato la sentenza del TAR Lazio, Sez. II-ter, 20 luglio
2007, n. 7119.
(92) Non v'è dubbio che il giudicato si forma sulla dichiarata nullità della cessione
azionaria dal Comune alla società A (e da questa alla società B), se è vero che in
sede di ottemperanza il Comune ha chiesto — e ottenuto — il recupero delle
azioni, secondo la sentenza, mai uscite dal suo patrimonio; sul giudizio di
ottemperanza, cfr. TAR Lazio, Sez. II, 1 giugno 2011, n. 4982.
GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA E PLURALITÀ DELLE AZIONI (DALLA
COSTITUZIONE AL CODICE DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO) (*)
Dir. proc. amm., fasc.2, 2012, pag. 436
VINCENZO CERULLI IRELLI
Classificazioni:
GIURISDIZIONE
CIVILE
Giurisdizione
ordinaria
e
amministrativa - - in genere
Sommario: 1. La giurisdizione amministrativa nella Costituzione. — 2. Il modello
di riparto e l'ambito della giurisdizione ordinaria nelle controversie di diritto
pubblico. — 3. Su alcune problematiche della giurisdizione amministrativa a
fronte dei principi costituzionali. La giurisdizione “esclusiva”. — 4. L'azione
risarcitoria. — 5. La “specialità” del giudice e del modello organizzativo. — 6. Il
nuovo assetto della tutela giurisdizionale delle situazioni protette nei rapporti di
diritto pubblico. — 7. Giusto processo e pluralità delle azioni. — 8. Azioni intese a
rimuovere o a ottenere un atto amministrativo anche mediante condanna. — 9.
Azione intesa a rimuovere l'inerzia dell'Amministrazione (e ancora sulla c.d.
azione di adempimento). Su altre forme della tutela di condanna. — 10. Ancora
sull'azione risarcitoria. — 11. La tutela del giudice amministrativo avverso i
“comportamenti”. — 12. La tutela esecutiva. — 13. Azioni tipiche e atipiche ed
effettività della tutela.
“Il momento del “giudizio” è veramente il momento culminante dell'ordinamento,
almeno in un ordinamento di uomini uguali, il momento in cui l'ordinamento
celebra il rito della sua giuridicità” R. Orestano, Azione, voce Enc. Dir., IV, 1959
1.1. La nostra Costituzione, unica tra le principali Costituzioni europee, contiene
molteplici norme sulla giurisdizione amministrativa.
La Costituzione tedesca, all'art. 19, 4º co., stabilisce, com'è noto, il principio
generale che chiunque venga leso “nei suoi diritti dal potere pubblico” possa
“adire l'autorità giudiziaria”, senza specificare di quale autorità giurisdizionale si
tratti. E la norma aggiunge, come una sorta di clausola di chiusura, che laddove
“non vi sia una diversa competenza” (cioè la competenza di un'altra autorità
giudiziaria, come appunto quella amministrativa) “è competente l'autorità
giudiziaria ordinaria”. E al successivo art. 95 stabilisce il principio dell'unità delle
giurisdizioni.
Analogamente, la Costituzione spagnola, all'art. 106, dispone che “i tribunali
controllano il potere regolamentare e la legalità dell'azione amministrativa, come
la sottoposizione di essa ai fini che la giustificano”. Anche qui il riferimento è
generico e non specifico a un tipo di giurisdizione. E agli artt. 117 ss., stabilisce il
principio dell'unità della giurisdizione “come principio base dell'organizzazione e
del funzionamento dei tribunali”.
La Costituzione spagnola, chiaramente echeggiando quella italiana, afferma il
principio che ogni persona abbia “il diritto di ottenere protezione effettiva dei
tribunali per esercitare i suoi diritti e interessi legittimi, senza che in alcun caso
questa protezione gli possa essere rifiutata” (art. 24): principio generale sulla
tutela giurisdizionale, del tutto analogo al nostro, dove il riferimento agli interessi
legittimi, chiaramente indica la protezione anche nei confronti dell'azione
amministrativa.
La Costituzione francese tace del tutto sul punto, e non contiene neppure questi
principi generali. Per cui, il Conseil constitutionnel, nel Paese d'origine del
contenzioso amministrativo, ha dovuto espressamente affermare come rientrante
tra i « principes fondamentaux réconnus par les lois de la République » (sulla
base del Preambolo), quello secondo il quale appartiene alla giurisdizione
amministrativa « l'annullation ou la réformation des décisiones prises, dans
l'exercise des prérogatives de puissance publique, par les autorités
administratives » (Cons. const., 23 gennaio 1987, successivamente confermata) (1).
L'art. 24 della nostra Costituzione afferma il principio generale della tutela
(giurisdizionale) sia dei diritti che degli interessi legittimi (dove, per interessi
legittimi indiscutibilmente si intendono le situazioni soggettive protette nei
rapporti con le pubbliche amministrazioni). L'art. 100, 1º co., individua il
Consiglio di Stato come organo “di consulenza giuridico-amministrativa” nonché
“di tutela della giustizia nell'amministrazione” (dove per “tutela della giustizia” si
intende sia la tutela di carattere giustiziale, ad esempio quella esercitata in sede
consultiva nei ricorsi al Presidente della Repubblica, sia quella propriamente
giurisdizionale). E l'art. 117, 2º co., nel testo riformato con legge cost. n. 3/01,
comprende la “giustizia amministrativa” tra le materie di competenza legislativa
esclusiva dello Stato (l'espressione è da intendere allo stesso modo della
precedente).
L'art. 125 prevede l'istituzione presso ciascuna Regione di “organi di giustizia
amministrativa di primo grado” (gli “altri organi di giustizia amministrativa” che,
insieme al Consiglio di Stato, esercitano, secondo l'art. 103, la giurisdizione
amministrativa) (2).
L'art. 103, 1º co., l'art. 113, 1º e 2º co., e l'art. 111, ult. co., individuano l'ambito
della giurisdizione amministrativa come quella intesa alla “tutela nei confronti
della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie
indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi” (così, l'art. 103, 1º co.). Tutela
che non può essere “esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per
determinate categorie di atti” (così, l'art. 113, 2º co.). Essa, come quella che ha
ad oggetto segnatamente “gli atti della pubblica amministrazione”, è sempre
ammessa, tanto se abbia ad oggetto diritti, quanto interessi legittimi, con la
distinzione, tuttavia, che nel primo caso essa ha sede presso gli “organi di
giurisdizione ordinaria”, nel secondo caso presso gli organi di giurisdizione
“amministrativa” (così l'art. 113, 1º co.). Mentre l'art. 111, ult. co., stabilisce un
limite al controllo in Cassazione delle decisioni assunte in sede di giurisdizione
amministrativa dal Consiglio di Stato (come organo di giustizia amministrativa di
secondo grado: cfr. art. 125), come delle decisioni della Corte dei conti, nel senso
che il ricorso avverso tali decisioni è ammesso “per i soli motivi inerenti alla
giurisdizione”.
L'art. 113, ult. co., consente alla legge di determinare “quali organi di
giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e
con gli effetti stabiliti dalla legge stessa”. Non solo perciò agli organi della
giurisdizione amministrativa è riservato tale potere, secondo gli antichi principi
derivanti dalle leggi rivoluzionarie francesi e da noi ribaditi dalle due leggi
fondamentali del 20 marzo 1865, n. 2248, all. e), e del 31 marzo 1889, n. 5992.
Ma è il legislatore a stabilire a quali organi di giurisdizione esso spetta: e perciò,
in via di principio anche agli organi della giurisdizione ordinaria.
D'altra parte, l'art. 111 (modificato dalla legge cost. n. 2/99) stabilisce ai primi
due commi (di applicazione generale a tutte le giurisdizioni) i principi del giusto
processo: contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, terzietà e imparzialità
del giudice, ragionevole durata del processo (3).
1.2. Si tratta, in larga misura, di principi consolidati nel sistema positivo (a parte
la modifica dell'art. 111) quale si era formato attraverso una tormentata
evoluzione nei decenni anteriori alla Costituzione (4). Da ciò l'affermazione
corrente quanto infondata, che le norme costituzionali sulla giustizia
amministrativa, rappresentino una pedissequa recezione del sistema anteriore,
come quello nel quale le controversie con le pubbliche amministrazioni sono
affidate alla cognizione di due ordini giurisdizionali, a seconda che esse
coinvolgano questioni di diritti o di interessi legittimi, sulla base dell'assetto
normativo delineato dalle due leggi fondamentali sopra citate. Assetto
successivamente definito da una giurisprudenza della Corte di cassazione che sin
dall'inizio (a partire da Cass., Sez. un., 24 giugno 1891, n. 460, caso Laurens)
stabilì la rigidità del sistema del riparto come quello fondato sulla distinzione tra
controversie concernenti diritti e controversie concernenti interessi, le une e le
altre fornite di un sistema proprio e differenziato di tutela giurisdizionale
esercitata dall'uno o dall'altro ordine giurisdizionale (5). Tale assetto si è
successivamente modificato, com'è noto, in virtù della svolta giurisprudenziale,
iniziata a partire da decisioni degli anni '20, ma consolidatasi solo negli anni '40
(Cass., Sez. un., 4 luglio 1949, n. 1657), secondo la quale a fronte dell'esercizio
di poteri amministrativi di carattere discrezionale o comunque autoritativo, le
situazioni soggettive di diritto vengono tutelate nella forma propria degli interessi
legittimi, cioè davanti al giudice amministrativo (c.d. dottrina della
degradazione); perciò riducendo l'ambito della giurisdizione ordinaria nelle
controversie amministrative a casi marginali (6); assetto toccato nella sua
sostanza dal legislatore soltanto con la legge del 1923 (r.d. 30 dicembre 1923, n.
2840) istitutiva della giurisdizione esclusiva, di una giurisdizione cioè affidata al
giudice amministrativo in determinate materie (segnatamente: pubblico impiego)
con oggetto sia controversie concernenti diritti che interessi legittimi.
E invero, il testo costituzionale conferma la duplicità delle giurisdizioni, il criterio
di riparto fondato sulla distinzione tra situazioni soggettive, la possibilità che in
determinate materie il giudice amministrativo conosca anche delle controversie
concernenti diritti; e si spinge sino a stabilire il limite del controllo in Cassazione
delle decisioni del Consiglio di Stato ai motivi attinenti alla giurisdizione, secondo
quanto stabilito dall'antica legge del 31 marzo 1877, n. 3761.
Ma il testo costituzionale contempla principi innovativi dell'antico sistema;
segnatamente su due punti.
Anzitutto, in quello che possiamo denominare il principio della pienezza della
tutela giurisdizionale nei confronti delle pubbliche amministrazioni, principio che
emerge dall'art. 24, laddove la tutela giurisdizionale degli interessi legittimi è
equiparata a quella dei diritti, come tutela piena, capace di utilizzare tutti gli
strumenti previsti dall'ordinamento; e nell'art. 113, 2º co., laddove si stabilisce
che questa tutela non possa essere esclusa a fronte di determinati atti o limitata a
particolari mezzi di impugnazione, secondo quanto, viceversa, veniva praticato
nell'anteriore legislazione.
A fronte dell'esercizio del potere pubblico, tutte le situazioni protette
(rappresentate dal dittico “diritti e interessi legittimi” dell'art. 24), a prescindere
dalla loro intima natura, sono allo stesso modo tutelate. Principio questo, dal
quale derivano importanti conseguenze anche sul piano sostanziale, oltre che in
ordine alla tutela giurisdizionale; verso un ordinamento nel quale l'esercizio del
potere pubblico avviene nell'ambito di rapporti giuridici nei quali i soggetti si
scontrano in posizione sostanzialmente paritaria, essendo ciascuno (pubblico o
privato) portatore di situazioni protette, in differente modo, dalla legge, e
operanti nello spazio a ciascuno riservato dalla legge (7).
Il secondo punto di innovazione è dato dall'affermazione del principio di cui all'art.
113, ult. co., che il legislatore possa determinare quali organi di giurisdizione
abbiano il potere di annullare gli atti della pubblica amministrazione, superando in
ciò l'antico divieto di cui all'art. 4 della legge del 1865.
1.3. Su questi principi, nell'ambito dell'Assemblea Costituente si era sviluppato
un ampio dibattito; le cui soluzioni, alle quali alla fine si pervenne, non erano
affatto “scontate”, anzi in alcuni aspetti fortemente contestate e frutto perciò di
un confronto dialettico assai vivace (8). Punto centrale, fu quello dell'unità o
pluralità delle giurisdizioni: se sopprimere le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di
Stato e affidare perciò la cognizione delle controversie con le pubbliche
amministrazioni senz'altro alla giurisdizione ordinaria (semmai prevedendo
Sezioni specializzate nell'ambito di essa), secondo la nota proposta dell'on.
Calamandrei.
Egli riteneva che le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato “avessero esaurito
storicamente il loro compito”. Le ragioni che avevano portato nel 1889
all'istituzione della IV Sezione per colmare il buco di tutela apertosi
nell'ordinamento dopo la legge del 1865 potevano considerarsi esaurite al
momento in cui le controversie con le pubbliche amministrazioni, di ogni tipo,
avevano acquistato un carattere prettamente giuridico e gli organi chiamati a
conoscerle, un carattere prettamente giurisdizionale.
Il testo che Calamandrei propose, avrebbe conferito all'autorità giudiziaria una
tutela veramente piena nell'ambito di ogni controversia con le pubbliche
amministrazioni: il cittadino avrebbe potuto “ricorrere alla autorità giudiziaria
ordinaria non soltanto per chiedere la reintegrazione del proprio diritto soggettivo
violato da un atto della pubblica amministrazione, ma anche per chiedere
l'annullamento o la modificazione per i motivi di legittimità o di merito stabiliti
dalla legge, dell'atto amministrativo lesivo del suo interesse”.
A questa posizione si opposero gran parte dei membri della Commissione e
successivamente essa fu rigettata dall'Assemblea. Ma il principio della pienezza
della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, in essa
così fortemente echeggiato, resta acquisito nel testo costituzionale.
La maggior parte dei Costituenti ribadirono con forza le ragioni per la permanenza
della duplicità delle giurisdizioni; del Consiglio di Stato e della sua giurisdizione,
chiamata a “valutare la discrezionalità della pubblica amministrazione che nello
svolgimento della sua attività libera, ma tuttavia discrezionale (libertà, cioè, e non
arbitrio), può ledere l'intereresse di un cittadino”; come quella costituita “a difesa
dello Stato e dei cittadini anche contro lo Stato”, per cui mezzo “il cittadino
diventa uno strumento di quella che con frase felicissima è stata detta la giustizia
dell'amministrazione” (on. Bozzi).
E la stessa commistione nel Consiglio di Stato di funzioni consultive e di funzioni
giurisdizionali fu considerata positivamente rappresentando queste due funzioni
“due manifestazioni di un'unica funzione, che non è suscettibile di divisione”,
come quella intesa al controllo complessivo della pubblica amministrazione.
Il principio della pienezza della tutela emerge fortemente nelle discussioni che
portarono alla formulazione dell'art. 113, 2º co., nel testo attuale (nel progetto,
commassato nell'art. 103, 1º co.): il principio cioè del divieto della limitazione
della tutela verso gli atti della pubblica amministrazione a particolari categorie di
atti (qui si fermava il testo del progetto) o a particolari mezzi di impugnazione
(aggiunta questa in Aula in esito ad un emendamento dell'on. Mortati). Sul punto
l'on. Ruini ricordava “l'abitudine di privare del ricorso giurisdizionale molte
categorie di atti dell'autorità amministrativa lesive di interessi e di diritti dei
privati”, durante il Fascismo. Da qui l'esigenza di non “togliere ai cittadini per
segmenti di materie e di atti la garanzia del ricorso giurisdizionale”.
Il progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione conteneva norme in parte
diverse da quelle tradotte nel testo. E così, l'art. 95, 2º co., del progetto
(corrispondente, in parte, all'art. 103, 1º co.), prevedeva che al Consiglio di Stato
spettasse “la giurisdizione nelle materie e nei limiti stabiliti dalla legge”. E l'art.
103 del progetto (corrispondente, in parte, all'art. 113, 1º e 2º co.) prevedeva:
“La tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi verso gli atti della pubblica
amministrazione è disposta in via generale dalla legge e non può essere
soppressa o limitata per determinate categorie di atti”. E l'art. 102 del progetto
(corrispondente, in parte, all'art. 111, ult. co.) prevedeva “il ricorso per
Cassazione secondo le norme di legge” contro ogni sentenza o decisione
pronunciata dagli organi giurisdizionali sia ordinari che speciali.
Queste norme del progetto recepivano perciò l'orientamento, maggioritario in
Commissione, di mantenere la duplicità delle giurisdizioni e di conservare in capo
al Consiglio di Stato sia le funzioni giurisdizionali che quelle consultive. Ma in esse
non compariva il criterio di riparto fondato sulla distinzione tra diritti e interessi
legittimi; e, innovando rispetto al sistema tradizionale, si rinviava alla legge per la
definizione dell'ambito e dei contenuti della giurisdizione amministrativa, e in
conseguenza per la definizione del criterio di riparto.
La distinzione tra diritti e interessi legittimi come criterio di riparto delle
giurisdizioni, compare nel testo finale approvato dall'Aula negli artt. 103, 1º co. e
113, 1º co., come anche la menzione delle “particolari materie” nelle quali il
giudice amministrativo possa conoscere anche di diritti soggettivi.
L'art. 103, 1º co., deriva da un emendamento (all'art. 95 del progetto) presentato
in Assemblea dagli on.li Conti ed altri: “Il Consiglio di Stato e gli organi di
giustizia amministrativa, hanno giurisdizione per la tutela, nei confronti della
pubblica amministrazione, degli interessi legittimi, ed anche per la tutela di diritti
soggettivi, nelle particolari materie determinate dalla legge”.
Mentre il testo finale dell'art. 113, 1º co., viene formulato dal Comitato di
redazione cui era stato affidato il compito della revisione e del coordinamento di
una serie di norme via via approvate dall'Assemblea.
Proprio la nuova dizione della norma, formulata dal Comitato, è quella che
stabilisce in maniera vincolante il criterio di riparto come quello fondato sulla
distinzione tra controversie concernenti diritti e controversie concernenti interessi
legittimi, che non compariva né nel testo approvato dalla Commissione né in
quello approvato dall'Assemblea (incredibile ma è così!). E nessuna spiegazione,
su questo punto, fu fornita all'Assemblea né richiesta (!).
La questione del potere di annullamento degli atti amministrativi, poi tradotta
nell'art. 103, ult. co., viene anch'essa affrontata nella parte finale dei lavori
dell'Aula; anche come frutto di una mediazione intesa ad accogliere almeno in
parte la posizione dell'on. Calamandrei. Secondo l'on. Ruini questa posizione era
da respingere: l'on. Calamandrei “vorrebbe che, quando un giudice ritiene che un
atto amministrativo violi un diritto privato, può annullare e anche modificare l'atto
amministrativo” (“un semplice pretore potrebbe nonché annullare, rifare esso,
decreti e provvedimenti di governo di estrema importanza. Non è troppo?”). Ma il
Comitato, spiegava ancora Ruini, ha cercato di trovare la soluzione del problema
prospettato da Calamandrei, “dando modo di giungere, anche in tema di
violazione di diritti, a quell'annullamento di atti amministrativi, che è consentito,
con determinate cautele, per violazione di interessi legittimi”. E così nella
riformulazione del testo dell'art. 113, viene aggiunta la dizione, con riferimento
agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa, che essi “possono annullare
gli atti dell'amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge”.
Quanto al ricorso in Cassazione, la limitazione ai “soli motivi inerenti alla
giurisdizione” fu introdotta in Aula in base alla considerazione, illustrata dall'on.
Leone, che fosse necessario, una volta mantenute le giurisdizioni speciali
deputate al controllo della pubblica amministrazione (che “incidono con la loro
attività nell'atto amministrativo”), escludere il motivo di violazione di legge “che si
radica sull'essenza, sulle finalità ... che ispirano l'atto amministrativo”. Una sorta
di riserva di giurisdizione (peraltro con qualche contraddizione rispetto all'art.
113, ult. co., introdotto contestualmente).
1.4. Questo è il quadro estremamente sintetico dei lavori dell'Assemblea
Costituente sulle norme in materia di giustizia amministrativa.
Da essi emerge una forte consapevolezza circa le scelte di politica costituzionale
sottese ad alcune di queste norme (e segnatamente, sul principio della pienezza
della tutela giurisdizionale tanto dei diritti quanto degli interessi legittimi,
entrambe situazioni giuridicamente protette nei confronti della pubblica
amministrazione: art. 24, art. 113, 2º co.; sulla permanenza in vita della Sezioni
giurisdizionali del Consiglio di Stato, e della giurisdizione amministrativa in
genere, come eccezione nell'ambito di un sistema improntato al principio
dell'unità della giurisdizione, in considerazione della specificità delle controversie
con le pubbliche amministrazioni che giustifica la specialità del giudice: art. 100,
1º co., art. 102, 1º co., art. 103, 1º co.; sulla necessità di spezzare l'antico
divieto di annullamento degli atti amministrativi da parte dei giudici ordinari,
lasciando al legislatore la scelta circa il giudice cui conferire detto potere: art.
113, ult. co.; sulla limitazione ai motivi inerenti alla giurisdizione della ricorribilità
in Cassazione delle decisioni del Consiglio di Stato, oltre che di quelle della Corte
dei Conti: art. 111, ult. co.). Ma appare una certa trascuratezza circa l'impatto
che altre norme avrebbero avuto sul sistema positivo e segnatamente, circa
quelle di cui all'art. 103, 1º co., e all'art. 113, 1º co., laddove cristallizzano
l'antico sistema di riparto fondato sulla distinzione tra diritti e interessi legittimi,
anziché rinviare alla legge, come proposto dalla Commissione, l'individuazione
delle controversie da sottoporre all'una o all'altra giurisdizione; e la stessa
previsione inserita all'ultimo momento, circa le “particolari materie” di
giurisdizione esclusiva.
Nel testo costituzionale perciò c'è molto, e anche di innovativo nella nostra
materia. E in esso scompaiono alcuni vecchi idola residuati dalla esperienza
precedente (alcuni tuttavia hanno continuato a vivere nella esperienza
applicativa, sino ad oggi). Non c'è, lo si è appena visto, il divieto per il giudice
ordinario di annullare atti amministrativi, legato alla antica idea della divisione dei
poteri (come se l'amministrazione come azione concreta di governo non fosse in
toto soggetta alla giurisdizione!). E non si rinviene in Costituzione alcun
riferimento al curioso principio consolidatosi in giurisprudenza della c.d.
degradazione dei diritti soggettivi a fronte del potere amministrativo.
Questa dottrina, infondata sul piano teorico (ché come ci insegnano i civilisti, la
vicenda, ad esempio, del diritto di proprietà di fronte al potere espropriativo è del
tutto ragguagliata alla vicenda dello stesso diritto di proprietà di fronte alla azione
esecutiva del creditore, cedevole in entrambi i casi) (9), trova una smentita
nell'affermazione ripetuta dal testo costituzionale, che il diritto soggettivo è
tutelato davanti al giudice ordinario a fronte del potere amministrativo, salvi i casi
eccezionali in cui i diritti soggettivi sono tutelati davanti al giudice amministrativo,
nelle materie di giurisdizione esclusiva previste dalla legge. Quest'ultima
prescrizione invero non avrebbe senso, lo stabilire cioè che il giudice
amministrativo tuteli in questi casi oltre che interessi legittimi anche diritti
soggettivi, laddove la Costituzione avesse voluto affermare che i diritti soggettivi
di fronte all'esercizio del potere amministrativo si configurano sempre come
interessi legittimi.
Tuttavia, questa dottrina, nata per ragioni eminentemente pratiche, ha continuato
a vivere nella prassi giurisprudenziale, com'è noto, e anzi si è sviluppata e
consolidata nell'applicazione, sino a divenire, come si mostra subito appresso, la
matrice stessa della nozione di controversie di diritto pubblico, oggi dominante.
2.1. Il modello di giustizia amministrativa fissato dalla Costituzione si è venuto
consolidando, nei decenni successivi, senza rilevanti scosse, fino alla svolta degli
ultimi anni '90. Ovviamente si fa riferimento all'assetto del sistema quale
delineato dalle norme costituzionali, e non anche alla disciplina processuale e
all'organizzazione del settore, che, soprattutto a seguito dell'entrata in vigore
della l. n. 1034 del 1971 istitutiva dei TAR, ha avuto una evoluzione
importantissima. Talché le dimensioni della giustizia amministrativa ed il suo
impatto nella vita di relazione dei cittadini italiani nei confronti dello Stato, dopo
cinquant'anni di esperienza costituzionale non è in alcun modo confrontabile con
quella di allora (10).
Il sistema di riparto tra le due giurisdizioni, dopo l'entrata in vigore della
Costituzione, si è consolidato secondo gli orientamenti precedentemente emersi.
Grosso modo, possiamo affermare che il contenzioso con le pubbliche
amministrazioni relativo a controversie aventi ad oggetto episodi di esercizio del
potere amministrativo (controversie di diritto pubblico) è stato attratto
nell'ambito della giurisdizione amministrativa attraverso il consolidarsi della
dottrina della degradazione pur estranea, in quanto tale, appunto, ai principi
costituzionali. E immediatamente dopo l'entrata in vigore della Costituzione, si
consolida definitivamente, con la citata sentenza n. 1657 del 1949 delle Sezioni
unite, la dottrina della carenza di potere (come vizio che produce la nullità dei
relativi atti) che viene a stabilire l'effettivo criterio di riparto. Laddove si litiga
circa le modalità di esercizio del potere, anche se lesivo di diritti soggettivi, è
competente il giudice amministrativo. Laddove si litiga circa l'esistenza del potere
la tutela dei diritti soggettivi resta affidata al giudice ordinario (11).
L'applicazione di questo criterio, riduce l'ambito di cognizione delle controversie
con le pubbliche amministrazioni da parte del giudice ordinario.
Restano invero affidate a questa giurisdizione alcune categorie di controversie che
possono essere ricondotte grosso modo a quattro gruppi, nell'ambito dei quali
tuttavia la giurisprudenza resta oscillante: laddove si tratta di atti lesivi di diritti
soggettivi, di cui si predica la nullità (art. 21-septies l. n. 241/90) e segnatamente
di atti emanati in carenza di potere (o difetto assoluto di attribuzione, secondo la
norma ult. cit.); laddove si tratta di atti emanati nell'esercizio di poteri
amministrativi del tutto vincolati, a fronte dei quali resta ferma la tutela del diritto
soggettivo; di controversie circa l'attività materiale di pubbliche amministrazioni e
soggetti equiparati, che si manifesta nell'abusivo spossessamento (o occupazione)
di beni privati, nei casi in cui il fatto non trova il suo presupposto di legittimazione
in un potere in concreto attivabile; di controversie circa la lesione di diritti ritenuti
fondamentali e perciò non disponibili (“degradabili”) nell'esercizio di poteri
amministrativi (12).
Restano ovviamente affidate alla giurisdizione ordinaria le controversie con le
pubbliche amministrazioni a carattere privatistico; circa le quali, invero, almeno in
principio, un problema di riparto della giurisdizione non si è mai posto.
Nell'esperienza più recente, la giurisdizione ordinaria nelle controversie con le
pubbliche amministrazioni si è tuttavia rafforzata attraverso l'attribuzione per via
legislativa a questa giurisdizione di importanti categorie di controversie nelle quali
essa si esercita come giurisdizione “piena”, cioè senza i limiti di cognizione e di
decisione posti dalla legge del 1865, segnatamente in ciò che riguarda il potere di
annullamento degli atti amministrativi (in attuazione del principio di cui all'art.
113, ult. co., Cost.). Invero, il criterio di riparto tra le giurisdizioni è ormai
ampiamente segnato da specifici interventi legislativi che hanno riservato alla
giurisdizione ordinaria controversie che per loro natura rientrerebbero almeno in
parte nell'ambito della giurisdizione amministrativa (13).
2.2. Sul criterio di riparto, una svolta decisiva, che consolida e chiarisce
l'orientamento via via delineatosi in giurisprudenza, è venuta dalla Corte
costituzionale, che con alcune sentenze a partire dalla ben nota n. 204/04, ha
individuato le controversie riservate alla competenza del giudice amministrativo
come quelle che, a tutela di situazioni protette, hanno ad oggetto l'esercizio del
potere amministrativo. In questa sentenza, a proposito dei limiti della
giurisdizione amministrativa esclusiva, di cui subito appresso, la Corte ha
individuato il carattere essenziale di tali controversie, come quelle che possono
essere affidate alla cognizione del giudice amministrativo, in ciò, che “la pubblica
amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo, ovvero, attesa la
facoltà, riconosciutale dalla legge di adottare strumenti negoziali in sostituzione
del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà, la quale, tuttavia presuppone
l'esistenza del potere autoritativo”; e nella seguente sentenza n. 191/06, la Corte
ha riconosciuto, riecheggiando direi l'impostazione del sistema francese, il giudice
amministrativo come “giudice naturale della legittimità dell'esercizio della
funzione pubblica”, al quale il legislatore conferisce “poteri idonei ad assicurare
piena tutela” delle situazioni protette (con specifico riferimento all'azione
risarcitoria di cui subito appresso).
E ancora più di recente, la Corte ha riconosciuto, come si è accennato, la
legittimità di disposizioni legislative intese a concentrare davanti al giudice
amministrativo “l'intera protezione del cittadino avverso le modalità di esercizio
della funzione pubblica”, come giudice pienamente “idoneo ad offrire piena tutela
ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell'esercizio
della funzione amministrativa” (Corte cost. n. 140/07).
Il ricorso alla vieta formula della “degradazione” viene abbandonato per il più
corretto concetto del potere amministrativo come quello che caratterizza le
controversie di diritto pubblico (allineando il sistema italiano ai modelli europei).
Ma quella formula, come s'è accennato, resta necessaria al fine di superare,
interpretandola, la distinzione tra diritti e interessi legittimi come criterio di
riparto (distinzione che viceversa non è conosciuta negli altri sistemi europei).
Sulla base di questa giurisprudenza, la cui impostazione di fondo appare ormai
consolidata, si può affermare come conforme a Costituzione, il sistema di riparto
tra le due giurisdizioni, nelle controversie con le pubbliche amministrazioni,
fondato sul discrimine dato dall'oggetto della controversia come quello
concernente l'esercizio del potere amministrativo; salvi i residui spazi alla
giurisdizione ordinaria per tali tipi di controversie limitatamente ai casi che si sono
indicati.
La dizione del testo costituzionale derivante dalla tradizione, laddove fa
riferimento alla “tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi
legittimi”, come quella che caratterizza la giurisdizione amministrativa, va intesa
come tutela nei confronti della pubblica amministrazione (da intendere: le
pubbliche amministrazioni e i soggetti equiparati) delle situazioni giuridicamente
protette che siano state lese dall'esercizio del potere amministrativo; salvi sempre
i casi nei quali permane la giurisdizione ordinaria.
3. La giurisdizione amministrativa non solo si consolida come giurisdizione
generale sulle controversie concernenti l'esercizio del potere amministrativo
(controversie di diritto pubblico); giurisdizione dotata di tutti i caratteri, anche
organizzativi, resi necessari dall'esercizio della funzione, secondo i principi
costituzionali (14). Ma si consolida anche mediante il rafforzamento delle sue
attribuzioni in sede esclusiva, come giudice anche di diritti soggettivi secondo
l'art. 103 Cost. Le materie di giurisdizione esclusiva vengono estese con sempre
maggiore ampiezza dalle leggi; mentre il giudice amministrativo in sede di
giurisdizione esclusiva acquista poteri cognitori e decisori propri del giudizio
ordinario, in virtù della giurisprudenza della Corte Costituzionale (15).
Questo sviluppo della giurisdizione esclusiva rivela una tendenza del legislatore,
che poi si consolida negli ultimi sviluppi, a superare il criterio di riparto tra le due
giurisdizioni fondato sulla distinzione tra diritti e interessi legittimi, affidando al
giudice amministrativo, al di là della formula usata, la giurisdizione su interi
blocchi di materie (con i limiti costituzionali fissati dalla Corte). L'orientamento del
legislatore a favore della giurisdizione esclusiva ebbe una svolta decisiva alla fine
degli anni '90 con l'adozione degli artt. 33 ss. del d.lgs. 80/98 attuativo della
delega di cui all'art. 11, 4º co., lett. g), della l. n. 59/97; articoli poi novellati
mediante l'inserimento nell'art. 7 della l. n. 205/00. In queste norme
effettivamente la giurisdizione esclusiva aveva acquistato un'estensione
precedentemente inusitata sia mediante la previsione tra le materie che ne sono
oggetto, dei “servizi pubblici” (art. 33), sia attraverso l'estensione della
giurisdizione esclusiva in materia di urbanistica ed edilizia, anche alle controversie
concernenti “comportamenti” delle pubbliche amministrazioni e dei soggetti alle
stesse equiparati (art. 34).
Queste norme alle quali non ha fatto seguito una modifica costituzionale che forse
sarebbe stata necessaria (16), sottoposte allo scrutinio di costituzionalità (Corte
cost., n. 204/04) sono state ridimensionate nella loro portata innovativa. Allo
stesso tempo, l'ambito della giurisdizione esclusiva è stato ridefinito, nella sua
compatibilità con i principi costituzionali.
Le materie di giurisdizione esclusiva possono essere soltanto, secondo la Corte,
materie nell'ambito delle quali le controversie sarebbero in ogni caso attribuite
alla competenza del giudice amministrativo, come giudice generale della
legittimità dell'azione amministrativa. L'ascrizione di queste materie alla
giurisdizione esclusiva consente di portare davanti al giudice amministrativo
anche controversie che coinvolgono questioni di diritto soggettivo in quanto dai
provvedimenti impugnati davanti al giudice amministrativo, anche diritti
soggettivi siano lesi. Ma resta fermo, secondo la Corte, che deve comunque
trattarsi di controversie concernenti l'esercizio del potere, e, appunto per ciò,
coinvolgenti anzitutto interessi legittimi.
Non può invece aprirsi l'ambito della giurisdizione esclusiva a tipi di controversie
che, applicando i generali principi, spetterebbero comunque alla giurisdizione
ordinaria perché coinvolgenti esclusivamente diritti soggettivi. L'art. 103 Cost.
conferisce al legislatore, secondo la Corte, soltanto il potere “di indicare
particolari materie nelle quali la tutela nei confronti della pubblica
amministrazione investe anche diritti soggettivi” (e la sottolineatura della Corte
cade sull'‘anche'); materie “particolari rispetto a quelle devolute alla giurisdizione
generale di legittimità”, ma tali da “partecipare della loro medesima natura...
contrassegnata dalla circostanza che la pubblica amministrazione agisce come
autorità, nei confronti della quale è accordata tutela al cittadino davanti al giudice
amministrativo”.
Questa argomentazione della Corte, se presa alla lettera, riporterebbe la
giurisdizione esclusiva a quella tradizionalmente configurata (pur tra contrasti)
anteriormente alla svolta giurisprudenziale del 1939 (Cons. Stato, Sez. V, 1
dicembre 1939; Cons Stato, Ad. plen., 18 dicembre 1940): configurazione che
aveva trovato una limpida sistemazione nell'opera di Ranelletti (17), poi
superata. Secondo questa impostazione, pur nell'ambito delle materie di
giurisdizione esclusiva, e segnatamente nel pubblico impiego, la giurisdizione
ordinaria restava ferma laddove si fosse trattato non dell'impugnativa di atti
amministrativi (provvedimenti lesivi di situazioni soggettive di terzi) ma della
cognizione di rapporti a carattere obbligatorio.
Nella gran parte dei casi, le controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, riguardano episodi di esercizio di poteri amministrativi,
provvedimenti o accordi, i quali producono effetti su situazioni soggettive di terzi,
ascrivibili alle categorie dei diritti ovvero degli interessi legittimi, ciò che diventa
appunto irrilevante ai fini della giurisdizione. E così, ad esempio, per citare casi
della legislazione più recente, vengono attribuiti alla giurisdizione esclusiva i
ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi adottati dalla Autorità garante della
concorrenza e del mercato in materia di tutela della concorrenza (art. 33 l.
287/90), nonché in materia di pubblicità ingannevole (d.lgs. 74/92); i ricorsi
avverso i provvedimenti dell'Autorità per la vigilanza dei lavori pubblici che
comminano sanzioni amministrative nelle materie di propria competenza (art. 4 l.
n. 109/94); i ricorsi avverso i provvedimenti dell'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni nelle materie di propria competenza (art. 1 l. n. 249/97); oltre a
quelli sopra citati.
E in materia di accordi, che costituiscono, come noto, a seguito della legge n.
241/90 una delle modalità di chiusura del procedimento amministrativo, vengono
attribuite al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione esclusiva, le
controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi
stessi (art. 11 l. cit.). E gli accordi conclusi tra Amministrazioni pubbliche “per
disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune” (art.
15 l. cit.) sono a loro volta attratti nell'ambito cognitivo della giurisdizione
amministrativa esclusiva.
Ma le controversie attribuite alla giurisdizione esclusiva non sono solo di questo
tipo, come è ben noto. Alcune delle “materie indicate dalla legge” (art. 103
Cost.), e soprattutto dalla legge originaria del 1923, che a sua volta aveva
recepito legislazioni più antiche, nascondono controversie che non hanno queste
caratteristiche; ché in esse non si controverte affatto circa l'esercizio di poteri
amministrativi lesivi di diritti o di interessi legittimi, ma di rapporti a carattere
obbligatorio intercorrenti tra l'Amministrazione ed un terzo ovvero tra pubbliche
Amministrazioni. Si tratta delle azioni di accertamento (18) circa l'adozione o il
contenuto di atti c.d. paritetici o più esattamente di atti di adempimento, secondo
la sistemazione di Giannini, che l'Amministrazione è tenuta ad adottare in esito a
suoi obblighi o a vere e proprie obbligazioni (19). Controversie queste, che
sarebbero pacificamente, di competenza della giurisdizione ordinaria se non vi
fosse l'espressa attribuzione legislativa delle “relative “materie” alla competenza
del giudice amministrativo.
Invero, appare equivoco ritenere, come sembra ritenere la Corte, che per effetto
della legislazione del 1998/2000, si sarebbe verificata l'estensione della
giurisdizione esclusiva a controversie di puro diritto soggettivo (diciamo così); ché
viceversa, da tempo remoto, e dal 1939 con piena consapevolezza della
giurisprudenza, è ben noto che la giurisdizione esclusiva si estende a controversie
a carattere puramente obbligatorio, in ordine alle quali le regole della
giurisdizione amministrativa subiscono una modificazione in senso civilistico (20).
Invero, la giurisdizione esclusiva non può senz'altro coincidere, come viceversa
sembra ritenere la Corte, con la giurisdizione generale di legittimità, in quanto
alle materie che rispettivamente ne sono oggetto. Occorre affacciare una
configurazione delle “particolari materie” di cui all'art. 103 Cost., che pur non così
estesa come voleva il legislatore della riforma del 1998, consenta tuttavia di
salvare l'ambito delle precedenti attribuzioni e l'impostazione della nostra
tradizionale giurisprudenza.
Si potrebbero fare salvi, anzitutto, i rapporti (e le convenzioni) tra pubbliche
Amministrazioni ed enti pubblici, peraltro espressamente previsti dall'art. 15 della
l. 241/90 (che espressamente richiama l'art. 11, dalla Corte riconosciuto
conforme a Costituzione) dove il carattere particolare della materia controversa è
evidente: mediante codesti rapporti si amministrano interessi pubblici di
pertinenza rispettiva delle Amministrazioni e degli enti. Ciò consentirebbe di
mantenere in vita le antiche previsioni di cui all'art. 29 T.U. di cui si è detto.
Mentre nei rapporti tra l'Amministrazione e i cittadini (i terzi) potrebbero essere
fatti salvi, data anche la loro evidente “particolarità” quelli nascenti da
provvedimento amministrativo, ciò che in qualche modo conferisce alla pubblica
amministrazione una posizione di supremazia nell'ambito del rapporto; e così, ad
esempio, i rapporti di pubblico impiego delle categorie che hanno conservato la
disciplina pubblicistica (art. 3 d.l.vo 165/01). Mentre l'esclusione dall'ambito della
giurisdizione amministrativa delle controversie “concernenti indennità, canoni o
altri corrispettivi” resterebbe limitata (non si comprende invero perché) ai
rapporti concessori con oggetto pubblici servizi, secondo il testo “riscritto” dell'art.
33, e con oggetto beni pubblici secondo l'art. 5 della l. n. 1034/71.
4. La scelta legislativa circa l'attribuzione della controversia risarcitoria al giudice
amministrativo in ogni materia di sua giurisdizione si poneva in contrasto con
l'orientamento emerso in Cassazione con la sentenza n. 500/99, che aveva
riconosciuto in via di principio la risarcibilità degli interessi legittimi da esercitare
tuttavia mediante azione ordinaria, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ. (in base alla
considerazione che il danno prodotto injure in capo ad un soggetto portatore di
una situazione giuridicamente protetta desse luogo comunque a lesione di diritto
soggettivo, il diritto al risarcimento del danno, appunto).
Sul punto, si deve ricordare che una volta acquisita da parte del legislatore
(anche sulla base della sentenza della Cassazione n. 500/99) l'esigenza di dare
pienezza alla tutela dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione,
attribuendo loro anche la disponibilità dell'azione risarcitoria, si ponevano tre
possibili soluzioni legislative.
La prima soluzione era quella prospettata dalla Cassazione nella citata sentenza.
E cioè che l'azione risarcitoria (nei confronti della pubblica amministrazione, come
di ogni altro soggetto dell'ordinamento) si configuri come azione a tutela di diritti
(il diritto al risarcimento del danno derivante da una azione od una omissione
compiuta injure da un soggetto terzo). E perciò sia che la situazione soggettiva
del danneggiato fosse configurabile come un diritto soggettivo, o come un
interesse legittimo o come una aspettativa o quant'altro, in ogni caso, la
competenza a conoscere della relativa azione risarcitoria spetterebbe al giudice
ordinario come giudice dei diritti soggettivi. Salve ovviamente le materie di
giurisdizione esclusiva, una volta caduta la riserva del vecchio art. 30.
La seconda soluzione, che poi è stata quella adottata dal legislatore, era nel senso
di ritenere che l'azione risarcitoria non fosse altro che una delle modalità della
tutela giurisdizionale sia dei diritti che degli interessi legittimi. E visto che l'art. 24
Cost. stabilisce il principio della pienezza della tutela delle une e delle altre
situazioni soggettive, diveniva naturale attribuire alla cognizione del giudice
amministrativo le azioni risarcitorie a tutela degli interessi legittimi (mentre al
giudice ordinario quelle a tutela di diritti soggettivi, salve appunto le materie di
giurisdizione esclusiva).
Ma questa seconda soluzione presenta una variante, dalla quale appunto emerge
la terza soluzione. Infatti, una volta stabilito che il giudice amministrativo sia
competente a conoscere delle azioni risarcitorie a tutela di interessi legittimi
(nonché di quelle a tutela di diritti nelle materie di giurisdizione esclusiva), si
pone il problema di stabilire a quale giudice spetti la competenza a conoscere
delle azioni risarcitorie a tutela di diritti soggettivi già lesi (o “degradati”) per
effetto di atti ablativi, una volta ottenuto l'annullamento da parte del giudice
amministrativo di questi atti. Si tratta, come è noto, dei casi nei quali l'azione
risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione è stata sempre ritenuta
sussistente e attribuita, sulla base della legge del 1865, alla competenza del
giudice ordinario (in seconda “battuta”, dopo aver ottenuto l'annullamento
dell'atto lesivo).
La cognizione di queste azioni poteva essere lasciata alla competenza del giudice
ordinario, con la conseguenza, sicuramente non positiva in termini di effettività e
di concentrazione della tutela, di costringere il soggetto agente a promuovere due
processi, il primo davanti al giudice amministrativo mediante l'esercizio di azione
di annullamento, il secondo davanti al giudice ordinario, mediante azione
risarcitoria, una volta ottenuto l'esito favorevole del primo processo. Ma la
soluzione che il legislatore ha ritenuto preferibile è stata quella viceversa di
affidare al giudice amministrativo la cognizione “di tutte le questioni relative
all'eventuale risarcimento del danno anche attraverso la reintegrazione in forma
specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”, con riferimento a tutto
“l'ambito della sua giurisdizione” (art. 35, comma 4). Perciò laddove il giudice
amministrativo è competente in ordine a un certo tipo di controversie, anche
concernenti provvedimenti ablatori incidenti su diritti soggettivi (espropriazioni,
requisizioni, provvedimenti di espulsione), in virtù della nota giurisprudenza sulla
“degradazione”, allo stesso giudice è conferita, altresì, la competenza a conoscere
delle relative azioni risarcitorie; restando irrilevante, ai fini del riparto di
giurisdizioni, “la circostanza che la pretesa risarcitoria abbia, o non abbia,
intrinseca natura di diritto soggettivo” (Corte cost., n. 191/06).
Questo modello, confermato e perfezionato dalla Corte costituzionale, si è
successivamente consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione (21).
L'idea, pure emersa in dottrina e in qualche decisione giurisprudenziale, che
l'azione risarcitoria possa considerarsi in quanto tale, una materia attribuita alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, è stata rigettata: il potere
riconosciuto al giudice amministrativo di disporre, “anche attraverso la
reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto” non
costituisce sotto alcun profilo una nuova “materia” attribuita alla sua
giurisdizione, bensì uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello classico
demolitorio (e/o conformativo), da utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei
confronti della pubblica amministrazione. Dall'altra parte, viene confermata la
legittimità dell'attribuzione di questa competenza al giudice amministrativo
(“conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio
di Stato”), che “affonda le sue radici nella previsione dell'art. 24 Cost. il quale,
garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa
piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri”;
nonché la legittimità della scelta del legislatore di concentrare in unico giudice la
cognizione dell'azione di annullamento e di quella risarcitoria, superando la
precedente regola “che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice
amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per
vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento
del danno”. Ciò, secondo la Corte, “costituisce null'altro che attuazione del
precetto di cui all'art. 24 Cost.”.
5. Si è ricordato all'inizio come l'Assemblea Costituente fosse stata ferma e
decisa nel ribadire la presenza nell'ordinamento italiano della giurisdizione
amministrativa come separata da quella ordinaria, sia sul piano soggettivo, cioè
come giurisdizione attribuita ad un corpo di magistrati separato e distinto rispetto
alla magistratura ordinaria, sia sul piano funzionale come giurisdizione cui sono
riservate controversie di un certo tipo (cioè quelle che nella dizione del testo
costituzionale vengono menzionate con riferimento al tipo di situazione soggettiva
protetta) nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
E ancora, si è visto come l'Assemblea Costituente intese ribadire la particolarità
organizzativa di questa giurisdizione facente capo al Consiglio di Stato come
organo allo stesso tempo deputato alla consulenza giuridico-amministrativa del
Governo e alla tutela della giustizia nell'amministrazione (art. 100): espressione
quest'ultima da intendere (anche) come giurisdizione amministrativa.
Sul punto, si deve ricordare che nel contesto dei grandi Paesi europei, solo l'Italia
e la Francia hanno un sistema di giurisdizione amministrativa organizzato in tal
modo, cioè facente capo ad un organo di vertice dalla duplice natura; mentre la
gran parte degli altri Paesi seguono il modello organizzativo di tipo tedesco, nel
quale la giurisdizione amministrativa è attribuita bensì ad un corpo di magistrati
separato dalla magistratura ordinaria (ma dotati di uno status del tutto identico a
quello di quest'ultima), un corpo tuttavia dove si accede esclusivamente per
concorso e si progredisce nella carriera, dalla base al vertice, in ordine a criteri
fondati sulla anzianità o sul merito tecnico da valutare all'interno del corpo stesso.
In questi sistemi l'organo giurisdizionale di vertice, come gli organi giurisdizionali
dei gradi inferiori, è deputato esclusivamente all'esercizio della giurisdizione.
Ancora di recente, nella dottrina francese si è posto il problema se sia ancora
opportuno conservare la particolarità del modello “francese” (e aggiungiamo:
italiano), derivante da ragioni storiche o viceversa non sia il caso di allinearsi ad
una organizzazione giurisdizionale di tipo tedesco (22).
Ma da noi, a differenza che in Francia, detta particolarità organizzativa è prevista
in Costituzione, all'art. 100, e perciò non è disponibile dal legislatore ordinario. Un
tentativo di riforma fu fatto nell'ambito della Commissione Bicamerale D'Alema, di
cui alla legge cost. n. 1/1997 (v. art. 119 del testo della Commissione, AC
3931/A) che tuttavia, com'è noto, non riuscì a portare a termine i suoi lavori.
Successivi tentativi di riforma non si conoscono né allo stato sono prevedibili.
Invero, sulla commistione tra funzioni giurisdizionali e funzioni consultive in capo
al Consiglio di Stato, da più parti viene riconosciuta la razionalità e l'opportunità
della scelta costituente, tenuto conto che essa assicura da una parte una
maggiore autorevolezza della funzione consultiva (affidata ad un organo che in
quanto avente natura giurisdizionale gode di tutte le prerogative della
giurisdizione) e dall'altra parte arricchisce l'esercizio della funzione giurisdizionale
dell'esperienza amministrativa che all'esame dell'organo perviene nell'esercizio
della funzione consultiva.
Ovviamente la compresenza nell'organo delle due funzioni necessita di adeguate
misure organizzative che impediscano la cognizione di controversie giurisdizionali
da parte degli stessi magistrati che in sede consultiva hanno conosciuto di affari
ad essi connessi. Rimane punto problematico in ordine a questa esigenza di
separazione tra le due funzioni, la partecipazione di tutti i magistrati del Consiglio
di Stato all'Adunanza Generale che è organo esclusivamente consultivo cui
vengono portate le principali questioni (23).
Si pongono poi, com'è noto, problemi in ordine al particolare status dei consiglieri
di Stato, che presenta aspetti di differenziazione rispetto alla magistratura
ordinaria e agli stessi magistrati amministrativi dei Tribunali di primo grado.
Problemi analoghi (e anche di maggiore intensità) si pongono in Francia. Invero,
si tratta di problemi connaturati al modello; ché la doppia natura dell'attribuzione
dell'organo, pur garantito nella sua indipendenza dal Governo ai sensi dell'art.
100, produce necessariamente alcune commistioni con gli apparati di Governo. E
analoghi problemi si pongono peraltro a proposito della Corte dei conti (24).
Si pone innanzitutto il problema della legittimità costituzionale delle nomine dei
consiglieri di Stato, che per una percentuale (adesso corrispondente a un quarto
di tutti i membri dell'Istituto) sono riservate al Governo. E al Governo sono altresì
riservate le nomine dei presidenti di Sezione e dello stesso presidente del
Consiglio di Stato (artt. 21 e 22, l. n. 186/82). In realtà rispetto al precedente
sistema normativo, la legge appena citata, anche sulla base della importante (ma
da più parti contestata) sentenza della Corte cost. n. 177/73, ha stabilito una
disciplina sufficientemente garantistica in merito all'idoneità delle nomine e
all'esigenza di limitare le scelte del Governo. Infatti, è previsto che i consiglieri
nominati dal Governo debbono essere prescelti tra categorie di personale dotate
di caratteristiche tali, almeno in principio, da assicurarne la competenza
(professori ordinari, avvocati con lungo stato di servizio, dirigenti generali, etc.).
Ed è previsto che il Governo deliberi previo parere del Consiglio di presidenza
della giustizia amministrativa, nel quale sia valutata la “piena idoneità all'esercizio
delle funzioni di consigliere di Stato sulla base dell'attività e degli studi giuridicoamministrativi compiuti e delle doti attitudinali e di carattere”. Inoltre la nomina è
soggetta a controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti, e può esser
impugnata per illegittimità davanti allo stesso giudice amministrativo.
Inoltre occorre considerare, come la Corte ebbe a sottolineare nella citata
sentenza n. 177/73, che i soggetti nominati, una volta entrati nell'Istituto,
acquisiscono in toto lo status di magistrati del tutto equiparato a quelli dei
consiglieri provenienti dalla carriera interna o dal concorso e sono garantiti
dall'inamovibilità dell'ufficio.
Analogo procedimento è previsto per la nomina a presidente di Sezione e a
presidente di TAR (tenendo conto “in ogni caso dell'attitudine all'ufficio direttivo
ed all'anzianità di servizio”). Il presidente del Consiglio di Stato, sulla base della l.
n. 186/82, è nominato dal Governo sentito il parere del Consiglio di presidenza
(che nella prassi di questi anni è stato formulato preventivamente, come una
sorta di proposta) ma è prescelto tra i presidenti di Sezione dell'Istituto. Quindi, è
stata soppressa l'antica disciplina che prevedeva la nomina del presidente anche
fra personalità esterne.
La legge del 1982 ha dato compimento alla configurazione voluta dalla
Costituzione della magistratura amministrativa (TAR e Consiglio di Stato) come
corpo indipendente dal Governo, quanto all'organizzazione interna e alla disciplina
degli incarichi e delle carriere; in modo analogo a quanto previsto dalla stessa
Costituzione per la magistratura ordinaria, attraverso l'istituzione come si è
accennato, del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa composto da
componenti interni e da alcuni componenti esterni, in posizione minoritaria, eletti
dal Parlamento prescegliendoli tra categorie professionalmente garantite
(professori ordinari e avvocati con lungo corso professionale).
L'ordinamento, complessivamente inteso, della magistratura amministrativa, pur
con le sue peculiarità rispetto a quello della magistratura ordinaria (peculiarità
riconosciute dalla Corte costituzionale come giustificate dalle funzioni di
competenza, nella loro duplicità prevista dalla Costituzione), a seguito della
vigente legislazione, innovativa rispetto al passato, pur presentando ancora alcuni
punti critici, a volte enfatizzati in dottrina, appare nella sostanza conforme a
Costituzione; come quello inteso a realizzare il requisito dell'indipendenza imposto
dalla Costituzione, tenendo conto della particolare natura dell'organo.
Invero, le ripetute critiche emerse in dottrina, anche in tempi recenti
(segnatamente nell'ambito della scuola fiorentina), si riferiscono piuttosto al
modello in sé, auspicandone il superamento o verso l'unicità della giurisdizione, o
verso un ordinamento della giurisdizione amministrativa e della magistratura ad
essa preposta, di tipo tedesco (25). Ma, in entrambe le direzioni, l'ordinamento
potrebbe muoversi soltanto sulla base di una modifica costituzionale che allo stato
non è prevedibile, né, da parte della maggioranza degli autori e degli operatori,
auspicata.
Invero, non può essere ignorato, al fine della comprensione della scelta
costituente circa il particolare carattere della giurisdizione amministrativa come
quella incentrata sul Consiglio di Stato, il fondamentale apporto che la
giurisprudenza di questo consesso ha dato alla elaborazione del diritto
amministrativo moderno (allo stesso modo che in Francia). Il diritto
amministrativo, fino a tempi recentissimi (orientativamente, fino alla legge
generale sul procedimento n. 241/90, e alla incisiva integrazione con l. n. 15/05)
è stato caratterizzato da una parte generale di fonte esclusivamente
giurisprudenziale. Un'opera gigantesca che costituisce uno dei fattori fondanti
dello Stato di diritto, sempre intesa ad ampliare la tutela dei cittadini, a fronte del
potere amministrativo. Una giurisprudenza che, al di là delle singole controversie
soggette al suo esame, ha sempre guardato all'elaborazione di principi che a loro
volta entrano nell'ordinamento e vengono seguiti dagli altri giudici e dalle
pubbliche amministrazioni (una funzione nomofilattica in senso pieno). E,
nell'elaborazione dei principi, ha svolto, come è noto, un ruolo determinate
l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, organo previsto sin dalla antica legge
del 1907 (n. 642, artt. 70 ss.) come quello al quale possono essere dirottate le
controversie laddove si rileva “che il punto di diritto” sottoposto all'esame della
singola Sezione, “ha dato luogo o possa dar luogo a contrasti giurisprudenziali”;
ma ampiamente rafforzato, nella sua funzione nomofilattica, dal Cod. proc. amm.
(art. 99).
La remissione all'Adunanza plenaria avviene con ordinanza su richiesta delle parti
o anche d'ufficio. Ed è previsto che il presidente del Consiglio di Stato, anche
d'ufficio, possa deferire all'Adunanza plenaria qualunque controversia per “
risolvere questioni di massima di particolare importanza ovvero per dirimere
contrasti giurisprudenziali”.
Con il Codice la funzione nomofilattica del Consiglio di Stato si è rafforzata
attraverso la previsione di una sorta di vincolo del precedente posto da principi di
diritto enunciati dall'Adunanza plenaria. Ai sensi dell'art. 99, 3º co., la Sezione cui
la controversia è assegnata, se ritiene di non condividere un principio di diritto
enunciato dall'Adunanza plenaria (anche su tutt'altro tipo di controversie) è
tenuta a rimettere “a quest'ultima con ordinanza motivata, la decisione del
ricorso“ (26).
E, ancora, è previsto, come anche a proposito della Corte di cassazione (art. 363
c.p.c.), che l'Adunanza plenaria possa comunque enunciare il principio di diritto
nell'interesse della legge, anche nei casi in cui il ricorso, perché irricevibile o
inammissibile, non giunga alla decisione del merito
6. L'itinerario riformatore iniziato alla fine degli anni '90 e confermato nella
sostanza dalla giurisprudenza costituzionale di cui s'è detto, ha avuto di recente
un importante sbocco normativo, a carattere organico, nel d.lgs. n. 104/2010
(Cod. proc. amm.), attuativo della delega di cui all'art. 44 l. n. 69/2009, che
contiene importanti principi innovativi (per alcuni aspetti più avanzati rispetto
all'attuazione di essi da parte del legislatore delegato). Nel Cod. proc. amm. sono
state anche inserite le norme attuative della delega di cui all'art. 44 l. n. 88/2009,
in materia di contenzioso dei contratti pubblici, a sua volta attuativo di Direttive
comunitarie, che modifica molto incisivamente questo contenzioso, rilevantissimo
tra quelli affidati alla giurisdizione amministrativa, e attribuisce al giudice
amministrativo anche compiti di valutazione di assetti contrattuali.
Il mutamento dell'assetto della nostra giustizia amministrativa è stato rilevante.
Ha acquistato un volto quasi irriconoscibile se comparato con quello anteriore. E
contestualmente, è mutato lo stesso diritto amministrativo come diritto
sostanziale che regola detti rapporti e stabilisce l'ambito delle situazioni protette
che nei confronti dell'esercizio del potere emergono alla tutela dell'ordinamento. E
non potrebbe essere diversamente; ché attiene al diritto sostanziale la previsione
dei mezzi di tutela (le azioni) di cui le situazioni protette usufruiscono alla stregua
dell'ordinamento, attraverso i quali esse, appunto, rilevano come situazioni
protette (o situazioni giuridiche soggettive) piuttosto che come meri interessi di
fatto. E dal diritto sostanziale viene individuato il livello di protezione delle diverse
situazioni, delle une rispetto alle altre, livello che può essere differente nella
valutazione dell'ordinamento, nei limiti consentiti dai principi costituzionali.
6.1. Si può affermare che in questo nuovo assetto del sistema di tutela, le
situazioni soggettive protette nei rapporti di diritto pubblico (raggruppate nel
genus degli interessi legittimi: art. 24 Cost.) tendono all'equiparazione rispetto
alle situazioni protette nell'ambito dei rapporti di diritto comune (raggruppate nel
genus dei diritti soggettivi: art. 24 Cost.), come quelle capaci di usufruire di tutti i
mezzi di tutela riconosciuti dall'ordinamento.
Questo nuovo assetto è non solo conforme ai principi costituzionali ma di essi
senz'altro attuativo e trova la sua base nelle affermazioni della Corte
costituzionale, di cui s'è detto, segnatamente nella sentenza n. 204/04, secondo
l'impostazione che ha condotto al “salvataggio” dell'azione risarcitoria nell'ambito
della giurisdizione amministrativa; dopo un lungo periodo in cui il nostro sistema
di giustizia amministrativa era rimasto fondamentalmente lo stesso rispetto a
quello anteriore alla Costituzione (salvi gli avanzamenti spesso incisivi prodotti
dalla giurisprudenza). E attuativo anche (ma invero non si tratta di attuazione in
senso tecnico) dei principi di tutela giurisdizionale elaborati in sede europea: nella
giurisprudenza della Corte di Giustizia U.E., che in ordine alle controversie nelle
quali si applica il diritto comunitario detta principi vincolanti per gli Stati membri
(i quali tuttavia hanno una forza espansiva, si direbbe, anche al di là di tali
controversie); nella giurisprudenza della C.E.D.U., i cui principi sono vincolanti
per gli Stati aderenti alla Convenzione, sia pure in misura diversa dai primi, come
quelli che definiscono l'ambito di protezione giurisdizionale che gli Stati devono
assicurare ai loro cittadini (27).
Questi principi si possono esprimere nel dittico “pienezza ed effettività della
tutela”, che in termini generali (nelle sue differenziate applicazioni) significa: tutte
le situazioni protette debbono poter usufruire di tutti i mezzi di tutela (azioni)
riconosciuti dall'ordinamento, i quali, dato il tipo di situazione protetta e il tipo di
rapporto nel quale si colloca (date perciò le particolarità che i diversi tipi di
rapporti presentano), siano necessari al fine di assicurarne la protezione; e che
questi mezzi di tutela (azioni) siano disciplinati in maniera tale (ciò che attiene
propriamente alla disciplina processuale) da assicurare che la protezione sia
effettiva, cioè capace di tradursi sul piano pratico nella soddisfazione sostanziale
degli interessi che delle situazioni protette costituiscono, appunto, il substrato
sostanziale.
Ma l'estensione di questi principi (generalissimi) alla tutela giurisdizionale
nell'ambito dei rapporti di diritto pubblico presuppone (ciò che rileva piuttosto
nell'ordinamento interno che in ambito europeo) l'equiparazione del trattamento
giuridico delle situazioni protette, diritti e interessi legittimi (art. 24 Cost.), come
situazioni sostanziali (che rispondono a interessi sostanziali, pretese da
soddisfare, del soggetto) anche nei rapporti di diritto pubblico; cioè che esse
siano riconosciute dall'ordinamento come tali. In questi rapporti emerge, come è
noto, la peculiarità che la soddisfazione dell'interesse è frutto nei casi concreti
dell'esercizio del potere, la cui doverosità è modulata diversamente, è più
sfuggente, rispetto alla doverosità forte che caratterizza l'obbligo nei rapporti di
diritto comune.
Il riconoscimento della natura pienamente sostanziale dell'interesse legittimo (da
intendere come genus di tutte le situazioni protette, nelle loro varie specie, che
vengono riconosciute come tali a fronte dell'esercizio del potere), si traduce
perciò nella previsione (che diviene doverosa alla luce dell'art. 24 Cost. come
correttamente inteso) di una pluralità di azioni; perché differenti possono essere e
in concreto lo sono, le esigenze di soddisfazione che nella pluralità dei casi si
rappresentano; e diverse sono le possibilità di soddisfazione offerte
dall'ordinamento, tenendo conto del tipo di rapporto di cui si stratta,
caratterizzato volta a volta dal tipo di potere in ordine al quale il rapporto si
instaura. La limitazione della tutela solo ad alcuni degli strumenti (azioni) possibili
non consentirebbe (come non consentiva nel precedente sistema: basti pensare
all'inammissibilità della tutela risarcitoria degli interessi legittimi) la pienezza della
tutela stessa. Del resto, altra norma della nostra Costituzione, l'art. 113, 2º co,
già letta restrittivamente (con riferimento al mero superamento delle vecchie
norme che limitavano l'impugnazione degli atti amministrativi, in determinati casi,
ad alcuni solo dei vizi deducibili) a sua volta impone che la tutela giurisdizionale
nei confronti delle pubbliche amministrazioni non possa “essere esclusa o limitata
a particolari mezzi di impugnazione”, cioè (si può correttamente intendere) a
particolari azioni (art. 113, 2º co.).
6.2. Fermo restando che ogni situazione protetta (e perciò, ogni interesse
legittimo) presuppone che sia assicurata una qualche forma di soddisfazione (che
altrimenti non si tratterebbe di una situazione soggettiva protetta), modi e forme
(ed entità) della soddisfazione variano a seconda del tipo di rapporto.
Ciò può essere affermato, sia nell'ambito dei rapporti regolati dal diritto privato,
sia nell'ambito dei rapporti regolati dal diritto amministrativo. L'impresa che
partecipa ad una gara d'appalto presentando la migliore offerta gode (dovrebbe
godere) di una protezione piena (deve vincere la gara); e il proprietario di un'area
destinata in piano regolatore ad un certo tipo di edificazione, che presenta un
progetto ad essa conforme, gode a sua volta di una protezione piena (deve
ottenere il permesso di costruire richiesto). Ma lo stesso proprietario si trova in
una posizione del tutto diversa nell'ambito del rapporto che si instaura con le
autorità comunali al momento in cui si avvia il procedimento per la redazione del
piano regolatore; ché in tal caso la soddisfazione della sua pretesa (ad esempio
quella di ottenere una certa destinazione economicamente proficua) non può
essere come tale assicurata, ma solo gli può essere assicurato che le sue buone
ragioni vengano prese correttamente in considerazione (ma non che vengano
senz'altro esaudite).
Ma non diversamente, si pongono le esigenze di tutela nei rapporti di diritto
comune che, a loro volta, si presentano del tutto diversificati quanto alla capacità
di soddisfare le pretese del soggetto attivo (del titolare, presunto, del diritto a
fronte degli obbligati) nelle diverse situazioni. Diversa è la posizione di colui che
pretende il pagamento di una somma di denaro (credito assistito o meno da
garanzia reale o personale) a fronte dell'inadempimento dell'obbligato. Diversa è
la posizione del socio che esercita l'azione sociale di responsabilità verso gli
amministratori per presunta mala gestio. Diversa è la posizione del lavoratore che
si ritiene ingiustamente licenziato. E così via. Casi questi, del tutto rapportabili ai
primi, variando la posizione dell'obbligato (presunto) quanto al tasso di
“doverosità” della sua azione od omissione, e in conseguenza, variando la
possibilità di soddisfazione del (presunto) titolare del diritto; come, nei primi casi,
la possibilità di soddisfazione di cui in concreto può usufruire il titolare del
(presunto) interesse legittimo. E in conseguenza, variano le azioni esperibili
davanti al giudice rispettivamente competente, e variano le concrete possibilità di
soddisfazione delle rispettive pretese, che il giudice può assicurare attraverso la
cognizione delle azioni stesse e l'adozione dei conseguenti provvedimenti
giurisdizionali.
In un quadro istituzionale, nel quale tutte codeste situazioni vengono configurate
come di contenuto sostanziale (sottintendendo le une e le altre, un interesse del
quale l'ordinamento, in misura differenziata nel diverso atteggiarsi dei rapporti nei
quali le une e le altre si collocano, assicura la soddisfazione) sfuma del tutto la
distinzione tra diritti e interessi legittimi; come la Corte costituzionale ha avuto
modo di affermare nella citata sentenza n. 191/06.
Sul piano processuale la distinzione resta apparentemente rilevante, ma invero,
come adesso chiarisce il Codice, la nozione di controversie nelle quali si fa
questione di interessi legittimi è del tutto rispondente a quella di controversie
delle quali l'oggetto è la legittimità (contestata) dell'esercizio del potere. Emerge
quindi la nozione di controversie di diritto pubblico come quelle di competenza del
giudice amministrativo (salvi marginali casi di controversie di questo tipo ascritte
alla giurisdizione ordinaria).
Questa definizione, in asse con la giurisprudenza costituzionale, acquista dunque
ruolo determinante ai fini del riparto della giurisdizione e alla luce di essa vanno
lette le norme costituzionali.
7. Il Codice, pur nell'ambiguità di alcune sue espressioni e con qualche
reticenza, è impostato su questi principi e costituisce perciò una svolta
fondamentale nel nostro ordinamento, chiudendo la fase della riforma del sistema
(sopra richiamata nei suoi momenti essenziali) e aprendo la fase dell'elaborazione
giurisprudenziale (28).
Sul piano processuale, dal Codice il processo amministrativo è senz'altro collocato
(ma invero non se ne dubitava) nell'ambito dei principi che reggono la funzione
giurisdizionale in tutte le sue manifestazioni.
Anzitutto, come s'accennava, i principi del giusto processo, di cui all'art. 111
Cost., 1 e 2 co. (che si applicano ad ogni tipo di processo), e all'art. 6 C.E.D.U,
come elaborati dalle rispettive Corti, a fronte dei quali il nostro sistema (al di fuori
della disciplina del Codice) presenta ancora dei punti critici che via via dovranno
essere sanati; segnatamente, sul versante dell'organizzazione della magistratura,
cui si è accennato, e su una (ancora persistente) commistione tra diverse funzioni
affidate ai magistrati amministrativi. Ma ancora, vi sono controversie di diritto
pubblico (del tutto rapportabili alle altre come quelle nelle quali si fa questione
della legittimità dell'esercizio del potere) dislocate al di fuori della giurisdizione, e
affidate alla cognizione di organi interni che non garantiscono la terzietà della
funzione (c.d. autodichia) (29).
Al di là di questi aspetti che restano problematici, la tutela giurisdizionale delle
controversie di diritto pubblico affidata al giudice amministrativo appare senz'altro
impostata sui principi del giusto processo, che diventano, come principi di rango
costituzionale, vincolanti l'interpretazione, e a fronte di essi occorre stabilire la
legittimità delle norme e degli istituti (come quelli ai quali si è appena fatto
riferimento). Ed essi si estendono, al di là dell'esercizio della funzione
giurisdizionale in sé (lo statuto del giudice, la posizione reciproca delle parti, la
scansione delle fasi della procedura), nel campo (di diritto sostanziale piuttosto
che processuale) delle azioni esperibili, come quelle necessarie al fine della tutela
(piena ed effettiva, appunto) delle situazioni protette che si presumono violate.
L'esigenza della pluralità delle azioni a tutela delle situazioni protette nell'ambito
dei rapporti di diritto pubblico acquista, dunque, valore costituzionale. In
mancanza, come s'accennava, quei principi non sarebbero rispettati.
Sul punto, si può aggiungere che lo stesso riconoscimento del carattere
sostanziale delle situazioni protette nei confronti dell'esercizio del potere (quelle
che noi raggruppiamo sotto l'etichetta dell'interesse legittimo) comporta che gli
interessi ad esse sottesi devono avere soddisfazione, di diversa misura ed entità,
a seconda del tipo di rapporto di cui si tratta. E perciò, il riconoscimento di detto
carattere, sul piano sostanziale, si traduce necessariamente, sul piano
processuale, nella previsione di una pluralità di azioni esperibili davanti al giudice
competente, ché altrimenti la soddisfazione dell'interesse non potrebbe avvenire.
Insomma, il pieno riconoscimento del carattere sostanziale degli interessi legittimi
si identifica con i principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale e
perciò con la necessaria pluralità delle azioni (30).
Invero, nei rapporti di diritto pubblico, come si accennava, si configura una
diversa tipologia di interessi protetti (dal punto di vista della qualità ed intensità
della protezione) che se violati (laddove si presumono violati dal soggetto cui
pertengono) necessitano per essere soddisfatti di differenti strumenti di tutela.
8. Si possono configurare alcune situazioni tipiche alle quali rispondono azioni
tipiche.
Il potere amministrativo in esito al procedimento si traduce in un atto giuridico
(provvedimento o accordo) produttivo di effetti che possono essere lesivi della
sfera protetta di interessi di determinati soggetti: lo stesso destinatario dell'atto,
ovvero soggetti terzi che indirettamente ne subiscono effetti o conseguenze
pratiche lesive (si sa che in diritto amministrativo la posizione dei terzi è tutelata
di fronte all'esercizio del potere). In tali casi la prima esigenza di tutela è quella
che consente la rimozione dell'atto lesivo e perciò il ripristino della situazione
giuridica qua ante. Perciò l'azione di annullamento o l'azione di nullità (in diritto
amministrativo poste sullo stesso piano: si tratta pur sempre di rimuovere un atto
che ha prodotto o sta producendo effetti lesivi) sono capaci di soddisfare questa
prima esigenza di tutela. Il Cod. proc. amm. le prevede entrambe, secondo
diversa disciplina, ma entrambe sottoposte, quanto al relativo esercizio, a termine
di decadenza (artt. 29 e 31, 4º co.) (31).
L'effetto sostanziale (che si produce con la rimozione dell'atto lesivo, ciò da cui
consegue il ripristino della situazione soggettiva che l'atto stesso, accertato come
illegittimo, aveva modificata o estinta) è prodotto dalla sentenza del giudice,
secondo la nota tecnica di produzione degli effetti sostanziali norma-potereeffetto (32); ma avrebbe anche potuto prodursi per atto di autotutela della
stessa pubblica amministrazione, anche su richiesta di parte. Non si tratta perciò,
per stare alla sistematica della migliore dottrina processualistica, di effetto
ricollegato al necessario accertamento giudiziale, il quale è necessario soltanto
laddove l'effetto stesso non si sia prodotto sul piano sostanziale (33). Queste
due azioni sono previste nell'ambito del processo amministrativo con norme di
portata generale, cioè a fronte di ogni atto amministrativo (presunto) lesivo di
situazioni protette affidate alla tutela del giudice amministrativo. Per contro,
l'azione di annullamento di atti amministrativi è ammessa davanti al giudice
ordinario (laddove la presunta lesione incida su situazioni protette, diritti
soggettivi, la cui tutela è affidata a detto giudice) solo nei casi espressamente
previsti dalla legge (alcuni si sono ricordati) ai sensi dell'art. 113, ult. co., Cost.
Non così l'azione di nullità, che davanti al giudice ordinario è sempre ammessa a
fronte di atti lesivi di diritti soggettivi, affetti dai vizi di cui all'art. 21-septies, l. n.
241/90 (ciò perché, com'è noto, in questi casi, secondo l'impostazione seguita in
giurisprudenza, non avverrebbe il c.d. effetto di degradazione).
Se l'atto lesivo è di contenuto negativo (ha negato una misura richiesta, ad
esempio un'autorizzazione che si presume dovuta) il mero annullamento (o la
dichiarazione di nullità) dello stesso, non è sufficiente ad assicurare soddisfazione
dell'interesse che si presume leso. Ché il ripristino della situazione qua ante
riporta il soggetto alla sua originaria aspirazione ad ottenere un bene che non gli
è stato riconosciuto e che egli ritiene debba essergli riconosciuto (e il cui
disconoscimento è stato sanzionato dal giudice mediante l'annullamento del
diniego). Allora è evidente che in questi casi occorre qualcosa di più perché il
titolare dell'interesse leso possa ottenere soddisfazione; cioè occorre uno
strumento procedurale (un'azione) che consenta al soggetto di ottenere la misura
rifiutata una volta accertato che essa fosse viceversa dovuta. Da qui l'esigenza di
un'azione di condanna strettamente connessa (o contestuale, come vuole l'art.
30, 1º co. Cod. proc. amm.) all'azione di annullamento, attraverso la quale si
possa chiedere al giudice, una volta annullato l'atto lesivo e accertato che un atto
positivo doveva essere adottato, di ordinare all'Amministrazione l'adozione di
codesto atto. Secondo il Cod. proc. amm., è l'azione di condanna all'adozione
delle misure idonee (in tal caso, all'adozione dell'atto richiesto e dovuto) a
tutelare la situazione dedotta in giudizio, anche mediante la nomina di un
commissario ad acta che provveda in luogo dell'Amministrazione (artt. 30, 1º co.,
e 34, 1º co., lett. c, e).
A questa esigenza di tutela (come si vede, diversa da quella cui soddisfa l'azione
di annullamento) anche nel precedente regime del processo amministrativo si
faceva fronte (in assenza di norme espresse) attraverso il riconoscimento di un
effetto conformativo alle sentenze di annullamento del giudice amministrativo,
derivante dal contenuto di accertamento (circa l'illegittimità dell'atto negativo
laddove un atto positivo sarebbe stato legittimo) della sentenza stessa, al di là del
suo dispositivo di annullamento. Effetto conformativo che in determinati casi può
condurre, ai fini della soddisfazione della pretesa, all'esercizio di un'altra azione
(questa tradizionalmente prevista) davanti al giudice amministrativo, l'azione di
esecuzione (o di ottemperanza) mediante la quale può ottenersi, sulla base
dell'effetto conformativo, tratto dalla prima sentenza, una seconda sentenza,
questa volta di condanna, all'adozione dell'atto positivo, anche attraverso la
nomina di un commissario ad acta.
Tuttavia questo sistema, pur avanzato rispetto alla disciplina vigente, come
elaborato dalla giurisprudenza, si basava, per ottenere l'effetto satisfattivo di
pretese del tipo considerato, sul giudizio di ottemperanza, nell'ambito del quale al
giudice è consentito di adottare decisioni di condanna una volta valutato se
l'accertamento compiuto con la decisione di merito potesse, e in che limiti,
tradursi nella nuova azione amministrativa (anche sulla base di una valutazione di
merito degli interessi in gioco). Una situazione perciò da definire caso per caso,
essendo escluso che la sentenza di annullamento come tale, possa avere anche
un contenuto di condanna.
Ma nel nuovo sistema, in virtù della normativa citata, la giurisprudenza potrà (se
ne vedono le prime applicazioni) conoscere in uno con l'azione di annullamento,
l'azione di condanna ad adottare un determinato atto (come misura idonea a
soddisfare la situazione protetta dedotta in giudizio) e a tal fine potrà senz'altro
nominare un commissario ad acta, senza costringere l'interessato a passare per
l'incerto tragitto del giudizio di ottemperanza.
9. Un'esigenza di tutela similare si pone a fronte dell'inerzia dell'Amministrazione
(non rispondere nei termini di legge a un'istanza regolarmente presentata). Anche
qui l'interesse sostanziale è di ottenere l'atto richiesto, ma in questo caso
l'Amministrazione non lo ha rigettato, ma semplicemente non ha risposto. E
perciò il primo accertamento che si chiede al giudice ha ad oggetto l'obbligo che
in quel caso avrebbe avuto o meno l'Amministrazione, di rispondere, di
provvedere (non come provvedere) con riferimento all'istanza presentata (se
prevista dalla legge, se presentata nei termini stabiliti, etc.). Da qui il contenuto
di accertamento di questa azione (e non di annullamento, ché non esiste un atto
presunto lesivo, da annullare), come fa intendere l'art. 31 Cod. proc. amm. Ma
l'azione può avere anche un altro (più incisivo) contenuto di accertamento e può
tradursi anche (come la precedente) in azione di condanna (34): laddove il
giudice si possa pronunciare sulla fondatezza della pretesa sostanziale del
ricorrente (non quella di ottenere una risposta ma quella di ottenere il
provvedimento richiesto con l'istanza). Questo accertamento, una volta effettuato
con esito favorevole, può dare luogo, come nel caso precedente, alla condanna
rivolta all'Amministrazione di adottare l'atto richiesto (e contestuale nomina, ove
necessario, di un commissario ad acta, ai sensi dell'art. 34, 1º co., lett. e).
Sul punto, si pone tuttavia un problema, come è evidente, che allo stesso modo si
pone nel caso prima esaminato dei ricorsi avverso provvedimenti negativi. In
quali casi il giudice può accertare la fondatezza della pretesa sostanziale del
ricorrente? La norma (relativa al silenzio, ma di applicazione generale) risponde:
“quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non esistano ulteriori
margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari ulteriori
adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall'amministrazione” (art.
31, 3º co.). Il provvedimento richiesto può essere, nella sostanza, dovuto
(l'Amministrazione ai sensi di legge, aveva l'obbligo di rilasciarlo, secondo gli
esempi fatti). In tal caso, il giudice può stabilire ciò che doveva essere fatto, nei
suoi contenuti.
Nei casi di attività discrezionale, viceversa, all'Amministrazione resta affidato un
margine, più o meno ampio, di valutazione circa gli interessi in gioco, tale da non
consentire al giudice, una volta accertata l'illegittimità del provvedimento
adottato, o dell'inerzia verificatasi, quale debba essere in concreto il
provvedimento da assumere, nei suoi contenuti; e se il provvedimento da
assumere risponda agli interessi sostanziali del ricorrente. E quindi il secondo più
puntuale accertamento (quello sulla “fondatezza della pretesa”) non può essere
compiuto né in conseguenza, l'Amministrazione può essere condannata ad
adottare l'atto richiesto. Tuttavia, anche in questi casi (che in astratto si
presentano in tal modo) si può verificare in concreto una situazione diversa (sul
piano sostanziale) nella quale il procedimento risulta esaurito, espletati tutti gli
accertamenti istruttori, effettuate le valutazioni necessarie degli interessi in gioco
(pareri, nulla osta, accertamenti tecnici) con univoco orientamento; ovvero ancor
più puntualmente, vi sia stato un procedimento di secondo grado nel quale siano
state confermate codeste valutazioni. In tal caso, la discrezionalità nel concreto
può ritenersi “esaurita” (come si usa dire, parafrasando i tedeschi) e in
conseguenza il giudice può provvedere all'accertamento circa la fondatezza della
pretesa sostanziale dedotta in giudizio e alla successiva condanna all'adozione del
provvedimento richiesto (35).
In questo quadro, dunque, che si delinea agevolmente sulla base delle norme del
Cod. proc. amm. (pur nella loro forse voluta ambiguità) ma che adesso viene
confermato dalla prima giurisprudenza (36), la tutela a fronte dell'illegittimo
esercizio (o non esercizio) del potere si arricchisce, nella pluralità di azioni, di
quella che anche la giurisprudenza (che espressamente ritiene abbia fatto ormai
ingresso nel nostro ordinamento) denomina azione di adempimento, con
terminologia ancora una volta di origine tedesca. Si potrebbe meglio denominare
invero, detta azione (stando alla lettera delle nostre leggi) azione di condanna
all'adozione di un provvedimento, come misura idonea a tutelare la situazione
giuridica soggettiva dedotta in giudizio (art. 34, 1º co., lett. c), anche mediante la
nomina di un commissario ad acta, (art. 34, 1º co., lett. e), una volta che
risultino le condizioni di cui all'art. 31, 3º co. (37).
In sostanza, per stare alla sopra richiamata sistemazione dottrinale, laddove la
tecnica di produzione degli effetti sostanziali segua lo schema norma-potereeffetto, il giudice può valutare l'illegittimità dell'esercizio del potere (ovvero la
carenza del potere) e annullare l'atto impugnato (o dichiararne la nullità) ma non
potrà sostituirsi all'Amministrazione nell'adozione del nuovo atto; mentre, laddove
si segua lo schema norma-fatto-effetto (il che significa, tradotto nella nostra
casistica, che il potere dell'Amministrazione è vincolato, secondo quanto s'è
detto) il giudice, una volta accertato l'illegittimo esercizio del potere (che non
abbia rispettato le prescrizioni normative tali da garantire la soddisfazione della
situazione protetta) potrà disporre, appunto, che l'Amministrazione adotti l'atto
dovuto.
Ancora più incisiva questa particolare azione di condanna, si presenta nel
contenzioso contrattuale (quello che ha ad oggetto la contestata legittimità dei
procedimenti di aggiudicazione: procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi
e forniture: artt. 119, 1º co., lett. a), 120 ss., Cod. proc. amm.). In questi casi, il
giudice insieme all'annullamento dell'aggiudicazione (che è provvedimento
amministrativo) dichiara anche (ove sussistano le condizioni di cui all'art. 121, 1º
co., e 122) l'inefficacia del contratto (che è atto negoziale), mentre in altri casi il
contratto resta efficace, salve misure alternative (art. 121, co. 2º e 4; 123). Ove
il contratto sia dichiarato inefficace, il giudice può ordinare che il contratto stesso
sia aggiudicato al ricorrente che ha ottenuto l'annullamento dell'aggiudicazione
ove si riscontrino le condizioni di cui all'art. 122 (art. 124), condizioni di fatto
(come lo stato di esecuzione del contratto stesso) e condizioni di diritto (in
sostanza, dalle illegittimità riscontrate nel procedimento di aggiudicazione, si
possa desumere che il ricorrente abbia titolo senz'altro a subentrare nel contratto
senza necessità di rinnovare il procedimento stesso). Ciò che evidenzia una
situazione omogenea a quella che negli altri casi sopra ricordati consente al
giudice di accogliere la c.d. azione di adempimento (38).
10. A queste forme di tutela a fronte dell'esercizio (o del mancato esercizio) del
potere si accompagna sempre l'azione risarcitoria per danni prodotti dall'esercizio
(o dal mancato esercizio) del potere stesso. Qui la tutela di condanna, nel nostro
processo, appare nella forma classica della tutela risarcitoria secondo l'archetipo
aquiliano di cui all'art. 2043.
L'introduzione dell'azione risarcitoria “a tutela degli interessi legittimi”, come
ancora si usa dire (con terminologia che riecheggia il vecchio ordinamento nel
quale la tutela risarcitoria, a fronte dell'illegittimo esercizio o non esercizio del
potere amministrativo era ammessa solo per i diritti soggettivi), ha spezzato
l'antico monopolio dell'azione di annullamento nelle controversie di diritto
pubblico; ed è stata il vero momento di svolta del nostro ordinamento (39).
Da essa invero, deriva la configurazione degli interessi legittimi come situazioni
soggettive che necessitano, allo stesso modo dei diritti soggettivi, di molteplici
forme di tutela al fine di assicurarne la soddisfazione sul piano sostanziale. È
proprio il riconoscimento delle pretese risarcitorie che conferma il carattere
pienamente sostanziale dell'interesse legittimo come la situazione protetta in
ordine a un bene; che si ha “diritto di conservare o di ottenere”, che, se leso
ingiustamente, deve essere risarcito nel suo valore monetario (per equivalente)
laddove non lo si possa reintegrare in forma specifica (artt. 2043, 2058, cod.
civ.).
La pretesa risarcitoria a fronte di un danno prodotto, presuppone ovviamente,
perché possa essere accolta, l'accertamento che il fatto produttivo del danno sia
avvenuto injure. E se il fatto è un atto giuridico (un provvedimento
amministrativo, un accordo, nell'ambito dei rapporti di diritto pubblico)
presuppone l'accertamento dell'illegittimità dell'atto stesso. E perché la
sussistenza del danno risarcibile possa essere riconosciuta nel concreto, occorre
l'accertamento che esso si sia verificato per effetto del fatto ingiusto (dell'atto
illegittimo) secondo il principio di causalità; cioè, se il fatto non fosse avvenuto,
ovvero l'atto si fosse prodotto iure, il danno non si sarebbe prodotto. E occorre
anche, ma questo punto è invero assai perplesso in ordine alla pretesa risarcitoria
nei confronti delle pubbliche Amministrazioni, che sia imputabile all'agente dolo o
colpa circa l'azione o l'omissione produttiva del danno (40).
Questi principi, applicati nell'ambito dei rapporti di diritto pubblico, ovviamente
danno luogo a delicati problemi in ordine all'accertamento giurisdizionale di questi
presupposti nel concreto.
In ordine alla questione del previo accertamento dell'illegittimità dell'atto lesivo, si
è accennato al lungo dibattito intorno alla c.d. pregiudiziale amministrativa
(azione di annullamento dell'atto lesivo come presupposto per l'esercizio
dell'azione risarcitoria) che la disciplina vigente ha risolto, conformandosi alla
giurisprudenza della Corte di cassazione, nel senso dell'esperibilità anche in via
autonoma dell'azione risarcitoria, in una prospettiva (ancora una volta) della
pienezza della tutela giurisdizionale come quella che necessita di una pluralità di
azioni che il titolare di una situazione protetta possa usare a seconda delle sue
esigenze concrete di tutela. Ma essa è stata sottoposta a un termine decadenziale
assai stretto (art. 30, 3º co., Cod. proc. amm.) della cui legittimità costituzionale
vi sono forti ragioni per dubitare (41).
In caso di esercizio autonomo dell'azione risarcitoria, l'accertamento
dell'illegittimità dell'atto lesivo avviene dunque in via incidentale (al fine di
stabilire la fondatezza dell'azione stessa). L'atto può restare in vita e continuare a
produrre i suoi effetti (salvo l'esercizio dei poteri amministrativi di autotutela).
Tuttavia, la mancata impugnazione dell'atto mediante il previo esercizio
dell'azione di annullamento può risultare in molteplici casi come frutto di
comportamento elusivo, opportunistico, del soggetto danneggiato, che con
l'eliminazione dell'atto attraverso l'esercizio dell'azione di annullamento (o con
l'esperimento di altri strumenti di tutela contenziosa) avrebbe potuto evitare il
prodursi dei danni. Sovviene in proposito l'art. 1227 Cod. civ. (espressivo di un
principio generale) secondo il quale il risarcimento è escluso laddove il creditore
avrebbe potuto evitare i danni “usando l'ordinaria diligenza” (2º co.) o è diminuito
laddove “il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno” (1º co.),
in misura diversificata a seconda della gravità della colpa rapportata alle
conseguenze. Nelle controversie di diritto pubblico, viene in questione, sul punto,
il fatto omissivo del (presunto) creditore circa la mancata impugnazione dell'atto
lesivo, laddove vi siano le condizioni per farlo: se ciò concreti la fattispecie di cui
all'art. 1227.
La norma del Cod. proc. amm. (art. 30, 3º co.) sembra invero andare in tal
senso, laddove (con formula tuttavia assai più limitativa circa la possibilità di
soddisfare in tali casi la pretesa risarcitoria, rispetto a quella più incisiva dell'art.
1227) dispone che il giudice, nel determinare il risarcimento “valuta tutte le
circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti” (assorbendo il
disposto del 1º co.), ma aggiunge che il risarcimento è escluso per i danni “che si
sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza” (come ai sensi del 2º co.),
“anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela”. Tra questi ultimi è
ovviamente, in primo luogo, l'esercizio dell'azione di annullamento dell'atto
lesivo; mentre l'art. 1227, 2º co., viene interpretato nel senso di non
comprendere tra i modi di ordinaria diligenza l'esercizio dei mezzi di tutela
giurisdizionale (42).
La norma, correttamente interpretata, deve essere invero inquadrata nell'ambito
dei principi di cui all'art. 1227, pur con la specialità che caratterizza i rapporti di
diritto pubblico rispetto ai rapporti di diritto comune ai quali l'art. 1227 si
riferisce. E in tal senso è orientata la prima (assai autorevole) giurisprudenza (43), sia pure sulla base di un'interpretazione estensiva ed evolutiva dell'art.
1227, che consente di ascrivere ai comportamenti di ordinaria dirigenza del
soggetto danneggiato anche condotte positive e tra queste anche l'esperimento
dell'azione di annullamento; laddove “l'utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio
sarebbe stata idonea... ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio”; con
aggancio ai principi comuni della buona fede (art. 1175 cod. civ.) e della
solidarietà (art. 2 Cost.) che rendono “apprezzabili ai fini dell'esclusione del
danno” comportamenti omissivi del creditore, laddove, alla stregua di un giudizio
di causalità ipotetica, “le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un
sacrificio significativo (per il creditore) ed avrebbero verosimilmente inciso, in
senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno”. Il che non significa che il
mancato esperimento dell'azione di annullamento sia in quanto tale preclusivo
dell'accoglimento dell'azione risarcitoria; ché, appunto, ai sensi dell'art. 1227,
deve valutarsi caso per caso la situazione nella sua concretezza. E così, ad
esempio, lo stesso Consiglio di Stato menziona il caso del provvedimento
interamente e immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto
irreversibile, ovvero del provvedimento in corso di rapida esecuzione, talché dati i
tempi del processo una tutela ripristinatoria non possa essere praticata utilmente,
e così via.
Insomma, la tutela risarcitoria può essere in principio esercitata in via autonoma,
ma le possibilità in molteplici casi di evitare un danno attraverso un diligente
esercizio dell'azione di annullamento (o di altri rimedi ripristinatori) laddove
questa risulta concretamente satisfattiva, comporta il rigetto della domanda di
risarcimento ai sensi dell'art. 1227, 2º co.; il cui principio viene dunque adattato
ai caratteri particolari dei rapporti di diritto pubblico.
Ma il danno risarcibile presuppone, come s'accennava, un nesso di causalità
efficiente tra l'azione o l'omissione presunta injure e il danno stesso. Ciò significa
che se l'azione si fosse prodotta iure o l'omissione non si fosse verificata, il danno
non si sarebbe prodotto.
Tale pacifica e ovvia affermazione dà luogo nei rapporti di diritto pubblico, a
particolari problemi applicativi, laddove il potere amministrativo intorno al quale
si instaura il rapporto, è di carattere discrezionale. In tali casi infatti, la successiva
controversia, mossa dal soggetto che si presume leso dall'esercizio del potere
perché illegittimo, può condurre (in caso di accertamento positivo
dell'illegittimità) all'annullamento (o dichiarazione di nullità) dell'atto lesivo. Ma
ciò non comporta anche l'accertamento ulteriore (come nei casi sopra esaminati),
che l'interesse sostanziale del ricorrente (ottenere una certa destinazione
urbanistica della propria aerea, ottenere che il suo progetto sia preferito in un
appalto concorso) avrebbe dovuto senz'altro essere soddisfatto; ché l'esercizio
corretto del potere discrezionale avrebbe potuto portare legittimamente ad una
soluzione diversa. È evidente che in questi casi, l'accoglimento dell'azione
risarcitoria presentata contestualmente all'azione di annullamento o a seguito
dell'accoglimento di quest'ultima, presuppone da parte del giudice un giudizio
prognostico (44) circa la concreta possibilità che l'esercizio corretto del potere
avrebbe condotto alla soddisfazione della pretesa sostanziale del soggetto leso;
ché altrimenti egli può ottenere solo, una volta ottenuto l'annullamento dell'atto
lesivo, che il potere si eserciti in maniera corretta, cioè sulla base di quanto
stabilito dal giudice sulla base della sentenza di annullamento (secondo lo
schema, sopra ricordato, norma-potere-effetto).
Tale problematica si pone segnatamente a proposito della tutela di interessi
pretensivi; ché gli interessi oppositivi sono ritenuti in ogni caso risarcibili (45). E
anche su questa problematica incide l'accertamento in concreto, sul piano
sostanziale, dello stato in cui il procedimento discrezionale si trova. Ché, come
sopra s'è visto, la discrezionalità può risultare in concreto “esaurita” e può perciò
darsi luogo all'accoglimento dell'azione risarcitoria.
Il risarcimento è viceversa sempre dovuto in caso di ritardo doloso o colpevole
(cioè non giustificato da fattori oggettivi) dell'Amministrazione nella conclusione
del procedimento avviato a seguito di domanda presentata iure (art. 30, 4º co.,
Cod. proc. amm.). In tali casi, la violazione sanzionata è quella dell'obbligo di
pronunciarsi nei termini da parte dell'Amministrazione (laddove ciò è previsto) a
prescindere dall'esito cui il procedimento correttamente compiuto avrebbe dato
luogo. Qui è il fattore tempo che viene in causa: “anche il tempo è un bene della
vita per il cittadino” e il ritardo nella conclusione di qualunque procedimento, è
“sempre un costo, dal momento che il fattore tempo costituisce un'essenziale
variabile nella predisposizione e nell'attuazione di piani finanziari relativi a
qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica” (46).
11. L'esercizio del potere avviene a volte (purtroppo spesso: si tratta di una
ricorrente disfunzione amministrativa) in via di fatto, cioè attraverso
comportamenti (operazioni) che non trovano la loro fonte in un atto giuridico
(provvedimento, accordo, contratto) dei cui effetti costituiscano l'esecuzione.
Anziché eseguire un procedimento di requisizione mediante l'apprensione del
bene requisito, l'Amministrazione lo apprende senz'altro (lo occupa) di fatto,
senza avere adottato l'atto di requisizione. I lavori di ampliamento della strada
pubblica iniziano sui terreni circostanti da parte dell'appaltatore cui vengono
consegnati, senza che il procedimento di occupazione o di espropriazione dell'area
si sia perfezionato con i relativi decreti, o addirittura senza che sia stata adottata
la dichiarazione di pubblica utilità o quest'ultima sia stata annullata. E così via.
Si tratta del fenomeno delle occupazioni abusive di beni di proprietà privata sul
quale da tempo la giurisprudenza va cercando soluzioni idonee ad assicurare
tutela ai diritti violati (47). Tutela, in questi casi, di carattere restitutoriopossessorio: restituire il bene illecitamente appreso, ripristinare la situazione qua
ante. Ma si traduce in tutela risarcitoria al momento in cui il bene non può essere
restituito (l'opera pubblica è stata realizzata e il bene non può essere sottratto
alla destinazione pubblica acquisita: art. 828 cod. civ.). Ovvero, anche a
prescindere da questo profilo prettamente pubblicistico, l'irreversibile
trasformazione della cosa (abbattimento degli edifici, degli alberi) non ne
consente il ripristino o lo rende eccessivamente oneroso (anche ai sensi dell'art.
2058 cod. civ.) e perciò il diritto violato può essere risarcito solo per equivalente.
Questa tutela si configura propriamente come tutela di diritti (del possesso, della
proprietà, di altro diritto reale o personale) ai sensi del codice civile (artt. 948 ss.,
1079 ss., 1168 ss.); e in principio appartiene alla giurisdizione ordinaria (se n'è
accennato retro), anche ai sensi della legge del 1865; la quale tuttavia è stata a
lungo reticente ad assicurarla nelle forme civilistiche, condizionata da
un'interpretazione eccessivamente estensiva dell'art. 4 di quella legge (si tratta di
una delle principali manifestazioni di quella nota “timidità” dei giudici ordinari nei
confronti dell'Amministrazione), e solo di recente ha ritenuto ammissibili azioni
possessorie in questi casi (48).
Nel nuovo assetto del sistema, questa tutela è adesso distribuita tra le due
giurisdizioni, a seconda che il fatto dell'occupazione abusiva (cioè avvenuta senza
il supporto di un atto giuridico di cui costituisca esecuzione) sia o meno
rapportabile all'esercizio di un potere di cui l'Amministrazione agente sia in
concreto titolare (e che abbia perciò nella specie esercitato injure). In tal caso, la
giurisdizione è del giudice amministrativo (la controversia si ascrive a quelle di
diritto pubblico, trattandosi appunto di controversia intorno ai modi di esercizio
del potere). Nel caso inverso, cioè laddove l'Amministrazione agente non aveva il
potere di adottare l'atto giuridico di cui il fatto acquisitivo sarebbe esecuzione
(l'atto se adottato, sarebbe nullo), la giurisdizione è del giudice ordinario, in sede
possessoria e anche, ovviamente, in sede petitoria. Il potere è ritenuto
insussistente (e perciò la relativa controversia è attratta nella giurisdizione
ordinaria) in caso di aggressione di bene privato in carenza di dichiarazione di
pubblica utilità o anche di intervenuto annullamento della stessa o di decorso dei
termini per provvedere all'espropriazione (49).
Si tratta invero di una distinzione molto sottile, e perplessa, ma sembra ormai
consolidata in giurisprudenza. E il legislatore ne ha preso atto affidando alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad
oggetto “i comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all'esercizio di un
pubblico potere, delle pubbliche amministrazioni in materia di espropriazione per
pubblica utilità” (art. 133, 1º co., lett. g), Cod. proc. amm.). L'espressione usata
dalla norma è da intendere in senso lato come quella che nasconde ogni fatto
ablativo di beni privati.
L'ascrizione di questa giurisdizione a quella esclusiva arricchisce la gamma delle
azioni esperibili davanti al giudice amministrativo a tutela della proprietà e del
possesso. Qui il giudice amministrativo si trasforma in vero e proprio giudice
civile, in possessorio e in petitorio (50); ed emergono perciò quei problemi,
segnalati particolarmente dalla scuola processualistica fiorentina, posti dalla
ricorribilità in Cassazione per soli motivi inerenti alla giurisdizione, contro le
sentenze del giudice amministrativo, anche laddove detto giudice è chiamato ad
applicare norme civilistiche (51).
Sul punto occorre particolarmente segnalare l'ingresso nel giudizio amministrativo
delle azioni possessorie precedentemente del tutto estranee alla competenza di
detto giudice ma ormai riconosciute da giurisprudenza pacifica della Cassazione.
12. Il principio di effettività trova poi nel nostro sistema, com'è noto,
un'importante manifestazione nella previsione (tradizionalmente presente ma
adesso rafforzata: artt. 112 ss. Cod. proc. amm.) di un'efficace tutela esecutiva
(c.d. giudizio di ottemperanza), per certi aspetti più efficace della tutela esecutiva
di cui al Codice di procedura civile; che consente al giudice amministrativo,
utilizzando lo strumento del commissario ad acta, di tradurre le sue statuizioni in
atti e fatti (l'adozione di atti amministrativi, il pagamento di somme di denaro,
etc.) che le pubbliche Amministrazioni devono porre in essere a soddisfazione di
pretese violate che il giudice accerti siccome fondate (52).
Le sentenze e gli altri provvedimenti a contenuto decisorio (segnatamente, le
ordinanze cautelari) del giudice amministrativo sono esecutivi. La norma è chiara:
devono essere eseguiti dalle pubbliche Amministrazioni e dalle altre parti. Se si
tratta di sentenze, l'esecutività è propria di esse, a prescindere dal passaggio in
giudicato (fatto questo, cui si connettono altri e più specifici effetti). Alcune
sentenze non necessitano di un'attività esecutiva perché direttamente producono
effetti (annullamento dell'atto impugnato, dichiarazione di nullità etc.). Ma in
molti casi, viceversa, un'attività esecutiva è necessaria perché il provvedimento
del giudice, nel suo contenuto accertativo o dispositivo, possa tradursi in fatti
satisfattivi delle pretese di parte che il giudice stesso ha ritenuto fondate, le quali
quindi devono essere soddisfatte.
Laddove l'esecuzione della sentenza si esprime nell'adozione di atti
amministrativi, si pone il problema della compatibilità di detti atti con il diritto
vigente al momento della loro adozione, che nel frattempo può risultare
modificato (rispetto a quello applicato nella sentenza). Sul punto, a fronte
dell'esigenza di far convivere due principi che appaiono contrapposti (il vincolo del
giudicato, da un lato, e la necessaria conformità degli atti amministrativi al diritto
vigente secondo il principio di legalità, dall'altro) la giurisprudenza, come è noto
ha assunto un orientamento, si direbbe “salomonico”, facendo punto di discrimine
tra effettività del giudicato e applicazione dello jus superveniens, il momento della
notifica della sentenza (Ad. plen. 8 gennaio 1986 n. 1; 21 febbraio 1994 n. 4).
Ciò si verifica sempre a fronte di sentenze di condanna (a un facere specifico o a
un pagamento di una somma di denaro, o laddove consentito, all'adozione di un
atto amministrativo); ma anche a fronte di sentenze di mero accertamento, cui
deve fare seguito un'attività da parte dell'Amministrazione, resa necessaria
appunto, dall'accertamento, ove questo abbia contenuto positivo (cioè, qualcosa
doveva essere fatto e non è stato fatto: come ad esempio a seguito del ricorso sul
silenzio laddove si è accertato che l'Amministrazione doveva provvedere e non ha
provveduto). E a fronte delle stesse sentenze di annullamento o dichiarative della
nullità, una volta demolito il provvedimento, l'Amministrazione in occasione del
nuovo esercizio del potere, se ce ne sono le condizioni, dovrà attenersi a quanto
stabilito dal giudice in punto di legittimità dell'attività svolta (il potere, si sa, è
una capacità e il suo esercizio è inesauribile).
In molti casi dunque, l'esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo (ma
anche di quelle del giudice ordinario laddove si tratta di controversie di diritto
pubblico), avviene attraverso esercizio di poteri amministrativi in un ambito
operativo stabilito sì dalla sentenza (spesso in termini non precisi), ma anche
condizionato dal contesto nel quale l'azione si situa che può essere diverso o più
articolato o anche innovativo in termini reali, rispetto a quello considerato dalla
sentenza. Da qui, l'estrema delicatezza, e anche la maggiore flessibilità, che le
sentenze del giudice amministrativo (meglio: le sentenze assunte nell'ambito di
controversie di diritto pubblico) presentano rispetto alle sentenze assunte in sede
ordinaria in esito a controversie di diritto comune.
Per l'esecuzione delle sentenze e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice
amministrativo e anche di altri giudici (e anche in esito a controversie di diritto
comune, ma eseguibili dalla pubblica amministrazione) lo strumento del ricorso
per ottemperanza è esperibile da coloro a cui favore la sentenza è stata
pronunziata, in caso di inadempimento parziale o totale dell'Amministrazione o
delle altre parti obbligate (artt. 112 ss., citt.), davanti allo stesso giudice che ha
emanato la sentenza che si tratta di eseguire (ma è il TAR se la sentenza di
appello ne ha confermato il contenuto dispositivo). Se si tratta di sentenza di altro
giudice, l'azione è proposta davanti al TAR nella cui circoscrizione ha sede il
giudice stesso; non è sottoposta a termini di decadenza, ma si prescrive in dieci
anni dal passaggio in giudicato della sentenza che si tratta di eseguire.
Il contenuto dell'azione può essere plurimo, e assai articolata e differenziata è la
tutela che si chiede al giudice dell'ottemperanza (che è giudice di merito, art.
134, Cod. proc. amm., e quindi usufruisce di più penetranti poteri decisori, art. 7,
6º co., Cod. proc. amm.). A fronte di atti emessi dall'Amministrazione a seguito
della sentenza, se risultano in violazione o elusivi della sentenza stessa (ma qui
solo se si tratta di sentenza passata in giudicato) sono dichiarati nulli; se in
violazione di sentenza esecutiva non passata in giudicato o di altro provvedimento
esecutivo, sono dichiarati inefficaci.
A fronte di inazione (l'Amministrazione o altra parte obbligata non esegue, resta
inerte) il giudice ordina che vengano adottati i necessari atti, anche se si tratta di
provvedimenti amministrativi (nei limiti in cui la sentenza del giudice, come s'è
detto, può ordinare l'adozione di tali atti: art. 34, 1º co., lett. c); art. 31. 3º co.,
Cod. proc. amm.), ovvero adottarli direttamente, mediante commissario ad acta
che opera come ausiliario del giudice ma allo stesso tempo come organo
straordinario dell'Amministrazione (art. 34, 1º co., lett. e); art. 114, 4º co., lett.
a) e d), Cod. proc. amm.).
La tutela esecutiva si è rafforzata nel Cod. proc. amm. anche per effetto
dell'introduzione di una misura coercitiva o astreinte a carico dell'Amministrazione
o di altro soggetto resistente nel giudizio di ottemperanza (53), attraverso la
fissazione di una somma di denaro “dovuta per ogni violazione o inosservanza
successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato”; misura da
applicarsi, secondo recentissima giurisprudenza del Consiglio di Stato (Sez. V, 20
dicembre 2011, n. 6688), sulla base dei parametri di cui all'art. 614-bis, cod.
proc. civ., “in ragione della gravità dell'inadempimento, del valore della
controversia, dell'entità del danno”, etc. Si tratta, come chiarito dall'autorevole
dottrina appena citata, della minaccia di una lesione dell'interesse dell'obbligato
(a prestazioni di fare o di non fare) “più grave di quello che gli cagiona
l'adempimento, allo scopo di influire sulla sua volontà onde indurlo ad
adempiere”.
Le questioni “relative all'ottemperanza” cioè quelle che si possono porre
all'indomani della sentenza del giudice dell'ot temperanza in ordine all'attività
esecutiva da questo disposta, anche per quanto riguarda gli atti stessi del
commissario ad acta nominato dal giudice, in caso di contestazione sono portate
alla cognizione dello stesso giudice dell'ottemperanza. E così, se si contesta la
legittimità degli atti adottati dal commissario le parti interessate possono proporre
reclamo davanti al giudice stesso secondo disciplina speciale. Mentre se si tratta
della contestazione di tali atti da parte di soggetti terzi (estranei cioè al giudizio
che ha dato luogo alla sentenza di cui si chiede l'ottemperanza) si applicano le
norme del rito ordinario (art. 114, 6º co., Cod. proc. amm.).
In sede di ottemperanza alle sentenze passate in giudicato, possono anche porsi
questioni relative alla condanna al pagamento di somme di denaro a titolo di
rivalutazione o interessi; e anche azione risarcitoria per “danni connessi
all'impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o
parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione” (art. 112, 3º co., Cod.
proc. amm., come sost. dall'art. 1, 1º co., d.lgs. n. 195/11). La norma originaria
prevedeva, com'è noto, l'esperibilità in sede di ottemperanza anche dell'azione
risarcitoria ordinaria.
13. La gran parte delle azioni previste a tutela delle situazioni protette nelle
controversie di diritto pubblico sono tipiche, cioè previste espressamente dalla
legge e sottoposte a discipline proprie (termini, modalità procedurali,
provvedimenti giurisdizionali conseguenti in caso di accoglimento). Tipica è
l'azione di annullamento, l'azione di nullità, la particolare azione (di accertamento
e di condanna) avverso il silenzio dell'Amministrazione, l'azione risarcitoria nelle
sue diverse forme. Ma sono ammesse anche azioni atipiche, quali richieste da
particolari esigenze di tutela. E tali sono le azioni di condanna diverse da quella
risarcitoria, che sono esperibili, come s'è visto, ai sensi dell'art. 30, 1º co.,
contestualmente all'azione di annullamento; il cui oggetto varia a seconda delle
diverse esigenze di tutela della situazione sostanziale (54).
E anche azioni di mero accertamento sono esperibili laddove si tratta di accertare
che le condizioni di esercizio di un determinato potere amministrativo (il cui
mancato esercizio viene a ledere situazioni protette di terzi) si fossero verificate
in concreto essendo l'Amministrazione rimasta inerte. Il modello è quello
collaudato del giudizio sul silenzio ma estende la sua portata nell'attuale
esperienza a tutti quei casi (che diventano sempre più numerosi: Dirett. servizi,
n. 2006/123/CE; d.lgs. n. 59/2010; art. 3, d.l. n. 138/2011 conv. l. n. 148/2011)
di attività private (potenzialmente lesive di diritti e interessi di terzi) che possono
liberamente esplicarsi previa dichiarazione all'Amministrazione competente (DIA o
SCIA: art. 19 l. n. 241/1990 e succ. modif.), solo a certe condizioni; la cui
mancanza in concreto deve essere accertata al fine dell'adozione di provvedimenti
amministrativi repressivi. L'inerzia dell'Amministrazione, in questi casi, a fronte
della diffida dell'interessato, può essere accertata dal giudice su domanda dello
stesso, e all'accertamento (che non ricorrano nella specie le condizioni per
l'esercizio dell'attività privata) può seguire condanna ad adottare il necessario
provvedimento repressivo.
Questa gamma di azioni, rese disponibili nel nuovo ordinamento a tutela delle
situazioni protette nei rapporti di diritto pubblico (qui delineate solo in alcuni
aspetti) rende la tutela amministrativa sostanzialmente conforme ai principi
costituzionali ed europei di pienezza ed effettività, tutela ormai tendenzialmente
equiparata alla tutela giurisdizionale nei rapporti di diritto comune.
Il carattere particolare dei rapporti di diritto pubblico, è dato dal fatto che si tratta
dell'esercizio del potere (e non dell'adempimento di obblighi), ciò che li accomuna
a quei rapporti privatistici nei quali si tratta dell'esercizio di poteri privati, come in
materia societaria, in materia di lavoro, etc. Tale carattere ovviamente dà luogo a
un particolare tipo di accertamento giurisdizionale che presenta in molti casi una
marcata “elasticità” (che si avvicina spesso ad un giudizio di merito nel quale si
tratta di valutare la pluralità degli interessi in gioco). Mentre, il fatto che si tratta
in questi casi dell'esercizio di poteri pubblici (“autoritativi”, ancora secondo la
Corte costituzionale) non è di per sé caratterizzante la specialità della tutela
giurisdizionale (come precedentemente si preferiva ritenere). Ché nel nuovo
ordinamento, ormai allineato sui principi costituzionali, di fronte alla giurisdizione,
soggetti e relative situazioni protette godono del medesimo trattamento, pubblici
o privati che siano, diritti o interessi legittimi, e il giudice (come ogni giudice) è
chiamato soltanto ad accertare la fondatezza delle relative pretese.
L'interesse pubblico cui il giudice amministrativo (come, appunto, ogni altro
giudice) è chiamato a servire, è quello di dare ragione a chi ha ragione e torto a
chi ha torto, a prescindere dal fatto che una delle parti (o più parti, o addirittura
tutte le parti, come avviene quando una pubblica Amministrazione ricorre in
giudizio contro un'altra pubblica Amministrazione) sia un soggetto pubblico, come
tale non portatore di interessi propri ma di interessi della collettività che
rappresenta; ciò che si traduce soltanto in alcune particolarità del trattamento
processuale della parte pubblica, ad esempio in ordine alla disponibilità delle
prove.
Tuttavia, non può ignorarsi che le controversie di diritto pubblico, come quelle
nelle quali si disputa intorno all'esercizio del potere amministrativo (che è
funzione di governo della collettività), presentano, appunto, delle particolarità che
giustificano la giurisdizione speciale.
La “rilevanza politica della lite” come quella che giustifica la presenza di una
giurisdizione amministrativa separata dalla giurisdizione comune, fu posta in
risalto da Carnelutti (55). Invero, fermo restando il carattere soggettivistico della
giustizia amministrativa, ormai acquisito e non può in discussione (ma dubbi e
criticità sul punto, furono espressi da Nigro), la giustificazione della sua esistenza,
che esclude la cognizione delle controversie di diritto pubblico (salve quelle sopra
indicate) dalla giurisdizione comune, sta in ciò, che attraverso il giudizio su dette
controversie, si stabiliscono anche le regole dell'azione amministrativa (e proprio
nel nuovo sistema caratterizzato dalla pluralità delle azioni, questo carattere si
accentua); e in ciò il giudice non può prescindere dalla rilevanza degli interessi in
gioco, che non sono solo (come viceversa avviene nelle controversie di diritto
comune) gli interessi delle parti dello specifico rapporto di cui si controverte. Basti
pensare, stando alla (parziale) rassegna delle azioni che s'è percorsa, alla
rilevanza dell'effetto conformativo della sentenza di annullamento, alla
valutazione del carattere “vincolato” (o a discrezionalità esaurita) del
procedimento al fine della condanna dell'Amministrazione all'adozione di un
determinato provvedimento, alla cognizione nel merito degli interessi coinvolti
nell'ambito dell'esecuzione della sentenza, alla questione del contemperamento
tra forza del giudicato e jus superveniens. Si tratta (a tacere di altri, come in
ordine alla giurisdizione sui contratti, non trattata in queste pagine, nella quale il
giudice entra nel merito dell'assetto negoziale) di una serie di compiti affidati al
giudice amministrativo in molteplici manifestazioni della propria giurisdizione che
non troverebbe cittadinanza nella giurisdizione comune.
Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin:
10px 10px;">
Note:
(*) Questo scritto, che dedico a Fabio Merusi con ammirazione ed amicizia,
nasce da una serie di incontri di studio seguiti all'adozione del nuovo Codice del
processo amministrativo (Cod. proc. amm., d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, integr.
d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195), tra i quali (avendo compito di relatore),
ricordo: Lecce9-10 ottobre 2009, “Il codice del processo amministrativo” (i cui atti
sono stati pubblicati in Verso il codice del processo amministrativo, a cura di G.
Pellegrino, Roma, 2010); Pescara, 5 novembre 2010, “Il nuovo processo
amministrativo”; Roma, Università La Sapienza 28 ottobre 2010, “Il nuovo codice
del processo amministrativo”; Pisa, 10 dicembre 2010, “La riforma del processo
amministrativo: la fine dell'ingiustizia amministrativa?”, in onore del prof. Fabio
Merusi; Università de L'Aquila, 30 novembre 2010, “Il nuovo codice del processo
amministrativo”; Torino, 13 maggio 2011, “Il codice del processo amministrativo:
prime riflessioni ad otto mesi dall'entrata in vigore nella prospettiva dei
correttivi”; Università di Teramo, 21 ottobre 2011, “Giustizia amministrativa:
garanzie costituzionali e principi del diritto dell'Unione Europea”; nonché dal
lavoro svolto nell'ambito della Commissione istituita con Decreto del Presidente
del Consiglio di Stato del 23 luglio 2009, in base alla delega di cui all'art. 44 della
legge 18 giugno 2009, n. 69, per la redazione dello stesso Codice.Sui principi
costituzionali, la riflessione si è fatta più intensa a seguito della sentenza della
Corte costituzionale n. 204/04, alla quale avevo dedicato il saggio Giurisdizione
amministrativa e Costituzione, in Giur. cost., 2004, qui in parte ripreso.
(1) Sulla giustizia amministrativa nella Costituzione, G. Berti, Commento art. 113,
in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1987; V.
Bachelet, La giustizia amministrativa nella Costituzione italiana, Milano, 1966; L.
Elia, Appunti sul riparto tra le due giurisdizioni nella più recente giurisprudenza
costituzionale (1980-1985), in Studi in memoria di Vittorio Bachelet, II, Milano,
1987, 165; F. Sorrentino, Profili costituzionali della giurisdizione amministrativa,
in questa Rivista, 1990, 68; A. Pajno, Le norme costituzionali sulla giustizia
amministrativa, in questa Rivista, 1994, 419.Sugli altri ordinamenti europei, un
quadro di insieme in D. Sorace (a cura di), Discipline processuali differenziate nei
diritti amministrativi europei, Firenze, 2009. Sulla giurisprudenza del Conseil
Constitutionnel francese, e più in generale sulla “costituzionalizzazione” del
giudice amministrativo in Francia, P. Delvolvé, La constitutionnalisation du droit
administratif, in Cinquantième anniversaire de la Constitution française, Dallotz,
2008; T. Larzul, Droit constitutionnel de l'administration, in Juris classeur, 1997,
fasc. 1452.
(2) Sulla giustizia amministrativa nel rapporto tra centro e periferia, in un sistema
che va verso il federalismo, V. Cerulli Irelli, Giustizia amministrativa e
federalismo, in La gestione del nuovo processo amministrativo: adeguamenti
organizzativi e riforme strutturali. Atti Varenna, Milano, 2011.
(3) Sul giusto processo, di recente, con specifico riferimento al processo
amministrativo, F.G. Scoca, I principi del giusto processo, in Giustizia
amministrativa, a cura di Id., 2011, 165 ss.; F. Merusi, Il codice del giusto
processo amministrativo, in questa Rivista, 2011, 1 ss.
(4) F. Benvenuti, Giustizia amministrativa, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970; M.S.
Giannini-A. Piras, Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei
confronti della pubblica amministrazione, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970; A.
Romano, La giurisdizione amministrativa e limiti alla giurisdizione ordinaria,
Milano, 1975; Id., La giurisdizione esclusiva dal 1865 al 1948, in questa Rivista,
2004, 417.
(5) G. Mantellini, I conflitti di attribuzione in Italia dopo la legge del 31 marzo
1877, Firenze, 1878; A. Salandra, La giustizia amministrativa nei governi liberi,
Torino, 1904; F. Cammeo, Commentario alle leggi sulla giustizia amministrativa,
Milano, 1911; V. E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Primo trattato
completo di diritto amministrativo italiano, III, pt. II, Milano, 1923; S. Spaventa,
La giustizia nell'amministrazione, Discorso pronunciato nell'Associazione
costituzionale di Bergamo il 7 maggio 1880, in La giustizia nell'amministrazione,
Torino, 1949.Di recente, Le riforme crispine, II, Giustizia amministrativa, Milano,
1990, e ivi i saggi La legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato e), nella
giurisprudenza del giudice ordinario, a cura di P. Gotti; Le questioni di
giurisdizione nella giurisprudenza della Cassazione di Roma, a cura di V. Cerulli
Irelli.
(6) M.S. Giannini-A. Piras, Giurisdizione amministrativa, cit.; V. Cerulli Irelli, La
riforma della giustizia amministrativa: considerazioni introduttive, in Verso il
nuovo processo amministrativo. Commento alla legge 21 luglio 2000 n. 205, a
cura di Id., Torino, 2000, 3.
(7) Dagli Amici fiorentini, viene icasticamente affermato che il “punto logico di
partenza” (da intendere: il fondamento della nostra disciplina), che Ranelletti
identificava nello Stato (e non nella libertà!) si ribalta nel primato della libertà
sullo Stato; cioè, appunto, nella pari dignità delle situazioni protette dalla legge,
pubbliche o private che siano, come quelle che allo stesso modo accedono alla
tutela giurisdizionale. Cfr. W. Gasparri, “Il punto logico di partenza”, Milano,
2004. Il richiamo è a O. Ranelletti, Concetto e contenuto giuridico della libertà
(1899), in Scritti giuridici, I, Napoli, 1992, 207.
(8) I lavori dell'Assemblea Costituente sono pubblicati integralmente in La
Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell'Assemblea costituente,
Camera dei deputati, Roma, 1970, in otto volumi. Una utile sintesi dei lavori in
nota agli articoli della Costituzione, in La Costituzione della Repubblica italiana
illustrata con i lavori preparatori, a cura di V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino,
Milano, 1976.
(9) G. Verde, Ma che cos'è questa giustizia amministrativa?, in questa Rivista,
1993, 587 ss.
(10) Sulla dimensione quantitativa, da ultimo, cfr. C. Talice-S. Talice, Analisi
dell'attività della giustizia amministrativa nel 2009, in Giurisdiz. amm., 2010,
425. Per una descrittiva del funzionamento del sistema, cfr., M. Nigro, È ancora
attuale una giustizia amministrativa?, in Foro it., 1983, V, 249 ss.; F. Merusi-G.
Sanviti, L'“ingiustizia” amministrativa in Italia, Bologna, 1986; G. Verde, Ma cos'è
questa giustizia amministrativa?, cit.
(11) M.S. Giannini svelò, attraverso alcuni notissimi studi, l'effettivo criterio di
riparto, al di là di quello enunciato circa la distinzione tra diritti e interessi
legittimi: Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. dir. proc., 1963,
1964; ma anche M.S. Giannini-A. Piras, Giurisdizione amministrativa, cit.; A.
Romano, La giurisdizione amministrativa, cit.
(12) Sulla giurisdizione ordinaria nelle controversie avverso atti amministrativi
nulli lesivi di diritti soggettivi: Cass., Sez. un., 4 novembre 2002, n. 15382 in
tema di fermo amministrativo adottato da una provincia; Cass., Sez. un., 29
gennaio 2001, n. 36, in tema di espropriazione di un fondo non incluso tra le aree
destinate all'espropriazione; Cass., Sez. un., 1 giugno 2000, n. 384, in tema di
prestazioni pecuniarie imposte dall'ENEL; Cass., Sez. un., 1 luglio 2002, n. 9557
in tema di servitù esercitata su un passaggio a livello ferroviario.Nelle
controversie in ordine ad atti emanati nell'esercizio di poteri vincolati, la
giurisprudenza come è noto, è assai perplessa e spesso oscillante, anche perché il
criterio prevalentemente seguito al fine di stabilire il riparto della giurisdizione,
ruota intorno all'interesse perseguito dalla norma attributiva del potere, il quale
anche se vincolato, secondo questa giurisprudenza, può dar luogo ad effetto
degradatorio del diritto soggettivo, laddove l'interesse seguito dalla norma,
nell'interpretazione del giudice sia quello della tutela dell'interesse generale e non
dell'interesse particolare del soggetto che pretende la prestazione. Sul punto in
giurisprudenza, tra le tante: Cons. Stato, Sez. VI, 16 marzo 2009, n. 1550,
secondo cui “al carattere vincolato dell'attività svolta dall'amministrazione non
consegue la consistenza di diritto soggettivo delle posizioni giuridiche coinvolte,
laddove il vincolo nell'esercizio dell'attività amministrativa sia comunque posto a
presidio di interessi pubblicistici”. In dottrina per tutti, A. Orsi Battaglini, Attività
vincolata e situazioni soggettive, in Riv. trim. dir. proc. civ, 1988, 3; F. Ledda,
Potere, tecnica e sindacato giudiziario sull'amministrazione pubblica, in questa
Rivista, 1983; F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla formulazione alla
legge del procedimento, in Dir. amm., 1995.Sull'attività materiale della pubblica
amministrazione, segnatamente, laddove si tratti di occupazioni abusive, la
giurisprudenza è ormai attestata, come è noto (v. anche infra, par. 11)
sull'ambiguo criterio del collegamento o meno del fatto abusivo ad un
preesistente potere amministrativo in capo al soggetto agente, la cui sussistenza
anche se non si è tradotta nell'esercizio del potere, seguendo le formalità di
legge, ma semplicemente nell'esecuzione in fatto, radicherebbe comunque la
competenza del giudice amministrativo: Corte cost. n. 191/2006, in Foro it.,
2006, I, 1625, con nota di A. Travi, Principî costituzionali sulla giurisdizione
esclusiva ed occupazioni senza titolo dell'amministrazione; Cass., Sez. un., 29
agosto 2008, n. 21929 in tema di occupazione usurpativa per mancanza della
dichiarazione di pubblica utilità; Cass., Sez. un., 9 marzo 2009, n. 5625, secondo
cui non sussiste la giurisdizione del giudice ordinario laddove si verta in una
controversia risarcitoria conseguente all'annullamento ex tunc della dichiarazione
di p.u. atteso che, in questo caso, non potrebbe ravvisarsi la carenza di potere
dell'autorità procedente; nonché nello stesso senso Cass., Sez. un., 19 dicembre
2007, n. 26762 e Cass., Sez. un., 19 aprile 2007, n. 9324, secondo cui
“l'ingerenza di una pubblica amministrazione nella proprietà altrui, in assenza di
una ragione di pubblica utilità legalmente dichiarata, integra un comportamento
del tutto avulso dall'esercizio del potere di occupazione di un'area ai fini
dell'espropriazione, immediatamente lesivo del diritto soggettivo e quantificabile
come fatto illecito generatore di un danno la cui determinazione è dovuta al
giudice ordinario”.Sulle controversie inerenti ai diritti soggettivi cd. indegradabili:
Corte cost. n. 140/2007, in Giur. cost., 2007, 1277; Cass., Sez. un., 2 novembre
1979, in Foro it., 1979, I, 2548; Cass. 8 giugno 1981, n. 3687, in Notiz. giurispr.
lav., 1981, 440; Cass. 27 maggio 1983, n. 3675, in Foro it., 1984, I, 1541 con
nota di M. Buoncristiano; Cass. 19 giugno 1982, n. 3773, in Foro it., 1983, I, 113,
con nota di M. Buoncristiano; Cass. 29 giugno 1981, n. 4250, in Giust. civ., 1982,
I, 181. Ancora, la Cassazione ha affermato la giurisdizione del giudice ordinario
sulle controversie in tema di rilascio di permesso di soggiorno per motivi
umanitari: Cass., Sez. un., 19 maggio 2009, n. 11535. In dottrina v. D. Piccione,
Libertà costituzionali e giudice amministrativo, Napoli, 2008.
(13) Si segnalano, tra queste categorie di controversie, quelle relative ai
provvedimenti di espulsione degli stranieri (art. 13 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286),
ai provvedimenti del Garante in materia dei dati personali (art. 152 d.lgs. 30
giugno 2003, n. 196), alle domande di ammissione al servizio civile (art. 5 l. 8
luglio 1998, n. 230); e soprattutto quelle in materia di provvedimenti relativi alla
gestione dei rapporti di pubblico impiego ivi compresi i conferimenti di incarichi
dirigenziali (art. 63 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165).
(14) Si vedano in particolare le storiche sentenze della Corte, e in particolare
Corte cost., n. 55/66, in Foro it., 1966, I, 986; n. 30/1967, in Foro it., 1967, I,
681; n. 33/68, in Foro it., 1968, I, 1099; n. 49/1968, in Foro it. 1968, I, 1383, in
materia di consigli di prefettura; nonché n. 177/1973, in Foro it., 1974, I, 1, sulla
nomina governativa dei membri del Consiglio di Stato; n. 32/70, ivi, 1970, I,
1026; n. 1/1978, ivi, 1978, I, 282; sull'annullamento degli atti amministrativi; n.
284/74, ivi, 1975, I, 263; n. 8/82, ivi, 1982, I, 329; n. 63/82, ivi, I, 1216; n.
190/85, ivi, 1985, I, 1881, in materia di tutela cautelare; n. 146/87, ivi, 1987,
1349, in materia di mezzi istruttori.
(15) Cfr. Corte cost., n. 190/85, cit., in tema di tutela cautelare; n. 146/87, cit.,
in tema di mezzi istruttori.Tra le categorie di controversie, via via attribuite alla
giurisdizione esclusiva fino a tempi recenti, v. part., quelle in tema di gestione dei
rifiuti (art. 4 d.l. 23 maggio 2008, n. 90, conv. in l. 14 luglio 2008, n. 123), di
pubblicità ingannevole (art. 8 d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145), di controversie circa
l'interpretazione dei contratti aventi ad oggetto titoli di debito pubblico (art. 61
d.p.r. 14 febbraio 1963, n. 1343, come sostituito dall'art. 7 d.p.r. 15 marzo 1984,
n. 74), di accordi sostitutivi o integrativi di provvedimento (art. 11 l. 7 agosto
1990, n. 241), di decisioni dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato
(art. 33 l. 10 novembre 1990, n. 287; art. 7 d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 come
sostituito dal d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 67); di contratti pubblici (art. 6 l. 24
dicembre 1993, n. 537); di decisioni dell'Autorità per la vigilanza sui contratti
pubblici (art. 4 l. 11 febbraio 1994, n. 109 come modificato dall'art. 9 l. 18
novembre 1998, n. 415); di decisione dell'Autorità garante delle comunicazioni e
Autorità garante dell'energia e del gas (art. 2 l. 14 novembre 1995, n. 481; art. 1
l. 31 luglio 1997, n. 249). Da ultimo, il Cod. proc. amm., all'art. 133, elenca le
categorie di controversie già attribuite alla giurisdizione esclusiva a cui se ne
aggiungono alcune (tra queste, quelle in materia di SCIA e silenzio-assenso).
(16) Sui tentativi di modifica degli artt. 103 e 113 Cost., nella XIV legislatura cfr.
la proposta di legge costituzionale A. C. n. 7465, Cerulli Irelli (“La giurisdizione
amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione
nelle materie indicate dalla legge. È riservata in ogni caso alla giurisdizione
amministrativa la cognizione delle controversie riguardante l'esercizio di poteri
amministrativi”); nonché il progetto di revisione della seconda parte della
Costituzione (Commissione Bicamerale D'Alema, A.C. 3931-A: “La giurisdizione
amministrativa è esercitata dai giudici dei Tribunali regionali di giustizia
amministrativa e della Corte di giustizia amministrativa sulla base di materie
omogenee indicate dalla legge riguardanti l'esercizio di pubblici poteri”, art. 119).
(17) O. Ranelletti, La giurisdizione competente per le controversie contro
pubbliche amministrazioni aventi per oggetto diritti patrimoniali derivanti dal
rapporto di impiego, nota a Corte App. Bologna, 13 maggio 1927, in Foro it.,
1928, I, 94; negli stessi termini, Id., Le guarentigie della giustizia nella pubblica
amministrazione, Milano, 1934, 446 ss. Su tale svolta giurisprudenziale cfr. anche
G. Fagiolari, L'atto amministrativo nella giustizia amministrativa, in Scritti giuridici
in onore di Santi Romano, II, Padova, 1940, 287 ss., U. Forti, nota a Cons. Stato,
Ad. plen., 18 dicembre 1940, in Foro it., 1941, III, 194; Id., nota a Cass., Sez.
un., 25 luglio 1938, n. 2764, in Foro it., 1939, I, 10.
(18) Per tutti A.M. Sandulli, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato e ai giudici
sottordinati, Napoli, 1963, che evidenzia con particolare precisione i vari casi in
cui sono ammesse, davanti al giudice amministrativo, azioni che “possono essere
chiamate di accertamento, anche se talora culminano in pronunzie che non sono
meramente dichiarative”; azioni che risalgono all'antica giurisdizione piena del
Consiglio di Stato, anteriore alla riforma del 1865. In tali casi, nota l'illustre
Autore, “il giudizio non ha di mira la caducazione di un atto di autorità, bensì la
risoluzione di una controversia relativa a rapporti giuridici paritari tra
l'Amministrazione e altri soggetti o tra più Amministrazioni: rapporti, cioè, nei
quali nessuna delle parti si presenta rispetto alle altre in veste autoritaria” (ivi,
144).
(19) M.S. Giannini, Gli atti amministrativi di adempimento e la giurisdizione
esclusiva, nota a Cons. Stato, Sez. IV, 21 febbraio 1945, n. 9, in Giur. compl.
cass. civ., 1945, I, 389.La casistica in tale ambito annovera, fra le altre, ipotesi di
azioni del privato per la ricostruzione della carriera (Cons. Stato, Sez. V, 11 luglio
2002, n. 3892; Sez. VI, 11 dicembre 1999, n. 2071); per il riconoscimento della
causa di servizio o dell'equo indennizzo (Cons. Stato, Sez. V, 23 maggio 2003, n.
2783); per il riconoscimento della pretesa ad una maggiore retribuzione in
ragione dello svolgimento di mansioni superiori (Cons. Stato, Sez. VI, 15 gennaio
2002, n. 188); per la ripetizione di somme indebitamente corrisposte
dall'amministrazione al dipendente (Tar Puglia, Sez. I, 31 maggio 2001, n. 2051).
(20) In primo luogo, quelle concernenti i contratti di prestito pubblico, ai sensi
dell'art. 29 n. 4 del T.U. Cons. St. (v. ora il d.P.R. 30 dicembre 2003, n. 398),
sulle quali, Tar Marche, 29 dicembre 2003, n. 1917, in Trib. amm. reg., 2004, I,
708, secondo cui “ai sensi dell'art. 29, 1º comma, n. 4 t.u. 26 giugno 1924 n.
1054 sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le
controversie in materia di debito pubblico, incluse quelle tra lo Stato e i suoi
creditori riguardanti l'interpretazione dei contratti di prestito pubblico, delle leggi
relative a tali prestiti e quelle aventi ad oggetto il diritto al rimborso di titoli al
portatore”; Tar Lazio, Sez. I, 29 agosto 1989, n. 1132, in tema di rimborsabilità
da parte dell'amministrazione di CCT e BOT rubati al creditore. Cass., Sez. un., 7
maggio 2002, n. 6492 in tema di prescrizione del diritto al rimborso dei titoli del
debito pubblico; Cass., Sez. un., 12 dicembre 1994, n. 10594, di pretesa di
pagamento delle somme di CCT accidentalmente distrutti, smarriti o sottratti. Ed
ancora, le controversie concernenti le spese per il ricovero degli inabili al lavoro,
di cui all'art. 29 n. 6 del T.U. Cons. St. (v. in particolare l'art. 80 della l. 17 luglio
1890, n. 6972 come modificato dall'art. 36, r.d. 20 dicembre 1923, n. 2841 e
dall'art. 3 l. 26 aprile 1954, n. 251): a tal proposito, per il rimborso di spese di
spedalità, soccorso ed assistenza anche per le cause promosse dall'ente che ha
sostenuto le spese contro l'ente tenuto a sopportarne gli oneri (Tar Lombardia,
Brescia, 2 agosto 2002, n. 1093, Cons. Stato, Sez. V, 26 settembre 1995, n.
1359). Quelle concernenti le spese per gli alienati (v. art. 7 1º co., l. 14 febbraio
1904, n. 36): in questa materia si individuano le controversie tra enti pubblici in
materia di spese di spedalità manicomiale (ex multis: Tar Toscana, Sez. II, 23
agosto 2001, n. 1333, Tar Lombardia, Brescia, 25 marzo 1998, n. 244, 25
gennaio 1995, n. 50, 20 luglio 1993, n. 629; Cons. Stato, Sez. V, 25 febbraio
1997, n. 187; Tar Emilia Romagna, Parma, 19 marzo 1996, n. 83).
(21) Dopo la sentenza della Corte, l'attribuzione al giudice amministrativo, in via
generale, per tutte le materie di propria competenza, della cognizione dell'azione
risarcitoria a tutela delle situazioni protette, è stata ripetutamente confermata
dalla Cassazione (la quale, abbandonando la sua linea interpretativa di cui alla
citata sentenza n. 500/99, si è allineata alla giurisprudenza della Corte
costituzionale, salvo il ripensamento subito superato di cui all'ord. delle Sez. un.,
23 gennaio 2006, n. 1207). E ne ha rinforzato la portata mediante la ben nota
affermazione circa l'autonomia di detta azione, ciò che ne consente l'esercizio, a
fronte di atti amministrativi produttivi di danni ingiusti, anche in assenza della
previa azione di annullamento (per tutte, Cass., Sez. un., 23 dicembre 2008, n.
30254). Sul punto, la nota disputa giurisprudenziale con il Consiglio di Stato, che
riteneva pregiudiziale l'esercizio di detta azione rispetto all'azione risarcitoria
(Cons. Stato, Ad. plen., n. 9/07, e n. 12/07; Cons. Stato, sez. VI, n. 587/09), è
stata successivamente superata dal legislatore con il Cod. proc. amm., di cui
subito appresso.È da ritenere definitivamente superata la configurazione (pur
autorevolmente sostenuta: C. Varrone, Giurisdizione amministrativa e tutela
risarcitoria, in Verso il nuovo processo amministrativo, a cura di V. Cerulli Irelli,
cit., 33; successivamente in termini diversi, Id., Stato sociale e giurisdizione sui
diritti del giudice amministrativo, Napoli, 2001) della tutela risarcitoria nei
confronti delle pubbliche amministrazioni, come una materia di giurisdizione
esclusiva anche ai sensi dell'art. 103 Cost.
(22) M. Fromont, La place de la justice administrative française in Europe, in
Droit administratif, Julliet, 2008.
(23) Sulla legittimità, dal punto di vista della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo, della coesistenza, nell'ambito di un organo giurisdizionale, anche di
funzioni consultive, ma solo a certe condizioni, Corte EDU, 6 maggio 2003 Kleyn,
in Foro it., 2004, IV, 565 ss.; 9 novembre 2006 Sacilor, in Giorn. dir. amm.,
2007, 307, sentenza quest'ultima con oggetto il sistema francese di giustizia
amministrativa del tutto simile al nostro.
(24) La Corte costituzionale, con sentenze n. 1/78 e n. 177/73, ha affrontato il
problema della legittimità della composizione del Consiglio di Stato e l'ha risolto
nel senso della compatibilità del sistema con i principi costituzionali, affermando
che le norme relative alla nomina governativa “danno vita ad una disciplina
legislativa che, pur conferendo al Governo un ampio potere discrezionale,
garantisce, in materia, il rispetto dell'esigenza dell'idoneità del giudice, nonché di
quella dell'indipendenza del Consiglio di Stato e dei suoi componenti di fronte al
Governo (e almeno per quanto possa derivare dall'esercizio del potere di
nomina)”.Posizione critica in dottrina: part., A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello
Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”, Milano, 2005, 82; G.
Silvestri, Giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione, in Scritti in
onore di M.S. Giannini, III, Milano, 1988, 734; R. Garofoli, Unicità della
giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo
sviluppo del sistema giurisdizionale, in questa Rivista, 1998, 162.
(25) A. Proto Pisani, Verso il superamento della giurisdizione amministrativa?, in
Foro it., 2001, V, 21; Id., Appunti sul giudice delle controversie fra privati e
pubblica amministrazione, ivi, 2009; V.A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato
di diritto, cit.; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al giudizio di esecuzione,
Milano, 2003; C. Cudia, Funzione amministrativa e soggettività della tutela,
Milano, 2008; C. Marzuoli, Diritti e interessi legittimi: due categorie in cerca di
legalità, in Quest. giust., 2009.
(26) M. Sanino, Funzione pretoria della giurisprudenza amministrativa: la nuova
collocazione della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, in Giurisd. amm.,
2/2011; E. Follieri, L'introduzione del principio dello stare decisis nell'ordinamento
italiano, con particolare riferimento alle sentenze dell'Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, in corso di pubblicazione su questa Rivista.
(27) V. da ultimo, Corte giust., 18 marzo 2010, C-317/08, C-320/08; 14 febbraio
2008, C-450/2006; Corte EDU, 6 aprile 2010, in Riv. dir. internaz., 2010, 842; 31
marzo 2009, in Dir. pubbl. comp. eur., 2009, 1111 con nota M. De Vito, La corte
europea dei diritti dell'uomo si pronuncia ancora sul malfunzionamento della
legge « Pinto » ma ne ribadisce l'effettività ex art. 13 Cedu; V. Cerulli Irelli,
Trasformazioni del sistema di tutela giurisdizionale nelle controversie di diritto
pubblico per effetto della giurisprudenza europea, in Riv. it. dir. pubbl. com.,
2008.
(28) Già partita con forte impegno: v. part. Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo
2011, n. 3, sulla pluralità delle azioni, e spec. sull'azione risarcitoria; 7 aprile
2011, n. 4, sulla situazione sostanziale come presupposto della legittimazione al
ricorso; 29 luglio 2011, n. 15, sulla pluralità delle azioni, spec. sull'azione di
accertamento; Cons. Stato, Sez. VI, 10 maggio 2011, n. 2755; Tar Lombardia,
Milano, Sez. III, 8 giugno 2011, n. 1428, sull'azione di adempimento, ecc. Sul
punto si vedano i primi commenti di M.A. Sandulli, Brevi considerazioni a prima
lettura della Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, in www.giustamm.it; C.E. Gallo,
L'articolo 6 della manovra economica d'estate e l'adunanza plenaria n. 15 del
2011: un contrasto soltanto apparente, ivi; N. Paolantonio, L'interesse legittimo
come (nuovo) diritto soggettivo (in margine a Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo
2011, n. 3), ivi.
(29) Sull'autodichia, F.G. Scoca, Autodichia e Stato di diritto, in questa Rivista,
2011. Sui principi del giusto processo come quelli che ormai reggono anche il
processo amministrativo, v. oltre agli autori citati nella nota 3), G. Spadea, Il
giusto processo amministrativo secondo l'art. 6 della CEDU e con cenni al caso
italiano, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2000; C. Calabrò, Il giusto processo e la
scommessa del nuovo diritto amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it.
(30) Sul punto si veda M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento
nel processo amministrativo, in questa Rivista, 2005, 557 ss. Dopo l'introduzione
del Codice, sulla pluralità delle azioni, A. Pajno, Il codice del processo
amministrativo ed il superamento del sistema della giustizia amministrativa. Una
introduzione al libro I, in questa Rivista, 2011; R. Chieppa, Il codice del processo
amministrativo alla ricerca dell'effettività della tutela, in www.giustiziaamministrativa.it.
(31) Sull'azione di nullità e sui problemi relativi alla previsione del termine
decadenziale si vedano B. Sassani, Riflessioni sull'azione di nullità, in questa
Rivista, 2011, 269 ss., spec. 272 ss.; F. Luciani, Processo amministrativo e
disciplina delle azioni, in questa Rivista, 2011; A. Carbone, Dubbi e incertezze
sull'art. 31 del Codice del processo amministrativo, in Foro amm.-Tar, 2011, 1099
ss., spec. 1117 nota 66.
(32) A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2006, 169 ss.
(33) A. Proto Pisani, op. ult. cit., p. 177 ss.
(34) Così Cons. Stato, Ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3, ove si precisa che il codice
del processo amministrativo ha disciplinato “nel rito in materia di silenzioinadempimento, l'azione di condanna pubblicistica (cd. azione di esatto
adempimento) all'adozione del provvedimento, anche previo accertamento, nei
casi consentiti, della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi
da 1 a 3)”. Sulla natura di condanna dell'azione avverso il silenzio si vedano le
considerazioni di A. Carbone, Dubbi e incertezze, cit., 1104.
(35) In tal senso v. anche Tar Lombardia, Milano, Sez. III, 8 giugno 2011, n.
1428, secondo cui è “ben possibile, però, che anche una attività “in limine litis”
connotata da discrezionalità possa, a seguito della progressiva concentrazione in
giudizio delle questioni rilevanti (ad esempio, mediante il combinato operare di
ordinanza propulsiva e motivi aggiunti), risultare, all'esito dello scrutinio del
Giudice, oramai “segnata” nel suo sviluppo”. Su tali tematiche, A. Carbone, Fine
delle perplessità sull'azione di adempimento, in Foro amm.-Tar, 2011, 1499 ss.,
secondo cui “si introduce così nel nostro ordinamento il concetto, caro alla
giurisprudenza tedesca, del Ermessensreduzierung auf Null, cioè l'azzeramento
della discrezionalità per assenza di alternative nel caso concreto (cd.
'discrezionalità esaurita')”
(36) Cons. Stato, Ad. plen., n. 3/2011 cit., secondo cui “il legislatore, sia pure in
maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un
provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di
profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l'azione di condanna volta ad
ottenere l'adozione dell'atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal
combinato disposto dell'art. 30, comma 1, che fa riferimento all'azione di
condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull'atipicità di detta
azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e
dell'art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve
prescrivere l'adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta
in giudizio”. Analogamente Tar Lombardia, Milano, Sez. III, n. 1428/2011 cit.
(37) Sull'azione di adempimento, M. Clarich, L'azione di adempimento nel sistema
di giustizia amministrativa in Germania: linee ricostruttive e orientamenti
giurisprudenziali, in questa Rivista, 1985, 66 ss.; Id., Tipicità delle azioni e azione
di adempimento nel processo amministrativo, cit., 557 ss.. Dopo l'introduzione
del Codice, M. Clarich, Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del
Codice e apertura a nuove tutele, in Giorn. dir. amm., 2010; E. Follieri, Le azioni
di annullamento e di adempimento nel codice del processo amministrativo, in
www.giustamm.it; A. Carbone, Fine delle perplessità sull'azione di adempimento,
cit., 1499 ss. Sui problemi applicativi, A. Carbone, Azione di adempimento,
disponibilità della situazione giuridica e onere della prova. Intervento alla X
edizione delle giornate di studi sulla giustizia amministrativa dedicate a E.
Cannada Bartoli, in Foro amm.-Tar, 2011, 2959 ss.
(38) In questo senso anche E. Follieri, I poteri del giudice amministrativo nel
decreto legislativo 20 marzo 2010 n. 53 e negli artt. 120-124 del codice del
processo amministrativo, in questa Rivista, 2010, 1067 ss.
(39) Sull'azione risarcitoria nel processo amministrativo, vedi, tra gli altri, R.
Chieppa, Art. 30, Azione di condanna, in Il processo amministrativo, a cura di A.
Quaranta e V. Lopilato, Milano, 2011; S. Varone, Azioni di cognizione, in Codice
del processo amministrativo, a cura di M. Sanino, Torino, 2011; R. Giovagnoli, Il
risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, Milano, 2010; R. Caranta,
Attività amministrativa ed illecito aquiliano, Milano, 2001; G.P.Cirillo, Il danno da
illegittimità dell'azione amministrativa e il giudizio risarcitorio, Padova 2001.
(40) Sull'elemento soggettivo, S. Cimini, La colpa nella responsabilità civile delle
amministrazioni pubbliche, Torino 2008. Da ultimo, la Corte di giustizia, 30
settembre 2010, C-314/09, in www.giustamm.it, ha affermato che il diritto
dell'Unione europea osta ad una normativa nazionale la quale subordini il diritto
ad ottenere il risarcimento al carattere colpevole della violazione della P.A.,
ancorché tale carattere sia accertato in via presuntiva. V. ivi i commenti di S.
Vinti, Violazione del diritto all'aggiudicazione: una responsabilità civile del “terzo
tipo”? e di S. Cimini, La colpa è ancora un elemento essenziale della
responsabilità da attività provvedimentale della p.A.?
(41) Tar Sicilia, Palermo, Sez. I, ord. 7 settembre 2011, n. 1628 ha infatti
sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 24, 103 e
113 della Costituzione, dell'art. 30, comma 5, del Cod. proc. amm. nella parte in
cui prevede, per la proposizione di una azione risarcitoria nei confronti della P.A.,
un termine decadenziale di centoventi giorni dall'avvenuta formazione del
giudicato di annullamento.
(42) Giurisprudenza costante: tra le altre Cass. 29 luglio 1999, n. 8231; 21 aprile
1993, n. 4672, in Nuova giur. civ., 1994, I, 233. Più di recente, Cass., Sez. lav.,
10 dicembre 2007, n. 25743, in Nuova giur. civ., 2008, I, 908; 11 maggio 2005,
n. 9898.
(43) Cons. Stato, Ad. plen., n. 3/11 cit., secondo cui è necessario sostituire “al
tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sindacabilità delle condotte
processuali ai sensi del capoverso dell'art. 1227 c.c., un più duttile criterio
interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza,
buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la
valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con
riguardo alle specificità del caso concreto”.
(44) Cass., 13 ottobre 2011, n. 21170, in www.leggiditaliaprofessionale.it; 16
settembre 2011, n. 18980, ivi, secondo cui “questa Suprema Corte, in tema di
risarcimento del danno prodotto dall'illegittimo esercizio della funzione pubblica,
ha, inoltre, più volte affermato che, se l'interesse è pretensivo, al fine di ritenere
la sussistenza o meno del diritto al risarcimento del danno, occorre valutare, a
mezzo di un giudizio prognostico, da condurre in base alla normativa applicabile,
se colui che ha richiesto il risarcimento fosse titolare di una mera aspettativa,
come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio di normalità,
era destinata ad un esito favorevole”; 1 dicembre 2010, n. 24382, ivi; 6 febbraio
2009, n. 2991; 29 marzo 2006, n. 7228; 10 febbraio 2005, n. 2705, in Foro
amm.-C.d.S., 2005, 1015.
(45) Cass., n. 2705/05 cit.
(46) Così, da ult., molto incisivamente, Cons. Stato, Sez. V, 28 febbraio 2011, n.
1271, in www.lexitalia.it; 21 marzo 2011 n. 1739, ivi.
(47) Cons. Stato, Ad. plen., 29 aprile 2005, n. 2, in Foro it., 2006, III, 71; Sez.
IV, 2 settembre 2011, n. 4970, in www. giustizia-amministrativa.it; Sez. IV, 29
agosto 2011, n. 4833, ivi; Tar Emilia Romagna, Parma, 12 luglio 2011, n. 245,
ivi.
(48) Cfr. Cass., Sez. un., 25 maggio 2000, n. 43, in Foro it., 2000, I, 2143; 14
luglio 2000, n. 494, in Foro it., 2001, I, 2475; 27 giugno 2003, n. 10289, in Urb.
app., 2003, 1410; 11 marzo 2004, n. 5055, in www.Lexitalia.it. In dottrina, N.
Pecchioli, Le azioni possessorie al cospetto del giudice amministrativo: prime
note, in Foro amm-C.d.S., 2003, 3937 ed ivi ulteriori riferimenti dottrinali e
giurisprudenziali.
(49) Cass., Sez. un., 2 luglio 2009, n. 15469, in Giur. it., 2010, 633; ma v. Cons.
Stato, Ad. plen., 30 agosto 2005, n. 4, in Foro amm.-C.d.S., 2005, 2089, con
nota di F. Saitta, La plenaria interpreta (in parte) la “204”; ma è improbabile che
finisca qui; Sez. VI, 6 novembre 2008, n. 5498, in www.giustiziaamministrativa.it.
(50) Cass., Sez. un., n. 15469/2009 cit.; 12 settembre 2008, n. 23561; 28
febbraio 2007, n. 4632, in Giur. it., 2008, 493; ord. 11 marzo 2004, n. 5055, in
Giur. it., 2004, 1944; ord. 27 giugno 2003, n. 10289, in Corr. giur., 2003, 1593.
(51) “Oramai da due secoli pieni, da quando è stato annunciato il principio di
eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, si è avvertita come indispensabile la
previsione di Corti supreme aventi la funzione di assicurare l'uniforme
interpretazione del diritto” (A. Proto PisaniAppunti sul giudice delle controversie,
cit., 375).
(52) Sul giudizio di ottemperanza, B. Sassani, Dal controllo del potere
all'attuazione del rapporto. Ottemperanza amministrativa e tutela civile esecutiva,
Milano, 1997; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al giudizio di esecuzione,
cit.
(53) A. Proto Pisani, Lezioni, cit., 158 ss.; A. di Majo, La tutela civile dei diritti,
Milano, 1993, 52 ss.
(54) Per il processo amministrativo, M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di
adempimento nel processo amministrativo, cit., 557 ss.; A.Orsi Battaglini, Alla
ricerca dello Stato di diritto, cit., 51 ss.; S. Raimondi, Le azioni, le domande
proponibili e le relative pronunzie, in questa Rivista, 2011, 913 ss.Cons. Stato,
Ad. plen., n. 3/11 e 15/11 affermano che che “la mancata previsione, nel testo
finale del codice, di una norma esplicita sull'azione generale di accertamento, non
è sintomatica della volontà legislativa di sancire una preclusione di dubbia
costituzionalità, ma è spiegabile, anche alla luce degli elementi ricavabili dai lavori
preparatori, con la considerazione che le azioni tipizzate, idonee a conseguire
statuizioni dichiarative, di condanna e costitutive, consentono di norma una tutela
idonea ed adeguata che non ha bisogno di pronunce meramente dichiarative”. Ma
“ove dette azioni tipizzate non soddisfino in modo efficiente il bisogno di tutela,
l'azione di accertamento atipica, ove sorretta da un interesse ad agire concreto ed
attuale ex art. 100 c.p.c., risulta praticabile in forza delle coordinate costituzionali
e comunitarie richiamate dallo stesso art. 1 del codice oltre che dai criteri di
delega di cui all'art. 44 della legge n. 69/2009”. Sul punto si veda M.A.Sandulli, Il
risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni: tra soluzioni
di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, in www.giustamm.it.
(55) F. Carnelutti, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova 1936, 253.
Sulla rilevanza in senso pubblicistico della giurisdizione amministrativa, richiama
con vigore la nostra attenzione, M. Nigro, Jibuis Spaventae la giustizia
amministrativa come problema politico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1970, 751 ss.