ASSESSORATO ALLA CULTURA E SPETTACOLO STAGIONE DI PROSA 2013-2014 Dal 3 all’8 dicembre 2013 Teatro Donizetti LE VOCI DI DENTRO di Eduardo De Filippo regia Toni Servillo scene Lino Fiorito costumi Ortensia De Francesco luci Pasquale Mari, suono Daghi Rondanini regista assistente Costanza Boccardi con Toni Servillo e Peppe Servillo e con (in ordine alfabetico) Chiara Baffi, Antonello Cossia, Rocco Giordano, Lucia Mandarini, Gigio Morra, Vincenzo Nemolato, Francesco Paglino, Betti Pedrazzi, Mariangela Robustelli, Marianna Robustelli, Marcello Romolo, Daghi Rondanini produzione Teatri Uniti, Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa, Teatro di Roma in collaborazione con Théâtre du Gymnase, Marseille in occasione di Marseille Provence 2013 Capitale Européenne de la Culture Dopo la lunga tournée internazionale della Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni, Toni Servillo torna al lavoro sulla drammaturgia napoletana. «Eduardo De Filippo - spiega Servillo - è il più straordinario e forse l’ultimo rappresentante di una drammaturgia contemporanea popolare, dopo di lui il prevalere dell’aspetto formale ha allontanato sempre più il teatro da una dimensione autenticamente popolare. Le voci di dentro è la commedia dove Eduardo, pur mantenendo un’atmosfera sospesa fra realtà e illusione, rimesta con più decisione e approfondimento nella cattiva coscienza dei suoi personaggi, e quindi dello stesso pubblico. L’assassinio di un amico, sognato dal protagonista Alberto Saporito, che poi lo crede realmente commesso dalla famiglia dei suoi vicini di casa, mette in moto oscuri meccanismi di sospetti e delazioni. Si arriva ad una vera e propria ‘atomizzazione della coscienza sporca’, di cui Alberto Saporito si sente testimone al tempo stesso tragicamente complice, nell’impossibilità di far nulla per redimersi. Eduardo scrive questa commedia sulle macerie della seconda guerra mondiale, ritraendo con acutezza una caduta di valori che avrebbe contraddistinto la società, non solo italiana, per i decenni a venire. E ancora oggi sembra che Alberto Saporito, personaggio-uomo, scenda dal palcoscenico per avvicinarsi allo spettatore dicendogli che la vicenda che si sta narrando lo riguarda, perché siamo tutti vittime, travolte dall’indifferenza, di un altro dopoguerra morale». Una folta compagnia di attori napoletani di diverse generazioni affiancherà in scena Toni Servillo, a partire dal fratello Peppe, nel ruolo di Carlo Saporito, fratello anche nella commedia. Dal 7 al 12 gennaio 2014 Teatro Donizetti IL PELLEGRINO di Pierpaolo Palladino regia Pierpaolo Palladino musiche Pino Cangialosi eseguite dal vivo da Fabio Battistelli/Mario De Meo (clarinetto) e Pino Cangialosi/Mirko Nunziante (fagotto e percussioni) scene e costumi Alessia Sambrini luci Alessia Sambrini e Patrick Vitali con Massimo Wertmuller produzione Associazione Culturale Racconti Teatrali Ninetto, vetturino che presta servizio con la madre presso Monsignor Caracciolo, un alto prelato reazionario, viene informato da questi che il nipote, il giovane Conte Enrico, milanese, è ricercato dalla polizia austriaca e verrà quindi a passare un po’ di tempo a Roma in casa dello zio. A Ninetto viene raccomandato di stargli vicino, di servirlo e controllare i suoi contatti nella città, essendo il giovane di chiare idee carbonare e quindi inaffidabile. La storia è ricordata e rivissuta da Nino che segue tutte le tappe di una vicenda romantica, in cui le passioni si dividono tra il suo scetticismo di vetturino romano e l’idealismo del nobile che si innamora nientemeno che di Paolina Bonaparte, la sorella del “fu imperatore”, con tutti i rischi che ne conseguono e che trasformano giocoforza Nino nel protettore di Enrico e nel suo migliore amico, fino all’inevitabile compimento del destino di entrambi. Con Il Pellegrino Massimo Wertmuller incontra il racconto teatrale interpretando tutti i ruoli e dando piena prova del suo talento e della sua maturità artistica; con il solo aiuto di una sedia, semplici oggetti e una musica suonata dal vivo, ci fa immaginare ogni ambiente: piazze, strade e palazzi del tempo. Dal 21 al 26 gennaio 2014 Teatro Donizetti OTELLO di William Shakespeare appunti di drammaturgia per Otello Nanni Garella traduzione, adattamento e regia Nanni Garella scene Antonio Fiorentino luci Gigi Saccomandi costumi Claudia Pernigotti regista assistente Gabriele Tesauri con Massimo Dapporto e Maurizio Donadoni e con Angelica Leo, Federica Fabiani, Gabriele Tesauri, Matteo Alì e un attore in via di definizione produzione Arena del Sole - Nuova Scena, Teatro Stabile di Bologna in collaborazione con Estate Teatrale Veronese «Un avamposto militare in un territorio di occupazione, la Repubblica Veneta contro i Turchi, occidente contro oriente: una storia già vista, che ritorna e costruisce nella mente un immaginario di guerre, purtroppo, vicine e devastanti. La fibra morale di un mondo, quello occidentale, messo a dura prova dalla crudezza dello scontro, con l’inevitabile ripercussione sulle vicende private dei protagonisti: di quelli nobili e virtuosi, come di quelli meschini e malvagi. Nell’Otello di Shakespeare, alla fine, perdono tutti, i nobili e i malvagi: Desdemona, Emilia, Roderigo assassinati, Otello suicida, Iago travolto dai suoi stessi inganni e dalle sue trame scellerate. Tutti fanno scelte sbagliate. Il mondo non ritrova il suo equilibrio, dopo l’atto estremo di Otello e il sacrificio di sua moglie: come dopo un’eclissi di sole e di luna - stralcio simbolico di una immagine barocca - l’uomo resta sotto un cielo vuoto. Otello, come Lear e Macbeth, è sceso nell’abisso, è giunto sino in fondo, ha vissuto l’esperienza umana della gelosia fino all’estremo. Shakespeare è l’unico autore, dopo i greci, che riesce a darci tragedie vere; e Otello, nella storia teatrale, è una delle poche vicende pienamente conosciute dal pubblico, soprattutto dall’epoca romantica in poi. Il pubblico del nostro tempo è abituato a sentire i nomi, così stravaganti e improbabili, di Iago, Desdemona, Otello, a legare ad essi un racconto di gelosia e di sangue e a restare avvinto dalle passioni che muovono i destini di quei personaggi. Ma, conoscendo l’esito tragico della storia, lo spettatore contemporaneo continua a interrogarsi sulla fragilità della natura umana. Otello, una volta scrostato dai depositi romantici e naturalistici, è un grande dibattito, profondo e appassionante, sulla natura umana: per Otello il mondo è bello, gli uomini sono nobili, e giustificano la loro esistenza nella lealtà e nell’amore; per Iago il mondo è abietto e volgare e gli uomini sono come animali, carogne che si divorano l’un l’altro; da un lato un’idea del mondo e della natura umana che volge lo sguardo alla convivenza, alla bellezza e all’armonia; dall’altro la totale assenza, machiavellica, di ideologia, il pragmatismo empirico più spregiudicato. Nessuno ha la meglio, alla fine. In realtà, il mondo somiglia molto di più a come lo immagina Iago, ma anch’egli ne è travolto, come Riccardo III. Cosa resta, dopo gli assassini, i suicidi, il crollo della fiducia, della fedeltà e dell’amore? Probabilmente solo la notte buia, il cupo abisso in cui precipita a volte la mente umana. L’accesso di follia distruttiva e autodistruttiva, omicida e suicida, di Otello, nutrita dalla menzogna e dall’infamia di Iago; e la dissoluzione di un mondo di valori, come famiglia, patria, amore, lealtà, coerenza morale. E resta solo un linguaggio sfasato e incerto, sconnesso, schizoide. L’unica vittoria di Iago consiste nel distruggere la poesia, l’eroismo, la grandezza del generale Otello, infrangendo le sue certezze di linguaggio, spingendolo all’afasia, al balbettio, in una sorta di eloquio spezzato che somiglia tanto al monologo interiore della letteratura moderna - di Joyce, di Beckett. Corpi, labbra, amplessi immondi, schifosi sono le uniche immagini residue del bel mondo eroico di Otello, sono la vittoria del pragmatismo di Iago, ma sono anche lo sprofondamento dell’uomo nel mondo dell’ombra, dove la nobiltà d’animo si trasforma in scelleratezza, il coraggio in codardia; dove la tolleranza lascia rapidamente il posto al pregiudizio razziale più osceno». Nanni Garella Dal 28 gennaio al 2 febbraio 2014 Teatro Donizetti LA TORRE D’AVORIO di Ronald Harwood traduzione Masolino d’Amico regia Luca Zingaretti scene André Benaim costumi Chiara Ferrantini luci Pasquale Mari con Luca Zingaretti e Massimo De Francovich e con Peppino Mazzotta, Gianluigi Fogacci, Elena Arvigo, Caterina Gramaglia produzione Zocotoco srl Berlino 1946. È il momento di regolare i conti, e la cosiddetta denazificazione - la caccia ai sostenitori del caduto regime - è in pieno svolgimento. Gli alleati hanno bisogno di prede illustri, di casi esemplari che diano risonanza all’iniziativa. Viene così convocato, nel quadro di una indagine sulla sua presunta collaborazione con la dittatura, il più illustre esponente dell’alta cultura tedesca, vale a dire il direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler, universalmente acclamato accanto a Toscanini come il maggiore della prima metà del secolo. Furtwängler non era stato nazista e, anzi, non aveva nascosto di detestare le politiche del Terzo Reich; era anche riuscito a non prendere mai la tessera del partito. Ma nel buio periodo dell’esodo di molti illustri intellettuali, che avevano preferito trasferirsi all’estero piuttosto che continuare a lavorare in condizioni opprimenti, era rimasto in patria e aveva svolto la sua attività in condizioni privilegiate. Aveva scelto, in tempi durissimi, di tenere accesa la fiaccola dell’arte e della cultura, convinto che questa non avesse connotazione politica, e aveva sfruttato il suo prestigio per aiutare, all’occorrenza, persone perseguitate o emarginate. Si era anche scaricato la coscienza “barcamenandosi” per esibirsi nel minor numero possibile di occasioni ufficiali; pur di non stringere la mano a Hitler, in una occasione famosa e fotografata, aveva fatto in modo di continuare a impugnare la bacchetta con la destra. Dai suoi compatrioti, quasi tutti melomani, era sempre stato venerato alla stregua di una divinità super partes, e anche dopo la fine della Guerra nessun tedesco si era sentito di addebitargli alcunché. Ma ecco ora che i vincitori vogliono vederci chiaro, e se possibile far crollare anche questo superstite mito della superiorità germanica. Consapevoli del fascino che il grande artista esercita su tante persone, essi affidano l’indagine a un uomo che dà ogni garanzia di esserne immune: un maggiore dell’esercito che detesta la musica classica, venditore di polizze assicurative nella vita civile e, quindi, molto sospettoso nei confronti del prossimo; un plebeo che disprezza le sdolcinatezze borghesi; un giustiziere sacrosantamente indignato dalle ingiustizie e dalle atrocità che ha visto perpetrare in questa corrottissima zona dell’Europa; soprattutto, un americano convinto nell’eguaglianza di tutti gli uomini sia nei diritti che nelle responsabilità. Dall’11 al 16 febbraio 2014 Doppia replica: Sabato 15 febbraio 2014, ore 15.30 e ore 20.30 Teatro Donizetti I RAGAZZI IRRESISTIBILI di Neil Simon versione italiana Giuliana Manganelli regia Marco Sciaccaluga scene e costumi Guido Fiorato musiche Andrea Nicolini luci Sandro Sussi con Eros Pagni e Tullio Solenghi e con Massimo Cagnina, Mariangeles Torres, Marco Avogadro, Pier Luigi Pasino produzione Teatro Stabile di Genova Sono trascorsi molti anni da quando Ennio Flaiano poteva ironizzare («ridere con il consenso di uno Stabile tranquillizza»), facendo leva sul pregiudizio di un teatro paludato e musone, quale lo Stabile di Genova non ha mai voluto essere. E non lo è stato soprattutto in questo ultimo decennio, nel corso del quale è andato sempre in cerca di un “teatro d’arte”, che non fa alcuna distinzione di “genere”, proponendo in cartellone quelle opere (siano esse tragiche, drammatiche o comiche) che meglio gli sembrano essere in grado di raccontare l’uomo nella sua contemporaneità: attraverso il quotidiano dialogo, sul palcoscenico, tra il testo, la sua messa in scena e la percezione culturale ed emotiva dello spettatore. È in questo senso, pertanto, che va interpretata la scelta di allestire I ragazzi irresistibili di Neil Simon: un classico della risata per due attori (Eros Pagni e Tullio Solenghi) dalla forte vena comica; ma anche un’occasione per riflettere sui rapporti tra il passato e il futuro, tra la memoria di ciò che è stato e le laceranti passioni che i due protagonisti della commedia portano conflittualmente in scena. Scritto negli anni della piena maturità di Neil Simon (classe 1927), I ragazzi irresistibili andò in scena con grande successo nel 1973, trovando ben presto anche la via dello schermo: sia cinematografico (1975, con Walter Matthau e George Burns), sia televisivo (1995, con Peter Falk e Woody Allen). La commedia appartiene a quel periodo in cui la critica statunitense iniziava a vedere in Simon non solo il "re della risata" (com’era stato definito ai tempi di La strana coppia), ma anche un vero autore alla ricerca di un nuovo tipo di pièce capace di essere contemporaneamente commedia e dramma, tale da valorizzare sempre più l’attenzione per la complessità umana dei suoi personaggi. E così è stato, pur nel mantenimento di ciò che lo aveva reso famoso: la brillantezza del dialogo. Tanto che oggi su Neil Simon (il commediografo contemporaneo più rappresentato a Broadway e nel mondo) è in corso una crescente opera di rivalutazione critica che ha preso il via proprio all’inizio degli anni Settanta, quando Simon tirò fuori dal cassetto dei suoi progetti non ancora realizzati questa storia di due ex comici di vaudeville che, dopo aver trascorso insieme più di quarant’anni della loro vita, si erano separati, ponendo così fine a una coppia di successo. Mentre Al Lewis è andato in pensione tranquillamente, Willie Clark non ha mai perdonato al socio di averlo privato del suo lavoro, mettendo la sua vita e la sua carriera sotto naftalina molto prima di quanto lui avesse voluto. Ora, per iniziativa del nipote e agente di Willie, la coppia ha l’occasione di ricomporsi per proporre davanti all’occhio della telecamera lo sketch che l’aveva resa celebre; ma molti ancora sono gli ostacoli da superare, inaspriti dal trascorrere degli anni e dagli acciacchi dell’età. I ragazzi irresistibili è un omaggio alla vecchiaia di due grandi comici e insieme un’affettuosa testimonianza della gloriosa tradizione del vaudeville americano; è una commedia attraversata insieme da una comicità calorosa e da una poetica nostalgia; fonte per uno spettacolo, in cui un dialogo scintillante coniuga perfettamente realtà e finzione, attraverso il contributo recitativo di attori dalla forte personalità comunicativa. Dal 25 febbraio al 2 marzo 2014 Doppia replica: Sabato 1 marzo 2014, ore 15.30 e ore 20.30 Teatro Donizetti ALCHEMY di Moses Pendleton coreografie Moses Pendleton con Momix produzione Momix, Planeta Momix e Duetto 2000 Ad ispirare l'immaginazione del mago della danza è questa volta l’eterna ricerca dell’oro segreto che vive nel profondo della nostra essenza, rivelato solo dagli uomini capaci di scrutare il mondo con occhi creativi. L’inesauribile Moses Pendleton presenta oggi Alchemy, spettacolo che tratta dell’arte dell’alchimia e dell’alchimia dell’arte. È uno spettacolo multimediale realizzato dai suoi superbi ballerini, un lavoro pieno di fantasia, di ironia, di bellezza, di mistero. Nelle parole di W.B. Yeats trova spunto la più recente impresa del coreografo statunitense, fedele allo spirito di innovazione che da sempre accompagna la sua celebre compagnia, per accostare la costante ricerca della danza a quella degli «...innumerevoli alchimisti divini, che lavorassero continuamente a trasformare il piombo in oro, la stanchezza in estasi, i corpi in anime, la tenebra in Dio; e di fronte alla loro opera perfetta avvertii il peso della mia condizione di mortale, e invocai a gran voce, come tanti altri sognatori e letterati di questa nostra età hanno invocato, la nascita di quella raffinata bellezza spirituale che sola potrebbe sollevare e rapire anime gravate di tanti sogni». Miscelando le sostanze base nei loro alambicchi e nelle loro fornaci, gli antichi alchimisti cercavano l’elisir di lunga vita o la formula dell’oro. Proprio così Pendleton, che in Bothanica ci trasportava in un meraviglioso viaggio attraverso le stagioni dell’anno, in Alchemy ci svela i segreti dei quattro elementi primordiali – terra, aria, fuoco, acqua – per creare uno spettacolo che sprigiona arcane suggestioni e ci attira in una dimensione surreale. È l’incantesimo MOMIX, al culmine della magia, con Moses Pendleton “Mago dei Maghi”. Gli alchimisti non lavoravano da soli; evocavano gli spiriti, perché li aiutassero nei loro riti segreti. Allo stesso modo si dispiega il processo creativo di Alchemy, con gli “apprendisti – stregoni” MOMIX ad assistere e supportare Pendleton nel percorso. Riusciranno a trovare la formula dell’elisir? Creeranno l’oro? Certamente, per chi crede nell’arte dell’illusione e nell’illusione dell’arte. Una cosa è certa: dopo Alchemy nessuno sarà uguale a prima! Questa è la promessa “alchemica” di Moses Pendleton… Dall’11 al 16 marzo 2014 Teatro Donizetti JOHN GABRIEL BORKMAN di Henrik Ibsen traduzione Claudio Magris regia Piero Maccarinelli scene da un’idea di Carlo De Marino costumi Gianluca Sbicca luci Umile Vainieri musiche Antonio Di Pofi con Massimo Popolizio, Lucrezia Lante Della Rovere, Manuela Mandracchia e Mauro Avogadro e con Alex Cendron, Ilaria Genatiempo, Camilla Diana produzione Artisti Riuniti in collaborazione con Teatro Eliseo Grandi ambizioni muovono il protagonista di questo testo di Ibsen. Come nelle sue ultime opere, il centro di interesse è la creazione di un percorso di vita: grandi uomini con grandi progetti che si scontrano con il senso ultimo del loro operare, rispetto a sé e rispetto alla vita. Borkman, nel suo percorso di creazione, ha avuto un lungo stop, poiché è stato condannato ad otto anni di prigione. Brillante banchiere incorso in un fallimento finanziario di grandi dimensioni, da genio della finanza si ritrova ad essere un fallito. Toccato dal disonore, dissolta la stima degli altri nei suoi confronti, non sembra però disposto a considerarsi un vinto e continua a non avere dubbi sul valore demiurgico di quella che lui considera la sua missione. Si sente un creatore finanziario, quasi un artista della finanza, per la potenza visionaria del suo intendere. Con lui, il suo solo amico, Foldal, suo ex collaboratore, autore di un testo mai pubblicato, creatore quindi a sua volta di qualcosa che non vedrà mai completamente la luce. La depressione collegata alla creazione sembra affacciarsi fra le pagine del testo, che incrocia la vicenda del finanziere a quella delle due sorelle Rentheim - la moglie e l’ex amante consumata dalla malattia. Due sorelle che hanno avuto lo stesso uomo, John Gabriel, senza tuttavia averlo mai completamente posseduto. Ecco un altro confronto a tutto campo: la vita. Il confronto è sulla vita, chi dà la vita e chi la rende appetibile, piena, degna di essere vissuta; e chi, invece, non ha potuto avere la gioia di dare la vita. E poi l’altra generazione, i figli ventenni con molte meno speranze creative, consci della limitatezza del loro agire nel mondo. Si crea, ma non per l’eternità. Si deve soprattutto bruciare la vita, aggredirla a morsi e viverla non nell’attesa del compimento di un progetto, ma nella certezza della sua violenza e brevità. Gli ideali grandi di Borkman e delle sorelle Rentheim non valgono né per Frida Foldal, né per il giovane Borkman. Un’analisi lucida, filosofica e poetica, ma anche concretamente feroce e tragicomica del destino che fa di ognuno un prevaricatore, un umiliato e offeso, che fa di ogni affermazione vitale anche un gesto di violenza. Piero Maccarinelli, il regista, così scrive: «Credo che tutto questo sia un materiale violentemente contemporaneo, con un plusvalore, se ad interpretare questo grande testo è una generazione di attori che ha potuto sfiorare le utopie da un lato e che ne ha visto la devastazione dall’altro. Un Borkman della mia generazione, dunque, dove l’attrazione erotica, l’eros ed il thanatos siano generazionalmente percorribili. Ed ecco la scelta di Massimo Popolizio, Manuela Mandracchia e Lucrezia Lante Della Rovere nei tre ruoli principali. Un Borkman per provare a comunicare ai nostri contemporanei le geniali parole di Ibsen, in un’ambientazione volutamente essenziale e più vicina a noi». Dal 25 al 30 marzo 2014 Matinée: Giovedì 27 marzo 2014, ore 10.00 Teatro Donizetti MEDEA di Seneca traduzione Francesca Manieri regia Pierpaolo Sepe scene Francesco Ghisu costumi Annapaola Brancia D’Apricena luci Pasquale Mari trucco Vincenzo Cucchiara con Maria Paiato cast in via di definizione produzione Fondazione Salerno Contemporanea - Teatro Stabile d’Innovazione Dopo il grande successo di Anna Cappelli, Maria Paiato si misura con Medea di Seneca, un personaggio estremo e definitivo, ancora guidata dalla potenza rigorosa e visionaria di Pierpaolo Sepe. «Questa è la tragedia dell’ira: “passione spaventosa e furibonda… [che] è tutta eccitazione ed impulso a reagire, è furibonda e disumana brama d’armi, sangue e supplizi, dimentica se stessa pur di nuocere all’altro… avida di una vendetta destinata a coinvolgere il vendicatore. …Inetta a distinguere il giusto ed il vero, quanto mai somigliante a quelle macerie che si frantumano sopra ciò che hanno coinvolto”. Queste le macerie dentro le quali si muove Medea, macerie che lei stessa ha generato e continua a generare, macerie infernali che tutto ardono e tutto imprigionano, in primo luogo lei stessa. Dimentica di ogni possibilità di bene, schiava di una furia senza luogo e senza tempo che la/ci costringe ad una solitudine dolorosa e demoniaca al contempo. L’ira di Medea condanna il mondo al caos. Un mondo che non risponde né corrisponde più all’individuo. Una frattura incolmabile si produce tra il reale e il desiderio e più questo baratro si amplifica più l’ira divampa. Il mondo, la realtà storica, non è più in corrispondenza armonica con l’individuo. Cittadino e società si contrappongono in un rapporto di disarmonica estraneità. La solitudine infinita dei propri dolori, l’ipertrofia orrenda delle proprie passioni diventa unica legge, unica causa delle proprie azioni. In una lettera Seneca scriveva: “siamo nati per una vita in comune. La nostra società è molto simile ad una volta di pietre: cadrebbe se le pietre non si sostenessero reciprocamente ed è proprio questo che le sorregge”. Ancora una volta Medea sancisce l’atto egotico di sottrarre sostegno eppure in una reciproca, tremenda implicazione, il medesimo sostegno è a lei stessa sottratto. Questa è sì la storia del divenire di un mostro, un mostro morale, ma è anche la storia di una mostruosità più nascosta e profonda che immischia nella colpa anche l’azione del giusto. Nessuno è scevro dall’atto di questo supremo contemporaneo egoismo, la solitudine costringe gli uomini a una salvezza furiosa, ognuno persegue un bene colpevole, tutti siamo preda del male. È tragedia che mostra le ragioni irragionevoli di una donna che “non sa frenare né l’ira né l’amore”, che non accetta le leggi del tempo e degli altrui desideri e le ragioni colpevoli di un uomo, che oblia in una azione pietosa il suo delitto primario: Giasone ha infranto i sacrosanti limiti del mondo alla ricerca del vello, Medea infrange i sacrosanti legami della maternità. Nell’impeto di un desiderio che strumentalizza l’altro in un atto permanentemente oltrenatura si spalanca il mondo contemporaneo del disumano. Il divenire Medea di Medea disvela la sua mostruosità, ma disvela soprattutto al mondo il suo nucleo fondativo. Medea ha salvato gli Argonauti, ha reso possibile il loro successo e il loro ritorno, in particolare il ritorno del cantore Orfeo, colui che sulla sua lira fonda il sapere dell’Occidente. Ebbene, il cuore rimosso di questo Occidente è Medea, la sua ira cieca, il suo furore solitario. Un cuore nero e rimosso pulsa e giace sotto le fondamenta scricchiolanti di un intero mondo. La sua furiosa ira deflagra, le fondamenta collassano e ciò che si mostra con mostruosa vividezza è la radice oscura di una colpa tanto universale da non avere più colpevoli. Le macerie lasciano la scena vuota di ogni ricostruzione, il futuro non è che lo spettro di questo atroce rimosso». Francesca Manieri Pierpaolo Sepe Dall’1 al 6 aprile 2014 Matinée: Giovedì 3 aprile 2014, ore 10.00 Teatro Donizetti LA COSCIENZA DI ZENO di Tullio Kezich dal romanzo di Italo Svevo regia Maurizio Scaparro scene Lorenzo Cutùli costumi Carla Ricotti musiche Giancarlo Chiaramello con Giuseppe Pambieri, Enzo Turrin, Giancarlo Condè, Silvia Altrui, Livia Cascarano, Guenda Goria, Marta Ossoli, Antonia Renzella, Raffaele Sinkovic, Anna Paola Vellaccio, Francesco Wolf produzione Teatro Carcano Torna in scena La coscienza di Zeno prodotta dal Teatro Carcano di Milano. Protagonista nel ruolo di Zeno Cosini Giuseppe Pambieri, attore tra i più versatili del nostro teatro, che tratteggia il suo personaggio con tocchi insieme ironici e meditativi. La regia, nitida e elegante, è firmata da uno dei maestri del teatro italiano e internazionale, Maurizio Scaparro, che vince in scioltezza la non facile scommessa di portare sulla scena il capolavoro sveviano, non catalogabile come romanzo d’azione o d’intreccio, bensì libro d’iniziazione e introspezione. Scaparro fa proprio lo storico adattamento che Tullio Kezich realizzò per il teatro nel 1964, primo interprete, nello stesso anno, Alberto Lionello, seguito nel 1987 da Giulio Bosetti con la regia di Egisto Marcucci e nel 2002 da Massimo Dapporto con la regia di Piero Maccarinelli. Sullo sfondo di una Trieste cosmopolita e mercantile ma anche crogiolo culturale della Mitteleuropa tra la fine della Belle Époque e la Prima Guerra Mondiale, si svolge la vicenda di Zeno Cosini, che, partendo da una seduta psicanalitica, evoca i momenti salienti della sua vita (la morte del padre, l’amore non ricambiato per una fanciulla, il matrimonio di ripiego con una sorella di lei, la rivalità con il cognato Guido - che muore suicida -, la relazione extraconiugale con Carla). Fragile e inadeguato di fronte ai cambiamenti della società, pieno di tic e di nevrosi, si dichiara “malato”, ma la sua malattia è tutta di origine psicologica. Di fronte alla vita Zeno riesce però sempre a mantenere un atteggiamento ironico e distaccato (“La vita non è né brutta né bella, ma è originale”) che gli permetterà di capirla meglio e, quindi, di crescere; uomo nuovo in cerca di un modo di essere plausibile in un mondo che sembra sfuggirgli. Sarà lui a dire il bellissimo, inquietante monologo finale sulla ferocia e l’inutilità di quella guerra che di lì a poco avrebbe rivoluzionato tutto. Pubblicato nel 1923, La coscienza di Zeno abbandona il modulo romantico ottocentesco e, come nel caso di Musil o del pirandelliano Mattia Pascal, di Joyce o di Proust, ai quali pure è stato accostato, introduce l’aspetto tutto novecentesco dell’introspezione. Dal romanzo narrato da una voce anonima ed estranea al piano della vicenda si passa a una narrazione in prima persona, che non presenta gli avvenimenti nella loro successione cronologica lineare, ma inseriti in un tempo tutto soggettivo che mescola piani e distanze. Nella sua opera più conosciuta Svevo affronta un viaggio nella mente umana, un percorso nella malattia e nella cura; ci parla dell’insoddisfazione e dell’inquietudine dell’uomo che si percepisce come corpo estraneo della società, fornendo il ritratto di un’epoca e, insieme, quello di un’umanità senza tempo.