Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 4 – Novembre‑Dicembre 2011
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n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
finito di stampare da
360o ‑ Roma
nel gennaio del 2012
SOMMARIO
Editoriale
[ A cura di Roberto Dante Cogliandro ]
Diritto e procedura civile
Politiche creditizie nei piani attestati di risanamento
9
Corrado d'Ambrosio
Le principali novità introdotta dalla Legge di stabilità 16
Vittorio Sabato Ambrosio
L’aumento del capitale sociale in presenza di perdite 22
Luigi Russo
Del Contributo Unificato per le cause di Lavoro e di Previdenza 28
Patrizia Trapanese
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Corrado d'Ambrosio ]
32
A cura di Mario de Bellis e Daniele Iossa ]
34
Cassazione civile, Sezione III sentenza 1° aprile 2011 [ Nota redazionale a cura di Pietro D'Alessandro ]
39
47
In evidenza
Tribunale di napoli, Sezione Distaccata di Casoria sentenza 25 febbraio 2011 [ Nota redazionale a cura di Lucio Tramontano ]
Diritto e procedura penale
Le indotte timidezze itruttorie del G.U.P nel caso della scadenza dei termini custodiali di fase
53
Enrico Campoli
La tutela dei diritti del minore nel sistema penale. Profili esemplificativi
56
Clelia Iasevoli
Il volto attuale del dolo eventuale 63
Andrea Alberico
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
68
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di legittimità [
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
70
73
Diritto amministrativo
Il principio di tassatività delle cause di esclusione: spunti di riflessione 83
Paolo Corciulo
Condizioni e limiti del ricorso all’affidamento in house tra esiti referendari e recenti approdi della giurisprudenza amministrativa
88
Almerina Bove
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
97
A cura di Almerina Bove
Diritto tributario
Il reclamo e la mediazione nel processo tributario
103
Clelia Buccico
Diritto internazionale
Rassegna di diritto internazionale
109
A cura di Francesco Romanelli
Questioni
[ A cura di Mariano Valente ]
Il ricorso reiterato da parte della P.a. allo strumento del contratto a tempo determinato può
configurare un illecito sanzionato con la conversione in contratto a tempo indeterminato e/o
115
con il risarcimento del danno? / Riccardo Esposito
Può operare la causa di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie
nel procedimento penale davanti al Giudice di pace nel caso in cui l’attività risarcitoria
provenga da un terzo? / Alfredo Capuano
117
Quale giurisdizione opera in caso di tutela avverso un provvedimento scolastico di assegnazione delle ore di sostegno, asseritamente discriminatorio ai sensi della Legge 67/06? / Ida Sorrentino
119
Recensioni
Codice dell’ADR: mediazione, conciliazione, arbitrato
di Aldo Niccoli Editrice Edises, Collana Editest – Obiettivo professioni, 2011
A cura di Valeria D'Antò
123
Gazzetta
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●
Futuro delle professioni
e accesso: due faccie
della stessa medaglia
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
2 0 1 1
5
Il mondo delle professioni mai come in questi ultimi mesi
ha attraversato un periodo di forte preoccupazione e di crisi a
causa dei continui attacchi da parte del mondo politico e non,
il quale facendosi forte dell’idea della semplificazione di ogni
cosa ha creduto opportuno cercare di scardinare il già precario
assetto professionale del nostro Paese.
In sostanza si è ritenuto e tuttora si afferma a chiare lette‑
re che la ripresa economica del nostro Paese passi anche attra‑
verso la commercializzazione ed industrializzazione del varie‑
gato mondo delle professioni che nei secoli hanno contribuito
a farne uno dei maggiori paesi al mondo per professionalità e
qualità degli avvocati, dei giudici e dei notai. Un governo
molto economico e poco giuridico in materia di riforme ha
creduto opportuno avviare una serie di liberalizzazioni anche
nel mondo delle professioni che se attuate porterebbero poca
chiarezza in un sistema così variegato e complesso come quel‑
lo delle specializzazioni giuridiche.
In sostanza con un colpo di mano ed in nome di una eco‑
nomicizzazione delle prestazioni si sta cercando di svuotare la
forza dell’avvocato al cospetto dei poteri industriali, del giu‑
dice ove le procedure alternative al giudizio e i non togati sono
sempre di più, ed infine del notaio ove l’eliminazione delle
tariffe e soprattutto l’erosione delle competenze creerebbero
grossi problemi al sistema nostrano della certezza dei traffici
giuridici e del controllo di legalità affidato ai pubblici ufficia‑
li. Ma a quanto pare un governo sordo e impegnato unicamen‑
te a collezionare riforme su riforme sembra non raccogliere le
istanze di milioni di professionisti che con l’accesso, ciascuno
alla loro professione, hanno da subito trovato un giusto filtro
all’esercizio della loro attività. Filtro che rappresenta un im‑
portantissimo elemento di certezza e sicurezza della prestazio‑
ne professionale di ogni paese moderno.
Immaginarsi mai un medico che dia un consulto o operi
un paziente senza aver mai superato alcun esame o abilitazio‑
ne, o un ingegnere che progetti i calcoli per la realizzazione di
un palazzo senza aver sostenuto alcun meritocratico esame
d’accesso alla sua professione. Credo sia una vera follia. Ed
allora proprio gli accessi all’esercizio delle professioni mai
come in questo momento rappresentano l’elemento determi‑
nante in termini di professionalità per il futuro di tanti avvo‑
cati, notai e giudici della nostra Italia.
Solo attraverso un rafforzamento delle già selettive prove
dei concorsi e delle abilitazioni si potrà garantire ai professio‑
nisti di oggi ed a quelli di domani un futuro e soprattutto si
potranno tutelare le tante eccellenze che vi sono nel nostro
Paese. Non è più pensabile di attaccare anche le vie d’accesso
alle professioni, pensando che in tal modo solo il mercato ri‑
esca, con un processo di selezione naturale, a dare il meglio e
soprattutto determini un maggiore risparmio delle prestazioni.
Tutt’altro attraverso la banalizzazione delle modalità d’acces‑
so si creerebbe un mercato ove la parte da leone la faranno in
pochi e i più saranno alla mercè dei leoni.
Come ha più volte sostenuto il primo presidente della Cor‑
te di Cassazione, Ernesto Lupo, solo attraverso una conferma,
o meglio un ritorno a concorsi rigidi e rigorosi si potrà garan‑
tire al mondo della magistratura, del notariato e dell’avvoca‑
tura un futuro ed al paese professionisti che, ciascuno nel suo
campo, danno il meglio per le regole economiche del funzio‑
namento dello Stato. Questo infatti per la sua ripresa econo‑
mica ha bisogno di operatori del diritto che possano assicura‑
6
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
re l’applicazione di regole certe e determinate, con elevate
capacità professionali. E queste passano anche e soprattutto
attraverso una seria riforma del sistema universitario e dell’ac‑
cesso post laurea.
p e n a l e
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è giunto il momento che il nostro Paese si attrezzi per
formare e produrre eccellenze nel campo delle professioni. Ma
le eccellenze senza un sistema di massima meritocrazia non si
hanno mai.
Diritto e procedura civile
Politiche creditizie nei piani attestati di risanamento
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Corrado d'Ambrosio
Le principali novità introdotta dalla Legge di stabilità 16
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L’aumento del capitale sociale in presenza di perdite 22
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Cassazione civile, Sezione III sentenza 1° aprile 2011 [ Nota redazionale a cura di Pietro D'Alessandro ]
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Tribunale di napoli, Sezione Distaccata di Casoria sentenza 25 febbraio 2011 [ Nota redazionale a cura di Lucio Tramontano ]
civile
In evidenza
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●
Politiche creditizie
nei piani attestati
di risanamento
● Corrado d'Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
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9
Sommario: 1. Finalità e natura dell’istituto - 2. La esenzione da revocatoria degli atti di esecuzione del piano di risanamento attestato – 2.1. (Segue) Il sostegno finanziario
dell’impresa in crisi - 2.2. (Segue) Risanamento e riequilibrio
- 2.3. (Segue) Atti di esecuzione del “piano di risanamento
attestato” e “prededuzione” – 2.4. (Segue) “Piano di Risanamento attestato” e “finanziamenti-soci”.
1. Finalità e natura dell’istituto
Particolare attenzione esige la previsione dell’art. 67, comma
3, lett. d), l. fall., visto che in nessun altro luogo di essa si men‑
zionano (e tanto meno disciplinano) piani di risanamento.
Qui va detto, preliminarmente, che questi piani (c.d. atte‑
stati) vanno tenuti rigorosamente distinti dagli accordi di ri‑
strutturazione, disciplinati dall’art. 182-bis, e considerati
nella successiva lett. e).
La diversità fra le due figure non sta tanto nel contenuto
degli uni e degli altri (la ristrutturazione dei debiti quanto ai
primi; il risanamento dell’esposizione debitoria e il riequilibrio
della situazione finanziaria quanto ai secondi), che potrebbe,
in concreto, coincidere, nel senso che un accordo di ristruttu‑
razione dei debiti ben potrebbe avere il contenuto di un piano
di risanamento (laddove, invece, naturalmente, un piano di
risanamento non potrebbe prevedere solo la ristrutturazione
dei debiti).
Sta, invece, nella struttura: il piano di risanamento può
anche, in punto di fatto, essere il risultato o il presupposto di
intese fra il debitore ed i suoi creditori; esso, però, viene preso
in considerazione e disciplinato dalla legge in sé e per sé, in
quanto espressione dell’iniziativa individuale del debitore, e
quindi, non può essere fatto rientrare fra gli strumenti nego‑
ziali di soluzione delle crisi1.
In fondo, la prima esenzione dalle revocatorie (quella con‑
tenuta nell’art. 67), si fonda sulla buona fede, in senso sogget‑
tivo, di chi ha ricevuto una certa attribuzione patrimoniale,
facendo affidamento sulla presenza di un piano di risanamen‑
to attestato da un esperto; la seconda (il cit. art. 182-bis, in
quanto richiamato dall’art. 67, comma terzo, lettera e, 1. fall.)
si fonda, invece, sull’espletamento di una procedura, che por‑
ta alla omologazione dell’accordo.
La prima offre il vantaggio della segretezza (o, quanto
meno, della ri­servatezza) del piano, ma si espone all’alea con‑
nessa alla valutazione (postuma) di uno stato soggettivo, la
cui sussistenza, con il senno del poi, potrebbe essere facilmen‑
te messa in dubbio, qualora dovesse sopravvenire il fallimento
del debitore; la seconda è molto più macchinosa sul piano
proce­durale, ma crea affidamenti più forti e - si spera - non
controvertibili 2.
La legge non dà alcuna definizione dei piani di risanamento,
né dice alcunchè sul loro contenuto, necessario e/o possibile.
Dà per presupposta la nozione generale di “piano” come
espressione di un’attività programmatoria, e si limita, adot‑
1 A. Migro, Atti a titolo oneroso, pagamenti, garanzie, in La legge fallimentare dopo la riforma, (a cura di) A. Nigro, M. Sandulli,V. Santoro, Mila‑
no, 2011, vol I, pag. 934.
2G. Terranova, I nuovi accordi di ristrutturazione:il problema della sottocapitalizzazione dell’impresa, in Problemi di diritto concorsuale, Padova, 2011,
pagg. 105 ss.
civile
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e
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tando una prospettiva funzionalistica, a stabilire che tali
piani devono essere idonei a prevenire ad un certo risultato,
individuato nel risanamento dell’esposizione debitoria e nel
riequilibrio della situazione finanziaria. Ne deriva che è ri‑
messa alla assoluta discrezionalità del predisponente, la
scelta delle strade e degli strumenti attraverso i quali quel
risultato dovrebbe essere conseguito. Alcune precisazioni,
però, sembrano essere possibili.
Innanzi tutto, l’obiettivo finale dei piani di risanamento
parrebbe dover essere propriamente individuato nel recupero
dell’equilibrio della situazione finanziaria, con il ripristino di
una condizione in cui, in un certo arco temporale, le entrate
consentano di fronteggiare le uscite; il risanamento dell’espo‑
sizione debitoria parrebbe, invece, dover costituire, almeno in
principio, un corollario del conseguimento di quel recupero:
il che implicherebbe, sempre in principio, la previsione del
pagamento integrale di tutti i creditori.
Peraltro, non sembra preclusa la possibilità che i piani de
quibus contemplino anche meccanismi di ristrutturazione, in
senso stretto, dei debiti, i quali, naturalmente, richiederanno,
nella fase di esecuzione, accordi con i creditori.
In secondo luogo, i piani di risanamento sono sì centrati
sul recupero dell’equilibrio finanziario, ma non possono esau‑
rirsi nei soli profili finanziari, richiedendosi la considerazione,
a monte, dei profili industriali ed economici3.
In terzo luogo, sembra da escludere che possano conside‑
rarsi piani di risanamento quei piani che prevedano non la
continuazione dell’attività di impresa, ma la sua liquidazione.
Anche questo è un profilo di diversità rispetto agli accordi
di ristrutturazione, che possono invece essere funzionali, indif‑
ferentemente, alla prosecuzione o alla cessazione dell’impresa.
I piani di risanamento prefigurano linee di comportamen‑
to futuro, disegnano, cioè, un programma di azione: debbono
perciò considerarsi, dal punto di vista giuridico, come dichia‑
razioni di volontà (almeno in senso lato) unilaterali.
Si tratta, specificamente, di dichiarazioni, modificabili e
ritrattabili in ogni momento, aventi valenza essenzialmente
organizzativa, con rilevanza, in principio, interna, in quanto
non diretti (indirizzati) a terzi, né soggetti ad alcuna forma di
pubblicità.
Da essi non scaturiscono obblighi nei confronti dei terzi:
i piani, però, ove comunicati, o comunque resi noti a terzi,
possono determinare, in questi ultimi, un affidamento, la cui
lesione è suscettibile di costituire fonte di responsabilità ex‑
tracontrattuale o precontrattuale.
Ed è proprio a questo profilo che sembra doversi connet‑
tere l’effetto previsto dall’art. 67 l.fall.4.
3 Ibidem.
4 Il piano attestato di risanamento non è una procedura concorsuale, inteso come
procedimento fondato su presupposti riconoscibili e accertabili ad opera di
un’autorità preposta, caratterizzata da un certo grado di coinvolgimento, nei
propri effetti, dell’intero ceto creditorio in funzione del principio-cardine della
parità di trattamento secondo le rispettive classi di appartenenza. Il piano attesta‑
to di risanamento, non è né inaugura alcun procedimento, è piuttosto un atto
interno all’imprenditore, che riceve un’attestazione da parte di un esperto.
Non ha un presupposto oggettivo e soggettivo predefinito, come tale accertabile
in funzione dell’applicazione di conseguenze in punto di trattamento.
Non è governato nè controllato, e neppure introdotto, da un’autorità preposta.
Non coinvolge, se non indirettamente, i creditori e non ne assicura, anzi può
pregiudicarne, la parità di trattamento.
Il piano attestato di risanamento non è neppure una forma di accordo di ristrut‑
c i v i l e
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2. La esenzione da revocatoria degli atti di esecuzione del piano
di risanamento attestato.
Ai fini della produzione dell’effetto di esonero dalla revo‑
catoria fallimentare, la legge richiede che la ragionevolezza del
piano sia attestata da un professionista, iscritto nel registro dei
revisori contabili, ed in possesso dei requisiti previsti dall’art.
28, lett. a) e b), ai sensi dell’art. 2501-bis, comma 4, c.c.
Questa attestazione ha lo stesso ruolo e la stessa valenza
della relazione che deve essere depositata, ai sensi dell’art.
182-bis, con l’accordo di ristrutturazione (vale a dire: confe‑
rire alle previsioni contenute nel piano, un elevato grado di
attendibilità), e, come quella relazione, da un lato deve recare
una adeguata motivazione del giudizio del professionista, e,
dall’altro, deve necessariamente includere, pur nel silenzio
della legge, la verifica e l’attestazione della veridicità dei dati
aziendali su cui poggiano le previsioni del piano5.
La disposizione de qua richiama l’art. 2501-bis c.c.: è
dubbio se il richiamo valga solo in ordine al tipo di valutazio‑
ne richiesta al professionista, oppure in ordine alle modalità
di nomina dell’esperto, che – in virtù del rinvio all’art.
2501-sexies contenuto nel comma 4 dell’art. 2501-bis – do‑
vrebbe allora essere, per le società per azioni o in accomandi‑
ta per azioni, designato dal tribunale.
2.1. (Segue) Il sostegno finanziario dell’impresa in crisi.
Tra gli strumenti individuati allo scopo di favorire la
tempestiva emersione delle situazioni di “crisi” dell’impresa,
e di garan­tirne, per quanto possibile, il superamento o, per lo
meno, la sistema­zione in modi più efficienti e più efficaci ri‑
spetto al passato, si colloca la “esenzione” dall’azione revo‑
catoria fallimentare degli atti posti in essere in funzione od in
esecuzione di una procedura giudicata dalla nuova legge fal‑
limentare atta a prevenire, superare o sistemare adeguatamen‑
te la situazione di “crisi”.
turazione o, più in generale, uno strumento di soluzione concordata della crisi.
Esso è, propriamente, atto unilaterale che non vede alcun intervento di uno o
più creditori nella sua fase costitutiva e deliberativa.
L’intesa con taluni creditori, o in ipotesi con uno solo o con tutti, può essere, e
di norma è, un presupposto di fatto del piano, il quale può fondarsi su talune
assunzioni economiche, patrimoniali e finanziarie grazie al fatto che tale accor‑
do vi sia.
Ma l’accordo non gioca alcun rilievo giuridico sul piano, che è in sè atto suffi‑
ciente, in presenza delle altre condizioni di legge, a far scaturire certi effetti per
l’ordinamento.
Più in generale, il piano non si rapporta alla crisi come strumento giuridicamen‑
te rilevante per la sua soluzione, nel senso che la sua “entrata in vigore” per il
diritto presupponga un vaglio di congruenza al fine.
La soluzione di uno stato di crisi è, certamente, l’obiettivo del piano, ma solo
nel senso delle motivazioni interne dell’imprenditore e del giudizio di ragione‑
volezza rispetto al fine postosi.
Paradossalmente, il piano attestato di risanamento acquista rilevanza, sul piano
giuridico, soltanto quando ha fallito il proprio obiettivo.
E’ allora, quando il curatore fallimentare esercita l’azione revocatoria, che la
sua esistenza e la sua attestazione da parte di un esperto producono i soli effet‑
ti che l’ordinamento gli riconosce : la stabilizzazione degli atti posti in essere in
sua esecuzione e la preclusione della loro revoca.
Il piano attestato, dunque, che pur mira a prevenire la crisi, non interessa in
quanto strumento che effettivamente la prevenga, ma in quanto strumento che
non sia riuscito ad evitarla.
Errato sarebbe perciò, concepirlo come uno strumento alternativo al fallimen‑
to per la soluzione della crisi.
Sino a che il fallimento non c’è, il piano attestato non interessa.
Serve, per così dire (ai propri limitati fini) quando la crisi esplode in una procedura di insolvenza. G. Meo, I piani di risanamento previsti dall’art. 67 l. fall.,
in Giur. Comm. 1/01, pagg. 30 ss.
5 A. Nigro, op. cit., pag. 935.
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
La portata di questo “incentivo”, non è, peraltro, univo‑
camente intesa.
L’ultimo comma dell’art. 67 l. fall., infatti, aggiunge che
“le disposizioni di questo articolo non si applicano all’istituto
di emis­sione, alle operazioni di credito su pegno e di credito
fondiario” (ed aggiunge: “sono salve le disposizioni delle
leggi speciali”): e non è chiaro se la portata delle due “esen‑
zioni” sia uguale, oppure no6.
Per la seconda delle categorie di atti “esentati” la esenzio‑
ne con­cerne, in modo esplicito, solamente l’azione revocatoria
(fallimentare) prevista da “questo articolo” (l’art. 67).
Per la prima categoria, invece, la esenzione riguarda
“l’azione revocatoria”.
Secondo l’opinione di alcuni interpreti, le esenzioni dispo‑
ste dal terzo comma dell’art. 67 1. fall, dovrebbero riguarda‑
re, in linea di principio, i soli atti “normali” dovrebbero ri‑
guardare, in linea di prin­cipio, i soli atti “normali” di gestio‑
ne: quindi dovrebbero evitare l’e­sercizio dell’azione revocato‑
ria fallimentare, in sostanza, nelle sole ipo­tesi nelle quali essa
sarebbe proponibile ai sensi dell’art. 67, comma 2, 1. fall.
La conclusione non può essere condivisa, per molteplici
ragioni.
Innanzitutto, il segnalato confronto letterale con la dispo‑
sizione contenuta nel comma successivo induce a ritenere che
le nuove esen­zioni previste dal terzo comma abbraccino, “per
lo meno”, tutte le ipotesi che ricadrebbero sotto l’ambito di
applicazione di “questo articolo”, quindi anche quelle riferi‑
bili al primo comma dell’art. 677.
In secondo luogo, anche ad una prima lettura delle fatti‑
specie descritte come oggetto delle disposte esenzioni, si coglie
che un buon numero di esse è funzionale ad evitare l’applica‑
zione “proprio” del primo comma dell’art. 67 (con particola‑
re riguardo alla esenzione per atti posti in essere in funzione
della attuazione di “Piani di Risanamento” o di “Accordi di
Ristrutturazione”).
Oltre a ciò, sempre facendo leva sul ricordato argomento
lette­rale incentrato sul confronto con la disposizione del
quarto comma della norma de qua, si può avere ragione di
ritenere che gli atti contemplati nella disposizione in esame
siano sottratti ad ogni azione revocatoria fallimentare, ivi
comprese quelle previste dall’art. 64 e dall’art. 65 1. fall.;
nonché – è da ritenere – all’azione revocatoria pre­vista dall’art.
66 1. fall., azione revocatoria ordinaria proseguita o proposta
dal curatore fallimentare.
Induce soprattutto a propendere per la tesi secondo la
quale alla “esenzione” dall’azione revocatoria prevista
dall’art. 67, co. 3, 1. fall, deve essere attribuita portata gene‑
rale, la circostanza che, in numerose fattispecie tra quelle
interessate dalla norma, la aspirazione a sottrarre all’azione
revocatoria fallimentare determinate categorie di atti ri­guarda
anche situazioni nelle quali si presenterebbero – altrimenti – i
presupposti dell’esercitabilità dell’azione revocatoria prevista
dal primo comma dell’art. 67 1. fall, (come sarebbe, per esem‑
pio, per le garanzie costituite in favore di crediti pregressi, che
6 S. Bonfatti, Il sostegno finanziario delle imprese in crisi, in La ristrutturazione dei debiti civili e commerciali, in Quaderni di Giur. Comm., n. 346,
Milano, 2011, pag. 90.
7 Ibidem.
2 0 1 1
11
rappresentassero atti di esecuzione di uno dei piani o degli
accordi previsti dall’art. 67. co. 3, lett. d) oppure lett. e) l. fall.);
oppure i presupposti dell’esercitabilità dell’azione revocatoria
prevista dall’art. 65 I. fall, (come sa­rebbe, per esempio, per il
rimborso anticipato di debiti aventi scadenza molto differita
nel tempo – potrebbe trattarsi di un prestito obbligazionario
particolarmente oneroso –, anch’esso in ipotesi rappresen­tante
un atto di esecuzione di uno dei menzionati piani o accordi
previsti dall’art. 67. co. 3, lett. d) oppure lett. e) 1. fall.)8.
Occorre, infine, domandarsi se gli atti in questione deb‑
bano consi­derarsi sottratti, altresì, all’azione revocatoria or‑
dinaria proposta anche al di fuori del fallimento.
Militano in questo senso la considerazione che, ove so‑
pravvenisse il fallimento, l’azione revocatoria ordinaria diver‑
rebbe improcedibile, qualora si ritenesse inapplicabile agli
atti “esentati”, l’art. 66 1. fall.; e la considerazione che risul‑
terebbe irrazionale una disciplina che assog­gettasse gli atti de
quibus ad una disciplina più severa al di fuori del fallimento,
che a seguito della pronuncia della sentenza dichiarativa.
Non vi dovrebbero essere incertezze, invece, nel conside‑
rare rien­tranti nell’ambito di applicazione delle “esenzioni”
disposte dall’art. 67, comma 3, 1. fall, novellato (e, conseguen‑
temente, inapplicabili alle fattispecie ivi descritte), le azioni
revocatorie fallimentari cc.dd. spe­ciali, disciplinate per lo più
al di fuori della legge fallimentare, quali le azioni revocatorie
cc.dd. “aggravate” per atti compiuti “infra-gruppo”, nella
disciplina dell’Amministrazione straordinaria (“ordina­ria” e
“speciale”); le azioni revocatorie relative alle operazioni di
fac­toring, o di “cartolarizzazione”; eccetera.
Relativamente alla identificazione degli “atti” suscettibili
di es­sere sottratti all’azione revocatoria fallimentare, va os‑
servato che il “Piano di Risanamento” non è necessariamente
costituito da un ac­cordo con i creditori: potendo essere rap‑
presentato sia da un accordo con terzi estranei (per esempio,
nuovi investitori chiamati a sottoscri­vere un aumento di capi‑
tale, oppure ad acquistare asset dell’impresa in crisi), sia da
un progetto unilaterale (per esempio il conferimento di nuovi
beni nell’impresa, o l’erogazione di nuovi finanziamenti da
parte dei soci alla società in “crisi”)9.
La formula utilizzata dalla norma de qua (“atti, pagamen‑
ti e garanzie”) appare sufficientemente generica da consentire
di affer­m are che qualsiasi “operazione” posta in essere
dall’imprenditore è suscettibile di sfuggire all’applicazione
dell’azione revocatoria, purché risulti posta in essere “in ese‑
cuzione” di un “Piano...di Risana­mento” la cui ragionevolez‑
za sia attestata nei modi voluti dalla norma.
La “formula” è analoga a quella prevista dalla successiva
dispo­sizione dell’art. 67, comma 3°, lett. e) per gli atti di ese‑
cuzione del Concordato Preventivo e dell’Accordo “di Ristrut‑
turazione” ex art. 182-bis 1. fall.: tuttavia, per gli atti di
esecuzione del “piano” di Risa­namento, è precisato che il
beneficio della esenzione da revocatoria è limitato alle garan‑
zie concesse “su beni del debitore”.
Per le operazioni funzionali a dare esecuzione ad un ac‑
cordo “giudiziale”, invece (che si tratti di accordo derivante
dall’ammissione dell’impresa a Concordato Preventivo, o che
8 Ibidem., pag. 92.
9 Ibidem., pag. 93.
civile
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
si tratti dell’Accordo di Ristrutturazione omologato dall’au‑
torità giudiziaria di cui all’art. 182-bis 1. fall.), la esenzione
abbraccia tutte le “garanzie”: parrebbe, anche quelle conces‑
se da un terzo, o su beni di un terzo, o nell’interesse di un
terzo.
Della ricordata limitazione non si comprende, in realtà, la
ratio, se non come espressione di un perdurante disfavore ri‑
servato agli ac­cordi “stragiudiziali” rispetto agli accordi (to‑
talmente o parzialmente) “giudiziali”.
Ma, più che il carattere discutibile di tale logica, è da
denunciare la evidente incongruenza della norma10.
Se si vuole introdurre una distinzione razionale – suppo‑
nendo che la diversa formulazione rilevata non costituisca
semplicemente una banale svista –, la distinzione dovrebbe
passare tra l’ipotesi di garan­zie costituite per debiti propri
(dell’imprenditore che accede ad una delle procedure di com‑
posizione negoziale della crisi) – dove la ga­ranzia sarebbe
necessariamente costituita (dall’imprenditore interes­sato) “su
beni del debitore” –; e l’ipotesi di garanzie costituite per de‑
biti altrui – dove la garanzia (del debitore interessato da un
proce­dimento di composizione della crisi d’impresa) potrebbe
essere rappre­sentata tanto dalla costituzione di un pegno o di
un’ipoteca “su beni del debitore” (ma per un debito altrui),
quanto dalla prestazione, da parte sua, di una fideiussione
nell’interesse di terzi –.
A questa stre­gua, sarebbe comprensibile – salvo valutare
se sarebbe anche condividibile – prevedere che la “esenzione”
da revocatoria, in determinate ipotesi – e, nel nostro caso, ciò
riguarderebbe i “Piani di Risanamento” di cui al nuovo art.
67, comma 3°, lett. d), l.fall. –, sia circoscritta alle garanzie
costituite per debiti propri, e non comprenda – invece – le ga‑
ranzie prestate per debiti altrui (ma, a questo punto, non solo
le “garanzie concesse su beni del debitore”, ma anche quelle
concesse coinvolgendone la generica responsabilità patrimo‑
niale – come sa­rebbe per la prestazione di una fideiussione)11.
Per converso, la disciplina di maggior favore che si voles‑
se apprestare, sotto il profilo qui considerato – come le nuove
norme sem­brerebbero voler prevedere –, per gli accordi di
composizione delle crisi di natura giudiziale (o semigiudiziale:
art. 182-bis 1. fall.), non dovrebbe tanto sottolineare la costi‑
tuibilità di garanzie “concesse su beni non del debitore” – la
cui inattaccabilità è ovvia, perché prestate da un soggetto
terzo, diverso dall’imprenditore “in crisi” –: quanto, piuttosto,
la sostituibilità, da parte dell’imprenditore interessato, di ga­
ranzie per debiti altrui – vuoi “su beni del debitore”, vuoi
nella forma della prestazione di fideiussione, quando giudica‑
te utili alla compo­sizione della situazione di crisi in atto.
2.2. (Segue) Risanamento e riequilibrio.
La legge non richiede né che il piano sia frutto di un ac‑
cordo tra il debitore e i creditori, né che esso sia reso pubblico,
di talché il debitore potrebbe elaborarlo in modo unilaterale
e segreto, svelandone l’esistenza solo al momento opportuno,
vale a dire in sede di fallimento.
L’effetto di un piano sul quale l’esperto abbia apposto il
proprio suggello di «ragionevolezza » è infatti costituito – nel
10 Ibidem., pag. 94.
11 Ibidem.
c i v i l e
Gazzetta
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caso in cui l’impresa sia dichiarata fallita — dall’esonero
dall’azione revocatoria degli «atti», dei «pagamenti» e delle
«garanzie concesse su beni del debitore... in esecuzione» del
piano medesimo. Tuttavia, tale ef­fetto non è automatico,
potendo il giudice – chiamato a decidere sulla domanda di
revoca – sempre valutare se il piano apparisse, all’epoca della
sua predisposizione, effettivamente «idoneo» a raggiungere i
propri obiettivi, o se, piuttosto, tale idoneità non fosse ex
ante inesi­stente.
Non pare dubbio che il piano di risanamento – vista la sua
disciplina – rappresenti uno strumento fruibile, oltre che per
perseguire obiettivi «buoni», per ottenere risul­tati «cattivi»
(o, comunque, meno « buoni »).
Gli obiettivi «buoni » sono evidenti, e sono stati posti in
luce tante volte12.
In sintesi, l’imprenditore volenteroso e capace può, insieme
ai propri creditori (o ai creditori «strategici»), programmare
un serio recupero di efficienza della propria impresa, senza
che il rischio della revocatoria induca gli stessi creditori a ri‑
fiutare ogni sostegno all’im­presa in difficoltà, imponendo, su
quest’ultima, una sorta di embargo prodromico – pressoché
in ogni caso – alla dichiarazione di falli­mento.
Ma anche i risultati «cattivi» (o meno «buoni») sono evi‑
denti, per quanto non sempre essi siano stati indicati con
chiarezza.
In defi­nitiva, si tratta di ciò, che, con il piano di risana‑
mento, il debitore opera una selezione unilaterale fra i propri
creditori, accordando ad alcuni un trattamento preferenziale
rispetto a quello riservato agli altri.
Per convincersene, conviene rammentare come – alla stre‑
gua di una dot­t rina che credo attendibile – dal vittorioso
esperimento dell’azione revocatoria promani un «vincolo di
indisponibilità successiva», in grado di incidere sulla circola‑
zione dei beni che ne sono colpiti.
Basta muovere da questa premessa, allora, per avvedersi
che l’esenzione dalla revoca, disposta in favore di solo alcuni
tra i creditori, viene a realiz­zare per tutti gli altri – nel mo‑
mento in cui li priva della possibilità di fruire di tale vincolo
– una vera e propria diminuzione della garan­zia patrimonia‑
le, in deroga ai principi degli artt. 2740 e 2741 c.c.
Capovolgendo la prospettiva, potrebbe anche dirsi (in
termini dichiara­tamente non rigorosi) che i creditori coinvol‑
ti nel piano si trovano a godere di una garanzia atipica sui
beni del debitore, attributiva loro di una posizione migliore
di quella spettante ai creditori ad esso estranei13.
E tutto ciò – è fondamentale notarlo – senza che di siffat‑
ta vicenda sia richiesta alcuna pubblicità, sicché i creditori
«sfavoriti» potreb­bero scoprire di essere tali solo quando,
fallita l’impresa, ed esperite le azioni per reintegrarne l’attivo,
il debitore decida di esibire il piano munito dell’imprimatur
dell’esperto.
Qui, in realtà, si in­tende solo evitare che un istituto dalle
indubbie potenzialità «posi­tive» venga impiegato per finalità
12 F. Briolini, L’azione revocatoria fallimentare dei pagamenti effettuati nei termini d’uso e nei confronti degli atti di esecuzione dei piani di risanamento e
degli accordi di ristrutturazione, in La ristrutturazione dei debiti civili e commerciali, in Quaderni di Giur. Comm., n. 346, Milano, 2011, pag. 177.
13 Ibidem.
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2 0 1 1
13
meno commendevoli, con gravi danni per il ceto creditorio
(rectius: per una sua parte, presumibil­mente la più disinfor‑
mata, o la meno spregiudicata).
Con riguardo, invece, al rilievo che pone l’accento sulla
respon­sabilità dell’esperto, v’è da osservare che, per un verso,
a distanza di tempo può essere difficile affermare con sicurez‑
za la negligenza di chi abbia rilasciato l’attestazione di idonei‑
tà (attestazione che consiste, pur sem­pre, in un giudizio pro‑
babilistico).
Per altro verso, che anche ove tale responsabilità fosse
riconosciuta, essa potrebbe rappresentare una con­solazione
assai magra per la massa, atteso che non vi è alcuna certezza
che il patrimonio dell’esperto sia capiente a fini risarcitori.
Passando, poi, all’osservazione per cui il piano « inidoneo
» po­trebbe sempre essere considerato tale dal giudice, pare
che essa renda i dubbi ancora più forti, anziché fugarli14.
Non è chi non veda, infatti, come la sindacabilità ex post
del piano costituisca un potente fattore di incertezza, tale da
indurre alla massima cautela i creditori che, pure, siano in‑
tenzionati ad impegnarsi in uno di quei ragionati tentativi di
risanamento di cui prima si parlava (basta fare l’esempio di
una banca, disposta a concedere un finanziamento a condi‑
zione di ricevere un’adeguata garanzia).
Cautela che potrebbe trasformarsi in... vera e propria re‑
pulsione, se l’ipotetico finanziatore dell’impresa do­vesse anche
rischiare di essere convenuto in giudizio per abusiva con­
cessione del credito, alla stregua dell’indirizzo che ritiene che
tale re­sponsabilità non sia elisa a priori dall’aver agito in
esecuzione di un piano di risanamento.
In definitiva, se è vero che l’attestazione dell’e­sperto non
garantisce l’esonero dalla revoca, né esclude future azioni
risarcitorie per aver abusivamente finanziato l’impresa, è ve‑
rosimile che il creditore avveduto preferisca interrompere i
rapporti con la con­troparte in difficoltà, ovvero orientarsi
verso altri strumenti di compo­sizione della crisi.
Ed è anche verosimile che il piano di risanamento rischi
di essere utilizzato come mezzo onde avallare le manovre
«cor­sare» dei creditori più spericolati, con grave danno per
tutti gli altri (e, in ultima analisi, per l’impresa stessa).
Ora, in effetti, non si tratta di condurre battaglie (di re‑
troguardia) in difesa della par condicio, atteso che la possibi‑
lità di una deroga a quest’ultima è fuori discussione, emergen‑
do dalla legge la liceità delle negoziazioni, onde, ad alcuni
creditori, è attribuito un trat­tamento migliore di quello spet‑
tante agli altri.
Piuttosto, occorre verificare se siffatta deroga non possa
compiersi in modi che realizzino una sintassi più congrua
degli interessi implicati nella vicenda de qua.
In effetti, a ben guardare, i risultati oggi perseguibili con
tale norma potevano essere raggiunti già prima del 2005, e
possono esserlo tuttora, tramite due tecniche tra loro molto
diverse, ma – come auto­revolmente si è chiarito – per taluni
aspetti equivalenti: la costitu­zione di una nuova società e la
creazione di un patrimonio destinato15.
Si pensi, innanzitutto, alla costituzione di una nuova so‑
cietà (in primis, unipersonale). In tal modo, l’imprenditore in
difficoltà può destinare risorse all’esercizio di un’attività im‑
prenditoriale, di cui l’atto costitutivo rappresenta, in un certo
senso, il programma giuridico, il « piano » di svolgimento.
Inoltre, costituendo una nuova società, l’im­prenditore
opera una selezione fra i propri creditori, che, da quel mo­
mento in poi, si dividono in «personali» e «sociali».
Ed anche qui il risultato ultimo è che, in ipotesi di falli‑
mento dell’imprenditore (indi­v iduale), gli atti compiuti in
esecuzione del «piano» rappresentato dall’atto costitutivo
sono esonerati dalla revoca, e che alcuni creditori (quelli
«sociali») si sottraggono alle perdite sopportate dagli altri –
ma la circostanza che tali atti formalmente siano imputabili
al sog­getto-società semplifica di molto il discorso, e rende la
conclusione pressoché scontata.
Ma si consideri pure il patrimonio destinato, nelle due
sottospe­cie del patrimonio «operativo» e del finanziamento
destinato.
Anche in questo caso, l’imprenditore-s.p.a. destina valori
ad un’iniziativa eco­nomica («affare »), che si svolge sulla base
di un « programma (eco­nomico-) finanziario». Anche in que‑
sto caso, si determina una distin­zione fra serie di creditori:
distinzione immediata, nell’ipotesi del pa­trimonio «operati‑
vo»; distinzione differita (all’effettiva emersione di proventi
dell’affare), in quella del finanziamento destinato (che si pre­
sta, pur esso, ad essere visto come una tecnica onde è accor‑
data una garanzia al finanziatore dell’impresa).
In primo luogo, qui si intende richiamare l’attenzione
sulla « naturale » attitudine del piano di risanamento ad in‑
cidere sulla posi­zione e sulla sorte dei creditori, e sull’oppor‑
tunità a certi fini di pen­sare allo stesso piano come ad una
tecnica per produrre una separa­zione patrimoniale, in deroga
al canone degli artt. 2740 e 2741 c.c.
In secondo luogo, è d’uopo porre in luce che il sistema,
mentre favorisce la nascita e lo sviluppo delle iniziative
impren­ditoriali, tutela anche coloro che ne potrebbero riceve‑
re un pregiudizio.
E li tutela nel rispetto di due principi cardine, che sono
quelli:
i) della pubblicità, atteso che le vicende di cui si è detto
sono tutte «dichia­rate» al mercato, di modo che quest’ultimo,
ed in specie il ceto credi­torio, possa compiere le valutazioni
più opportune, quanto alla conve­nienza di continuare a con‑
cedere credito all’impresa; e
ii) dell’impu­gnativa, grazie alla quale i soggetti potenzial‑
mente lesi possono – con strumenti eterogenei: opposizione;
revocatoria – bloccare l’operazione pregiudizievole, ovvero
eliminarne gli effetti.
Questi cenni conducono ad una conclusione da esprimere
con chiarezza.
Invero, ad avviso dell’autore de quo16 – con sommessa
condivisione dello scrivente - si ritiene che gli inconvenienti di
cui si è detto possano venire tutti eliminati ammettendo sia
la pub­blicazione del piano di risanamento nel registro delle
imprese, a cura dell’imprenditore, sia l’opposizione da parte
dei creditori che lamen­tino un pregiudizio, sulla falsariga di
quanto stabilito per gli accordi di ristrutturazione (art. 182-
14 Ibidem., pag. 178.
15 Ibidem., pag. 179.
16Ibidem., pag. 180.
civile
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14
D i r i t t o
e
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bis, 4° comma, 1. fall.).
E’ indubbio che tale proposta potrebbe essere giudicata
troppo ar­dita, almeno de jure condito, poiché essa sembrereb‑
be confliggere con il principio di tassatività delle iscrizioni nel
registro delle imprese, oltre che inquinare la « vena » privati‑
stica e la riservatezza tipiche del piano di risanamento (che si
avvicinerebbe all’accordo di ristrutturazione).
Tuttavia, si tratterebbe di critiche non risolutive.
Quanto alla prima (certamente la più seria), si ritiene che
essa possa superarsi facendo leva proprio sulla regola la qua‑
le esige che gli ac­cordi di ristrutturazione siano pubblicati nel
registro delle imprese, e riconnette alla pubblicità l’effetto
dell’esonero dalla revoca.
Ebbene, in tale regola potrebbe intravedersi l’epifania di
un principio di più ampio respiro, valevole per tutti gli stru‑
menti di soluzione « negoziale » delle crisi d’impresa. Dunque,
non solo per gli accordi di ristrutturazione, ma anche per
quell’ulteriore species del medesimo genus costituita dai piani
di risanamento, una volta acclarato che questi ultimi possono
incidere sulla par condicio in modi qualitativamente identici
rispetto agli accordi di ristrutturazione.
Converge in questo senso l’indirizzo ormai largamente
maggioritario, che rifiuta la quali­fica degli accordi come una
possibile mera modalità esecutiva del con­cordato preventivo,
e valorizza, piuttosto, i tratti negoziali dell’istituto di cui all’art.
182-bis 1. fall., attribuendovi piena dignità ed autonomia.
D’altro canto, dopo aver imboccato questa strada, sem‑
brerebbe consequenziale riconoscere ai creditori la tutela di
«im­pugnativa», e dunque, consentire a costoro di fare oppo‑
sizione all’ese­cuzione del piano: opposizione che rappresenta
lo strumento prediletto dal legislatore ogni volta che si tratti
di arbitrare fra l’interesse allo sviluppo o, comunque, all’arti‑
colazione dell’impresa, e l’interesse del ceto creditorio al
mantenimento della garanzia patrimoniale.
Quanto alla seconda critica, si ritiene che l’introduzione
nell’istituto di un maggior tasso di ufficialità rappresenti un
costo più che soppor­tabile, dinanzi ai due fondamentali be‑
nefici ricavabili in tal modo.
Innanzitutto, la pubblicazione nel registro delle imprese
consenti­rebbe agli interessati di venire a sapere dell’esistenza di
un piano di risanamento, e di apprezzarne subito pregi e difetti.
Pubblicato il piano, i creditori convinti dell’inidoneità di
questo a raggiungere gli obiettivi prefissati avrebbero l’onere
di proporre opposizione, allegando (e pro­vando) l’esistenza di
un pregiudizio derivante dalla sua esecuzione.
Insomma, si otterrebbe un’immediata scrematura fra pro‑
grammi realiz­zabili e semplici «libri dei sogni», da cui gli impren‑
ditori (e i credi­tori) seri non dovrebbero aver nulla da temere.
L’altro (e connesso) beneficio è rappresentato dalla circo‑
stanza che, in mancanza di opposizioni, o respinte queste
ultime, i creditori disposti ad impegnarsi nel sostegno dell’im‑
presa, potrebbero farlo senza timore che i propri sforzi siano
vanificati da una valutazione giudiziale di « inidoneità ».
In altri termini: la sede per valutare la capacità del piano
di consentire il risanamento e il riequilibrio dell’impresa sa‑
rebbe solo il giudizio di opposizione, mentre, nel giudizio di
revoca, potreb­bero essere dedotte soltanto altre tipologie di
«vizi», come, ad es., la non pertinenza degli atti, dei pagamen‑
ti e delle garanzie rispetto al | piano.
Il risultato ultimo è che ne risulterebbe molto accresciuta
c i v i l e
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la fruibilità dell’istituto, il quale diverrebbe davvero uno
strumento onde condurre in porto ragionati tentativi di solu‑
zione delle crisi, e lo stesso esonero dalla revoca finirebbe per
recuperare appieno la propria razio­nalità17.
2.3. (Segue) Atti di esecuzione del “piano di risanamento
attestato” e “prededuzione”.
La disciplina dell’istituto conosciuto sotto il nome di
“prededu­zione” è affidata agli artt. 111 e 111-bis 1. fall.,
oggi integrati dall’art. 182-quater, introdotto dalla 1. n.
122/2010.
Quest’ultima norma non è applicabile agli atti posti in
essere in esecuzione di un “Piano di Risa­namento attestato”,
che rimangono, dunque, esclusivamente disciplinati dagli artt.
111 e 111-bis 1. fall.
L’art. 111, co. 2, 1. fall, afferma che “sono considerati
crediti prededucibili quelli così qualificati da una specifica
disposizione di legge, e quelli sorti in occasione o in funzione
delle procedure concor­suali di cui alla presente legge”.
La prima ipotesi (“specifica disposi­zione di legge”), come
detto, non ricorre: e neppure la seconda (“cre­diti ... sorti un
occasione o in funzione” di una procedura concor­suale):
perché al “procedimento” previsto per la predisposizione e la
attestazione del “Piano” di cui all’art. 67, comma 23, lett. d)
1. fall, non può essere attribuita natura di “procedura
concorsuale”18.
Alla man­canza di qualsiasi intervento giudiziale, si accom‑
pagna la mancanza di qualsiasi effetto distintivo tra la “mas‑
sa” delle obbligazioni precedenti il “Piano” e quelle successi‑
ve (se si esclude la “esenzione” da revocatoria per quelle
sorte in esecuzione del “Piano”); la mancanza di qual­siasi
divieto di azioni esecutive o cautelari per i creditori pregressi;
la mancanza di una qualsiasi “sanzione” di inopponibilità, ai
creditori “concorsuali”, di atti di disposizione del patrimonio
del debitore com­piuti dallo stesso (o da lui subiti) in favore di
singoli creditori pre­gressi.
Per soprammercato, la recente previsione di fattispecie di
crediti prededucibili per il compimento di atti funzionali
all’accesso al Con­cordato Preventivo o alla procedura di
omologazione degli Accordi di Ristrutturazione, o di atti
posti in essere per l’esecuzione dell’uno o dell’altro (art.
182-quater 1. fall.), dimostra ulteriormente, con il mancato
richiamo della figura del “Piano di Risanamento attestato”,
la volontà di mantenere distinta la natura dei primi due isti‑
tuti dalla natura giuridica del “Piano” stesso.
Ne consegue l’impossibilità di concepire una qualsiasi
colloca­zione prededucibile, nel concorso (anche fallimentare)
che si aprisse sul patrimonio dell’imprenditore, delle obbliga‑
zioni assunte a seguito di atti posti in essere in esecuzione del
“Piano di Risanamento atte­stato”19.
2.4. (Segue) “Piano di Risanamento attestato” e “finanziamenti-soci”.
La disciplina dei “finanziamenti-soci”, che viene in consi‑
derazione quando si valuta la sorte degli interventi di sostegno
17 Ibidem., pag. 181.
18S. Bonfatti, op. cit., pag. 95.
19Ibidem., pag. 96.
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
finanziario dei soci ad una impresa “in crisi”, è quella dettata
dagli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.
Tali norme, come è noto, dispongono:
(i) la postergazione dei crediti per finanziamenti-soci, se
non già rimborsati, erogati ad una società in condizione di
squilibrio finanziario; e
(ii) l’obbligo di restituzione di detti finanziamenti, se rim‑
borsati, qualora sopravenga entro un anno la dichiarazione
di fallimento della società.
Rispetto a tali finanziamenti, gli “incentivi” della “prede‑
duzione” e della “esenzione” da revocatoria fanno emergere
profili evidente­mente contraddittori, andando in senso con‑
trario, per i crediti da fi­nanziamento-soci, i ricordati effetti
della postergazione e dell’obbligo di restituzione del rimborso
eventualmente conseguito dal socio.
Relativamente al primo profilo, non si pone, per i crediti
da “fi­nanziamento-soci”, una esigenza di coordinamento tra
disciplina spe­ciale codicistica (“postergazione”) e disciplina
fallimentare: per gli atti posti in essere in esecuzione di un
“Piano” ex art. 67, co. 3, lett. d) 1. fall., come detto, non è
configurabile alcuna ipotesi di “prededuzione”, e, conseguen‑
temente, non è prospettabile alcun ostacolo alla “regolare”
produzione dell’effetto della postergazione in pregiudizio del
finanzia­mento erogato dal socio pur in esecuzione del “Piano”
attestato – essendo indubbia la condizione di “crisi (almeno)
finanziaria” dell’im­presa che accede a tale istituto – .
Relativamente al secondo profilo, il coordinamento tra la
disci­plina speciale codicistica (obbligo di restituzione del
rimborso del fi­n anziamento), e la disciplina fallimentare
(“esenzione” da revocatoria per gli atti di esecuzione del
“Piano”, ivi compresi i pagamenti che lo stesso avesse contem‑
plato), è meno agevole, potendo apparire bizzarro che, in
ipotesi di fallimento consecutivo all’insuccesso del “Piano”
,deb­bano essere restituiti (ex artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.)
i paga­menti di debiti (per finanziamento soci) “esentati”
dall’azione revoca­toria (ex art. 67, comma 3, lett. d) 1. fall.).
Secondo una opinione, in realtà, ben argomentata, “l’ob‑
bligo di restituzione” previsto dagli artt. 2467 e 2497-quinquies
cod. civ. (che postula, ricordiamolo, il fallimento della società
finanziata, e non è altrimenti invocabile) è riconducibile a
quella specie di azione revocatoria fallimentare disciplinata
dall’art. 65 1. fall, (i cc.dd. “pagamenti anticipati”, che sottrag‑
gono il creditore agli effetti dell’insolvenza del debitore, così
come il rimborso del finanziamento erogato dal socio sottrae
quest’ultimo all’effetto fallimentare della postergazione).
In tale prospettiva, la “esenzione” da revocatoria per ap‑
partenenza del pagamento all’ambito di applicazione dell’art.
67, comma 3, lett. d) 1. fall. (e sul condivisibile presupposto
che la “esenzione” eserciti una fun­zione protettiva anche nei
confronti dell’azione revocatoria fallimentare prevista dall’art.
65 1. fall.), comporta anche la sottrazione all’obbligo restitu‑
torio di cui agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.
Secondo un’altra opinione, non v’è coincidenza tra la
portata delle due norme: ed i pagamenti pur “esentati” da
revocatoria ex art. 67, co. 3, lett. d) 1. fall, rimarrebbero ri‑
petibili in presenza delle con­dizioni delineate dagli artt. 2467
e 2497-quinquies 1. fall.
Questa seconda tesi è quella che appare oggi condivisa in
giuri­sprudenza, anche se non si può ancora parlare di “orien‑
tamento”.
2 0 1 1
15
Se tale tesi dovesse prevalere, il sostegno finanziario dei
soci all’impresa in crisi, nel contesto dei “Piani di Risanamen‑
to attestati, si rivelerebbe privo di “incentivi” (di natura civi‑
listica: rimarrebbe infatti la “esen­zione” dalla disciplina della
bancarotta, oggi disposta dall’art. 217-bis 1. fall, che esclude
l’applicabilità degli artt. 216, comma 3, e 217 1. fall, “ai pa‑
gamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione ... del piano
di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d)” 1. fall.).
I crediti dei soci finanziatori, infatti, non sarebbero assi‑
stiti dalla prededuzione e, se pagati, obbligherebbero il socio
a restituire quanto ricevuto in caso di dichiarazione di falli‑
mento entro un anno20.
civile
Gazzetta
20Ibidem., pag. 97.
16
D i r i t t o
●
Le principali novità
introdotta dalla Legge
di stabilità
● Vittorio Sabato Ambrosio
Dottore in giurisprudenza
e
p r o c e d u r a
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F O R E N S E
Sommario: 1. Le nuove società tra professionisti – 2. La
riforma degli ordini professionali – 3. L’uso della posta elettronica certificata nel processo civile – 4. Interventi per ridurre il contenzioso civile in grado di appello e nel giudizio di legittimità – 5. Ulteriori strumenti per accelerare il giudizio civile pendente in appello – 6. Sull’aumento delle spese di giustizia nei giudizi d’impugnazione e nel giudizio di legittimità.
1. Le nuove società tra professionisti
La pazza estate economica, che ha messo a dura prova la
credibilità finanziaria della nostra Nazione, è stata fronteg‑
giata con la manovra di finanza pubblica meglio nota come
“Legge di stabilità 183/2011”.
Gli interventi predisposti dalla manovra mirano a sempli‑
ficare e ad innovare settori nevralgici dell’economia in cui si
palesano eccessi di burocrazia che rendono il sistema Italia
anacronistico agli occhi dell’Europa attraverso semplificazio‑
ni fiscali, società tra professionisti, nuove norme sul lavoro,
misure per velocizzare la giustizia civile e novità sul pubblico
impiego.
Di notevole rilievo pratico pare essere la novità introdotta
con riferimento all’attività dei professionisti che, a partire dal
1°gennaio 2012, potranno organizzare la propria attività
mediante gli schemi societari disciplinati dal codice civile nei
titoli V e VI del libro V, così come disposto dall’art. 10 comma
3 l. 183/2011. Di conseguenza è espressamente prevista la
possibilità di costituire sia società di capitali che di persone.
Balza ictu oculi la portata innovativa del cambiamento in
tema di svolgimento di attività professionale in forma associa‑
ta e le evidenti differenze con la previgente disciplina relativa
agli studi associati.
Innanzitutto, con riferimento alla costituzione dello studio
associato, nel vigore della precedente disciplina era sufficiente
una semplice scrittura privata autenticata, la quale doveva
essere comunicata al Consiglio dell’Ordine di appartenenza.
Per converso, la nuova normativa prevede per la costitu‑
zione della società un procedimento complesso connotato
dall’obbligo di redigere l’atto costitutivo nella forma dell’atto
pubblico e dalla relativa iscrizione nel registro delle imprese.
Ulteriore elemento di differenziazione riguarda i proventi
dell’attività professionale che negli studi associati, nel regime
previgente, venivano ripartiti in base al lavoro effettivamente
svolto dal professionista.
Con la nuova disciplina i proventi finiranno nel patrimonio
societario e, pertanto, saranno ripartiti equamente tra i soci
in sede di distribuzione degli utili indipendentemente dal la‑
voro svolto.
Addentrandoci nelle peculiarità testuali dell’art 10, il com‑
ma IV individua gli elementi necessari affinché possano costi‑
tuirsi le nuove società tra professionisti.
Invero, è espressamente previsto, nel disposto di cui alla
lett. a) del comma 4 dell’art.10, che l’atto costitutivo preveda
“l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte
dei soci”.
Tale statuizione pone un vincolo in capo alle costituende
società, le quali devono orientare il proprio oggetto sociale
nell’esclusivo svolgimento dell’attività professionale, escluden‑
do la possibilità di esercitare attività diverse.
Ulteriore elemento è previsto dalla lett. b) che individua i
requisiti minimi personali che devono essere posseduti dal singo‑
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lo socio, ovvero “l’ammissione in qualità di soci dei soli profes‑
sionisti iscritti ad ordini, albi e collegi, anche in differenti sezio‑
ni, nonché dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea,
purché in possesso del titolo di studio abilitante, ovvero sogget‑
ti non professionisti soltanto per prestazioni tecniche, o per fi‑
nalità di investimento”. Con riferimento ai cittadini dell’Unione
Europea in possesso del titolo abilitante si tende ad inverare la
libera circolazione del lavoro nell’ambito degli Stati Europei.
La lett. c) del comma 4 delinea ulteriori regole con riferi‑
mento all’esecuzione dell’incarico. In particolare “criteri e
modalità affinché l’esecuzione dell’incarico professionale con‑
ferito alla società sia eseguito solo dai soci in possesso dei re‑
quisiti per l’esercizio della prestazione professionale richiesta;
la designazione del socio professionista sia compiuta dall’uten‑
te e, in mancanza di tale designazione, il nominativo debba
essere previamente comunicato per iscritto all’utente”. Tale
previsione normativa riconosce un potere in capo al clienteconsumatore il quale, nell’instaurare un rapporto con la socie‑
tà tra professionisti, ha il diritto di scegliere il socio-professio‑
nista che più adeguatamente incarna quelle abilità idonee ad
inverare la fiducia che ripone nel soggetto qualificato.
Si specifica che tale disposto necessita di un regolamento
di attuazione che dovrà essere pubblicato entro sei mesi dalla
pubblicazione.
Infine, con riferimento agli elementi costituivi, la lett. d)
prevede“le modalità di esclusione dalla società del socio che
sia stato cancellato dal rispettivo albo con provvedimento
definitivo”. È stato evidenziato che tale norma nulla dispone
relativamente alle conseguenza dell’esclusione dall’albo del
socio di una società unipersonale.
È opportuno a questo punto indicare gli ulteriori elemen‑
ti che corredano la nuova disciplina delle società tra profes‑
sionisti di cui all’art. 10.
In primis, l’indicazione espressa dell’acronimo STP nella
denominazione sociale.
Di maggiore pregnanza è la limitazione prevista in capo
al singolo socio professionista, il quale non può essere parte‑
cipe di società dello stesso genere. I primi commentatori
hanno evidenziato che tale disposizione si riferisce al solo
socio professionista, in quanto, altrimenti opinando, quest’ul‑
timo potrebbe porre in essere comportamenti generativi di
concorrenza sleale.
Ancora, al fine agevolare la costituzione di tali enti socie‑
tari, è prevista la possibilità di costituire una società tra
professionisti per l’esercizio di più attività professionali, con
la conseguenza che i singoli professionisti resteranno sogget‑
ti alla disciplina deontologica e sanzionatoria del proprio
ordine di appartenenza.
Infine, restano salvi i diversi modelli societari e associati‑
vi già vigenti alla data di entrata in vigore della legge.
Così delineati gli aspetti essenziali della nuova disciplina,
possono individuarsi le criticità della cd. “legge di stabilità”
in tema di società tra professionisti.
Se scopo precipuo di tale legge era la semplificazione con
riferimento alle società tra professionisti sorgono dubbi, al‑
meno da una prima lettura, in merito al raggiungimento di
tale obiettivo.
Sono stati innanzi evidenziati gli appesantimenti proce‑
durali in merito alla costituzione di tali società e alla distri‑
buzione dei proventi.
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Ulteriori aggravi sono stati introdotti in merito agli orga‑
ni di governo che compongono la struttura societaria.
In particolare, è stato previsto che già nell’atto costitutivo
devono essere individuati i membri del consiglio di ammini‑
strazione e del collegio sindacale ex art. 2328 c.c., con la
conseguenza che tali organi andranno a gravare sulle relative
spese di gestione.
Ulteriormente va considerato che il regime giuridico delle
società di capitali potrebbe decelerare il funzionamento
dell’ente soprattutto con riferimento alle decisioni che com‑
petono all’organo assembleare, dal momento che, come noto,
in ossequio ai principi democratici, tale organo è regolarmen‑
te costituito solo quando è presente almeno la metà del capi‑
tale sociale. Si pensi, per esempio, all’aumento del capitale
sociale che può essere attuato solo dall’assemblea straordina‑
ria con la relativa approvazione dei soci che rappresentano
oltre la metà del capitale sociale in prima convocazione.
Inoltre, va sottolineato il maggiore aggravio procedurale
costituito dalla redazione del bilancio di esercizio secondo i
rigidi criteri stabiliti dagli art. 2423 c.c. e ss. per gli enti so‑
cietari.
Ulteriore aspetto problematico riguarda l’assoggettabilità
delle società tra professionisti al fallimento.
Il problema si pone in quanto il testo normativo nulla
dispone in merito.
In realtà, essendo il concetto di insolvenza permeabile agli
organismi societari si potrebbe affermare che non sono sog‑
gette al fallimento le società tra professionisti che dimostrano
il possesso congiunto dei requisiti di cui all’art. 1 l.fall.
Sul punto non vi è unanimità di vedute in quanto si sostie‑
ne che l’attività svolta dalla STP, non avendo vocazione com‑
merciale, sia esclusa dall’ambito di applicazione delle proce‑
dure fallimentari.
2. La riforma degli ordini professionali
L’art. 10 l. 183/2011si connota per un ulteriore fine ambi‑
zioso, prospettando una riforma degli ordini professionali da
attuare entro 12 mesi dalla pubblicazione della legge.
Nel tracciare le linee guida cui dovrà ispirarsi la riforma,
il legislatore lascia invariate le coordinate suggerite dall’art.
3 comma 5 del D.L. 138/2011.
I principi ispiratori della riforma sono i seguenti:
– l’accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fonda‑
to e ordinato sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio,
intellettuale e tecnica, del professionista. La limitazione, in
forza di una disposizione di legge, del numero di persone
che sono titolate ad esercitare una certa professione in
tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica,
è consentita unicamente laddove essa risponda a ragioni di
interesse pubblico e non introduca una discriminazione
diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, in caso di
esercizio dell’attività in forma societaria, della sede legale
della società professionale;
– previsione dell’obbligo per il professionista di seguire
percorsi di formazione continua permanente predisposti
sulla base di appositi regolamenti emanati dai consigli
nazionali, fermo restando quanto previsto dalla normati‑
va vigente in materia di educazione continua in medicina
(ECM). La violazione dell’obbligo di formazione continua
determina un illecito disciplinare e come tale è sanzionato
civile
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sulla base di quanto stabilito dall’ordinamento professio‑
nale che dovrà integrare tale previsione;
la disciplina del tirocinio per l’accesso alla professione
deve conformarsi a criteri che garantiscano l’effettivo svol‑
gimento dell’attività formativa e il suo adeguamento co‑
stante all’esigenza di assicurare il miglior esercizio della
professione. Al tirocinante dovrà essere corrisposto un
equo compenso di natura indennitaria, commisurato al suo
concreto apporto. Al fine di accelerare l’accesso al mondo
del lavoro, la durata del tirocinio non potrà essere comples‑
sivamente superiore a tre anni e potrà essere svolto, in
presenza di una apposita convenzione quadro stipulata fra
i Consigli Nazionali e il Ministero dell’Istruzione, Univer‑
sità e Ricerca, in concomitanza al corso di studio per il
conseguimento della laurea di concomitanza al corso di
studio per il conseguimento della laurea di primo livello o
della laurea magistrale o specialistica. Le disposizioni
della presente lettera non si applicano alle professioni sa‑
nitarie per le quali resta confermata la normativa vigente;
il compenso spettante al professionista è pattuito per
iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professiona‑
le prendendo come riferimento le tariffe professionali. È
ammessa la pattuizione dei compensi anche in deroga
alle tariffe. Il professionista è tenuto, nel rispetto del prin‑
cipio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello
della complessità dell’incarico, fornendo tutte le informa‑
zioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del
conferimento alla conclusione dell’incarico. In caso di
mancata determinazione consensuale del compenso, quan‑
do il committente è un ente pubblico, in caso di liquida‑
zione giudiziale dei compensi, ovvero nei casi in cui la
prestazione professionale è resa nell’interesse dei terzi si
applicano le tariffe professionali stabilite con decreto dal
Ministro della Giustizia;
a tutela del cliente, il professionista è tenuto a stipulare
idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio
dell’attività professionale. Il professionista deve rendere
noti al cliente, al momento dell’assunzione dell’incarico,
gli estremi della polizza stipulata per la responsabilità
professionale e il relativo massimale. Le condizioni gene‑
rali delle polizze assicurative di cui al presente comma
possono essere negoziate, in convenzione con i propri
iscritti, dai Consigli Nazionali e dagli enti previdenziali
dei professionisti;
gli ordinamenti professionali dovranno prevedere l’istitu‑
zione di organi a livello territoriale, diversi da quelli aven‑
ti funzioni amministrative, ai quali sono specificamente
affidate l’istruzione e la decisione delle questioni discipli‑
nari e di un organo nazionale di disciplina. La carica di
consigliere dell’Ordine territoriale o di consigliere nazio‑
nale è incompatibile con quella di membro dei consigli di
disciplina nazionali e territoriali. Le disposizioni della
presente lettera non si applicano alle professioni sanitarie
per le quali resta confermata la normativa vigente;
la pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad og‑
getto l’attività professionale, le specializzazioni ed i titoli
professionali posseduti, la struttura dello studio ed i com‑
pensi delle prestazioni, è libera. Le informazioni devono
essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere
equivoche, ingannevoli, denigratorie.
c i v i l e
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Da un raffronto dei dati normativi, appare di palmare
evidenza che l’unico elemento che connota l’attuale art. 10,
differenziandolo dalla previsione contenuta nel D.L. 138/2011,
è il riferimento alle tariffe professionali di cui tener conto in
sede di pattuizione del compenso.
Invero, il D.L. 138/2011 all’art. 3 comma 5, prevedeva
che, al momento del conferimento dell’incarico, le parti do‑
vevano pattuire per iscritto il compenso spettante al profes‑
sionista con riferimento alle tariffe professionali, salvo possi‑
bilità di derogarvi.
Oggi, la cd. “Legge di stabilità” conferma la pattuizione
scritta del compenso abiurando ogni rifermento alle tariffe
professionali, con la conseguenza che il compenso non sog‑
giace ad alcun parametro (resta solo per alcune controversie
giudiziali) ed è rimesso alla signoria delle parti.
Ad una lettura superficiale del dettato normativo la rifor‑
ma degli ordini professionali manca di un’effettiva forza
propulsiva innovatrice, limitandosi a dettare solo norme pro‑
grammatiche.
Sarebbe stato auspicabile una riforma strutturale rivolta
soprattutto ai giovani professionisti, i quali sembrano essere
i soggetti più svantaggiati da questa crisi economica.
Nello specifico, con riferimento alle quote da versare
annualmente agli ordini, sarebbe stato forse opportuno sta‑
bilire prezzi adeguati per i giovani che si affacciano all’eser‑
cizio dell’attività professionale.
3. L’uso della posta elettronica certificata nel processo civile
Uno degli aspetti lodevoli della “Legge di stabilità” con‑
siste nell’intento di velocizzare le comunicazione fra le parti
all’interno del processo civile, al fine di ridurre i biblici tempi
della macchina giudiziaria dello Stato che costituiscono, da
sempre, il deterrente principale per gli investimenti di impre‑
sa nel nostro Paese.
L’utilizzo della posta elettronica certificata nell’azione
civile non rappresenta un elemento di assoluta novità, in
quanto già il Legislatore del 2005 nella L. n. 80 aveva ricono‑
sciuto la possibilità, per il difensore, di indicare il numero di
fax o l’indirizzo di posta elettronica presso il quale intendeva
ricevere gli avvisi, ma limitatamente ad alcune ipotesi. Tale
novità, di fatto, è rimasta lettera morta poiché pochi sono
stati gli avvocati ad avvalersi di tale facoltà.
Il grande impatto innovativo, contenuto nell’art. 25 della L.
183/2011, risiede nell’aver predisposto un sistema di comunica‑
zioni informatiche diretto a scandire tutti i momenti del proces‑
so civile in cui sono previste delle comunicazioni alle parti.
In questo modo il Legislatore mira a riformare il farragi‑
noso sistema previgente nell’ambito del quale le comunicazio‑
ni venivano fatte tramite biglietto di cancelleria consegnato
dal cancelliere direttamente al destinatario che ne rilasciava
ricevuta oppure per mezzo dell’ufficiale giudiziario che lo
recapitava per mezzo del composito sistema della notifica.
A tale scopo il richiamato art. 25 pone un obbligo a cari‑
co del difensore di indicare l’indirizzo di posta elettronica
certificata previamente comunicato al proprio ordine.
Tale norma modifica l’art. 125 c.p.c., il quale nell’inciso
finale del primo comma prevede che: “Il difensore deve, al‑
tresì, indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata co‑
municato al proprio ordine e il proprio numero di fax”. Si
specifica che la congiunzione “e”, interposta fra l’indirizzo di
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posta elettronica certificata e il numero di fax, evidenzia che
i due strumenti di comunicazione non sono alternativi, ma
devono essere entrambi indicati dal professionista, salvo il
maggior favor del Legislatore per la cd. PEC.
L’ubi consistam dell’art. 25 riguarda l’affermazione di un
principio generale in tema di comunicazioni, secondo cui
tutte le comunicazioni della cancelleria, che necessitano di
essere portate a conoscenza nei confronti dei possibili desti‑
natari, devono effettuarsi o attraverso la consegna diretta al
destinatario o tramite l’indirizzo di posta elettronica certifi‑
cata, così come dispone il novellato art. 136, comma 2, c.p.c.
Tale enunciato viene rafforzato dalla riscrittura del comma 3
dell’art. 136 c.p.c., il quale prevede, in via sussidiaria, che,
solo laddove non sia possibile attivare il procedimento di
comunicazione di cui al comma 2, il biglietto di cancelleria
viene trasmesso a mezzo telefax o è rimesso all’ufficiale giu‑
diziario per la notifica. Attraverso tale ricostruzione gerarchi‑
ca (consegna al destinatario, invio mediante PEC, trasmissio‑
ne a mezzo telefax, notifica dell’ufficiale giudiziario) si palesa
che la ratio legis è teleologicamente orientata a favorire una
celere comunicazione fra le parti processuali e ad eludere le
inefficienze della macchina giudiziaria, garantendo, altresì,
una tangibile riduzione delle spese processuali.
A rendere operativo tale intento nell’art. 25 si rinvengono
una serie di prescrizioni che abrogano alcune norme del Co‑
dice di procedura civile in materia di comunicazione di atti
processuali da parte della cancelleria.
Di conseguenza vengono depennati:
• L’avviso di deposito della sentenza effettuato dal cancel‑
liere mediante telefax o indirizzo dei posta elettronica, ex
art. 133, comma 3, c.p.c.;
• La comunicazione dell’ordinanza resa dal giudice fuori
udienza eseguita dal cancelliere tramite telefax o indirizzo
dei posta elettronica, ex art. 134, comma 3, c.p.c.;
• La possibilità per il giudice di autorizzare la comunicazio‑
ne delle comparse e delle memorie attraverso telefax o
indirizzo dei posta elettronica, ex art. 170, comma 4, c.p.c.
(secondo periodo);
• Il riferimento alle comunicazioni delle ordinanze rese
fuori udienze in tema di richieste istruttorie, ex art 183,
comma 10, c.p.c.
La propulsiva spinta innovatrice in tema di comunicazio‑
ni processuali riguarda anche il giudizio di legittimità.
In particolare, viene eliminato il disposto di cui al comma
2 dell’art.336 che imponeva al difensore di eleggere domicilio
a Roma nel ricorso e che, in mancanza, autorizzava le notifi‑
che presso la cancelleria della Cassazione.
Per effetto della “Legge di stabilità” le notifiche presso la
cancelleria della Suprema Corte saranno eseguite nella sola
ipotesi in cui il difensore non elegga domicilio a Roma oppu‑
re ometta di indicare nel ricorso il proprio indirizzo di posta
elettronica certificata.
Ne consegue che l’avvocato patrocinante in Cassazione,
con la semplice indicazione nel ricorso del proprio indirizzo
di PEC, ha la opportunità di ricevere tutte le comunicazioni
processuali.
La compiuta riforma sull’uso della posta elettronica cer‑
tificata nel processo civile non poteva non occuparsi del
processo esecutivo.
Con riferimento alle espropriazioni mobiliari l’art. 25,
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comma 1, lett. l) della L. 183/2011 modifica il comma 4
dell’art. 518 c.p.c. prevedendo che il processo verbale di pi‑
gnoramento formato dall’ufficiale giudiziario debba essere
trasmesso al creditore e al debitore assenti che lo richiedano,
avvalendosi del mezzo della PEC. A sua volta il fax e la posta
ordinaria saranno utilizzate solo nei casi in cui la trasmissio‑
ne a mezzo di posta elettronica non sia possibile.
Nel procedimento di esecuzione immobiliare si impone una
regola analoga (ovverosia l’utilizzo del fax e della posta ordi‑
naria solo se non sia possibile l’uso della PEC) relativamente:
• alle comunicazioni da parte degli esperti delle relazioni di
stima degli immobili pignorati al creditore e al debitore,
ex art. 173-bis, comma 3, delle disposizioni di attuazione
del c.p.c.;
• alle presentazioni delle offerte di acquisto, di presentazio‑
ne della cauzione e di versamento del prezzo nel corso
delle operazioni di vendita, ex art. 173-quinquies, comma
1, delle disposizioni di attuazione del c.p.c.
Infine, si consente al difensore di effettuare la rituale in‑
timazione ai testi ammessi su richiesta delle parti private a
comparire in udienza mediante posta elettronica certificata o
fax, oltre che con raccomandata A/R.
Attraverso il sistema delineato dall’art. 25 della L.183/2011
il Legislatore sembra conseguire l’ammirevole intento di age‑
volare la celerità dei traffici giuridici ed evitare quelle lungag‑
gini processuali ritenute ormai non più accettabili in un siste‑
ma dominato dall’imperare dei nuovi modelli di comunica‑
zione imposti dal progresso scientifico dell’odierna realtà ci‑
bernauta.
L’unica speranza per l’operatore giuridico è che tale norma
non resti, così come è successo per la L. 80/2005, lettera morta.
In tal senso non lascia ben presagire l’assoluta mancanza
di previsione di meccanismi sanzionatori di natura processua‑
le per il difensore che ometta di indicare l’indirizzo di PEC.
4. Interventi per ridurre il contezioso civile in grado di appello e
nel giudizio di legittimità
L’art. 26 della Legge di stabilità 183/2011 persegue l’am‑
bizioso fine di accelerare sia i giudizi pendenti in II° grado che
i ricorsi presentati dinanzi alla Corte di Cassazione.
Il Legislatore mira a raggiungere tale scopo attraverso un
meccanismo teso a verificare se, nei richiamati gradi di giu‑
dizio, sussiste un effettivo interesse delle parti alla prosecu‑
zione del giudizio di impugnazione.
L’ambito oggettivo di tale disciplina è riferito ai giudizi
pendenti in appello da oltre due anni antecedenti al 15 novem‑
bre 2011 ed ai giudizi pendenti in Cassazione e ricorsi avver‑
so sentenze pubblicate prima della Legge 69/2009.
È chiaro che la norma de qua si applica esclusivamente a
giudizi che da molto tempo soggiacciono all’inattività delle
parti, le quali potrebbero anche aver perso interesse alla de‑
finizione della lite.
Il meccanismo, delineato dall’art. 26, prende l’avvio dalla
cancelleria che si occupa di avvisare le parti le quali devono
presentare, entro sei mesi dalla comunicazione, un’istanza di
trattazione personalmente sottoscritta; in mancanza, il giu‑
dizio sarà dichiarato estinto dal presidente del Collegio.
Si specifica che, ai fini della prosecuzione del giudizio, è
bastevole anche l’istanza presentata da una delle parti. Essa
deve avere la forma scritta ed essere autenticata dalla parte
civile
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che ha rilasciato il mandato al difensore.
L’estinzione viene dichiarata con decreto emesso fuori
udienza dal solo Presidente del Collegio.
Ad una prima lettura è stato da taluni evidenziato che
tale statuizione normativa sembra riferirsi ad un’ipotesi di
estinzione che opera di diritto e presenta elementi di analogia
con il paradigma dell’art 307 c.p.c. in tema di estinzione del
processo per inattività delle parti.
5. Ulteriori strumenti per accelerare il giudizio civile pendente in
appello
Al fine di smaltire l’abnorme carico pendente dinanzi alle
Corti d’Appello l’art. 27 della L.183/2011 propone una serie
di modifiche al codice di procedura civile atte ad velocizzare
i meccanismi decisionali dei giudizi di II° grado.
In via preliminare spicca la modifica degli artt. 351 e 352
c.p.c., nei quali si inserisce la possibilità per il Collegio Giu‑
dicante di decidere la causa a seguito della discussione orale
con successiva lettura del dispositivo in udienza, esponendo
in maniera concisa le ragioni in fatto e in diritto. Nello speci‑
fico, viene introdotto l’archetipo dell’art. 281-sexies c.p.c.
regolativo dei giudizi davanti al tribunale in composizione
monocratica.
Di conseguenza, seguendo i crismi dell’art. 281-sexies, la
Corte può considerare che la causa è matura per la decisione:
– quando vi è richiesta da una delle parti nell’udienza di
prima di comparizione, salvo la possibilità di rinviarla, su
istanza di parte, all’udienza successiva;
– quando la richiesta interviene nel corso della trattazione,
fatta sempre salva la facoltà di istanza di rinvio all’udien‑
za successiva;
– nell’udienza appositamente fissata per decidere sull’istan‑
za di sospensione dell’esecutività delle sentenza impugna‑
ta; in tal caso la Corte dovrà ad ogni modo fissare un’altra
udienza ex art 351 c.p.c. novellato.
Il Legislatore tra le “Modifiche al codice di procedura
civile per l’accelerazione del contenzioso civile pendente in
grado di appello” di cui all’art. 27 introduce un comma ag‑
giuntivo agli art. 283 e 431 c.p.c. prevedendo la possibilità
per il giudice di condannare con una pena pecuniaria com‑
presa tra i € 250 ed € 10.000 la parte che richieda una misu‑
ra inibitoria inammissibile e manifestatamente infondata.
Tale sanzione pecuniaria è finalizzata ad evitare istante
dilatorie atte solo ad allungare la ritmica processuale in spre‑
gio al fondamentale principio costituzionale (art. 111 Cost.)
ed internazionale (art. 6 CEDU) della ragionevole durata del
processo.
Bisogna specificare quali sono i parametri rilevanti al fine
di considerare l’istanza inammissibile e manifestamente in‑
fondata.
Viene considerata inammissibile l’istanza inibitoria che non
è proposta con l’impugnazione principale o con quella inciden‑
tale. La casista giurisprudenziale, antecedente alla Legge di
stabilità, ci evidenzia che è considerata inammissibile l’istanza
formulata dalla parte per la prima volta in udienza.
Per quanto riguarda la manifesta infondatezza si fa riferi‑
mento a quelle istanze che sono prive di un qualsiasi fonda‑
mento giuridico riscontrabile nell’ordinamento giuridico ge‑
nerale e che, pertanto, elidono le speranze della parte che
confida nel suo accoglimento.
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L’inciso finale dei riformati artt. 283 e 431 c.p.c. prevede
che l’ordinanza che infligge la sanzione è revocabile con la
sentenza che definisce il giudizio.
Per ottenere la revoca è necessario che la parte interessata
ne faccia richiesta indicando i motivi a fondamento della
stessa. Inoltre, è stato osservato che la pena pecuniaria può
essere revocata anche nei confronti della parte che sia poi ri‑
masta soccombente nel merito.
L’art. 27 codifica un principio ricorrente nell’ermeneutica
giurisprudenziale della Suprema Corte secondo cui l’ordinan‑
za con cui il Collegio provvede in ordine alla provvisoria
esecuzione della sentenza di primo grado non è reclamabile
davanti ad un giudice diverso né è ricorribile in Cassazione ex
art. 111 della Costituzione.
A tale scopo nell’art. 351 c.p.c., dopo le parole “il giudice
provvede con ordinanza”, è inserito l’inciso “non impugnabi‑
le” (rectius: “il giudice provvede con ordinanza non impugna‑
bile”).
Altro elemento introdotto dall’art. 27 è la possibilità per
il presidente del Collegio di delegare uno dei suoi componen‑
ti per l’assunzione dei mezzi istruttori, novellando, di conse‑
guenza il primo comma dell’art.350 c.p.c..
Anche tale misura, in corrispondenza con la ratio-legis
dell’art 27, vuole velocizzare la fase relativa all’assunzione dei
mezzi istruttori al fine di pervenire ad una celere definizione
della controversia giudiziaria.
Infine l’art. 27 integra l’art. 445-bis statuendo la non
impugnabilità delle sentenze che definiscono le controversie
in materia di invalidità civile, cecità civile, sordità civile,
handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di
assegno di invalidità, disciplinati dalla legge 12 giugno 1984,
n. 222.
6. Sull’aumento delle spese di giustizia nei giudizi d’impugnazione e nel giudizio di legittimità
L’art. 28 in materia di spese di giustizia introduce alcune
modifiche su alcune norme del D.p.r. 30 maggio 2002 n.
115.
Al fine di incrementare gli introiti dell’apparato-giustizia,
l’art. 28 prevede un aumento dell’importo del contributo
unificato e un’integrazione pecuniaria a carico della parte che
proponga domande che aumentino il valore della causa.
Relativamente al contributo unificato, l’art. 28 comma 1
lett. a), nell’inserire il comma 1- bis all’ art.13 del D.p.r.
115/2002, dispone: “Il contributo di cui al comma 1 è aumen‑
tato della metà per i giudizi di impugnazione ed è raddoppia‑
to per i processi dinanzi alla Corte di Cassazione”.
Specificando al comma 3 dell’art.28 che: “La disposizione
di cui al comma 1, lettera a), si applica anche alle controversie
pendenti nelle quali il provvedimento impugnato è stato pub‑
blicato ovvero, nei casi in cui non sia prevista la pubblicazio‑
ne, depositato successivamente alla data di entrata in vigore
della presente legge.”
Problema interpretativo può porsi in relazione all’esatta
portata del generico riferimento ai “giudizi di impugnazione”,
in quanto la norma potrebbe connotarsi per un più ampio
ambito applicativo rispetto alle semplici impugnazioni in
grado di appello.
Per quanto riguarda le domande modificate e riconvenzio‑
nali la lett. b) del comma 1 dell’art 28, modificando il comma
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3 dell’articolo 14 del D.p.r.115/2002, prevede che: “La parte
di cui al comma 1(ovverosia che per prima si costituisce in
giudizio), quando modifica la domanda o propone domanda
riconvenzionale o formula chiamata in causa, cui consegue
l’aumento del valore della causa, è tenuta a farne espressa
dichiarazione e a procedere al contestuale pagamento integra‑
tivo. Le altre parti, quando modificano la domanda o propon‑
gono domanda riconvenzionale o formulano chiamata in
causa o svolgono intervento autonomo, sono tenute a farne
espressa dichiarazione e a procedere al contestuale pagamen‑
to di un autonomo contributo unificato, determinato in base
al valore della domanda proposta”.
In altre parole, la parte che per prima si costituisce nel
giudizio è tenuta ad integrare il contribuito già versato solo
se, attraverso la modifica della domanda o la proposizione di
una domanda riconvenzionale o la formulazione della chia‑
mata in causa, si verifica un aumento del valore della causa.
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Ne consegue che le parti costituitesi successivamente, che
effettuano uno degli atti su esposti, sono tenute al pagamento
di un contributo unificato autonomo cui il valore si determina
in base al valore della domanda proposta.
Come innanzi evidenziato, tali norme mirano a garantire
un maggior gettito alle entrate dello Stato onde assicurare al
Ministero della giustizia un più efficace funzionamento degli
uffici giudiziari, soprattutto sul versante dell’informatizzazio‑
ne dei servizi.
Ad una prima lettura potrebbe profilarsi il sospetto dell’il‑
legittimità costituzionale della norma: l’aumento del contribu‑
to unificato e l’integrazione prevista per tutte le domande, in‑
cluse le riconvenzionali, che aumentino il valore della causa, nel
garantire maggiori introiti, sembra tuttavia introdurre un siste‑
ma che limita di fatto sia l’effettività della tutela giurisdiziona‑
le ex art. 24 della Costituzione che quello dell’uguaglianza dei
cittadini di fronte alla legge ex art. 3 della Costituzione.
civile
Gazzetta
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D i r i t t o
e
●
L’aumento del capitale
sociale
in presenza di perdite
Approfondimento del tema
alla luce della Massima n. 122
elaborata dal Consiglio Notarile di Milano
in data 18 settembre 2011*
● Luigi Russo
Avvocato
*Si riporta il testo integrale:”La presenza di perdite superiori al terzo del
capitale, anche tali da ridurre il capitale ad un importo inferiore al
minimo legale previsto per le s.p.a. e le s.r.l., non impedisce l’assunzione di una deliberazione di aumento del capitale che sia in grado di ridurre le perdite ad un ammontare inferiore al terzo del capitale e di
ricondurre il capitale stesso, se del caso, a un ammontare superiore al
minimo legale.
E’ dunque legittimo l’aumento di capitale:
(i) in caso di perdite incidenti sul capitale per non più di un terzo;
(ii) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale
non si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in sede di “opportuni
provvedimenti” ex artt. 2446, comma 1, e 2482-bis, comma 1, c.c.;
(iii) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale non si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in qualsiasi momento
antecedente l’assemblea di approvazione del bilancio dell’esercizio
successivo rispetto a quello in cui le perdite sono state rilevate;
(iv) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale non si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in sede di assemblea
di approvazione del bilancio dell’esercizio successivo rispetto a quello
in cui le perdite sono state rilevate, a condizione che si tratti di un aumento di capitale da sottoscrivere tempestivamente in misura idonea a
ricondurre le perdite entro il terzo;
(v) in caso di perdite incidenti sul capitale per più di un terzo, se il capitale
si sia ridotto al di sotto del minimo legale, in sede di assemblea convocata ex artt. 2447 e 2482-ter c.c., a condizione che si tratti di un aumento di capitale da sottoscrivere tempestivamente in misura idonea a
ricondurre le perdite entro il terzo.
In ogni caso l’aumento di capitale non esime dall’osservanza degli
obblighi posti dagli artt. 2446, comma 1, e 2482-bis, commi 1, 2 e 3,
c.c., in presenza dei quali la situazione patrimoniale rilevante le perdite
- se non già pubblicizzata - deve essere allegata al verbale, o comunque
con lo stesso depositata nel registro delle imprese”.
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Gazzetta
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Sommario: Premessa – 1. Perdite inferiori al terzo e aumen‑
to del capitale sociale – 2. Perdite superiori al terzo e aumento
di capitale quale “opportuno provvedimento” ai sensi dell’art.
2446, comma 1, c.c. – 3. Aumento di capitale in situazione di
perdurante perdita oltre il terzo (art. 2446, comma 2, c.c.) – 4.
Aumento di capitale in caso di capitale ridotto oltre il minimo
(art. 2447 c.c.).
Premessa
Oggetto del presente approfondimento è il tema dell’au‑
mento del capitale sociale in presenza di perdite, con lo scopo
di valutare la legittimità di una deliberazione di aumento non
preceduta da una riduzione del capitale in misura corrispon‑
dente alle perdite accertate, analizzando le diverse situazioni
ipotizzabili a seconda dell’entità della perdita rispetto al valo‑
re nominale del capitale sociale.
È oggi largamente condivisa1 l’idea che le norme dettate
dal codice civile in tema di salvaguardia del capitale sociale in
caso di perdite2 , lungi dal perseguire un’unica specifica finali‑
tà, abbiano invero una funzione “polivalente’, e cioè che esse
siano finalizzate a essere serventi rispetto a una molteplicità
di interessi, interni ed esterni all’ente, e quindi sia di interessi
“generali” che di interessi di specifiche categorie di soggetti o
di singoli soggetti.
In sintesi, dalle predette norme si desumerebbe anzitutto
l’interesse del sistema in generale alla conoscenza della esatta
situazione patrimoniale della società e della condizione pato‑
logica in cui essa eventualmente versi; in termini più specifici,
si tratterebbe dell’interesse alla tendenziale corrispondenza tra
il “capitale nominale” della società e il suo “capitale reale o
“patrimonio netto”, interesse che l’ordinamento protegge sia
nella fase costitutiva della società cosı’ come - attraverso ap‑
punto le norme in tema di riduzione obbligatoria e di ricosti‑
tuzione del capitale sociale - durante societate. Quanto invece
agli interessi “specifici” protetti da queste norme, vi sarebbe
anzitutto quello dei terzi che abbiano concesso credito alla
società, interesse relativo alla tutela del loro affidamento circa
la conservazione, da parte della società stessa, di un determi‑
nato rapporto tra capitale sociale nominale e mezzi propri,
dato che tale può essere stato il fondamento (o uno dei fonda‑
menti) della decisione di costoro di “entrare in contatto” con
la società. Ancora, dette norme fornirebbero tutela all’interes‑
se della società stessa (e dei soci disposti a investire nella rica‑
pitalizzazione) al suo rafforzamento patrimoniale; e ciò anche
al fine (che può peraltro non coincidere con l’interesse degli
attuali soci o di alcuni di essi) di rendere maggiormente appe‑
tibile:
– sia l’investimento di nuovi soci in occasione della stessa
operazione di ricapitalizzazione, i quali, è ovvio, tanto più sono
1 Cfr. Angelici, voce Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir.,
XLII, 1018; Atlante - Mariconda, La riduzione del capitale per perdite, in
Riv. not., Milano, 2001, 7; Belviso, Le modificazioni dell’atto costitutivo nelle
società per azioni, in Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, vol. 17,
Milano 1985, 131; Fenghi, La riduzione del capitale, Milano, 1974, 64; Niccolini, Il capitale sociale minimo, Milano, 1981, 40; Nobili - Spolidoro, La
riduzione del capitale, in Colombo - Portale (diretto da), Trattato delle società
per azioni, Torino, 1993, 281; Olivieri, I conferimenti in natura nelle società
per azioni, Padova, 1989, 127; Spada, Appunto in tema di capitale nominale e
di conferimenti, Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n. 127-2006/I.
2 Più precisamente quelle indicate dagli artt. 2433, comma 3, 2446, 2447, 2482bis ss. c.c.
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stimolati a partecipare quanto più a essi non si richieda di
concorrere anche al ripianamento delle perdite pregresse;
– sia l’ingresso in società di nuovi soci “a valle” dell’ope‑
razione di ricapitalizzazione (e cioè ove essa sia completata
per intero dai “vecchi” soci), mediante il versamento di nuovo
capitale di rischio, i quali troverebbero ragioni di maggior
convincimento da uno scenario di idonea capitalizzazione
piuttosto che da una situazione di deficit.
Ebbene, a tutela del cosiddetto “principio di effettività del
capitale sociale”, e cioè di tutti i descritti interessi presidiati
dalle norme che vigilano sull’esistenza del capitale sociale, il
legislatore ha predisposto, com’è noto, un “campanello di
allarme” che si attiva, in funzione del mantenimento dei va‑
lori allocati a capitale, allorché nel corso della vita della so‑
cietà vengano superate determinate soglie predeterminate dal
legislatore stesso nel rapporto tra “capitale nominale” e “ca‑
pitale reale”. Lo strumento tecnico utilizzato dal legislatore
per rimediare a tali situazioni patologiche è la manovra di
riduzione del capitale nominale, finalizzata al suo riallinea‑
mento con la effettiva situazione patrimoniale della società;
più precisamente, il legislatore prende in considerazione e
disciplina due diverse fattispecie in corrispondenza di altret‑
tanti “livelli di guardia”: a) la situazione in cui si registra una
perdita di entità inferiore al terzo del capitale sociale (ad
esempio: capitale di 100, riserve di 10, perdita di 20), a fron‑
te della quale non viene imposta alcuna operazione di ridu‑
zione del capitale, essendo piuttosto una mera facoltà della
società quella di procedervi 3 (per intero o anche solo
parzialmente)4: è infatti oggi pacifico che il legislatore, non
prescrivendo in tale evenienza alcuna operazione sul capitale,
abbia voluto tollerare un disallineamento tra “capitale nomi‑
nale” e “capitale reale” che si mantenga entro detto limite del
terzo, avendolo valutato - a priori -irrilevante o comunque non
cosı’ tanto rilevante, come è d’altronde confermato dalla
mancanza in capo alla società di qualsiasi obbligo informati‑
3La riduzione del capitale “facoltativa” per perdita inferiore al terzo del capita‑
le sociale, talora negata in passato sulla scorta di un presunto principio di tipi‑
cità delle riduzioni del capitale (sul quale cfr. Montagnani, Note in tema di
riduzione del capitale sociale, in Riv. not., 1991, 771), e` oggi pacificamente
ritenuta legittima. Si vedano in tal senso Nobili-Spolidoro, La riduzione del
capitale, cit., 332, e i riferimenti di dottrina ivi citati, nonchè, da ultimo, Atlante, Società di capitali: aumento a pagamento del capitale in presenza di
perdite inferiori al terzo, Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n.142008/I; e la citata massima n.122 del Consiglio Notarile di Milano, secondo la
quale «E` [...] legittimo l’aumento di capitale: [...] in caso di perdite incidenti
sul capitale per non più di un terzo». Nel senso dell’ammissibilità della riduzio‑
ne facoltativa anche in situazione di perdita inferiore al terzo del capitale socia‑
le pure la giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. 13 gennaio 2006, n. 543, in
Riv. not., 2006, 1075; in Giust. civ., 2007, 213, con nota di Caprioli, La disciplina della riduzione del capitale per perdite inferiori al terzo tra esigenze dei
soci ed interesse dei terzi. La Corte, seguendo l’orientamento dominante in
dottrina, ne ha affermato la piena legittimità e ne ha ricavato la relativa disci‑
plina da un’applicazione analogica della normativa prevista per le riduzioni di
capitale “obbligatorie”, pur con i dovuti adattamenti: in sintesi, viene afferma‑
ta la compatibilità delle previsioni di cui al primo comma dell’art. 2446 c.c. (e
dunque la necessità, per l’organo amministrativo, di predisporre una situazione
patrimoniale che contabilizzi la perdita, da mettere a disposizione dell’assemblea
a tal fine convocata) e non anche dei successivi commi; e ciò in quanto l’unico
interesse tutelato dal legislatore in questo contesto sarebbe solo quello della
corretta informazione dei soci. In passato invece era stata avanzata la tesi
(Fenghi, La riduzione del capitale, cit., 68) di dover applicare a tale riduzione
facoltativa la normativa di cui all’art. 2445 c.c. e quindi dar ingresso alla pos‑
sibilità di opposizione dei creditori della società all’operazione di riduzione del
capitale, in quanto essi subirebbero il “pregiudizio” derivante dalla rimozione
dell’ostacolo alla distribuzione del dividendo ai soci.
4In tal senso cfr. Nobili - Spolidoro, La riduzione del capitale, cit., 307.
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vo di tale evenienza verso l’esterno; tale riduzione “facoltati‑
va” sarebbe, in definitiva, funzionale solamente all’interesse
dei soci a rimuovere l’impedimento alla ripartizione degli
utili di cui al ripetuto art. 2433, comma 3, c.c.; b) la situazio‑
ne in cui si verifichi una perdita superiore al terzo del capita‑
le sociale, cui viceversa il legislatore correla un dovere di ri‑
duzione del capitale sociale, nei modi e termini di cui agli artt.
2446 e 2447 c.c.
Si analizzano, al riguardo, le diverse fattispecie.
1. Perdite inferiori al terzo e aumento del capitale sociale
Se una società di capitali dunque registri, nel corso
dell’esercizio, perdite5 di entità inferiore al terzo del suo capi‑
tale sociale, e tuttavia intenda, per qualsiasi legittima ragione,
aumentare a pagamento il proprio capitale nominale, occorre
verificare se si possa legittimamente deliberare questo aumen‑
to di capitale senza dover preventivamente ridurre il valore
nominale del capitale sociale in misura corrispondente alle
perdite accertate.
Remote pronunce6, appartenenti all’epoca il cui il giudizio
di omologazione competeva ai Tribunali, negarono l’omologa
a deliberazioni di aumento del capitale a pagamento non
precedute da una riduzione del capitale idonea ad assorbire
integralmente le perdite esistenti. È oggi invece assolutamen‑
te dominante7 la tesi che ammette la deliberazione di aumen‑
to del capitale sociale in assenza della preventiva riduzione del
capitale stesso per perdite. Si rileva, invero, che l’ordinamen‑
to, in questa fase, non prescrive alcuna manovra sul capitale
sociale, non essendosi ancora attivato il “campanello d’allar‑
me” che invece scatta nel caso di perdite oltre il terzo; e che è
tollerato dunque il disallineamento del capitale nominale ri‑
spetto al valore reale del patrimonio netto, se il divario si
mantenga entro il limite “fisiologico” del terzo; né può invo‑
carsi, in assenza di indici normativi in tal senso, un obbligo
di informare i terzi e i creditori circa la reale situazione della
società (informazione peraltro comunque garantita dalla
5 Per “perdita” si intende l’eccedenza del passivo sull’attivo, una volta assorbite
le riserve: cfr. ad esempio Colombo, Il bilancio e le operazioni sul capitale, in
Giur. comm., 1984, I, 865; e, in giurisprudenza, Cass. 6 novembre 1999, 12347,
in Notariato 2001, 22; Trib. Milano 22 settembre 1986, ivi, 1987,182; Trib.
Genova 2 febbraio 1987, ivi, 1987, 526; Trib. Verona 9 novembre 1990, ivi,
1991, 232; Trib. Cassino 18 gennaio 1991, in Foro it., 1991, I, 1000; Trib.
Milano 27 marzo 1996, in Notariato, 1997, 191.
6 Cfr., tra gli altri: Trib. Udine 1 febbraio 1993; e App. Trieste 13 maggio 1993,
in questa Rivista, 1993, 1075; Trib. Ascoli Piceno 10 marzo 1981, ivi, 1982,
781; Trib. Milano 22 settembre 1986, ivi, 1987,182; App. Milano 13 febbraio
1974, in Giur. comm., 1974, II, 673. In dottrina, nello stesso senso: Platania,
in Lo Cascio (a cura di), La riforma del diritto societario, Milano 2006, 449; e
Busi, Riduzione del capitale nelle s.p.a. e s.r.l., Milano, 2010, 298; in preceden‑
za cfr. Iozzelli, Delibera non unanime di copertura delle perdite di una società di capitali, in Giur. comm., 1988, II, 403; e Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 1995, 634.
7 Cfr. Salafia, nota a Trib. Verona 22 novembre 1988, cit.; Atlante, Società di
capitali, cit.; Quatraro - Israel - D’Amora - Quatraro, Trattato teorico
pratico delle operazioni sul capitale, Milano 2001, 431; Fenghi, La riduzione
del capitale, cit., 74; Montagnani, Profili attuali della riduzione del capitale
sociale, in Riv. dir. civ., 1993, 38. Cfr. anche Cass. 13 gennaio 2006, n. 543, in
Foro it., 2006, I, 1789; in Riv. not., 2006, 1071; e in Giur. comm., 2008, II,
963; secondo cui «All’assemblea di una società di capitali, chiamata a delibe‑
rare in via facoltativa la riduzione nominale del capitale sociale per perdite
inferiori al terzo, l’amministratore deve sottoporre una relazione quanto piu`
possibile aggiornata sulla situazione patrimoniale della società stessa, applican‑
dosi in tal caso per analogia il procedimento stabilito dalla legge per l’ipotesi
di riduzione obbligatoria del capitale perduto per oltre un terzo». E ora cfr.
pure la citata massima n. 122 del Consiglio Notarile di Milano.
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pubblicazione annuale del bilancio). Tra l’altro, un aumento
di capitale in presenza di perdite, lungi dal procurare nocu‑
mento ad alcuna classe di portatori di interessi verso la socie‑
tà in perdita, potrebbe rivelarsi salutare per la società stessa:
l’aumento di capitale permette infatti alla società di ridurre,
seppur in parte, l’entità della perdita conseguita e comunque
la dota di nuovi mezzi patrimoniali, con indubbio vantaggio
per gli stessi creditori.
In altri termini, allorché la società registri perdite in mi‑
sura non superiore al terzo del suo capitale, il legislatore non
ha avvertito la necessità di predisporre appositi mezzi di tu‑
tela degli interessi “esterni” alla società, cioè quelli dei credi‑
tori e dei terzi che sono (o che possono entrare) in contatto
con l’ente e, d’altro canto, il legislatore medesimo non ha
nemmeno ritenuto di limitare in alcun modo la piena opera‑
tività della società stessa: la società, seppur in (lieve) perdita,
continua quindi ad avere la massima disponibilità di ogni
misura che il suo organo amministrativo reputi di adottare e
ad essere legittimata altresì ad assumere tutte le decisioni re‑
lative alla propria organizzazione che siano ritenute opportu‑
ne, tra le quali rientra certamente anche quella di aumentare
a pagamento il proprio capitale sociale. L’unico rilievo che
l’ordinamento conferisce alle perdite di entità inferiore al
terzo del capitale riguarda l’ambito “interno” alla società, in
quanto l’art. 2433, comma 3, c.c., ai fini della distribuzione
del dividendo, attribuisce rilevanza a tutte le perdite, qualun‑
que sia la loro entità in rapporto al capitale sociale. L’unani‑
mità della prassi e della dottrina su queste conclusioni è tale
da conferire attualmente ad esse lo status di cognizione defi‑
nitivamente acquisita e oggi non più discutibile.
2. Perdite superiori al terzo e aumento di capitale quale “opportuno provvedimento” ai sensi dell’art. 2446, comma 1, c.c.
È stato finora controversa8 la questione se, nel caso di
perdita superiore al terzo del capitale sociale, tra gli «oppor‑
tuni provvedimenti» di cui all’art. 2446, comma 1, c.c.,
possa rientrare anche una deliberazione di aumento del capi‑
tale sociale, non preceduta da una riduzione del capitale
stesso finalizzata all’eliminazione di detta perdita.
La tesi negatrice9 si fonda essenzialmente sulla considera‑
zione che l’aumento di capitale avrebbe il sostanziale esito di
eludere l’applicazione delle inderogabili misure di cui agli artt.
2446 e 2447 c.c.; e che, con reiterati aumenti, deliberati in
successivi esercizi, questa elusione potrebbe esser protratta in
avanti nel tempo.
In definitiva, l’aumento di capitale non preceduto da un
riallineamento tra il capitale reale e il capitale nominale della
società, pur non vietato espressamente, si rivelerebbe contra‑
8 Post riforma si registra anzitutto, nel senso della illegittimità di una siffatta
procedura, l’orientamento del Comitato Notarile Triveneto: secondo la massi‑
ma “I.G.30”, intitolata “Aumento di capitale in presenza di perdite rilevanti ai
sensi di legge”, datata settembre 2007, «in presenza di perdite superiori al
terzo del capitale sociale deve ritenersi non consentita una deliberazione dell’as‑
semblea dei soci di aumento del capitale sociale ove non sia accompagnata
dalla copertura integrale delle perdite accertate »;
9 Cfr., tra gli altri, Salafia, in nota a Trib. Verona 22 novembre 1988 cit.; Di
Sabato, Manuale delle società, cit., 550; Quatraro - Israel - D’Amora - Quatraro, Trattato teorico pratico, cit., 432; Busi, Riduzione del capitale, cit., 328;
in giurisprudenza: Trib. Cosenza 8 febbraio 1994, in Le Società, 1994, 1071;
Trib. Udine 1 febbraio 1993 e App. Firenze 13 maggio 1993, ivi, 1993, 1075.
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rio alla ratio di dette norme e, quindi, al principio di effetti‑
vità del capitale sociale, di cui tali norme sarebbero espressio‑
ne. Questa tesi negatrice è stata fatta tuttavia oggetto di no‑
tevoli riprese critiche. Una prima osservazione alla opinione
della inammissibilità dell’aumento di capitale quale “oppor‑
tuno provvedimento” deriva anzitutto dalla risposta in senso
positivo alla domanda se possa essere intesa nei termini di
“opportuno provvedimento” una operazione di ripianamento
della perdita solamente parziale: ove si ritenga ammessa la
copertura parziale della perdita, col rinvio “a nuovo” di una
perdita uguale o inferiore al terzo del capitale, si dovrebbe
evidentemente ricomprendere fra gli «opportuni provvedi‑
menti», consentiti dall’art. 2446, comma 1, c.c., anche l’au‑
mento del capitale a pagamento, il quale attesti il valore no‑
minale del capitale sociale a un livello tale da confinare la
perdita preesistente in un rapporto uguale o inferiore al terzo
del nuovo capitale sociale. Ebbene, tale operazione di riduzio‑
ne parziale della perdita si renderebbe legittima per l’assor‑
bente considerazione che «l’art. 2446 vuole infatti impedire
che la società conservi indefinitamente una perdita superiore
al terzo (e quindi ne consente il riporto a nuovo solo per un
esercizio); se però la perdita scende al di sotto del terzo (anche
mediante riduzione parziale del capitale) vengono meno anche
le ragioni che impongono la copertura»10 ; considerazione che
invero fa apparire piuttosto deboli gli argomenti contrari11
(principalmente: che la lettera della legge, quando impone la
riduzione, la vorrebbe «in ragione» delle perdite accertate; che
sarebbe interesse dei soci rimuovere il divieto alla distribuzio‑
ne degli utili di cui all’art. 2433, comma 3, c.c.; che l’abbatti‑
mento parziale finirebbe per eludere il termine massimo di un
anno imposto dal legislatore per un completo ripianamento
delle perdite; che «l’immediata riduzione solo parziale del
capitale [...] può ingenerare nei terzi [...] il convincimento che
la riduzione abbia assorbito l’intera perdita»12). A parte queste
considerazioni, che traggono spunto dal tema della riduzione
10 Nobili - Spolidoro, La riduzione del capitale cit., 306. In precedenza, in tal
senso anche Patriarca, nota a Trib. Verona 4 luglio 1986, in Nuova giur. civ.
comm., 1985, 668.
11 Cfr. Di Sabato, Manuale delle società cit., 550; Spada, Reintegrazione del
capitale sociale senza operare sul nominale, in Giur. comm., 1978, I, 36; Tantini, Le modificazioni dell’atto costitutivo nelle società per azioni, Padova,
1973, 285. In giurisprudenza: Trib. Cassino 9 giugno 1993, in Le Società, 1993,
1374; Trib. Napoli 17 giugno 1992, ivi, 1992, 1385; e App. Bologna, 21 otto‑
bre 1988, in le Società, 1989, 192, secondo cui «Ai sensi dell’art. 2446 c.c., in
caso di diminuzione del capitale sociale di oltre un terzo in conseguenza di
perdite, deve ritenersi che l’assemblea possa disporre il rinvio di ogni decisione
[...] alla fine dell’esercizio successivo a quello in cui sono accertate le perdite
ovvero possa disporre l’immediata riduzione del capitale sociale con copertura
integrale delle perdite accertate. Il legislatore, imponendo all’assemblea la ridu‑
zione del capitale non fino al limite da coprire le perdite che superino il terzo
del capitale stesso ma la riduzione “in proporzione delle perdite accertate”, ha
dettato la regola secondo cui quando l’assemblea procede a ridurre il capitale
per perdite deve effettuare la riduzione coprendo integralmente le perdite;
quindi non può ammettersi una riduzione parziale del capitale. Ad infirmare il
valore di detta regola non può avere influenza la previsione legislativa secondo
cui la riduzione del capitale può essere rinviata all’esercizio successivo a quello
in cui furono accertate le perdite: infatti, il rinvio della riduzione all’esercizio
successivo ha la funzione di procrastinare il provvedimento entro il termine
massimo di un anno in previsione del miglior esito economico dell’esercizio
successivo»; e pure Trib. Vicenza 28 marzo 1985, e App. Milano 16 maggio
1985, in Vita not., 1985, 1306. Cfr. anche la massima n. H.G.7 del Comitato
Notarile Triveneto (intitolata “Riduzione parziale delle perdite”) secondo la
quale «non e` ammissibile in alcun caso la riduzione parziale delle perdite,
neppure in caso di riduzione facoltativa del capitale sociale».
12 App. Bologna 21 ottobre 1988, cit.
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parziale della perdita, diversi altri argomenti suffragano la
tesi (che nel tempo ha registrato sempre maggiori consensi in
dottrina13 e ora nella prassi14) dell’ammissibilità dell’aumento
di capitale quale “opportuno provvedimento”. Anzitutto, si
sottolinea che il legislatore non tipizza detti «opportuni prov‑
vedimenti » ma che, di contro, è consentito alla società di
prendere semplicemente atto della perdita, rinviando ogni
decisione all’assemblea convocata per l’approvazione del bi‑
lancio relativo all’esercizio successivo a quello in cui si è regi‑
strata la perdita stessa15; inoltre, se è vero che con l’espressio‑
ne «opportuni provvedimenti» si intende il riferimento a
tutte quelle operazioni gestorie o a tutte quelle manovre sul
patrimonio sociale (come i versamenti a fondo perduto16 o la
rinunzia a crediti da parte di soci o di terzi) idonee, nel corso
dell’esercizio successivo a quello nel quale si è registrata la
perdita “rilevante”, a determinare un aumento dell’attivo
ovvero una riduzione del passivo tali da riportare la perdita
al di sotto del terzo del capitale sociale, allora, a maggior
ragione, dovrebbe ammettersi una manovra inerente il capi‑
tale nominale (quale il suo aumento) che abbia i medesimi
effetti sul patrimonio sociale, e ciò in quanto una simile ma‑
novra sul capitale permetterebbe alla società di uscire dal
perimetro dell’art. 2446 c.c., allorché l’aumento di capitale
faccia scendere il rapporto del capitale nominale con la per‑
dita al di sotto della “fatidica” soglia del terzo. Tra l’altro, si
rileva che un obbligo di riduzione «in proporzione delle per‑
dite accertate» è testualmente previsto (art. 2446, comma 2,
c.c.) solo dopo che sia decorso infruttuosamente l’anno di
tolleranza di cui all’art. 2446, comma 1, c.c.; e che quindi
apparirebbe ingiustificata l’applicazione di tale regola anche
nel periodo in cui la società si può “limitare” ad adottare gli
«opportuni provvedimenti ».
Occorre inoltre considerare che, in mancanza di una
espressa previsione di legge nel senso del divieto di aumento
del capitale sociale in costanza di perdite, per limitare la
piena autonomia decisionale della società (e quindi per sanci‑
re l’illegittimità di una deliberazione di aumento del capitale
sociale, quando sussistono perdite, senza una previa riduzio‑
ne del capitale stesso a loro copertura), occorrerebbe rinveni‑
re interessi, tutelati dall’ordinamento, che siano pregiudicati
13 Cfr. dapprima Barabino, Riduzione del capitale per perdite e deliberazioni
d’aumento, in Giur. comm., 1974, II, 673; Grippo, Modificazioni dell’atto
costitutivo, recesso e variazioni del capitale sociale, in Giur. comm., 1975, I,
122; e poi Fenghi, La riduzione del capitale, cit., 62; Nobili - Spolidoro, La
riduzione del capitale, cit., 323; Di Mauro, La riduzione del capitale per perdite in dottrina e giurisprudenza, in Riv.not., 1990, II, 1109; Forte - Imparato,
Aumenti e riduzioni del capitale, Milano, 1998, 213; Trimarchi, La riduzione
del capitale sociale, Milano, 2010, 251; e, in giurisprudenza, App. Napoli 5
dicembre 1989, in Gazzetta Notarile, 1989, 219.
14Secondo la citata massima n. 122 del Consiglio Notarile di Milano, «e` ormai
opinione largamente sostenuta e da ritenersi corretta che tra gli “opportuni
provvedimenti” vada annoverato anche l’aumento di capitale a pagamento,
misura che conduce ad un rafforzamento dell’assetto patrimoniale della socie‑
tà: e ciò sia che la perdita, calcolata sul nuovo capitale, rimanga superiore al
terzo, sia che, al contrario, il capitale venga aumentato in misura tale che la
perdita non risulti piu` eccedente il terzo del capitale quale risultante dalla
sottoscrizione dell’aumento».
15 Come osserva Spolidoro, La riduzione del capitale sociale nella srl, in D’Ales‑
sandro (diretto da), Contributo al Commentario romano alla riforma del dirit‑
to societario, Padova, 2010, 16, «non vi è ragione di pensare che l’assemblea
possa soprassedere alla riduzione del capitale solo se contestualmente vengano
adottati altri provvedimenti di ristrutturazione».
16Effettuabili, secondo Trimarchi, La riduzione del capitale, cit., 244, anche
prima dell’assemblea convocata ai sensi art. 2446 c.c.
2 0 1 1
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dall’operazione in discorso. Ebbene, quanto ai diritti ammi‑
nistrativi dei soci, essi non vengono di certo lesi, poiché i soci,
dopo l’aumento (se, ovviamente, sia seguito da tutti i soci, in
base al loro diritto di opzione), mantengono la stessa propor‑
zionale partecipazione al capitale sociale che i soci medesimi
avevano rispetto al capitale ante aumento; ne´ sono pregiudi‑
cati gli interessi patrimoniali dei creditori, i quali, anzi,
dall’apporto di nuovo capitale di rischio, ottengono un indub‑
bio rafforzamento della loro posizione; quanto poi all’interes‑
se, interno ed esterno alla società, a una corretta informazio‑
ne circa la situazione patrimoniale della società stessa, si
evidenzia17 che esso sarebbe pienamente garantito dalla ope‑
razione di aumento del capitale nominale, e ciò in quanto, da
un lato, gli amministratori debbono comunque sottoporre
all’assemblea «una relazione sulla situazione patrimoniale
della società» (dalla quale emerge evidentemente la perdita
oltre il terzo) nonché dare atto in assemblea di eventuali fatti
di rilievo accaduti dopo la redazione di detta situazione pa‑
trimoniale e, d’altro lato, in quanto tutta l’operazione avreb‑
be la pubblicità derivante della iscrizione nel Registro delle
Imprese del verbale assembleare (anzi, da queste ultime con‑
siderazioni appare assai evidente come una formale delibera‑
zione di aumento del capitale sociale si renda assolutamente
preferibile rispetto ai versamenti “a fondo perduto”, o a simi‑
lari apporti di netto, i quali lasciano davvero all’oscuro i
terzi circa l’entità del ripianamento delle perdite con essi ot‑
tenuto). Certo, una operazione di aumento del capitale senza
una sua previa riduzione a ripianamento delle perdite matu‑
rate lascia sul campo l’interesse dei soci (specie quelli di mi‑
noranza) alla distribuzione degli utili, che invece sarebbe
consentita se, prima dell’aumento, si provvedesse a un abbat‑
timento del capitale corrispondente all’entità della perdita
conseguita. Occorre inoltre sottolineare che l’aumento di ca‑
pitale a pagamento indubbiamente lede l’interesse dei soci di
minoranza, se si osserva la situazione sotto il profilo che essi,
oltre a non poter ricevere dividendi, sono “costretti” ad ulte‑
riori conferimenti per non subire la diluizione della loro
quota di partecipazione al capitale sociale; ciò che, evidente‑
mente non avviene se la perdita (che - è ovvio - non sia “azze‑
rante”) sia ripianata con una riduzione del capitale sociale (e
non occorra procedere con un suo contestuale aumento al
rafforzamento del patrimonio della società). Ma questo con‑
flitto, tutto interno della società, tra gli interessi dei soci, non
può di certo mettere in dubbio la legittimità in se´ dell’aumen‑
to, potendosi al massimo discorrere della opportunità, o
della necessità, in queste deliberazioni, dell’unanimità dei
consensi: invero, dovrebbe certamente darsi prevalenza all’in‑
teresse della società (al reperimento di nuove risorse) rispetto
all’interesse dei singoli soci, i quali peraltro trovano tutela,
17 Cfr. Consiglio Notarile di Milano, massima n. 122, secondo la quale «questa
soluzione non favorisce, come certa parte della dottrina ipotizza, l’occultamen‑
to delle perdite, poiché gli organi competenti non sono esentati dal dover ri‑
spettare né l’obbligo di esatta rilevazione della perdita attraverso idonea situa‑
zione patrimoniale né l’obbligo di menzionare eventuali fatti di rilievo idonei
ad incidere sulla stessa: piena trasparenza al riguardo e` assicurata per tutti i
terzi dalla pubblicità nel registro delle imprese della delibera di aumento del
capitale, dal cui verbale e dalla cui documentazione a supporto (in questa do‑
verosamente inclusa la situazione patrimoniale ove non già pubblicizzata) dovrà
emergere in tutta chiarezza quali siano le circostanze nelle quali è intervenuta
la decisione di aumentare il capitale».
civile
Gazzetta
26
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
rispetto alla loro diluizione, nel diritto di opzione ai medesimi
spettante in sede di esecuzione della deliberazione di aumento
del capitale sociale. Una volta dunque che sia ritenuta legittima
la deliberazione di aumento del capitale sociale quale “oppor‑
tuno provvedimento”, resta da stabilire se di essa debba esser
fatta immediata sottoscrizione, come ritenuto dalla opinione
prevalente18, con l’unico temperamento che, a tutela dei soci
assenti (nonché di quelli presenti che abbisognino di uno spatium deliberandi per decidere se seguire o meno la delibera‑
zione di aumento), è senz’altro consentita la fissazione di un
termine per l’esercizio del diritto di opzione19.
Ammettere l’aumento del capitale sociale in presenza di
perdite oltre il terzo significa infine dar ingresso alla fattibi‑
lità di una tale operazione sia nell’assemblea da convocarsi
per gli opportuni provvedimenti » di cui all’art. 2446, comma
1, c.c., sia in un’assemblea posteriore ad essa ed anteriore ri‑
spetto alla data in cui si svolgerà l’assemblea di bilancio
dell’esercizio successivo a quello in cui la perdita è stata rile‑
vata 20: se si tratta di provvedimenti “opportuni”, essi sono
evidentemente legittimi in qualsiasi contesto essi vengano
adottati.
3. Aumento di capitale in situazione di perdurante perdita oltre il
terzo (art. 2446, comma 2, c.c.)
Nel secondo comma dell’art. 2446 c.c. è contemplato il
caso che, decorso il termine concesso dal legislatore dopo
l’adozione degli “opportuni provvedimenti”, la società non
sia riuscita ad azzerare o comunque a rendere irrilevante la
perdita, cioè a ricondurla entro il terzo; sorge in tale evenien‑
za l’obbligo, in occasione dell’assemblea che approva il bilan‑
cio relativo all’esercizio successivo a quello in cui si è registra‑
18 Cfr. in tal senso Forte - Imparato, Aumenti e riduzioni del capitale cit., 214;
e Busi, Riduzione del capitale cit., 329.
19 Cfr. la massima n. 38 del Consiglio Notarile di Milano, intitolata “Azzeramen‑
to e ricostituzione del capitale sociale in mancanza di contestuale esecuzione
dell’aumento (artt. 2447 e 2482 ter c.c.)”, secondo la quale «La deliberazione
di azzeramento del capitale sociale o comunque di riduzione al di sotto del
minimo legale, per perdite, con contestuale sua ricostituzione ad un importo
almeno pari al minimo legale, può essere legittimamente assunta qualora l’ese‑
cuzione dell’aumento: avvenga in assemblea (ferma la necessità di garantire,
con gli opportuni mezzi, il rispetto del diritto dei soci di sottoscrivere le nuove
partecipazioni, nell’esercizio dell’opzione); oppure: sia consentita, dalla delibe‑
ra stessa, in epoca anche successiva all’assemblea, purché entro i termini di
tempo che l’assemblea fissa, nel rispetto delle disposizioni di legge, non ecce‑
dendo il tempo necessario per il realizzarsi delle condizioni, di natura sostan‑
ziale e procedimentale, che l’esecuzione dell’aumento richiede». Di contrario
avviso Trimarchi, La riduzione del capitale, cit., 252, che afferma la legittimi‑
tà della delibera di aumento di capitale, nel contesto di cui ci stiamo occupando,
con un termine finale di sottoscrizione liberamente determinabile, poiché «la
semplice delibera di aumento può opportunamente rilanciare le finanze sociali
attraverso lo stimolo dell’autofinanziamento»; ma cfr. Busi, Riduzione del capitale cit., 328, per rilievi critici a quest’ultima opinione.
20 Cfr. la massima n. 122 del Consiglio Notarile di Milano, secondo la quale
«quanto sopra esposto si presta ad essere ripetuto nell’ipotesi in cui l’aumento
di capitale in presenza di perdite superiori al terzo venga deliberato non già
dall’assemblea convocata per gli “opportuni provvedimenti”, ma da una po‑
steriore assemblea, a tal fine appositamente tenutasi, diversa e anteriore rispet‑
to all’assemblea di approvazione del bilancio dell’esercizio successivo a quello
nel corso del quale si e` riunita l’assemblea inizialmente convocata per dare
atto della perdita superiore al terzo e adottare gli opportuni provvedimenti. Ciò
perché niente esclude che i soci maturino solo dopo la prima assemblea, anche
alla luce di nuove opportunità inizialmente non disponibili, decisioni che bene
avrebbero potuto essere adottate già nella prima assemblea; ne´ le disposizioni
normative si oppongono - e non ve ne sarebbe ragione - a che i “provvedimen‑
ti opportuni” inizialmente adottabili possano essere presi in un momento suc‑
cessivo (almeno) nell’arco temporale concesso in assenza di obblighi di inter‑
vento sul capitale».
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
ta la perdita, di ridurre il capitale «in proporzione delle perdite accertate». In questa fase, secondo l’opinione finora
prevalente21 (ma probabilmente destinata a essere superata
dalla nuova massima milanese), non sarebbe possibile delibe‑
rare, in assenza di una preventiva riduzione del capitale so‑
ciale idonea ad assorbire integralmente le perdite, un aumen‑
to di capitale a pagamento. Appare in tal senso decisiva la
lettera della legge: la società ha avuto a disposizione un inte‑
ro esercizio per ridurre la perdita, anche attraverso l’adozione
di «opportuni provvedimenti», e dunque per disattivare il
“campanello d’allarme” innescato dalla sussistenza di perdi‑
te oltre il terzo; decorso dunque infruttuosamente tale termi‑
ne, il legislatore impone una manovra che assorba integral‑
mente la perdita ; un aumento di capitale, viceversa, annac‑
querebbe la perdita, ma non potrebbe eliminarla totalmente,
come invece imporrebbe la normativa in esame.
Questa impostazione, come sopra rilevato, è stata avalla‑
ta, anche di recente, nella giurisprudenza di legittimità 22 : «ai
sensi dell’art. 2446 c.c., l’assemblea è tenuta a deliberare la
riduzione del capitale per perdite in proporzione delle perdite
accertate: ciò [...] nel senso che la riduzione non può essere
commisurata soltanto ad una frazione delle perdite, giacche´
ciò ne consentirebbe il trascinamento nel tempo ben oltre il
limite temporale dell’esercizio successivo, espressamente indi‑
cato dalla menzionata disposizione del codice». Autorevole
dottrina 23 aveva a suo tempo già avanzato - seppur con la
cautela suggerita dal forte argomento letterale contrario con‑
tenuto nell’art. 2446 c.c. - l’idea che la società potesse anche
ridurre il capitale parzialmente, con riporto “a nuovo” di
parte della perdita; ed è evidente che, aderendo a questa im‑
postazione, si può giungere ad ammettere anche la legittimità
della deliberazione di un aumento del capitale sociale, che
avrebbe un effetto del tutto analogo a quello della predetta
riduzione parziale. La svalutazione del dato letterale della
norma in questione (che, come detto, parrebbe imporre, prima
di tutto, la copertura integrale della perdita) è ora anche il
punto di partenza del già menzionato nuovo orientamento
21La tesi negatrice é stata in passato sostenuta, ad esempio, da Quatraro - Israel - D’Amora - Quatraro, Trattato teorico pratico delle operazioni sul capi‑
tale, cit., 432; e di recente nuovamente ripresa da Busi, Riduzione del capitale,
cit., 328; e da Trimarchi, La riduzione del capitale, cit., 256. In giurispruden‑
za cfr. Trib. Roma 17 marzo 2001, in Foro it., 2001, I, 748; Trib. Roma 7
marzo 2001, in Dir. fall., 2002, II, 795; Trib. Napoli 10 dicembre 1998, in
Foro nap., 1999, 50; e, da ultimo, App. Milano 31 gennaio 2003, in Giur. it.,
2003, 1178; e in Giur. comm., 2003, II, 612, secondo il quale «Sia nell’ipotesi
di perdite superiori ad un terzo che non intaccano il minimo legale, sia nell’ipo‑
tesi più grave in cui per effetto di perdite superiori ad un terzo il capitale
scenda al di sotto del minimo legale, occorre osservare il criterio della propor‑
zionalità tra perdite e capitale: una delibera che riduca il capitale in misura
diversa (maggiore o minore) sarebbe nulla in quanto contrastante con la norma
di ordine pubblico diretta a conservare la veridicità dei presupposti dell’agire
sociale»; e Cass. 17 novembre 2005, n. 23269, in Foro it., 2007, I, 919, ove si
ammette solo che «il principio secondo cui l’assemblea e` tenuta a deliberare la
riduzione del capitale per perdite in proporzione delle perdite accertate, e` su‑
scettibile di una limitata deroga nel caso in cui, occorrendo anche procedere al
raggruppamento e al frazionamento di azioni, l’applicazione rigorosa della
regola di riduzione del capitale in proporzione alle perdite farebbe emergere
resti non suscettibili di attribuzione». Cfr. anche la massima n. H.G.1 del Co‑
mitato Notarile Triveneto, secondo la quale «In ogni caso il capitale, ai sensi
del secondo comma dell’art. 2446, c.c., o dell’art. 2447, c.c., deve essere ridot‑
to sempre in proporzione delle perdite accertate».
22 Cfr. Cass. 17 novembre 2005, n. 23269, cit.
23 Cfr. Nobili - Spolidoro, La riduzione del capitale, cit., 308.
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
notarile milanese24 , teso a sostenere la legittimità della deli‑
berazione di aumento del capitale sociale in presenza di per‑
dite oltre il terzo, anche una volta decorso il periodo di osser‑
vazione di cui all’art. 2446, comma 2, c.c.: in sintesi, dato che
il perentorio comando della legge («l’assemblea [...] deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate») non
potrebbe non essere letto come condizionato alla sussistenza
della perdita oltre il terzo sia nell’assemblea degli «opportuni
provvedimenti» (di cui all’art. 2446, comma 1, c.c.) sia nell’as‑
semblea di bilancio dell’esercizio successivo (di cui all’art.
2446, comma 2, c.c.), e dato che la perdita potrebbe essersi
«nel frattempo aggravata o ridotta entro il terzo o addirittu‑
ra azzerata per effetto dell’attività svolta o per qualsiasi altro
fatto a ciò idoneo sopravvenuto dopo la chiusura dell”‘esercizio
successivo”», allora da ciò si dovrebbe derivare che «ove la
perdita sia stata per qualunque ragione ridotta entro il terzo,
l’obbligo di riduzione non nasce o viene meno». In altri ter‑
mini, il tenore letterale della norma non andrebbe inteso in
senso assoluto (e cioè come implicante “sempre e comunque”
una riduzione del capitale sociale a copertura della perdite),
ma andrebbe relativizzato a seconda delle situazioni che di
fatto possono verificarsi, tenendo conto che la perdita infe‑
riore al terzo del capitale sociale è irrilevante in quanto è «una
situazione fisiologica che non merita alcuna cura» mentre la
perdita oltre il terzo «è una situazione patologica che deve
essere curata mediante la riconduzione della società allo stato
che il legislatore considera come fisiologico». Ne conseguireb‑
be che se la società riesca a ridurre la perdita entro il terzo,
operando sul capitale o comunque eliminando le passività (e
quindi anche con apporti “fuori capitale” o altri meccanismi
di emersione di attivo, come la rinuncia a crediti da parte di
soci o di terzi), essa con ciò uscirebbe dal “campanello d’al‑
larme” e rientrerebbe in una situazione che, seppur in perdita,
viene considerata dal legislatore come irrilevante; cosicchè
«nulla impedisce che la cura della perdita patologica avvenga,
anche nelle ipotesi degli artt. 2446, comma 2, e 2482 bis,
comma 4, c.c. attraverso una delibera di aumento oneroso del
capitale in misura sufficiente allo scopo, e dunque attraverso
una delibera che riconduca la perdita entro il terzo del nuovo
capitale»25. Sotto il profilo operativo, infine, viene affermata
dal nuovo orientamento notarile la necessità che la delibera‑
zione di aumento del capitale sia assunta in presenza della
situazione patrimoniale26 di cui all’art. 2446, comma 1, c.c.,
che sia disposta tempestivamente la sottoscrizione del delibe‑
rato aumento (e comunque nel rispetto del diritto di opzione)27,
24 Contenuto nella citata massima n. 122 del Consiglio Notarile di Milano.
25 La citata massima n. 122 del Consiglio Notarile di Milano.
26 Sull’imprescindibile presenza di detta situazione patrimoniale cfr. Cass. 2
aprile 2007, n. 8222, in Foro it., 2007, I, 2737; in Le Società, 2008, 462; e in
Giur. comm., 2008, II, 1212; sul contenuto e sulla data di riferimento della
situazione patrimoniale cfr., da ultimo, Cass. 8 giugno 2007, n. 13503, in Foro
it., 2008, I, 206; Cass. 17 novembre 2005, n. 23269, cit.; Cass. 23 marzo 2004,
n. 5740, in Foro it., 2004, I, 3121; in Riv. not., 2004, 1254; e in Le Società,
2004, 1511; precedentemente, cfr. Cass. 18 novembre 1988, in Vita not., 1989,
556; Cass. 4 maggio 1994, in Giur. it., 1995, I, 1, 1592; Trib. Napoli 3 maggio
1995, in Riv. not., 1995, 1328; Cass. 5 maggio 1995, n. 4923, in Giust. civ.,
1995, I, 2038; e Trib. Napoli 20 novembre 1996, in le Società, 1997, 439.
27Sul diritto di opzione dei soci assenti a questa assemblea (e di quelli che vi
partecipano, ma che non sottoscrivono immediatamente il deliberato aumento)
cfr., da ultimo, Cass., 12 luglio 2007, n. 15614, in Giur. it., 2008, 656; in
Notariato, 2008, 640; in Riv. not., 2008, 901; in Le Società, 2009, 46; in Vita
not., 2009, 127.
2 0 1 1
27
e che l’intervento giudiziale di cui all’art. 2446, comma 2, c.c.,
possa essere scongiurato, in caso di insuccesso dell’operazio‑
ne di aumento del capitale, con l’assunzione, contestuale a
quella di aumento, di una deliberazione di riduzione del capi‑
tale sociale sospensivamente condizionata all’evento che
l’esecuzione dell’aumento non si completi entro il termine
stabilito.
4. Aumento di capitale in caso di capitale ridotto oltre il minimo
(art. 2447 c.c.)
Tutto quanto si è detto può essere poi pienamente ripetu‑
to nel caso in cui l’assemblea debba essere convocata «senza
indugio» perchè «la perdita di oltre un terzo del capitale» ne
comporta la sua riduzione «al disotto del minimo». Anche in
questa ipotesi l’opinione finora prevalente28 ritiene che la so‑
cietà non possa adottare una delibera di copertura solo par‑
ziale della perdita; ciò con cui contrasta, per le ragioni sopra
esposte, il nuovo orientamento notarile29, secondo il quale «La
presenza di perdite superiori al terzo del capitale, anche tali
da ridurre il capitale ad un importo inferiore al minimo lega‑
le previsto per le s.p.a. e le s.r.l., non impedisce l’assunzione
di una deliberazione di aumento del capitale che sia in grado
di ridurre le perdite ad un ammontare inferiore al terzo del
capitale e di ricondurre il capitale stesso, se del caso, a un
ammontare superiore al minimo legale».
28 Cfr. ad esempio App. Milano 31 gennaio 2003, in Giur. it., 2003, 1178, secon‑
do cui «sia nell’ipotesi di perdite superiori ad un terzo che non intaccano il
minimo legale, sia nell’ipotesi più grave in cui per effetto di perdite superiori ad
un terzo il capitale scenda al di sotto del minimo legale, occorre osservare il
criterio della proporzionalità tra perdite e capitale: una delibera che riduca il
capitale in misura diversa (maggiore o minore) sarebbe nulla in quanto contra‑
stante con la norma di ordine pubblico diretta a conservare la veridicità dei
presupposti dell’agire sociale».
29La citata massima n. 122 del Consiglio Notarile di Milano.
civile
Gazzetta
28
D i r i t t o
●
Del Contributo Unificato
per le cause
di Lavoro e di Previdenza
● Patrizia Trapanese
Direttore Amministrativo
Coordinatore delle sezioni Lavoro del Tribunale di Napoli
e
p r o c e d u r a
c i v i l e
Gazzetta
F O R E N S E
Sommario: Introduzione – 1. Soggetti obbligati – 2. Ammontare del reddito – 3. Modalità di dichiarazione di esenzione – 4. Quantificazione dell’ammontare dovuto – 5. Domanda Riconvenzionale – 6. Sanzione per omessa indicazione del numero di fax o pec dell’Avvocato o C.F. della parte.
Introduzione
A seguito della entrata in vigore del D.L.98/2011, successi‑
vamente convertito con L. 111/2011, numerosi sono stati i
dubbi interpretativi per gli uffici giudiziari, in particolare per
quanto concerne l’art. 37 del citato D.L. con conseguenti diffi‑
coltà applicative per gli uffici che, a tale riguardo, hanno inol‑
trato al superiore Ministero della Giustizia vari quesiti, relativa‑
mente ai quali, allo stato, non è ancora giunta alcuna risposta.
Con la presente nota, dunque, si intendono prospettare e
riepilogare alcune soluzioni interpretative ed applicative deri‑
vanti da una più attenta riflessione sulla norma in oggetto.
Soggetti obbligati
In primo luogo la norma ha aggiunto all’art. 9 del T.U. in
materia di spese di Giustizia (D.p.r. 115/2002) il comma 1-bis
il quale ha previsto il pagamento del contributo unificato per
le controversie di previdenza ed assistenza obbligatoria nonché
per quelle individuali di lavoro o concernenti rapporti di pub‑
blico impiego per le parti “titolari di un reddito imponibile ai
fini dell’imposta personale sul reddito, risultante dall’ultima
dichiarazione, superiore a tre volte l’importo previsto dall’art.
76”, stessa legge.
La prima domanda da porsi è quella relativa alla esatta
individuazione dei soggetti obbligati al versamento del contri‑
buto unificato: ovvero di coloro i quali siano “titolari di un
reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito”.
A tal fine, non essendo stato fatto espresso riferimento all’IR‑
PEF, dovremmo presumere che il legislatore abbia voluto rife‑
rirsi anche all’imposta sul reddito delle persone giuridiche,
oggi denominata Ires. Diversamente la norma sarebbe palese‑
mente incostituzionale perché assoggetterebbe al pagamento
del contributo unificato solo i soggetti privati, in particolare
lavoratori, escludendo le società, enti etc. La interpretazione
proposta invece escluderebbe solo quei soggetti che non siano
titolari di alcun reddito imponibile, siano essi privati, enti,
associazioni etc.1. Non potendo però gli uffici valutare l’effet‑
1 Per maggiore chiarezza e praticità, si riporta il testo vigente delle norme qui rile‑
vanti del TUIR, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, contenute nel Titolo II (Impo‑
sta sul reddito delle società), Capo I (Soggetti passivi e disposizioni generali):
“Articolo 72 - Presupposto dell’imposta.
1. Presupposto dell’imposta sul reddito delle società è il possesso dei redditi in
denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’articolo 6.
Articolo 73 - Soggetti passivi. (N.B.: testo in vigore dal 13 agosto 2011; per
l’applicazione delle disposizioni del presente articolo si vedano anche l’art.1,
comma 20, L. 296/2006 e l’art.1, comma 88 L. 244/2007)
1. Sono soggetti all’imposta sul reddito delle società:
a) le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità
limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonchè le
società europee di cui al regolamento (CE) n.2157/2001 e le società cooperative
europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello
Stato;
b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonchè i trust, residenti nel
territorio dello Stato, che hannoper oggetto esclusivo o principale l’esercizio di
attività commerciali;
c) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonchè i trust, residenti nel
territorio dello Stato, che nonhanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio
di attività commerciali;
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
d) le società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, con o senza personalità
giuridica, non residenti nel territorio dello Stato.
2. Tra gli enti diversi dalle società, di cui alle lettere b) e c) del comma 1, si
comprendono, oltre alle persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, i
consorzi e le altre organizzazioni non appartenenti ad altri soggettipassivi, nei
confronti delle quali il presupposto dell’imposta si verifica in modo unitario e
autonomo. Tra le società egli enti di cui alla lettera d) del comma 1 sono com‑
prese anche le società e le associazioni indicate nell’articolo 5.
Nei casi in cui i beneficiari del trust siano individuati, i redditi conseguiti dal
trust sono imputati in ogni caso aibeneficiari in proporzione alla quota di
partecipazione individuata nell’atto di costituzione del trust o in altri documen‑
ti successivi ovvero, in mancanza, in parti uguali.
3. Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti
che per la maggior parte del periododi imposta hanno la sede legale o la sede
dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. Siconside‑
rano altresi’ residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust e
gli istituti aventi analogo contenuto istituiti in Stati o territori diversi da quelli
di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi
dell’articolo 168-bis, in cui almeno uno dei disponenti ed almeno uno dei be‑
neficiari del trust siano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato. Si consi‑
derano, inoltre, residenti nel territorio dello Stato i trust istituiti in uno Stato
diverso da quelli di cui al decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze
emanato ai sensi dell’articolo 168-bis, quando, successivamente alla loro costi‑
tuzione, un soggetto residente nel territorio dello Stato effettui in favore del
trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà di beni immobili
o la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote,
nonchè vincoli di destinazione sugli stessi.
4. L’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente è determinato in base alla
legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o
di scrittura privata autenticata o registrata. Per oggetto principale si intende
l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla
legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto.
5. In mancanza dell’atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l’og‑
getto principale dell’ente residente è determinato in base all’attività effettiva‑
mente esercitata nel territorio dello Stato; tale disposizione si applica in ogni
caso agli enti non residenti.
5-bis. Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la
sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di
controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del codice civile, nei sog‑
getti di cui alle lettere a) e b) del comma 1, se, in alternativa:
a) sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo
comma, del codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equi‑
valente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio
dello Stato.
5-ter. Ai fini della verifica della sussistenza del controllo di cui al comma 5-bis,
rileva la situazione esistente alla data di chiusura dell’esercizio o periodo di ge‑
stione del soggetto estero controllato. Ai medesimi fini, per le persone fisiche si
tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari di cui all’articolo 5, comma 5.
5-quater. Salvo prova contraria, si considerano residenti nel territorio dello
Stato le società o enti il cui patrimonio sia investito in misura prevalente in
quote di fondi di investimento immobiliare chiusi di cui all’articolo 37 del testo
unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e siano controllati
direttamente o indirettamente, per il tramite di società fiduciarie o per interpo‑
sta persona, da soggetti residenti in Italia. Il controllo è individuato ai sensi dell’,
anche per partecipazioni possedute articolo 2359, commi primo e secondo, del
codice civile da soggetti diversi dalle società.
5-quinquies. Gli organismi di investimento collettivo del risparmio con sede in
Italia, diversi dai fondi immobiliari, e quelli con sede in Lussemburgo, già au‑
torizzati al collocamento nel territorio dello Stato, di cui all’articolo 11-bis del
decreto-legge 30 settembre 1983, n. 512, convertito, con modificazioni, dalla
legge 25 novembre 1983, n. 649, e successive modificazioni, non sono soggetti
alle imposte sui redditi. Le ritenute operate sui redditi di capitale sono a titolo
di imposta. Non si applicano la ritenuta prevista dal comma 2 dell’articolo 26
del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e succes‑
sive modificazioni, sugli interessi ed altri proventi dei conti correnti e depositi
bancari e le ritenute previste dai commi 3-bis e 5 del medesimo articolo 26 e
dall’articolo 26-quinquies del predetto decreto nonchè dall’articolo 10-ter della
legge 23 marzo 1983, n. 77, e successive modificazioni.
Articolo 74 - Stato ed enti pubblici. (N.B.: testo in vigore dal 31 maggio 2010)
1. Gli organi e le amministrazioni dello Stato, compresi quelli ad ordinamento
autonomo, anche se dotati di personalità giuridica, i comuni, i consorzi tra
enti locali, le associazioni e gli enti gestori di demanio collettivo, le comunità
montane, le province e le regioni non sono soggetti all’imposta.
2. Non costituiscono esercizio dell’attività commerciale:
a) l’esercizio di funzioni statali da parte di enti pubblici;
b) l’esercizio di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie da parte di enti
pubblici istituiti esclusivamente a tal fine, comprese le aziende sanitarie locali
nonchè l’esercizio di attività previdenziali e assistenziali da parte di enti privati
2 0 1 1
29
tiva condizione reddituale del soggetto obbligato si ritiene di
onerare il soggetto stesso, ovvero la parte che introduce il
giudizio, a certificare la condizione che giustifica il diritto
all’esenzione dal versamento del contributo di iscrizione a
ruolo della causa di Lavoro o di Previdenza.
A conferma della suddetta interpretazione sovviene quan‑
to disposto già dal Segretariato generale della Giustizia ammi‑
nistrativa con Circolare 18 ottobre 2011, avente ad oggetto: “
Istruzioni sull’applicazione della disciplina in materia di con‑
tributo unificato nel processo amministrativo – Dimostrazione
del possesso del requisito reddituale e controllo da parte della
segreteria dell’organo guidiziario” 2, laddove è stato previsto
espressamente che siano da assoggettare al versamento del
C.U. anche le Onlus, le associazioni sportive, etc.
Si ritiene altresì che, laddove ricorrano le condizioni che
giustificano il diritto all’esenzione, non ricorra neppure l’ipo‑
tesi di una eventuale prenotazione a debito dell’imposta perché
non dovuta ex lege, permanendo la disciplina generale
dell’esenzione prevista dalla L. 2 aprile 1958 n. 319 per tutti
i giudizi di lavoro, previdenza ed assistenza obbligatorie, dal
momento che la stessa non è stata esplicitamente abrogata,
ma è stato previsto solo l’obbligo di pagamento del contribu‑
to per quei soggetti che si trovino nelle condizioni di cui all’art.
9 comma 1-bis T.U. 115/2002. Per tale motivo gli stessi pro‑
cedimenti continuano ad essere esenti da ogni altro tipo di
di previdenza obbligatoria.”
Enti locali
Le lettere b) e c) dell’articolo 73 del Tuir annoverano, tra i soggetti passivi Ires,
rispettivamente, gli enti pubblici (e privati) economici e quelli che non hanno per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali. Tra tali soggetti
rientrano anche gli enti pubblici territoriali. Il successivo articolo 74 dispone che
tali enti non sono soggetti all’imposta (comma 1) e che per i soggetti stessi non
costituiscono esercizio dell’attività commerciale le funzioni statali e, in genere,
l’esercizio di attività previdenziali, assistenziali e sanitarie svolte da enti pubblici
istituiti esclusivamente a tal fine, comprese le asl (comma 2).
Già da una prima lettura dei due commi si deve dedurre che l’esclusione ovvero
l’esenzione dall’applicazione del tributo personale riguarda esclusivamente l’eser‑
cizio di funzioni statali e le altre attività svolte in via istituzionale e, più precisa‑
mente, le attività previdenziali, di assistenza sociale, mutuo soccorso, beneficen‑
za, di istruzione, studio e sperimentazione di interesse generale, eccetera, con
conseguente imponibilità degli altri redditi eventualmente posseduti.
Dal combinato disposto delle predette norme si evince che il legislatore ha volu‑
to considerare gli enti pubblici territoriali enti passivi d’imposta ai fini Ires
escludendoli, tuttavia, dall’applicazione del tributo personale limitatamente alle
attività statali e, in genere, a quelle istituzionali, prevedendo, infine, alcune age‑
volazioni in funzione della tipologia di reddito prodotto; agevolazioni che appa‑
iono incompatibili se riferite a soggetti esclusi dall’applicazione di un tributo.
E’ evidente come, almeno sul piano letterale, le norme predette appaiano con‑
traddittorie giustificando in pieno i dubbi dell’interprete, il quale – tuttavia – non
può esimersi da un impegno ermeneutico forte, atteso che la questione non è
un mero esercizio di stile, perché l’eventuale assoggettabilità degli enti locali
all’Ires non si esaurisce in una “partita di giro” (gli enti locali versano l’Ires
allo Stato, il quale gliela restituisce sotto forma di trasferimenti agli stessi), ma
rientra in una ampia operazione redistributiva.
2 Ricorsi delle ONLUS, delle federazioni sportive e delle associazioni di tutela
dei consumatori e di difesa dell’ambiente:
I suindicati ricorsi sono sottoposti al pagamento del contributo unificato, ai
sensi del punto 27 bis della Tabella B allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642,
che esenta dall’imposta di bollo (ed oggi, in virtù dell’art. 10 del T.U. n.
115/2002, dal contributo unificato) i soli atti di natura sostanziale e non anche
quelli di natura processuale delle suddette persone giuridiche, in quanto l’elen‑
cazione degli atti esenti, effettuata dalla suddetta Tabella B, deve ritenersi tas‑
sativa, atteso che le esenzioni, per gli atti posti in essere nell’ambito di procedi‑
menti giurisdizionali, sono disciplinate dal legislatore in maniera esplicita.
A supporto di tale interpretazione può richiamarsi l’analoga posizione assunta
dall’Agenzia delle entrate, nella nota 23 marzo 2011 prot. n. 2011/31185,
concernente la corretta interpretazione della normativa sul bollo, nonché, in
sede giurisdizionale amministrativa, dal Consiglio di Stato, Sezione VI, nella
sentenza 16 febbraio 2011 n. 996.
civile
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D i r i t t o
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spesa di natura tributaria (ad es. imposta di bollo, di registro,
diritti di copia, di notifica, etc.).
L’onere relativo al pagamento dei suddetti contributi è
dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso
di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si
è costituita in giudizio. A questo fine, la soccombenza si de‑
termina con il passaggio in giudicato della sentenza. Per “ri‑
corsi” devono intendersi quello principale, quello incidentale
e i motivi aggiunti che introducono domande nuove. 3
Ammontare del reddito
Il riferimento è quello relativo al reddito relativo all’ultima
dichiarazione dei redditi determinato nel quantum con riferi‑
mento all’importo, triplicato, previsto dall’art. 76 TU
115/2002. Anche se l’art. 76 fa riferimento al reddito familia‑
re, l’interpretazione letterale della norma condurrebbe a
pensare che il riferimento all’articolo appena citato sia solo
indicativo del parametro di valore (aggiornabile con i criteri
ivi previsti) e che quindi non concorrono a determinare il
tetto del reddito i redditi prodotti dagli altri familiari (come
invece accade in materia di gratuito patrocinio). Tesi interpre‑
tativa questa privilegiata e già applicata negli uffici, anche se
qualche dubbio interpretativo permane laddove si voglia ri‑
correre ad una interpretazione sistematica della norma stessa
favorevole all’applicazione dello stesso criterio ispiratore
dell’art. 76, ovvero il reddito familiare. Tuttavia il richiamo
all’art. 76 senza riferimento ai commi da 1 a 3 (come invece
è previsto per determinare l’ammontare del reddito per il
beneficio di cui all’art. 152 disp. att. al c.p.c.) ci fa conclude‑
re per l’ipotesi interpretativa relativa al reddito personale.
In ogni caso il suddetto reddito, secondo le norme in ma‑
teria tributaria, deve essere inteso con riferimento al reddito
al netto degli oneri deducibili. Per il D.p.r. 22 dicembre 1986,
n. 917 (Testo Unico imposte sui redditi) mentre “il reddito
complessivo si determina sommando i redditi di ogni catego‑
ria che concorrono a formarlo..” (art.8), la base imponibile su
cui si applica l’imposta è costituita dal “reddito complessivo
al netto degli oneri deducibili indicati nell’art.10” (art. 3
D.P.R. cit.). 4
Modalità di dichiarazione di esenzione
Ai sensi dell’art. 10, co 6, T.U. 115/2002 “la ragione
dell’esenzione per materia deve risultare da apposita dichiara‑
zione resa dalla parte nelle conclusioni dell’atto introduttivo”.
Tale norma, previgente rispetto al testo di cui all’art. 9 co
1 bis, era prevista in relazione alle ipotesi di cui ai commi 1 e
2 dello stesso art. 10, analogamente a quanto già previsto, con
riferimento alla esigenza di determinare lo scaglione di con‑
3 Per come precisato nel testo dell’art 2, comma 35-bis (em. 2.102 testo 4) (Modifiche al testo unico sulle spese di giustizia). L’emendamento 2.102 (testo 4) al
comma 35 dell’art. 2 (Disposizioni in materia di entrate) introducendo il com‑
ma 35-bis dispone talune novelle all’art.13 del DPR 30 maggio 2002, n. 11567.
Le novelle introdotte intendono modificare, appunto, l’art. 13 (Importi) che è
parte del Titolo I della parte II, relativa al contributo unificato nel processo
civile, amministrativo e tributario.
4 Cass. Pen., Sez. III, 23 marzo-28 aprile 2011 n. 16583: Ai fini dell’ammissione
al gratuito patrocinio, l’art. 76, comma 1 del t.u. n.115/02 sulle spese di giusti‑
zia, prende in considerazione il “reddito imponibile ai fini dell’imposta perso‑
nale sul reddito risultante dall’ultima dichiarazione” di guisa che devesi far ri‑
ferimento alla materia tributaria secondo la quale, per reddito imponibile, deve
intendersi il reddito complessivo al netto degli oneri deducibili”.
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tributo da versare, a proposito della dichiarazione di valore
della controversia da rendersi a cura della parte che per prima
si coistituisce in giudizio o che modifica la domanda (art. 14,
co 1 e 2 TU 115/2002).
Si ritiene che mentre la dichiarazione di valore o di esen‑
zione possa essere sottoscritta dall’Avvocato, rientrando la
suddetta attività nei poteri delagati dalla “parte”, attraverso
il mandato, al difensore, la dichiarazione relativa al diritto
all’esenzione per motivi di redditto debba essere resa dalla
parte personalmente e dunque dalla stessa certificata.
Ora, se è vero che la dichiarazione di valore può anche
essere resa successivamente all’atto introduttivo del giudizio,
secondo quanto disposto con Circolare Ministeriale del
29/9/2003 “in considerazione del fatto che (e con ciò si cita
testualmente la interpretazione data dal ministero in risposta
ad uno specifico quesito), come si evince dalla relazione
all’art. 13 T.U. – che determina gli importi del contributo
unificato – la ratio della norma è quella di determinare la
misura del contributo unificato in relazione al valore dei
processi5, allo stesso modo si ritiene che tale dichiarazione,
resa ai fini dell’esenzione dal versamento del contributo uni‑
ficato (e non ad altri fini) che deve essere sottoscritta dalla
parte personalmente, possa essere resa dalla parte anche con
atto separato rispetto al ricorso introduttivo ed anzi vada
resa nelle forme e nei modi di cui all’art. 46 D.p.r. 445/2000
ed inserita nel fascicolo di ufficio. La suddetta tesi interpre‑
tativa è stata di recente sostenuta anche dal Segretariato ge‑
nerale della Giustizia amministrativa con la Circolare, prece‑
dentemente citata, del 18 ottobre 2011, avente ad oggetto:
Istruzioni sull’applicazione della disciplina in materia di con‑
tributo unificato nel processo amministrativo “Dimostrazio‑
ne del requisito reddituale e controllo da parte della segreteria
dell’organo giudiziario”: Nell’art. 37 del D.L. n. 98 del 2011
si fa espresso riferimento, quanto alla dimostrazione del pos‑
sesso di un reddito inferiore a quello minimo previsto, all’“ul‑
tima dichiarazione” dei redditi.
Ciò significa che, analogamente a quanto previsto dal
medesimo T.U. n. 115 del 2002 per la dimostrazione del livel‑
lo reddituale richiesto per l’ammissione al patrocinio a spese
dello Stato (art. 79), la parte può produrre, a mezzo del suo
difensore, una dichiarazione sostitutiva di certificazione ai
sensi dell’art. 46 comma 1 lett. o) del d.P.R. 28 dicembre 2000
n. 445, attestante la sussistenza delle condizioni di reddito
previste per beneficiare dell’esenzione.
Analogamente la giurisprudenza (Cass. Civ. Sez Lav
12/5/2009 n. 10875), con riferimento a quanto previsto
dall’art. 152 disp. Att. c.p.c. e per le finalità di cui alla stessa
norma, ovvero affinchè la parte ricorrente nei giudizi per
prestazioni previdenziali o assistenziali sia esonerata dal pa‑
5 Conseguentemente sembra evidente che l’effetto sanzionatorio della presunzio‑
ne di valore di cui all’art. 13, comma 6 T.U. si riferisca soltanto alle ipotesi in
cui non venga presentata, sia pure successivamente all’atto introduttivo, alcuna
dichiarazione di valore sulla causa: Diversamente, la precisazione sul valore
della causa formulata successivamente all’atto introduttivo, purchè sottoscritta
dal difensore e presentata al momento dell’iscrizione a ruolo, deve considerar‑
si come una formale integrazione dell’atto introduttivo del giudizio e, come
tale, validamente preordinata ad individuare lo scaglione di valore del processo
al fine di determinare l’importo del contributo unificato da versare. La predetta dichiarazione deve, ovviamente, essere inserita nel fascicolo di ufficio (art.
168 c.p.c.)”(seguito circolare Ministeriale citata).
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
gamento delle spese, competenze ed onorari in caso di soc‑
combenza, ha ritenuto che per godere del suddetto beneficio
la dichiarazione sulle condizioni reddituali da rendersi me‑
diante dichiarazione sostitutiva di certificazione nelle conclu‑
sioni dell’atto introduttivo, vada interpretata nel senso che
“deve ritenersi l’efficacia della dichiarazione sostitutiva che,
ancorchè materialmente redatta su foglio separato, sia espressamente richiamata nel ricorso introduttivo del giudizio di
primo grado e ritualmente prodotta con il medesimo”6 .
Quantificazione dell’ammontare dovuto
Mentre per i ricorsi in materia di Previdenza ed assistenza
il contributo è fisso, per le cause di Lavoro il contributo do‑
vuto è quello già previsto per le cause civili di cui all’art. 13,
1° comma, ridotto alla metà.
E’ stato sollevato il dubbio in relazione all’importo da
corrispondere nei giudizi di cui al libro IV, Titolo I c.p.c.,
compresi i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo, i qua‑
li già in materia civile godono del beneficio della riduzione
alla metà del contributo dovuto; pertanto taluni ritengono che
per tali procedimenti il contributo unificato dovuto sia, in
materia di lavoro, la metà della metà dello scaglione previsto
dall’art. 13, 1° comma.
Al contrario, l’interpretazione letterale della norma, ov‑
vero del 3° comma dell’art. 13 coordinato con il nuovo testo,
recita “il contributo è ridotto alla metà per i processi specia‑
li… e per le controversie individuali di lavoro e concernenti
rapporti di pubblico impiego” prevedendo la riduzione con
una ipotesi congiuntiva e senza ridurre i procedimenti con il
contributo fisso come quelli in materia di previdenza. Si ritie‑
ne pertanto che per i giudizi di cui al libro IV , titolo I c.p.c.,
compresi i giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo il con‑
tributo sia lo stesso in materia civile e in materia di lavoro.
2 0 1 1
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dell’Avvocato o C.F. della parte Il comma 3-bis dell’art. 13
T.U., introdotto dal D.L. 98/2011, prevede l’applicazione di
una sanzione corrispondente alla metà del contributo nei
casi di cui sopra. Si ritiene che tale sanzione vada applicata
nei confronti del difensore, in caso di mancata indicazione
dell’indirizzo fax e della p.e.c., e invece nei conmfronti della
parte in caso di assenza del C.F. della parte.
Se la parte risulta esente dal contributo unificato, avendo
la norma carattere sanzionatorio, si ritiene che si debba co‑
munque procedere al recupero della somma che, solo nella sua
determinazione ha come parametro il C.U. e quindi nella
misura del 50% del C.U. dovuto.
6 A tale riguardo, ai fini del controllo sulle dichiarazioni rese per usufruire dei
benefici di cui sopra si cita il testo dell’art. 11, co 6 del Decreto Legge 6 dicem‑
bre 2011 n. 2011 “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolida‑
mento dei conti pubblici” (G.U. del 6 dicembre 2011, in vigore dallo stesso
giorno) Emersione di base imponibile 6. Nell’ambito dello scambio informativo
previsto dall’articolo 83, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,
convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, l’Istituto Nazionale della previden‑
za sociale fornisce all’Agenzia delle entrate ed alla Guardia di finanza i dati re‑
lativi alle posizioni di soggetti destinatari di prestazioni socio-assistenziali affin‑
ché vengano considerati ai fini della effettuazione di controlli sulla fedeltà dei
redditi dichiarati, basati su specifiche analisi del rischio di evasione.
civile
Domanda Riconvenzionale
Ai sensi dell’art. 14 co 3 del T.U. 115/2002, modificato
dall’art. 28 Legge di Stabilità (già legge finanziaria) per il
2012, L. 12 novembre 2011, n. 183, la parte che modifica la
domanda o propone domanda riconvenzionale o formula
chiamata o svolge intervento autonomo, cui consegue l’aumento di valore della causa, è tenuta a farne espressa dichiarazione e a procedere al contestuale pagamento, integrativo,
se trattasi di parte che ha iscritto a ruolo la causa, o autonomo (determinato in base al valore della domanda proposta),
se trattasi di altra parte.
Alla luce del nuovo testo della norma anche in questa se‑
conda ipotesi si dovrà eventualmente documentare il diritto
all’esenzione per le cause di lavoro e previdenza.
Sanzione per omessa indicazione del numero di fax o pec
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Rassegna di legittimità
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A cura di
Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
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Competenza e giurisdizione civile – Territorio competenza per –
Foro generale
La Convenzione di Lugano del 16 settembre 1988 prevede quale criterio di collegamento generale per l’individuazione del giudice competente a risolvere una controversia quello
del domicilio del convenuto. A tale principio generale, solo
quale facoltà aggiuntiva, la disciplina in questione prevede
casi tassativi in cui il convenuto può essere citato in giudizio
in uno Stato diverso da quello in cui il medesimo ha il proprio
domicilio: i cd. fori speciali o alternativi. Qualora, tuttavia,
le parti contrattuali abbiano attribuito, mediante il cd. accordo di proroga della giurisdizione, la competenza a conoscere
di una controversia al Giudice di uno Stato membro, la competenza spetta in via esclusiva a tale organo giudicante, con
la conseguenza che il citato accordo prevale sia sul foro generale che su quelli facoltativi.
Cassazione civ., sez. unite, sentenza 25 novembre 2011, n.
24906
P.P. Vittoria, Pres. Adamo, Est. Segreto
Locazione di cose – Canone
Il conduttore di un immobile è gravato, tra le altre obbligazioni principali, dell’obbligo di corrispondere il canone in
favore del locatore anche per un periodo limitato di occupazione dell’immobile, a nulla rilevando l’eventuale intervenuta concorde fissazione della data di rilascio. In tal senso si
rivela, dunque, erronea sul punto la motivazione del Giudice
del merito nella parte in cui abbia ritenuto che il ritardo, sia
pure concordato, di sette giorni per la riconsegna del bene
comunque non avrebbe obbligato il conduttore a pagare per
quella frazione il corrispettivo dell’occupazione.
Cassazione civ., sez. III, sentenza 20 dicembre 2011, n.
27561
Pres. Trifone, Est. Uccella
Locazione di cose – Contratto di locazione – Durata – Obbligazioni
e contratti – Risoluzione del contratto per inadempimento
L’accertamento in ordine alla gravità dell’inadempimento,
tale da legittimare la risoluzione del contratto di locazione,
presuppone una valutazione dell’organo giudiziario non settoriale, bensì attuata avuto riguardo non solo alla scadenza
dei canoni di locazione, ovvero all’importo degli stessi, ma
anche al comportamento della parte inadempiente.
Cassazione civ., sez. III, sentenza 13 dicembre 2011, n.
26709
Pres. Trifone, Est. Uccella
Locazione di cose – Prelazione e riscatto – Uso non abitativo
Il terzo acquirente dell’immobile urbano adibito ad uso non
abitativo che abbia acquistato il bene in violazione del diritto
di prelazione vantato dal conduttore, non ha alcun diritto di
ricevere il pagamento dei canoni di locazione maturati e non
corrisposti successivamente alla data della compravendita,
nella quale, in seguito all’esercizio del diritto di riscatto, ha
luogo la sostituzione ex tunc del titolare del diritto di riscatto
al terzo nella stessa posizione che questi aveva nel negozio
concluso. L’esercizio del diritto di riscatto previsto dall’art. 39
della legge n. 392 del 1978 (Equo canone) a favore del conduttore di immobile urbano adibito ad uso diverso dall’abitazione,
pretermesso nel caso di vendita del bene locato, ha come effet-
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to la sostituzione ex tunc del titolare del diritto di riscatto al
terzo nella stessa posizione che questi aveva nel negozio concluso, sulla base della propria dichiarazione unilaterale recettizia. La pronuncia che decida positivamente sul valido esercizio di detto diritto potestativo del conduttore è, dunque, di
mero accertamento del già avvenuto trasferimento. Il conduttore di immobile urbano adibito ad uso non abitativo, il quale abbia esercitato, con esito positivo, il diritto di riscatto del
bene alienato ad un terzo in violazione del suo diritto di prelazione, ed abbia continuato anche dopo l’alienazione a detenere l’immobile in forza di contratto di locazione, è tenuto
alla corresponsione, in favore del proprietario, unicamente del
prezzo di acquisto, e non anche dei canoni di locazione fino
alla data in cui la sentenza di retratto sia divenuta efficace in
virtù dell’integrale pagamento del corrispettivo.
Cassazione civ., sez. III, sentenza 29 novembre 2011, n.
25230
Pres. Trifone, Est. Filadoro
Obbligazioni e contratti – Interpretazione del contratto in genere
L’interpretazione del contratto è un’attività riservata al
Giudice di merito, censurabile in sede di legittimità soltanto
per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale,
ovvero per vizi di motivazione. Qualora si censuri l’interpretazione offerta dal Giudice, occorre non solo l’astratto riferimento agli articoli del codice che sanciscono le regole interpretative,
ma anche la specificazione dei canoni in concreto violati, precisando in che modo il Giudice se ne è discostato, sì da evidenziare le distorsioni che l’asserita violazione ha prodotto.
Cassazione civ., sez. III, sentenza 30 novembre 2011, n.
25568
Pres. Filadoro, Est. Amendola
Procedure concorsuali – Fallimento – Curatore – Mero ammini-
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stratore del patrimonio – sequestro giudiziario – Nomina a custode – Remunerazione separata – Necessità – Fondamento
Il curatore fallimentare è mero amministratore del patrimonio fallimentare, attualmente soggetto alla vigilanza (e in
precedenza, secondo la formulazione della norma applicabile ratione temporis al caso di specie, alla direzione) del giudice delegato e che, secondo l’orientamento tuttora prevalente in dottrina, non rappresenta né sostituisce i creditori o il
fallito, ma assume la posizione di organo ausiliare dell’amministrazione della giustizia, ovvero di soggetto imparziale
che opera nell’interesse generale, qualificabile come incaricato di pubbliche funzioni. Fra il curatore ed i creditori
concorsuali difetta, dunque, un rapporto di rappresentanza
organica; né, rispetto alla massa, il curatore può ritenersi
fornito di capacità processuale generale ed autonoma, posto
che la sua costituzione in giudizio é subordinata all’autorizzazione del giudice delegato.
Cassazione civ., sez. I, sentenza 25 novembre 2011, n.
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Pres. Fioretti, Est. Zanichelli
Spese giudiziali civili – Regolamento delle spese in genere (destinatari attivi e passivi)
In ordine alla condanna in solido di più soccombenti alle
spese del giudizio, il requisito dell’interesse comune, come
imposto dall’art. 97, comma 2, c.p.c., non richiede la loro
qualità di parti in un rapporto sostanziale indivisibile o solidale, potendo, invero, discendere anche da una mera convergenza di atteggiamenti difensivi, rispetto alle questioni oggetto di giudizio, ovvero da identità di interesse personale
con riguardo al provvedimento richiesto al Giudice.
Cassazione civ., sez. III, sentenza 20 dicembre 2011, n.
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Pres. Trifone, Est. Uccella
civile
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Rassegna di merito
●
A cura di
Mario De Bellis
Avvocato
e Daniela Iossa
Avvocato
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Cessione di ramo d’azienda – Successivo licenziamento collettivo intimato dal cedente – Carattere preliminare dell’accertamento della
cessione – Sussistenza dei requisiti per la tutela ex art. 2112 c.c.
a) Al fine di individuare le ipotesi si sospensione necessaria del processo ma ugualmente rilevante ai fini di una ordinata trattazione delle questioni, si è in presenza di una controversia strettamente pregiudiziale da trattare con priorità,
allorché tra le stesse parti si controverte, da una parte, in
ordine alla nullità del titolo che, per altro verso, è posto a
fondamento della domanda e impone la sospensione del secondo (Cass. n. 4977 del 2001, 5533 del 2001, 8402 del 2001,
2048 del 2003).
b) Ai fini dell’applicabilità della disciplina dettata dall’art.
2112 c.c., l’incidenza del trasferimento d’azienda sui rapporti di lavoro prescinde dall’esistenza di un rapporto contrattuale tra l’imprenditore uscente e quello che subentra nella
gestione d’azienda , assumendo rilievo, invece, la circostanza
che vi è continuità nell’esercizio dell’attività imprenditoriale,
restando immutati il complesso organizzato dei beni dell’impresa e l’oggetto di quest’ultima.
L’ipotesi del trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c. è
configurabile anche quando non ricorra un unico atto di
cessione ma il trasferimento, concernente l’organizzazione del
complesso dei beni destinati all’esercizio dell’impresa, si realizzi con pluralità di contratti anche se succedutisi in un certo
arco di tempo. Pertanto, esso può ricorrere nel caso di vendita, affitto o usufrutto di azienda, nonché in tutte le altre
molteplici ipotesi n cui, fermo restando l’organizzazione del
complesso dei beni destinati all’esercizio dell’impresa si abbia
la sostituzione della persona del titolare, qualunque sia il
mezzo tecnico-giuridico attraverso il quale esso si attua.
Né assume rilievo l’eventuale diversificazione del sistema
di produzione del prodotto alimentare somministrato alla
clientela, in relazione agli obblighi assunti con il contratto di
franchising intercorso con altro soggetto.
A nulla rileva, ancora, stante l’automatico prodursi degli
effetti regolati dall’art. 2112 c.c. la circostanza che, dopo
l’acquisto dei beni e l’avvenuta cessione dell’attività economica, le cessionarie abbiano voluto o dovuto, per obbligo
derivante dal contratto di franchising che le lega ad altri,
rinnovare in tutto o in parte l’attrezzatura e gli arredi. Si
tratta, come è evidente, di scelte fisiologiche di natura imprenditoriale del tutto estranee alla vicenda della cessione di ramo
d’azienda ed alla sorte dei rapporti di lavoro preesistenti.
c)Per quanto riguarda, poi, gli effetti dell’accertamento
della cessione del ramo d’azienda, va osservato che dal medesimo scaturisce l’accertamento della continuità dei rapporti
di lavoro con assunzione dei relativi obblighi in capo alle
cessionarie. Pertanto va affermato l’obbligo delle citate società di ripristinare il rapporto interrotto illegittimamente. La
fattispecie si presenta analoga a tutte le ipotesi di mancanza
di efficace atto di risoluzione del rapporto di lavoro che abilita il lavoratore a pretendere la riattivazione dello stesso.
App. Napoli, sez. lavoro, sentenza 3 giugno 2011, n. 3604
Pres. Vitiello, Rel. Calafiore
Medici dipendenti ASL- Inserimento in turni festivi di pronta disponibilità senza prestazione di attività lavorativa (cd. reperibilità passiva)
– Mancata fruizione dei riposi compensativi previsti dal C.C.N.L. – Diritto al risarcimento del danno – Sussistenza – Criteri di liquidazione
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
La previsione del riposo compensativo successivo al turno di disponibilità festivo, più che rispondere all’esigenza di
risarcire la mancata piena fruizione del riposo, sembra avere
la stessa funzione della indennità di disponibilità, unitamente alla quale costituisce il corrispettivo contrattualmente
previsto per una prestazione lavorativa accessoria e più disagiata di quella resa in base ai normali turni di servizio.
La mancata concessione del riposo compensativo comporta, dunque, una vera e propria responsabilità per inadempimento contrattuale del datore di lavoro, tenuto al conseguente obbligo risarcitorio.
Il riconoscimento del diritto ad un riposo compensativo
successivo al turno di disponibilità festivo, anche nel caso di
mera reperibilità passiva, in aggiunta alla relativa indennità
economica, non comporta una irragionevole equiparazione
con il trattamento erogato per la reperibilità attiva.
Infatti, nel caso di reperibilità attiva, è accordato anche il
compenso previsto contrattualmente per il lavoro straordinario
per le ore effettivamente lavorate ovvero, in alternativa, il recupero di tali ore, ossia l’effettiva riduzione dell’orario di lavoro per un numero di ore corrispondente a quelle lavorate.
Il diritto ad un giorno di riposo compensativo, che non è
riconducibile, attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento
della prestazione rispetto al lavoro effettivo, all’art. 36 della
Cost., ma la cui mancata concessione è idonea ad integrare
un’ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psico-fisica)
da fatto illecito o da inadempimento contrattuale che è risarcibile in caso di pregiudizio concreto patito dal titolare
dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della specifica deduzione e della prova.
App. Napoli, sez. lavoro, sentenza 9 novembre 2011, n.
6563
Pres. Vitiello, Rel. Rispoli
Notifica del ricorso introduttivo – Mancato rinvenimento dell’atto notificato – Autorizzazione alla rinnovazione della notifica ex
art. 291 c.p.c. – Orientamento giurisprudenziale consolidato –
Mutamento indirizzo delle Sezioni Unite della Cassazione (cd.
overruling) – Affidamento incolpevole della parte – Validità della
notifica – Conseguenze processuali
Il mutamento della precedente interpretazione della norma
processuale da parte del giudice della nomofilachia (cd. “over‑
ruling”), il quale porti a ritenere esistente, in danno di una
parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima
escluse, opera – laddove il significato che essa esibisce non
trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale – come interpretazione correttiva che si salda alla
relativa disposizione di legge processuale “ora per allora”, nel
senso di rendere irrituale l’atto compiuto o il comportamento
tenuto dalla parte in base all’orientamento precedente. Infatti,
il precetto fondamentale della soggezione del giudice soltanto
alla legge (art. 101 Cost.) impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicché
essa, nella sua dimensione dichiarativa, non può rappresentare la “lex temporis acti”, ossia il paramento normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione temporale con l’affermarsi dell’esegesi del giudice.
Tuttavia, ove l’”overruling” si connoti del carattere dell’imprevedibilità (per aver agito in modo inopinato e repentino sul
2 0 1 1
35
consolidato orientamento pregresso), si giustifica una scissione
tra il fatto (e cioè il comportamento della parte risultante “ex
post” non conforme alla corretta regola del processo) e l’effetto,
di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con la
conseguenza che - in considerazione del bilanciamento dei valori in gioco, tra i quali assume preminenza quello del giusto
processo (art. 111 Cost.), volto a tutelare l’effettività dei mezzi
di azione e di difesa anche attraverso la celebrazione di un giudizio che tenda, essenzialmente, alla decisione di merito – deve
escludersi l’operatività della preclusione o della decadenza derivante dall’”overruling” nei confronti della parte che abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva
conoscibilità dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi
in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della
regola stessa, la quale, sebbene soltanto sul piano fattuale, aveva
comunque creato l’apparenza di una regola conforme alla legge
del tempo. Ne consegue ulteriormente che, in siffatta evenienza,
lo strumento processuale tramite il quale realizzare la tutela
della parte va modulato in correlazione della peculiarità delle
situazioni processuale interessate dall’”overruling”.
Ove si tratti di mancato rispetto delle forme prescritte dal
nuovo indirizzo lo strumento è individuato nell’istituto della
remissione in termini, laddove invece, venga in rilievo un
problema di tempestività dell’atto il valore del giusto processo può trovare diretta attuazione attraverso l’esclusa operatività della preclusione derivante dall’overruling nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata giurisprudenza.
App. Napoli, sez. lavoro, sentenza 24 novembre 2011, n.
6349
Pres. Rel. Rispoli
Risarcimento danni – Impugnativa di testamento olografo – Declaratoria di nullità e falsità del testamento – Procedura di disconoscimento – Inidoneità
Al fine di ottenere lo scopo di accertare la dedotta nullità
o falsità del testamento, la parte attrice avrebbe dovuto proporre querela di falso, non risultando viceversa idoneo, al
precipitato fine, il mero disconoscimento del testamento
quale scrittura privata.
Infatti, la procedura di disconoscimento e di verificazione
della scrittura privata (artt. 214 e 216 c.p.c.), riguarda unicamente le scritture provenienti dai soggetti che sono parte
del processo e presuppone che colui il quale indente disconoscerle neghi formalmente la propria scrittura o la propria
sottoscrizione ovvero, quale erede o avente causa, dichiari di
non conoscere la scrittura e la sottoscrizione attribuita al
proprio dante causa; invece, per le scritture private provenienti da terzi, come nel caso di un testamento olografo
contestato da chi non sia un successibile ex lege del testatore,
la contestazione dell’autenticità non può essere sollevata
secondo la disciplina dettata dalle predette norme, bensì
unicamente nelle forme dell’art. 221 e segg. c.p.c., poiché di
risolve in un’eccezione di falso (Cass. 30.10.2003 n. 16362;
Tribunale Roma 24.3.2004).
Le scritture private provenienti da terzi possono essere
liberamente contestate, senza necessità né della proposizione
della querela di falso né del disconoscimento, atteso che le
stesse costituiscono mere prove atipiche il cui valore probatorio è meramente indiziario., ma che tuttavia, nell’ambito
civile
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p r o c e d u r a
delle scritture private, deve riservarsi diverso trattamento a
quelle la cui natura le connota di una carica di incidenza
sostanziale e processuale intrinsecamente elevata, tale da
richiedere la querela di falso onde contestarne l’autenticità.,
c i v i l e
Gazzetta
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quali il testamento olografo ed i titoli di credito (Cass., Sezioni Unite, 23.6.2010 n. 15169).
Trib. Napoli, sez. XII civ., sentenza 9 marzo 2011, n. 2801
Pres. Gatto, Rel. Scotto di Carlo
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
In evidenza
TRIBUNALE DI NAPOLI, Sezione Lavoro.
ordinanza cautelare 15 novembre 2011
Giud. C. Sarno
Scuole private legalmente riconosciute – Titolo di abilitazione
all’insegnamento - Requisito validità contratto di lavoro subordinato - Mancanza: nullità contratto – Illegittimità licenziamento Onere probatorio. [1]
Il possesso del titolo legale di abilitazione all’ insegnamento da parte degli insegnanti rappresenta un requisito di
validità dello contratto di lavoro per l’insegnamento presso
scuole private legalmente riconosciute. Il contratto di lavoro
subordinato, nella ipotesi in cui l’insegnante risulti sprovvisto
del titolo suddetto, va considerato nullo per violazione delle
citate norme di carattere imperativo. La mancanza della retribuzione, all’esito del licenziamento, pregiudica lo svolgimento di un’esistenza libera e dignitosa.
Trib. Napoli, Sezione Lavoro, ordinanza cautelare 15 novem‑
bre 2011, Giud. C. Sarno
(Omissis)
Il ricorrente, premesso di aver svolto continuativamente
per sette anni, presso l’Istituto “-”, l’attività di docente di
storia e filosofia nel liceo scientifico, ha impugnato il licen‑
ziamento intimatogli dalla convenuta- per mancanza dello
specifico titolo di abilitazione per la classe 37/A-, con lettera
raccomandata del 3 settembre 2011, pervenuta in data
9.9.2011, chiedendo in via d’urgenza di accertare e dichiara‑
re l’illegittimità dell’impugnato atto di recesso e, per l’effetto,
di ordinare all’Istituto “-” l’immediata reintegra nel posto di
lavoro precedentemente occupato, con conseguente risarci‑
mento del danno da commisurarsi in una somma non inferio‑
re alla retribuzione globale di fatto spettante al docente dal
giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra‑
zione ed al versamento dei relativi contributi assistenziali e
previdenziali, nonché al riconoscimento giuridico della con‑
tinuità del rapporto di lavoro in essere ai fini anche dell’an‑
zianità di servizio con vittoria di spese, diritti ed onorari di
giudizio.
37
Ha dedotto l’istante di essere in possesso dell’abilitazione
all’insegnamento per la classe di concorso 36/A (filosofia,
psicologia e scienze dell’educazione) idonea anche all’insegna‑
mento per la classe di concorso 37/A (storia e filosofia).
A sostegno della domanda la parte ricorrente ha invocato
l’art. 19 del CCNL del 4.6.2007 fra le OO.SS e l’Associazio‑
ne Gestori Istituti Dipendenti dall’Autorità Ecclesiastica
-AGIDAE così come interpretato dalla Commissione Parite‑
tica Nazionale di cui all’art. 3 del CCNL scuola, sottolinean‑
do che il titolo valido per l’insegnamento deve riferirsi non
alla specifica classe di concorso, bensì alla materia di insegna‑
mento. Ne deriva, in base all’assunto di parte istante, che la
materia “Filosofia” per il cui insegnamento è idonea l’abilita‑
zione 36/A e la materia “Storia” per la quale è necessaria
l’abilitazione 37/A siano discipline assimilabili ai fini dell’in‑
segnamento. Ha infine richiamato il D,M. del M.I.U.R. del
10 agosto 1998 n. 354 che, all’art. 1 co.1 punto B, crea al n.
7 un unico ambito disciplinare in cui è compresa la classe di
concorso 36/A e la classe di concorso 37/A.
L’Istituto “-”, convenuto, costituitosi regolarmente in
giudizio ha chiesto il rigetto della domanda per mancanza dei
requisiti del periculum in mora e del fumus boni iuris.
In particolare ha dedotto che il prof. N.G. è sprovvisto
dell’abilitazione nella classe di concorso A037 per l’insegna‑
mento di storia e filosofia nel liceo scientifico e, pertanto, ha
sostenuto la legittimità del licenziamento irrogato proprio per
mancanza di idonea abilitazione.
Il ricorso va accolto nei limiti della seguente motivazione,
sussistendo i requisiti del fumus boni iuris e del periculum in
mora. E’ pacifico ed incontestato che parte ricorrente sia
stato assunto ed abbia lavorato in qualità di docente di storia
e filosofia presso il liceo scientifico dell’Istituto “-”. Risulta
altresì documentalmente accertato (cfr. certificato di abilita‑
zione depositato in giudizio) che il prof. N.G. abbia consegui‑
to l’abilitazione all’insegnamento di filosofia, psicologia e
scienza dell’educazione, classe di concorso A 036. E’ infine
emerso dalla piana lettura del contenuto della raccomandata
datata 20 agosto 2011 ed inviata dalla convenuta al prof. N.G.
che quest’ultimo sia stato licenziato in quanto sprovvisto
dello specifico titolo di abilitazione - 37/A, idoneo all’insegna‑
mento delle materie di storia e filosofia nel liceo scientifico.
Invero, la giurisprudenza della Suprema Corte ha sottolinea‑
Nota redazionale a cura di Raffaele Micillo
[1] La giurisprudenza è da sempre orientata nel ritenere il possesso
del titolo legale di abilitazione all’ insegnamento da parte degli insegnan‑
ti, presso scuole private legalmente riconosciute, un requisito di validità
dello stesso contratto di lavoro subordinato (cfr Cass. S.U. n. 11559 del
26/05/2011; Cass. Sez. Lav. 28/06/1986 n. 4341; Cass. Sez. lav. 12/03/2004
n. 5131; Cass. Sez. Lav. 21/05/2002 n. 2126; Cass. S.U. 08/10/2002 n.
14381). La mancanza del titolo di abilitazione è ostativo alla prosecuzio‑
ne del rapporto di lavoro, sussistendo, per l’effetto, la possibilità in capo
al datore di lavoro l’intimazione di licenziamento per giusta causa. Fermi,
ai sensi dell’art. 2126 cod. civ., gli effetti del rapporto per il periodo in cui
esso abbia avuto esecuzione. La legge n. 62/2000, espressione ricognitiva
dell’offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di
istruzione, ha introdotto il sistema nazionale di istruzione come costitu‑
ito dalle scuole statali e da quelle private, oltre dagli enti locali, prevenen‑
do la parità tra scuola pubblica e scuola privata. La normativa in parola
individua i requisiti prodromici al riconoscimento della parità, quali la
presenza di un progetto educativo conforme ai principi della Costituzione;
l’esistenza di locali e arredi adeguati e in regola con le norme di sicurezza;
2 0 1 1
la presenza di organi collegiali interni istituiti e funzionanti; l’esistenza
di corsi completi dal primo all’ultimo anno; l’accettazione di tutti gli
alunni che ne facciano richiesta; la esistenza di Pof (progetto dell’Offerta
Formativa), per formulazione e contenuti, conforme agli ordinamenti e
alle disposizioni vigenti; possesso della titolarità della gestione e bilancio
reso pubblico; l’applicazione della legge 104/92 sull’integrazione scolasti‑
ca dei soggetti portatori di handicap; la presenza di docenti in possesso
di titolo di abilitazione riconosciuto dallo stato italiano; l’applicazione
dei contratti individuali di lavoro per dirigenti e docenti nel rispetto dei
contratti nazionali di settore.
Nel caso in esame il Giudice del cautelare, offrendo una esaustiva rico‑
gnizione della normativa, anche convenzionale, sottesa al rapporto di
lavoro subordinato in essere tra le parti in causa, ha correttamente evi‑
denziato la esistenza, legittimità ed opponibilità dei titoli di abilitazione
all’insegnamento da parte del ricorrente e, per ciò stesso, la illegittimità
dell’irrogato licenziamento. In tal senso, emerge ancora più evidente la
censura mossa alla difesa dell’istituto resistente dove “non ha neanche
allegato e, tantomeno provato, di avere la necessità di coprire la sola
cattedra relativa all’insegnamento della materia 'Storia'”.
Quanto al periculum in mora l’ordinanza in esame si conforma all’orien‑
tamento costante del Tribunale di Napoli, Sezione Lavoro.
civile
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p r o c e d u r a
to che in ipotesi di rapporto di lavoro subordinato avente ad
oggetto l’insegnamento presso scuole private legalmente rico‑
nosciute, il possesso del titolo legale di abilitazione all’inse‑
gnamento da parte degli insegnanti rappresenta un requisito
di validità dello stesso contratto di lavoro, il quale - ove l’in‑
segnante risulti sprovvisto del titolo suddetto - deve conside‑
rarsi nullo per violazione delle citate norme di carattere im‑
perativo, con conseguente impedimento alla prosecuzione
ulteriore del rapporto e possibilità per il datore di lavoro di
intimare il licenziamento per giusta causa, pur restando fermi,
ai sensi dell’art. 2126 cod. civ., gli effetti del rapporto per il
periodo in cui esso abbia avuto esecuzione ( cfr. sent. Cass. n.
11559 del 26/05/2011). La L. 62 del 2000, all’art 1 co. 4, per
quel che interessa ai nostri fini, statuisce che la parità è rico‑
nosciuta alle scuole non statali che ne fanno richiesta e che
siano in possesso di particolari requisiti, tra cui, quello di
assumere personale docente fornito del titolo di abilitazione.
In tal senso si pone anche l’art. 19 del CCNL di settore invo‑
cato dall’istante, laddove si legge all’art 19 co.4 “per le nuove
assunzioni il personale docente dovrà essere in possesso
dell’abilitazione ove richiesta”.
La Commissione Paritetica Nazionale di cui all’art. 3 del
CCNL Scuola all’esito dell’incontro del 26 settembre 2011 ha
sottolineato che ai fini dell’art. 19 co.4 assunzione, si intende
per abilitazione quella relativa alla materia di insegnamento
indipendentemente dalla correlazione tra classe di concorso e
corso di studi in cui la materia viene impartita, purchè nell’am‑
bito dello stesso ordine di scuola. Orbene, l’interpretazione
testè riportata che pone l’accento sulla materia di insegnamen‑
to non appare in contrasto con la circostanza che la classe di
concorso 36/ A abilita all’insegnamento delle seguenti materie:
Filosofia, Psicologia e Scienze dell’Educazione, mentre la
classe di concorso 37/A abilita all’insegnamento della filosofia
e della storia. Tanto risulta anche da un’attenta lettura del
regolamento adottato dal MIUR, recante disposizioni per la
razionalizzazione ed accorpamento delle classi di concorso a
cattedre e a posti di insegnamento ai sensi dell’art. 64 co. 4
lett. A del decreto legge 25 giugno 2008 n. 112, conv. con
modificazioni dalla L. 6 agosto 2008 n. 133. Nel regolamen‑
to suddetto, invocato dalla parte convenuta, ed in particolare
nella tabella in cui vengono indicate le nuove classi di concor‑
so e di abilitazione, confrontate con le classi di concorso e
abilitazioni ex DM 39/98, il codice 36/A ( filosofia, psicologia
e scienze dell’educazione), oggi divenuto A-18 (filosofia e
c i v i l e
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scienze umane) abilita indubbiamente all’insegnamento della
materia “Filosofia 2° biennio e 5° anno” nel liceo scientifico.
Il codice 37/A ( filosofia e storia), oggi divenuto A-19 (filoso‑
fia e storia) abilita anch’esso all’insegnamento della materia
“Filosofia 2° biennio e 5° anno” nel liceo scientifico. Inoltre
abilita anche all’insegnamento della “ Storia . Dalla normati‑
va richiamata emerge con chiarezza che il prof. N.G., in
possesso dell’abilitazione A036, oggi divenuto A-18 è senza
alcun dubbio in possesso del titolo legale di abilitazione all’
insegnamento della materia filosofia nei licei scientifici. Parte
convenuta, dal canto suo, non ha neanche allegato e, tanto‑
meno provato, di avere la necessità di coprire la sola cattedra
relativa all’insegnamento della materia “ Storia”, tanto più
che risulta pacifica ed incontestata la circostanza che il prof.
N.G. abbia insegnato sia la filosofia che la storia. Pertanto,
tenuto conto che la parte istante ben può continuare a svolge‑
re l’attività di docenza nella materia filosofia, per la quale è
senza alcun dubbio abilitato, alla stregua delle considerazioni
tutte sopra esposte, il licenziamento inflitto al ricorrente deve
essere dichiarato illegittimo. Sussiste altresì il requisito del
periculum in mora, atteso che il prof. N.G. non risulta per‑
cettore di altri redditi e pertanto, la mancanza della retribu‑
zione nel periodo occorrente alla conclusione del giudizio di
merito, potrebbe indubbiamente pregiudicare lo svolgimento
di un’esistenza libera e dignitosa.
Sussistendo i requisiti del fumus boni iuris e del periculum
in mora e dovendosi fare fronte al paventato pregiudizio ir‑
reversibile determinato dal protrarsi della situazione di lesio‑
ne del patrimonio materiale e morale del lavoratore, questo
giudice, sulla premessa del fumus di illegittimità del licenzia‑
mento irrogato, ordina alla parte convenuta di reintegrare il
dipendente nel posto di lavoro di docente della materia “
Filosofia”. La convenuta, inoltre, deve essere condannata a
risarcire il danno subito dall’istante per l’illegittimo licenzia‑
mento e, pertanto, può stabilirsi una indennità commisurata
alla retribuzione contrattuale globale di fatto percepita dal
lavoratore all’epoca del licenziamento dal giorno della cessa‑
zione del rapporto sino all’effettiva reintegra. Segue per legge
la condanna del datore al versamento dei contributi assisten‑
ziali e previdenziali dal momento della risoluzione del rap‑
porto e fino al ripristino del medesimo. Le spese del presente
giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da
dispositivo.
(Omissis)
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In evidenza
CASSAZIONE CIVILE, sezione III
sentenza 1° aprile 2011 n. 7557
Pres. Trifone, Rel. De Stefano
Obbligazioni e contratti - Contratto – Contratto atipico - Contratto di cessione della disponibilità di un’area da destinarsi a discarica - Natura di contratto atipico - Configurabilità – Meritevolezza degli interessi – Ingiustificato squilibrio contrattuale – violazione parametri costituzionali – conseguenze – inefficacia contratto. [1]
E’ illegittima l’interpretazione del contratto atipico, perchè non rispettosa del canone dell’art. 1371 c.c., e del vaglio
preliminare di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c., in base
alla quale la causa concreta possa prevedere la facoltà per il
concessionario di trattenere indefinitamente e senza alcun
corrispettivo il bene oggetto del contratto per tutta la durata
delle operazioni di bonifica: in base a tale interpretazione, un
tale contratto comporterebbe uno squilibrio contrattuale
inaccettabile - e contrastante coi parametri costituzionali
degli artt. 2, 41, 42 e 44 Cost. - con conseguente non meritevolezza degli interessi perseguiti ed inefficacia del contratto ai sensi dell’art. 1322 cpv. c.c. - per l’indeterminatezza e
Nota redazionale a cura di Pietro D'Alessandro
[1] La sentenza in commento affronta entrambi i problemi in relazio‑
ne ai quali vengono comunemente studiati i contratti atipici: il giudizio di
meritevolezza degli interessi imposto dall’art 1322 cc ed il criterio per
l’individuazione della disciplina ad essi applicabile.
La clausola generale della meritevolezza dell’interesse è stata introdotta
nel nostro ordinamento con il codice civile del 1942; prima di allora era
del tutto sconosciuta al sistema delle fonti.
Nelle intenzioni del legislatore dell’epoca la norma rientrava nel tentativo
di funzionalizzare l’autonomia privata alle esigenze del corporativismo
proprie del sistema economico fascista, introducendo, con il giudizio
sulla meritevolezza dell’interesse perseguito, un criterio nuovo e distinto
da quello sulla liceità del contratto.
La finalità di tale giudizio viene spiegata nella Relazione Ministeriale al
codice civile (602).
“L’autonomia privata non è limitata ai tipi di contratto regolati dal codi‑
ce, ma può spaziare in una più vasta orbita, se il risultato pratico che i
soggetti si propongono di perseguire sia ammesso dalla coscienza sociale
e politica, dall’economia nazionale , dal buon costume e dall’ordine pub‑
blico (art 152 , comma secondo). Ciò vuol dire che l’ordine giuridico non
appresta protezione al mero capriccio individuale , ma a funzioni utili che
abbiano una rilevanza sociale e, come tali, meritino di essere tutelate dal
diritto: il che rappresenta ancora un vincolo alla volontà privata. Si pensi,
ad esempio, ad un contratto col quale alcuno consenta, dietro compenso,
all’astensione da un’attività produttiva e a un’esplicazione sterile della
propria attività personale o a una gestione antieconomica o distruttiva di
un bene soggetto alla sua libera disposizione , senza una ragione plausi‑
bile ma solo per soddisfare il capriccio o la vanità di controparte”.
“Un controllo sulla corrispondenza obiettiva del contratto alle finalità
garantite dall’ordinamento giuridico è inutile se le parti utilizzano i tipi
contrattuali legislativamente nominati e specificamente disciplinati,
perché in tal caso la corrispondenza stessa è stata apprezzata e riconosciu‑
ta dalla legge col disciplinare il tipo particolare di rapporto: si tratterà
allora , come dirò più avanti (n. 80) soltanto di indagare se per avventura
la causa considerata non esista in concreto o sia venuta meno. In ogni
caso, essendo mancato il controllo preventivo ed astratto della legge
sulla rispondenza del tipo nuovo di rapporto alle finalità da tutelare ,
deve rimanere fermo che il rapporto è suscettibile di valutazione da parte
del giudice, diretta ad accertare se esso si adegui ai postulati dell’ordina‑
mento giuridico”.
La causa stessa del contratto viene, poco dopo, definita dal Relatore come
la “funzione economico sociale che il diritto riconosce rilevante ai suoi
fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia privata. Funzione per‑
tanto che deve essere non soltanto conforme ai precetti di legge, all’ordi‑
ne pubblico ed al buon costume ma anche, per i riflessi diffusi dall’art
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l’unilateralità del sacrificio imposto ad una delle parti
Cass. Civ., sezione III, sentenza 1° aprile 2011 n. 7557
Pres. Trifone, Rel. De Stefano
Obbligazioni e contratti - Contratto – Contratto atipico - Contratto di cessione della disponibilità di un’area da destinarsi a discarica - Natura di contratto atipico - Configurabilità - Rilevanza
della causa in concreto - Disciplina della locazione - Applicabilità
in via analogica - Sussistenza. [2]
Il contratto con il quale il proprietario di un terreno ne
trasferisca la disponibilità a terzi per la sua destinazione a
discarica di rifiuti, secondo modalità negozialmente predeterminate e del tutto peculiari (nella specie, escavazione del
terreno per consentire lo smaltimento dei rifiuti con il sistema
dello stoccaggio definitivo; corrispettivo stabilito in ragione
dei metri cubi di riempimento dello scavo; previsione di
opere di bonifica a carico del conduttore anche dopo la chiusura della discarica), integra gli estremi di un contratto atipico cui, in via analogica, sono legittimamente applicabili le
norme sulla locazione, atteso lo scopo pratico del negozio che
ne evidenzia la causa in concreto, in correlazione alla quale
va conformata la disciplina del contratto atipico (2)
Cass. Civ., sezione III, sentenza 1° aprile 2011 n. 7557
Pres. Trifone, Rel. De Stefano
1322 comma 2, rispondente alla necessità che il fine intrinseco del con‑
tratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole della tutela
giuridica”.
L’art 1322 cc rappresentava dunque la compiuta espressione in materia
contrattuale, a livello teorico e di astratta ricostruzione del sistema,
dell’ordinamento corporativo fascista e svolgeva la funzione di creare un
sistema economico dirigistico assolta, in tema di iniziativa economica
imprenditoriale, dagli art 2088 e ss
La fine dell’organizzazione corporativa dell’economia (e l’abrogazione del
corrispondente ordinamento effettuata con il d.l.l. 14.9.1944 n. 287) ha
determinato anche la fine di ogni impostazione ed interpretazione ideo‑
logica del problema.
Le opinioni espresse sul giudizio di meritevolezza degli interessi, nel
successivo sistema costituzionale, possono dividersi in due categorie.
Secondo la prima, il giudizio di meritevolezza degli interessi coincide con
quello di liceità del contratto.
La teoria è significativamente rappresentata in dottrina [G.B. Ferri, Cau‑
sa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 406; Id, Meri‑
tevolezza dell’interesse e utilità sociale, Riv. dir. Comm., 1971, II, 81 e
ss; Scognamiglio, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli,
1969, 261 e ss; di Majo, Il controllo giudiziale delle condizioni generali
di contratto, Riv. Dir. Comm., 1970, I, 211 /212; Roppo, Il Contratto,
Trattato di diritto privato a cura di Iudica e Patti, Milano, 2001, 424/425;
Id, voce Contratto, Digesto delle discipline privatistiche, Sezione Civile,
Torino, 2001, p. 118] ed assolutamente prevalente in giurisprudenza
[Cass. 6.6.1967, n. 1248, Foro it, 1968, I, 1027; Cass. 5.7.1971, n. 2091,
Foro it, 1971, I, 2190; Cass. 15.10.1974, n. 2859, giur it, 1975, I, 1, 1066;
Cass. 10.3.1980, n. 1602, RN, 1980, 842; Cass. 9.10.1991, n. 10612, CG,
1991, I, 2889; Cass. 19.2.2000, n. 1898, Rass. DC 2001, 849].
La dottrina ha evidenziato che la giurisprudenza, nelle rare ipotesi in cui
ha fatto specifico riferimento alla meritevolezza degli interessi perseguiti
con il contratto atipico, è arrivata a conclusioni cui sarebbe potuta facil‑
mente giungere applicando le norme sulla liceità.
Il caso più famoso riguarda un contratto, ritenuto immeritevole, stipula‑
to dal socio di maggioranza di una società ed il mandatario della mede‑
sima, con il quale è stato stabilito che, dietro pagamento di una somma
di denaro, il mandatario avrebbe abbandonato la libera professione per
curare meglio gli interessi dell’impresa [Corte di Appello di Milano, 29
dicembre 1970, in Riv. dir. comm., 1971, II, p. 81 e ss , poi cassata da
Cass. 2 luglio 1975, n. 2578, Riv dir comm, 1976, II, 263, per la quale la
motivazione circa la meritevolezza dell’interesse della Corte distrettuale
era “astratta e apodittica”]; come si è osservato [Gazzoni, Atipicità del
contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, Riv
dir civ, 1978, p. 997, nt 182] tale contratto era invece illecito, e dunque
nullo, per contrarietà all’ordine pubblico; l’obbligo a non svolgere un’at‑
tività professionale, infatti, incide sul valore fondamentale della libera
autodeterminazione del soggetto.
civile
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Svolgimento del processo
1.1. La Fondazione C. di S. C., con sede in (Omissis),
concesse in locazione, con scrittura del 31.10.84, alla Con‑
sorzio C. D. spa un terreno di mq 59.230 di sua proprietà in
loc. Casa Bonello del Comune di San Miniato, affinchè la
utilizzasse per discarica dei fanghi di risulta del depuratore
gestito dalla seconda e per il periodo di presumibile sfrutta‑
mento della discarica, fissato in ventotto mesi, prorogabili
senza corrispettivo di altri dodici.
Poichè, decorsi tali termini, era cessato il versamento di
ogni corrispettivo ed il fondo - interessato da complesse ope‑
razioni di bonifica - non era stato restituito, la Fondazione
citò in giudizio il Consorzio dinanzi al Tribunale di Pisa per
sentirlo condannare al pagamento del compenso mensile già
stabilito - ovvero di altra somma ritenuta di giustizia - a tito‑
lo di occupazione del fondo e fino all’effettiva restituzione di
questo integralmente bonificato, come pure all’esecuzione in
forma specifica dell’obbligo di disinquinare il terreno stesso
o, in mancanza, al risarcimento del danno derivato dalla
perdita dell’uso del terreno in ragione del suo valore venale o
nella diversa somma ritenuta di giustizia.
1..2. Il Consorzio contestò la domanda, ritenendo che
nulla fosse dovuto dopo la cessazione della destinazione del
terreno a discarica - risolvendosi la protrazione dell’occupa‑
zione nelle operazioni di disinquinamento pure contrattual‑
mente pattuite - e comunque chiese ed ottenne di chiamare in
causa il Consorzio I. S. spa, cui dal 1991 competevano le
operazioni di bonifica.
1.3. Quest’ultimo si costituì protestando di avere soltanto
assunto l’incarico di provvedere alla manutenzione della di‑
scarica, ma la Fondazione estese nei suoi confronti le doman‑
de originariamente proposte solo nei confronti della convenu‑
ta concessionaria dell’area.
1.4. Il Tribunale di Pisa, all’esito di istruttoria tecnica ed
orale, con sentenza n. 1068 del 5.11.02 rigettò la domanda,
ritenendo escluso dalle parti il canone ove fosse cessata la sua
In altre occasioni [Cass. 5 gennaio 1994, n. 75, Rass dir Civ, 1996, 185;
Cass. 23 febbraio 2004, n. 3545, Giur it, 2004, 1886] la giurisprudenza
ha stabilito che un contratto valido secondo l’ordinamento statale, ma
vietato da quello sportivo non era illecito (trattandosi di fattispecie pre‑
cedenti l’entrata in vigore della L. 23 marzo 1991, n. 93, con cui si è
sancita la rilevanza esterna dei regolamenti sportivi) ma non meritevole
di tutela perché, non potendo trovare attuazione nell’ambito sportivo, non
può svolgere la sua funzione [in termini analoghi, Trib Udine, 16 genna‑
io 2006, Contratti, 2007, 31]. Ha osservato la dottrina [Vitale, Ordina‑
mento sportivo e meritevolezza dell’interesse, Rass dir Civ, 1996, 192],
con riferimento alla prima pronuncia, che un tale contratto, se non può
avere effetti nello specifico ordinamento in cui è destinato ad operare, è
nullo per impossibilità dell’oggetto.
Secondo diversa corrente di pensiero, il giudizio della meritevolezza va
tenuto distinto da quello della liceità, nel senso che il contratto deve esse‑
re non soltanto lecito (cioè socialmente non dannoso) ma anche social‑
mente utile.
Il problema è quello di stabilire i parametri del giudizio.
Prevalentemente, gli interpreti fanno riferimento ai principi della
Costituzione [Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano 1975,
98; Costanza, Il contratto atipico, 1981, Milano, 50; con specifico riferi‑
mento all’art 41 Cost.: Cataudella, Il richiamo all’ordine pubblico ed il
controllo di meritevolezza come strumenti per l’incidenza della program‑
mazione economica sulla autonomia privata, Milano 1971, 178/181;
Buonocore, Di alcune norme del codice civile in tema di impresa, in rap‑
porto al principio di utilità sociale, di cui al comma secondo dell’art 41
della costituzione, banca borsa e titoli di credito, 1971, 194].
A tale impostazione sembra aderire la sentenza in esame per la quale il
giudizio di meritevolezza e quello di liceità “devono essere in ogni caso
parametrati ai superiori valori costituzionali previsti a garanzia degli
specifici interessi perseguiti (Cass. 19 giugno 2009 n. 14343): in tal senso
dovendosi ormai intendere la nozione di “ordinamento giuridico”, cui fa
riferimento la norma generale sul riconoscimento dell’autonomia nego‑
ziale ai privati, attesa l’interazione, sulle previgenti norme codicistiche,
delle superiori e successive norme di rango costituzionale e sovranaziona‑
le comunque applicabili quali principi informatori o fondanti dell’ordina‑
mento stesso”.
Per altri autori, la regola di cui all’art. 1322 cc deve essere utiliz‑
zata per garantire un equilibrio contrattuale tra le prestazioni, di modo da
tutelare il contraente più debole contro gli abusi del contraente con mag‑
giore forza economica [Lanzillo, Regole di mercato e congruità dello
scambio contrattuale, Contratto e impresa, 1985, 333; Majello, I problemi
di legittimità e di disciplina dei negozi atipici, Riv. Dir. Civ., 1987, I, 487
e ss].
In base a diversa ricostruzione [Gazzoni, Atipicità del contratto,
giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, Riv. Dir. Civ.,
1978, p. 956 e ss] il giudizio sulla meritevolezza consiste nella valutazione
circa l’idoneità o l’inidoneità dell’operazione economica privata alla nasci‑
ta di un vincolo giuridico, cioè giudizialmente coercibile, da effettuarsi in
base ai comuni canoni della giuridicizzazione della volontà privata e cioè
la verifica dell’astratta idoneità dello schema utilizzato, che deve rispetta‑
re le norme dettate in tema di formazione dello strumento contrattuale,
nonché la valutazione della effettiva intenzione dei contraenti di assogget‑
tare il vincolo alla normativa legale, Valutazione che invece si presume
nelle ipotesi in cui venga dalle parti utilizzato uno schema tipico.
Altra dottrina [Breccia, Causa, in Il contratto in generale, trattato di
diritto privato diretto da Bessone, Torino, 1999, p. 99] ha individuato
l’area del contratto immeritevole in quella ricoperta dalle promesse, ac‑
cordi e contratti seri e leciti ma non coercibili sulla base del solo consen‑
so prestato; ad esempio le promesse che si risolvono in rapporti di cortesia
o patti di onore o quelle che divengono giuridicamente rilevanti solo in
seguito all’esecuzione (la promessa di comodato; i patti generatori di
obbligazioni naturali) nonché gli atti inadatti a giustificare la coazione
giudiziaria, come gli atti di disposizione del proprio corpo non illeciti.
Secondo una recente diversa opinione [Di Marzio, La nullità del contrat‑
to, Padova, 2008, 588/589], il canone della meritevolezza rappresenta una
formula descrittiva per discriminare gli atti di autonomia privata che,
seppur non invalidati dal legislatore e leciti e vincolanti tra le parti, sono
inefficaci o dannosi per i terzi; il caso tipico è quello dell’atto revocabile;
altri esempi sono quelli dei contratti, sempre leciti e vincolanti ma imme‑
ritevoli, che costituiscono fatto ingiusto ai danni del terzo, fonte di re‑
sponsabilità aquiliana per lesione dell’altrui libertà contrattuale o del
credito.
Interessante notare che la sentenza in esame distingue il giudizio
di liceità da quello di meritevolezza anche sul piano della sanzione; per la
Cassazione il contratto atipico che non realizza interessi meritevoli di
tutela non è nullo (presumibilmente, perché è lecito e strutturalmente
perfetto) ma solo inefficace.
Obbligazioni e contratti - Contratto - Atipico - Trasferimento della
disponibilità di un’area per destinazione a discarica - Disciplina
della locazione - Applicabilità in via analogica - Sussistenza - Conseguenze - Obbligo di restituzione del bene alla scadenza - Responsabilità per ritardo nella consegna in capo al concessionario
o al conduttore - Configurabilità in difetto di diversa pattuizione
In un contratto atipico avente ad oggetto il trasferimento
della disponibilità di un’area per la sua destinazione a discarica di rifiuti al quale va applicata, in via analogica, la disciplina del contratto di locazione in difetto di un’espressa
previsione contrattuale che stabilisca diversamente, sussiste
l’obbligo a carico del concessionario o conduttore, alla scadenza del termine, di riconsegnare il bene, sia pure nelle
condizioni ordinariamente conseguenti all’uso stabilito;
pertanto, ove non dimostri che i pattuiti lavori di bonifica
dell’area non possono essere svolti senza conservare la disponibilità del bene, il concessionario o conduttore deve ritenersi responsabile del ritardo nella consegna del bene stesso, ai
sensi dell’art. 1591 c.c.
Cass. Civ., sezione III, sentenza 1° aprile 2011 n. 7557
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aveva avuto alcun rapporto con il Conservatorio, per essere
stato incaricato dal Consorzio di provvedere della discarica
nella fase successiva alla chiusura e senza assumere alcun
obbligo nei confronti del locatore;
1.6.4. condividendo la statuizione di compensazione solo
parziale delle spese in ragione alla ritenuta univocità delle
previsioni contrattuali;
1.7. avverso tale sentenza propone ora ricorso per cassa‑
zione la Fondazione C. S. C., affidandosi a tre motivi;
resistono con controricorso sia il Consorzio C. D. spa che
il Consorzio I. S. srl (già spa), ora in liquidazione;
e, per la pubblica udienza del 17.2.11, presentate memorie
dalla sola ricorrente, compaiono per la discussione orale
quest’ultima e la Consorzio C. D. spa.
destinazione a discarica ed imputando il mancato rilascio non
all’inadempimento del conduttore, ma anzi alla materiale
esecuzione delle obbligazioni di i bonifica pure contrattual‑
mente previste, in nessun caso poi potendo recuperarsi le
potenzialità di sfruttamento agricolo del terreno.
1.5. La Fondazione propose appello - con atto di citazione
notificato il 6.12.03 - nei confronti della sola D., che ne pro‑
testò l’infondatezza; ma la Corte di Appello di Firenze ordinò,
all’ud.8.7.04, il mutamento di rito e l’integrazione del con‑
traddittorio nei confronti del C.T.S., che si costituì deducendo
l’intervenuto passaggio in giudicato, nei suoi confronti, della
gravata sentenza.
1.6. All’esito del giudizio di secondo grado, la Corte fioren‑
tina, con sentenza n. 1370/07 del 4.12.07, rigettò l’appello:
1.6.1. interpretando il contratto intercorso tra le parti nel
senso che l’ulteriore compenso mensile per l’occupazione del
terreno era stato previsto solo nell’ipotesi in cui l’attività di
discarica fosse proseguita dopo i quaranta mesi espressamen‑
te pattuiti, in quanto - del resto - la conduttrice non avrebbe
potuto fruire del fondo a discarica esaurita e nel tempo neces‑
sario per la bonifica;
1.6.2. ascrivendo la protrazione - per lunghissimo tempo
- dell’indisponibilità dell’area non già all’inadempimento
della conduttrice, ma all’esecuzione delle complesse opere di
bonifica imposte dalla normativa pubblicistica: così escluden‑
do anche ogni obbligazione risarcitoria o indennitaria in capo
alla conduttrice;
1.6.3. confermando la valutazione di primo grado di in‑
fondatezza delle domande dispiegate contro il C.I.S., che non
Motivi della decisione
2. La ricorrente sviluppa tre motivi:
2.1. un primo, di violazione o falsa applicazione degli artt.
1362, 1363, 1364 e 1366 c.c., nonchè degli artt. 1571, 1590
e 1591 c.c., combinati all’art. 1322 c.c., concluso con il pre‑
scritto quesito di diritto: in quanto la Corte fiorentina mala‑
mente avrebbe interpretato il contratto, violando i canoni
ermeneutici letterale e sistematico nonchè il principio di buo‑
na fede, escludendo in capo alla conduttrice sia l’obbligo di
restituzione del fondo allo spirare del termine fissato od
all’esaurimento della potenziale ricettività del sito attrezzato
a discarico, sia la spettanza di un qualsiasi corrispettivo, a
carico di quella, per il tempo necessario alle opere di bonifica
del sito poste a carico della medesima;
[2] Il secondo problema cui dà luogo il contratto atipico, quello di
maggiore rilievo pratico, consiste nell’individuazione della disciplina ad
esso applicabile.
Dottrina e giurisprudenza hanno offerto soluzioni diverse.
La teoria del contratto misto ha proposto i due criteri più utiliz‑
zati dalla giurisprudenza: quello del’assorbimento e quello della combi‑
nazione.
Secondo il metodo dell’assorbimento (o della prevalenza) il con‑
tratto atipico va regolato dalla disciplina del tipo del quale presenta
maggiori elementi [Cass. 2 dicembre 1997, n. 12199, Giur. it., 1998,
1808].
La teoria è stata criticata perché porta ad escludere ogni rilievo
proprio agli elementi di novità rispetto al tipo legale introdotti dai privati
per ottenere una più compiuta realizzazione dei propri interessi. Non senza
considerare che non è sempre possibile stabilire quale sia il tipo prevalente
[Messineo, Contratto innominato, Enc. Dir., Vol. X, 1962, 109].
Per il metodo della combinazione, ogni elemento va disciplinato
con le regole proprie di quel tipo di prestazione [Cass. 28 maggio 2001,
n. 7226, Giust. civ., 2002, I, 2256].
Anche detto criterio è stato oggetto di critiche; si è osservato che non è
possibile individuare una disciplina tipica di ogni forma di prestazione in
quanto prestazioni sostanzialmente uguali ricevono invece discipline
differenti a seconda del tipo contrattuale nel quale si inseriscono; basti
pensare alle differente regolamentazione che riceve l’obbligo del pagamen‑
to del prezzo nella vendita, nella somministrazione, nel riporto ecc.
[Messineo, Contratto innominato, ci.t, 109] .
I due criteri indicati vengono sovente utilizzati dalla giurispruden‑
za contestualmente; essa applica alle varie prestazioni la disciplina del
tipo legale cui sono riconducibili e, in caso di incompatibilità, la discipli‑
na dell’elemento prevalente [Cass. 10 marzo 1979, n. 1494, Giust civ, 1979,
I, 1759].
La sentenza in commento si adegua a quella linea di pensiero
[Messineo, Contratto innominato, cit 109; Bianca, Il Contratto, Milano,
1984, 199] per la quale il criterio cui fare riferimento per individuare la
disciplina applicabile al contratto atipico è quello della analogia.
La maggiore conseguenza pratica che comporta il ricorso all’ana‑
logia concerne l’inapplicabilità delle norme di natura eccezionale.
Sembra interessante notare che in un precedente nel quale è stata
decisa questione del tutto analoga, che viene richiamato nella motivazio‑
ne della sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta
l’applicazione da parte della Corte territoriale del criterio della prevalen‑
za [Cass. 26 febbraio 2002, n. 16679, Vita Not., 2003, 266].
Autorevole dottrina [Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napo‑
li, 2004, p. 799] ritiene che la disciplina del contratto atipico non possa
che ricavarsi caso per caso, avuto specifico riguardo alla funzione econo‑
mica assolta dall’atto; l’opinione muove dal presupposto che in materia
contrattuale l’analogia non è ammessa, altrimenti non avrebbe senso il
disposto dell’art 1374 cc per il quale il contratto è regolato dalla legge ed
in mancanza, dagli usi e dall’equità; il procedimento analogico è in grado,
di per sè, di colmare ogni lacuna della legge, per cui non vi sarebbe spazio
per i criteri suppletivi richiamati dall’articolo citato.
Un ulteriore sistema proposto in dottrina [De Nova, Il tipo con‑
trattuale, Padova, 1974, 127 e ss] e recepito in una pronuncia dalla
Corte di Cassazione [Cass. 26 febbraio 2004, n. 3863, Dir. e giust. 2004,
20,33] consiste nel metodo cd tipologico per il quale il fenomeno contrat‑
tuale deve essere considerato in una visione complessiva, che mette a
confronto la disciplina del tipo di contratto in questione con quella dei
tipi ad esso affini, consentendo di applicare alla fattispecie concreta una
disciplina che deriva da più discipline legali.
In base ad una diversa opinione [G.B. Ferri, Causa e tipo nell’espe‑
rienza negoziale, cit., p. 319 e ss], la soluzione del problema viene dettata
dall’art 1374 cc che prevede tre diverse forme di integrazione della disci‑
plina a seconda della natura del contratto: il contratto tipico è regolato
dalla legge; il contratto legalmente atipico ma socialmente tipico, perché
diffuso sul piano dei traffici commerciali, viene regolato dagli usi; lo
schema individuale atipico anche sul piano sociale e giudiziale è invece
disciplinato dall’equità.
Ulteriore metodo proposto in dottrina [Cagnasso, La concessione
di vendita, Milano 1985, 58 e ss; Majello, op cit, 487; Briganti, Percorsi
di diritto privato, Torino, 1994, 18/19] è la tecnica di qualificazione
della cd transtipicità.
Secondo detta teoria le norme che definiscono il tipo legale sono
meramente descrittive e prive dunque di valore vincolante. Di conseguen‑
za, la disciplina degli effetti di un contratto non ha efficacia limitata al
contratto di parte speciale nell’ambito del quale viene dettata ma può
trovare applicazione diretta con riferimento ad altri schemi o ad una ca‑
tegoria di contratti.
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2.2. un secondo, anch’esso di violazione o falsa applica‑
zione - ma sotto ulteriore profilo - degli artt. 1362, 1363, 1364
e 1364 c.c., nonchè degli artt. 1571, 1590 e 1591 c.c., combi‑
nati all’art. 1322 c.c., concluso con il prescritto quesito di
diritto: in quanto la Corte fiorentina malamente avrebbe in‑
terpretato il contratto, violando i canoni ermeneutici lettera‑
le e sistematico nonchè il principio di buona fede, nell’esclu‑
dere la mora del conduttore ai sensi dell’art. 1591 c.c., anche
nel caso in cui oggetto del contratto fosse un’area destinata a
discarica;
2.3. un terzo, di violazione e falsa applicazione dell’art.
42 Cost., dell’art. 1 del 1^ prot. addizionale alla Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali
(resa esecutiva in Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848), del
D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 17 e della L.R. Toscana 18
maggio 1998, n. 25, art. 20, concluso con il prescritto quesi‑
to di diritto: in quanto la corretta applicazione di tale norma‑
tiva pubblicistica avrebbe comportato la necessità quanto
meno di un indennizzo per la protrazione dell’indisponibilità,
per un periodo oltretutto aprioristicamente indeterminabile,
del terreno durante le opere di bonifica.
3. Dal canto loro, le controricorrenti resistono con sepa‑
rati controricorsi e precisamente:
3.1. il Consorzio C. D. spa:
3.1.1. eccepisce in via preliminare l’inammissibilità del
ricorso, siccome passato per la notifica in data 20.1.09, oltre
cioè il termine ordinario di impugnazione, quand’anche mag‑
giorato della sospensione feriale;
3.1.2. contesta l’ammissibilità delle censure, a mezzo
delle quali la ricorrente vorrebbe in modo inammissibile con‑
seguire in sede di legittimità una ricostruzione del fatto sto‑
rico diversa da quella operata nei gradi di merito, comunque
ineccepibile all’esito della completa valutazione di tutte le ri‑
sultanze istruttorie e dell’interpretazione complessiva delle
clausole del contratto tra le parti intercorso;
3.2. il Consorzio I. S. srl in liq.ne:
3.2.1. eccepisce il passaggio in giudicato della sentenza di
appello, per la tardività della notifica del ricorso in cassazio‑
ne, non applicandosi alla fattispecie la sospensione feriale del
termine;
3.2.2. ribadisce il passaggio in giudicato della sentenza di
primo grado, per la tardività del dispiegamento del gravame
nei suoi confronti e non trattandosi di cause inscindibili;
3.2.3. lamenta l’inammissibilità per la struttura ed il te‑
nore dei quesiti, siccome formulati in proposizioni complesse
e riferiti a circostanze di fatto, così risultandole relative rispo‑
ste insuscettibili di ricevere applicazione anche in casi ulterio‑
ri rispetto a quello deciso con la sentenza impugnata;
3.2.4. sottolinea sotto più profili la totale infondatezza
delle pretese avanzate nei suoi confronti, anche sotto il profi‑
lo dell’illegittimità dell’estensione delle domande originarie e
della contraddittorietà di quelle dispiegate dalla Fondazione
nei suoi confronti.
4. Tutto ciò posto, in via preliminare si osserva che:
4.1. il termine ordinario per proporre il ricorso per cassa‑
zione, di un anno e quarantasei giorni dalla data della pub‑
blicazione della sentenza di secondo grado (avutasi il 4.12.07),
è venuto a scadere il giorno 18.1.09, domenica, con conse‑
guente spostamento al 19.1.09:
ed in tale data il ricorso è stato notificato sia al C.I.S. che
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al Consorzio C. D. spa, sia pure in cancelleria per l’interve‑
nuto decesso del procuratore in precedenza costituito; comun‑
que, trattandosi di causa inscindibile in dipendenza della
formulazione delle domande, non rileverebbe ai fini della
tempestività della proposizione del gravame la successiva
data di notifica alla Consorzio Cuoio Depur presso la sede
legale, nè quella di ricezione del relativo plico;
4.2. dall’esame complessivo dei motivi di ricorso ed in as‑
senza di un ricorso incidentale, neppure condizionato, risulta
che nessuna doglianza è dispiegata nei confronti della senten‑
za di secondo grado nella parte in cui esclude la fondatezza
delle pretese di chicchessia verso la Consorzio I. S.: tanto com‑
porta, con tutta evidenza, che il relativo capo delle pronunce
di merito passa in giudicato e che viene meno l’interesse di
tale controricorrente alla disamina di tutti gli ulteriori profili
in rito e di quelli di merito sviluppati nel controricorso;
4.3. i quesiti sono formulati con un adeguato grado di
specificità - e di aderenza alle peculiarità della fattispecie - ed
al contempo con un idonea attitudine alla generalizzazione
per casi analoghi:
tanto da soddisfare i requisiti elaborati sul punto dalla
giurisprudenza di questa Suprema Corte;
4.4. non risulta peraltro riproposto il profilo del diritto
alla risarcibilità della definitiva diminuzione patrimoniale
derivante dalla concreta incoltivabilità dell’area: del resto, è
pacifico tra le parti che lo strumento urbanistico del Comune
di S. Miniato la ha ormai destinata a discarica e che comunque
lo stesso uso contrattuale ne avrebbe verosimilmente compor‑
tato lo stravolgimento, se non altro temporaneo, ma per un
periodo notevolmente prolungato; tanto che tale effetto può
ritenersi tra quelli che le parti avrebbero potuto o dovuto
raffigurarsi come normale conseguenza dell’uso pattuito.
5. La peculiarità della fattispecie sta:
5.1. nell’oggetto del contratto intercorso tra le parti (la
scrittura privata del 31.10.84 tra il Conservatorio di S. C. ed
il Consorzio C. D. spa), che prevede la concessione “in affitto”
di un terreno per il suo utilizzo quale discarica di fanghi di
risulta di un depuratore, dietro corrispettivo stabilito anche
in ragione della quantità di rifiuti stoccati per un tempo di
ventotto mesi, prorogabili di altri dodici;
5.2. nella sussistenza di controversia sull’esistenza e
sull’epoca di insorgenza dell’obbligo di restituzione del bene,
invocato ora per il tempo della scadenza del periodo di esau‑
rimento della ricettività della discarica (come vorrebbe la
locatrice, che configura una mora della controparte nella re‑
stituzione), ora al contrario (come sostiene la locataria, che
appunto esclude gli effetti dell’applicazione degli artt. 1590 e
1591 c.c.) all’esito del completamento della ventennale attivi‑
tà di bonifica dei sito, pacificamente comunque in atto sui
luoghi ed effettuata anche nell’interesse del proprietario, ol‑
tretutto coobbligato ad eseguirla;
5.3. nell’interpretazione del contratto, all’esito della valu‑
tazione delle espressioni letterali adoperate dalle parti e delle
risultanze istruttorie, da parte dei giudici dei gradi di merito
nel senso della necessità ed al contempo della gratuità della
protrazione dell’occupazione per il periodo di tempo, indeter‑
minabile a priori, successivo allo sfruttamento attivo della
discarica e necessario alla bonifica, escludendo qualunque
corrispettivo a carico della conduttrice in tale intervallo, a
prescindere dalla sua durata.
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
6. Al riguardo:
6.1. in tema di interpretazione dei contratti, è ben noto
che costituisce questione di merito, rimessa al giudice compe‑
tente, valutare il grado di chiarezza della clausola contrattua‑
le, ai fini dell’impiego articolato dei diversi criteri ermeneuti‑
ci: con conseguente esclusione, nel giudizio di cassazione, di
una diretta valutazione della clausola contrattuale, al fine di
escludere la legittimità del ricorso da parte del giudice di
merito ad altri canoni ermeneutici (Cass. 15 marzo 2005 n.
5624); in sostanza, l’interpretazione delle clausole contrattua‑
li rientra tra i compiti, esclusivi del giudice di merito ed è in‑
sindacabile in cassazione se rispettosa dei canoni legali di
ermeneutica ed assistita da congrua motivazione, poichè il
sindacato di legittimità può avere ad oggetto non già la rico‑
struzione della volontà delle parti, bensì solamente l’indivi‑
duazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale
il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a
lui riservata, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ra‑
gionamento o in errore di diritto (tra le molte, v. Cass. 31
marzo 2006 n. 7597);
6.2. eppure, l’insindacabilità, in sede di legittimità (trat‑
tandosi di quaestio facti), della interpretazione delle clausole
contrattuali operata dal giudice del merito trova il suo limite
nella violazione evidente dei criteri ermeneutici, che viene a
risolversi in errori giuridici, quando ad esempio l’interpreta‑
zione di una delle clausole contrattuali sia operata ometten‑
done il riferimento ad altre tra quelle, nonchè prescindendo
dall’equo contemperamento degli interessi delle parti di cui
all’art. 1371 c.c. (Cass. 17 marzo 2005 n. 5788);
6.3. deve pertanto valutarsi a questa stregua l’interpreta‑
zione complessiva data dai giudici di merito, che esclude per
la concessione in godimento di un’area da destinare a disca‑
rica di rifiuti la spettanza al concedente di un qualsivoglia
corrispettivo per un tempo indefinito a partire dalla scadenza
del periodo di utilizzo del bene conformemente alle previsio‑
ni contrattuali ed ancorato ad un evento futuro ed incerto
quale il completamento delle operazioni di bonifica.
7. Ritiene questa Corte, esaminando congiuntamente i tre
mezzi di ricorso per la loro evidente interconnessione, che
l’interpretazione complessiva data dai giudici del merito - e
quindi la loro decisione qui impugnata - sia affetta allora da
un errore di diritto e non possa essere condivisa. In primo
luogo, da un punto di vista generale:
7.1. il contratto con il quale il proprietario di un terreno
ne trasferisca la disponibilità a terzi per la sua destinazione a
discarica di rifiuti, secondo modalità negozialmente predeter‑
minate e del tutto peculiari (ad esempio, escavazione del ter‑
reno per consentire lo smaltimento dei rifiuti con il sistema
dello stoccaggio definitivo; corrispettivo stabilito in ragione
anche dei metri cubi di riempimento dello scavo; previsione di
opere di bonifica a carico della conduttrice anche dopo la
chiusura della discarica) integra gli estremi del contratto ati‑
pico cui, in via analogica, sono legittimamente applicabili le
norme sulla locazione (Cass. 26 novembre 2002 n. 16679);
7.2. anche di un tale contratto atipico va quindi individua‑
ta la causa concreta, la quale definisce lo scopo pratico del
negozio, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso è concre‑
tamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della
singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto
utilizzato:
2 0 1 1
43
infatti, la causa, “ancora iscritta nell’orbita della dimen‑
sione funzionale dell’atto”, non può essere che “funzione in‑
dividuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a
prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter
evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del ne‑
gozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei
vari tipi contrattuali, si volga al fine a cogliere l’uso che di
ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando
quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione
negoziale” (in tali espressi sensi, con argomentazioni appro‑
fondite e convincenti, si esprime Cass. 8 maggio 2006 n.
10490, ripresa tra le altre da Cass. 12 novembre 2009 n.
23941);
7.3. la causa concreta costituisce del resto uno degli ele‑
menti essenziali del negozio, alla cui stregua va valutata la
conformità alla legge dell’attività negoziale effettivamente
posta in essere, in riscontro della liceità (ai sensi dell’art. 1343
c.c.) e, per i contratti atipici, della meritevolezza degli interes‑
si perseguiti dalle parti ai sensi dell’art. 1322 cpv. c.c. (Cass.
19 febbraio 2000 n. 1898);
7.4. sul punto, i controlli insiti nell’ordinamento positivo
relativi all’esplicazione dell’autonomia negoziale, riferiti alla
meritevolezza di tutela degli interessi regolati convenzional‑
mente ed alla liceità della causa, devono essere in ogni caso
parametrati ai superiori valori costituzionali previsti a garan‑
zia degli specifici interessi perseguiti (Cass. 19 giugno 2009
n. 14343): in tal senso dovendosi ormai intendere la nozione
di “ordinamento giuridico”, cui fa riferimento la norma ge‑
nerale sul riconoscimento dell’autonomia negoziale ai privati,
attesa l’interazione, sulle previgenti norme codicistiche, delle
superiori e successive norme di rango costituzionale e sovra‑
nazionale comunque applicabili quali principi informatori o
fondanti dell’ordinamento stesso;
7.5. la causa concreta del negozio atipico di concessione
in disponibilità di un’area da destinare a discarica di rifiuti,
riguardo alla quale è già stata ritenuta applicabile per il crite‑
rio della c.d. prevalenza la disciplina della locazione, non si
esaurisce tuttavia in questa; l’oggetto di un tale contratto non
consiste infatti nella semplice attribuzione in godimento,
dietro pagamento di un corrispettivo, di un’area nuda non
edificata, secondo la causa tipica della locazione, ma soprat‑
tutto nel trasferimento della disponibilità di un terreno, affin‑
chè su di esso siano effettuate le opere di trasformazione ne‑
cessarie per renderlo idoneo alla gestione di discarica di rifiu‑
ti, per un tempo determinato e comunque sino all’esaurimen‑
to della potenziale recettività del sito attrezzato, con obbligo,
alla scadenza, di rilascio del terreno al proprietario conceden‑
te, tenuto ad accettarlo con le eventuali alterazioni permanen‑
ti e spesso irreversibili dell’area prodotte dall’autorizzata at‑
tività di natura pubblicistica (lo smaltimento dei rifiuti costi‑
tuisce pubblico servizio), anche in conseguenza delle limita‑
zioni d’uso derivanti dai previsti vincoli imposti dall’autorità
(Cass. 16679/02 cit.);
7.6. è già stato affermato, in applicazione di tali principi
(sempre da Cass. 16679/02 cit.) e che sussiste allora sempre e
comunque un obbligo di restituzione del bene, da parte
dell’utilizzatore, tutte le volte in cui il rilascio costituisca ef‑
fetto previsto dal contratto ed espressamente collegato al
raggiungimento della complessa causa della convenzione
atipica (ovvero qualora la destinazione del bene all’uso con‑
civile
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venuto non risulti più possibile per sopravvenuto factum
principia);
7.7. se così è, è erronea un’interpretazione del contratto
atipico, perchè non rispettosa del canone dell’art. 1371 c.c., e
del vaglio preliminare di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c.,
in base alla quale la causa concreta possa prevedere la facoltà
- per il concessionario e salvo il caso, che però qui non ricorre,
di un factum principis - di trattenere indefinitamente e senza
alcun corrispettivo il bene oggetto del contratto per tutta la
durata delle operazioni di bonifica: in base a tale interpreta‑
zione, un tale contratto comporterebbe uno squilibrio contrat‑
tuale inaccettabile - e contrastante coi parametri costituziona‑
li degli artt. 2, 41, 42 e 44 Cost., con conseguente non merite‑
volezza degli interessi perseguiti ed inefficacia del contratto ai
sensi dell’art. 1322 cpv. c.c. - per l’indeterminatezza e l’unila‑
teralità del sacrificio imposto ad una delle parti.
8. Ancora, è opportuno rilevare che:
8.1. può dirsi acquisito, se non altro sulla base di nozioni
di comune esperienza, che, soprattutto in ipotesi di rifiuti
altamente inquinanti, come quelli derivanti dalla lavorazione
del cuoio o da particolari processi industriali con l’impiego di
peculiari sostanze chimiche, lo sfruttamento di un terreno
quale discarica impegna due periodi temporali ben definiti:
8.1.1. un primo, in cui la discarica può definirsi attiva, nel
quale essa appunto recepisce i rifiuti stessi, che ivi vengono
immagazzinati e sottoposti ad un primo trattamento finaliz‑
zato allo stoccaggio, finchè la sua recettività, fissata con de‑
terminazione dell’autorità preposta, non sia esaurita;
8.1.2. un secondo, in cui, cessati l’immissione e lo stoc‑
caggio dei rifiuti stessi, il sito deve essere bonificato e disin‑
quinato, anche in questo caso secondo determinate prescri‑
zioni e sotto il controllo dell’autorità preposta;
8.2. va escluso poi (sempre con Cass. 16679/02) che l’esi‑
genza di bonifica delle discariche - che deve essere realizzata, a
tutela della collettività e dell’ambiente, dagli enti territoriali e
dai soggetti gestori dell’attività di smaltimento dei rifiuti - com‑
porti necessariamente la disponibilità esclusiva dell’area da
parte dello stesso gestore nel periodo successivo alla chiusura
dell’impianto e sino al completamento della bonifica stessa:
pertanto, non è in contrasto con la disciplina inderogabile in
materia un eventuale obbligo di rilascio, quando da ciò non
derivi la impossibilità o la difficoltà delle indispensabili opera‑
zioni di controllo, che deve essere espressamente dedotta;
8.3. la bonifica non comporta tuttavia mai l’eliminazione,
dal sito, dei rifiuti stoccati od immagazzinati, attesa la ten‑
denziale irreversibilità della trasformazione dell’area, ma solo
la sua recuperabilità a determinati fini di sfruttamento - ge‑
neralmente molto più limitati rispetto alla situazione qua
ante - compatibili con la presenza in loco appunto dei rifiuti
ivi scaricati;
8.4. ne consegue che l’area oggetto del contratto, benchè
certamente da restituire allo spirare del termine pattuito o
desumibile dal negozio, non potrà mai essere restituita al con‑
cedente nelle stesse condizioni in cui si trovava prima del suo
utilizzo: del resto, tale aberrante soluzione comporterebbe la
necessità di reperire altra discarica per ospitarvi i rifiuti ospi‑
tati nella prima, con una inconcepibile protrazione all’infinito
delle operazioni di stoccaggio in siti sempre diversi.
9. Il contratto intercorso tra la Fondazione ed il Consorzio
C. D. è stato interpretato dai giudici del merito:
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9.1. ritenendo, sulla base della lettura di soltanto alcune
delle clausole del contratto, l’onerosità del contratto come:
riferita ai soli primi ventotto mesi, prorogabili a quaranta,
ovvero anche al periodo successivo, ma solo per il caso in cui
la discarica non fosse stata ancora esaurita e quindi per l’ipo‑
tesi che l’utilizzo di questa fosse proseguito;
9.2. argomentando dalla previsione dell’obbligo di boni‑
fica a carico della conduttrice dopo l’esaurimento e dalla
chiusura della discarica per l’incompatibilità di un corrispet‑
tivo, il quale sarebbe stato giustificato solamente dalla pro‑
trazione dell’uso contrattuale di utilizzo a discarica, con
l’impossibilità di quest’ultimo, escluso dall’avvio e dalla pro‑
trazione delle opere di bonifica.
10. Ma tale interpretazione è viziata in quanto non tiene
conto:
10.1. del fatto che le parti hanno comunque avuto ben
presente, come periodo di durata contrattuale, quello di qua‑
ranta mesi o quello solo eventuale e maggiore di protrazione
dell’utilizzo della discarica attiva: a tal fine riferendosi al
“periodo necessario per il completo utilizzo” (v. pag. 30 del
ricorso), che, con tutta evidenza, non poteva essere altro che
quello di utilizzo come discarica e quindi come discarica in
fase attiva;
10.2. del fatto che anche il corrispettivo era costituito da
due parti, una fissa ed altra, e solo questa, collegata all’effet‑
tivo utilizzo per l’immissione o stoccaggio dei rifiuti:
10.3. del fatto che, cessata la fase attiva dello sfruttamen‑
to come discarica, secondo la giurisprudenza di questa Corte,
sarebbe insorto l’obbligo di restituzione del bene, in applica‑
zione della norma dell’art. 1590 c.c.;
10.4. del fatto che non si rinviene, nella ricostruzione
data dalla Corte territoriale, alcuna valida giustificazione
della sussistenza di una volontà delle parti, del resto mai
espressa, di imporre per un tempo indeterminabile ed indefi‑
nito a carico del concedente senza corrispettivo la protrazione
dell’indisponibilità dell’area per l’espletamento di opere di
bonifica in astratto compatibili anche con la restituzione del
bene al concedente stesso;
10.5. del fatto che, per quanto indubitabile sia che le par‑
ti abbiano voluto una remunerazione diretta soltanto del pe‑
riodo di sfruttamento a discarica, erano da valutare separa‑
tamente la sussistenza e le conseguenze di una mora nella ri‑
consegna, perchè alla relativa obbligazione contrattuale di cui
all’art. 1590 c.c., sarebbe stato ricollegato l’obbligo di versare
una somma pari al corrispettivo pattuito.
11. La Corte fiorentina non si è invece fatta carico:
11.1. di interpretare il contratto nel senso di contempera‑
re equamente gli interessi delle due parti - al fine di consen‑
tirgli di reggere al vaglio di meritevolezza imposto, per fare
conseguire efficacia al contratto atipico, dall’art. 1322 cpv.
c.c. - e di valutare se e come la disciplina generale dell’art.
1591 c.c., potesse trovare applicazione al caso in esame, te‑
nendo conto dell’impossibilità di una restituzione nelle mede‑
sime condizioni preesistenti e della limitazione delle possibi‑
lità di utilizzo come necessariamente tenute presenti in sede
di autoregolamentazione degli interessi;
11.2. di conseguenza, di verificare la normativa applica‑
bile all’ipotesi di ritardo nel rilascio dell’area, sia pure non più
nello stato in cui si trovava prima della stipula del contratto
(stato la cui tendenzialmente irreversibile non ripristinabilità
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
poteva ragionevolmente presumersi proprio in dipendenza
della destinazione contrattuale a discarica), una volta escluso
che la disponibilità dovesse necessariamente, per lo svolgi‑
mento stesso delle operazioni di bonifica, rimanere esclusiva‑
mente in capo al conduttore o concessionario.
12. Resta da esaminare il profilo dell’esenzione da respon‑
sabilità della conduttrice in dipendenza dell’obbligo di esegui‑
re i lavori di bonifica; ma al riguardo:
12.1. sempre con Cass. 16679/02, può correttamente so‑
stenersi che l’esigenza di bonifica delle discariche - che deve
essere realizzata, a tutela della collettività e dell’ambiente,
dagli enti territoriali e dai soggetti gestori dell’attività di
smaltimento dei rifiuti - non comporta necessariamente la
disponibilità - ed oltretutto esclusiva - dell’area da parte dello
stesso gestore nel periodo successivo alla chiusura dell’impian‑
to e sino al completamento della bonifica stessa, per cui non
è in contrasto con la disciplina inderogabile in materia un
eventuale obbligo di rilascio in capo al concessionario.
quando da ciò non derivi la impossibilità o la difficoltà
delle indispensabili operazioni di controllo;
12.2. non può quindi condividersi, in assenza di indagini
su tale punto (del resto precluse dallo sviluppo del processo e
dall’intervenuta maturazione delle correlate preclusioni asser‑
tive ed istruttorie), la contraria decisione della Corte territo‑
riale, che riconduce alla normativa pubblicistica una sorta di
diritto del conduttore a mantenere la disponibilità del bene
oggetto del contratto;
12.3. è infatti erronea un’interpretazione del contratto
atipico di concessione in godimento di area da destinare a
discarica di rifiuti, perchè non rispettosa del canone dell’art.
1371 c.c., e del vaglio preliminare di meritevolezza di cui
all’art. 1322 c.c., in base alla quale la causa concreta possa
escludere per il concessionario o locatario, che non adduca e
non dimostri l’impossibilità di procedere ai lavori di bonifica
senza conservare la disponibilità del bene anche dopo l’esau‑
rimento della ricettività, una qualunque responsabilità per il
ritardo nel rilascio;
12.4. spetta peraltro al giudice del merito valutare se e
come la disciplina generale posta da tale norma possa trovare
applicazione al caso in esame, tenendo conto dell’impossibi‑
lità di una restituzione nelle medesime condizioni preesisten‑
ti e della limitazione delle possibilità di utilizzo come neces‑
sariamente tenute presenti in sede di autoregolamentazione
degli interessi;
12.5. in particolare, il giudice del merito deve individuare,
conformemente alla volontà contrattuale, nella mora del con‑
cessionario nella restituzione del bene nelle condizioni esistenti
al termine della fase attiva della bonifica e salvo il suo obbligo
di bonifica, la fonte di una sua responsabilità contrattuale in
certo senso analoga a quella prevista dall’art. 1591 c.c.: salvo
poi a verificare i limiti e l’ambito in concreto di tale analogica
applicazione e quantificare in dipendenza il maggior danno in
base a criteri simili a quelli elaborati dalla richiamata norma;
12.6. pare potersi solo escludere che, nel corrispettivo
della protrazione ingiustificata della disponibilità oltre la
scadenza desumibile dal contratto, sia considerabile la quota
legata alla quantità di rifiuti stoccati, visto che, per definizio‑
ne, l’attività di discarica attiva è cessata proprio con l’esauri‑
mento della ricettività e quindi delle attività di ulteriore
stoccaggio;
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12.7. atterrà alla fase successiva al rilascio la prosecuzio‑
ne delle attività di bonifica, che la creditrice locatrice è tenu‑
ta comunque a consentire alla controparte, obbligata nei suoi
confronti in forza del contratto: non potendo invece farsi
carico alla conduttrice della presenza di rifiuti inquinanti,
avendo le parti previsto le opere di bonifica e comunque es‑
sendo tendenzialmente irreversibile la trasformazione del
bene immobile oggetto del contratto.
13. Può così concludersi che:
13.1. è erronea, perchè incongrua e non rispettosa dei
principi dell’equo contemperamento delle parti e dell’efficacia
del contratto atipico soltanto quando persegua interessi me‑
ritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, l’interpre‑
tazione data del contratto atipico di concessione di bene im‑
mobile a discarica di rifiuti che, in difetto di espresse previ‑
sioni sull’identificazione di un diverso e ben identificato ter‑
mine finale, escluda, una volta cessato l’utilizzo della disca‑
rica per il fine suo proprio a causa dell’esaurimento della sua
ricettività, l’obbligo in capo al concessionario di riconsegnare
il bene, sia pure nelle condizioni di fatto ordinariamente con‑
seguenti all’uso normale quale discarica e cioè senza l’obbligo
di restituirlo nelle condizioni preesistenti, di libertà da ogni
materiale inquinante, ivi inserito in conformità alle pattuizio‑
ni contrattuali, ma nelle condizioni in cui si trova a seguito
del corretto uso contrattuale quale discarica; e salva l’obbli‑
gazione del concessionario di provvedere alla successiva bo‑
nifica, ma senza per questo trattenere l’esclusiva disponibilità
del bene;
13.2. è erronea, perchè incongrua e non rispettosa dei
principi dell’equo contemperamento degli interessi delle parti
e dell’efficacia del contratto atipico soltanto quando persegua
interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico,
l’interpretazione data del contratto atipico di concessione di
bene immobile a discarica di rifiuti che, in difetto di espresse
previsioni sull’identificazione di un diverso e ben identificato
termine finale, escluda che il concessionario o locatario di una
discarica, che non adduca e non dimostri l’impossibilità di
procedere ai lavori di bonifica senza conservare la disponibi‑
lità del bene anche dopo l’esaurimento della ricettività, sia in
mora anche ai fini dell’art. 1591 c.c., spettando peraltro al
giudice del merito la liquidazione del relativo danno in base
alla peculiarità della fattispecie, impregiudicati i rispettivi
obblighi, dopo la riconsegna, per il concessionario di proce‑
dere alla bonifica e per il concedente di consentire all’altro di
eseguire le relative operazioni;
13.3. la gravata sentenza va quindi cassata per non esser‑
si attenuta, nell’interpretazione del contratto, ai suesposti
principi.
14. Resta assorbito l’ultimo motivo, in quanto la protra‑
zione della disponibilità si ascrive non ad un fatto autoritati‑
vo, ma alla mancata restituzione da parte del conduttore e si
risolve quindi nell’ambito dell’ordinaria responsabilità con‑
trattuale; mentre la tendenzialmente irreversibile materiale
trasformazione del bene dipende dall’uso pattiziamente con‑
venuto e delle modifiche di rilevanza pubblicistica dell’utiliz‑
zabilità del bene non può farsi carico alcuno al concessionario,
ma, a tutto concedere e ricorrendone i presupposti, all’Ente
impositore dei vincoli.
15. In conclusione:
15.1. va dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti
civile
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della Consorzio I. S. srl in liq.ne, con condanna della ricor‑
rente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in
favore ci questa;
15.2. il ricorso va invece accolto, nei confronti della Con‑
sorzio C. D. spa, con rinvio alla Corte di Appello di Firenze
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in diversa composizione, affinchè, provvedendo anche sulle
spese dell’intero giudizio e comprese quelle di legittimità, si
attenga ai principi di diritto di cui ai punti 13.1. e 13.2. nei
rapporti tra ricorrente e detta controricorrente.
(Omissis)
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In evidenza
TRIBUNALE DI NAPOLI, Sezione Distaccata di Casoria
sentenza 25 febbraio 2011
Giud. Chiesi
Appello – Costituzione in giudizio appellante (principale) – Deposito originale atto di citazione notificato almeno ad un appellato
– Necessarietà – Omissione – Improcedibilità. Costituzione tempestiva appellato – Applicabilità al giudizio di appello dell’art.
171 comma 1, c.p.c. – Esclusione. [1]
In tema di appello una lettura sistematica degli artt. 347
e 348 c.p.c., porta a concludere nel senso della improcedibilità dell’appello, qualora l’appellante non depositi, nel termine stabilito per la sua costituzione, l’atto di impugnazione
notificato ad almeno una delle controparti.
Nè la tempestiva costituzione dell’appellato esplica effetti sananti, attesa la non applicabilità al giudizio di appello
dell’art. 171, comma 1 c.p.c.
Riparto di giurisdizione – Servizi pubblici – Esercizio potestà
pubblicistiche (rapporti individuali di utenza) – Diritti della per-
Nota redazionale a cura di Lucio Tramontano
[1] Con la sentenza in epigrafe, densa di spunti di riflessione, il Tribunale
(in funzione di giudice di appello) affronta, tra le altre, la questione della
(tardiva) costituzione dell’appellante recependo il principio ribadito dalla
Cassazione, secondo cui il deposito dell’atto di citazione in appello privo della
notifica all’appellato, all’atto della costituzione nel giudizio di secondo grado,
determina l’improcedibilità del gravame ex art. 348 c.p.c., né è consentito il
tardivo deposito dell’atto notificato in prima udienza, oltre il termine perento‑
rio stabilito dalla legge (Cass. Civ., sentenza 1 luglio 2008 n.1800, Mass. Giur.
It, 2008).
Nel solco di tali dicta il Tribunale ha dichiarato improcedibile l’appello (prin‑
cipale, ferma restando la proseguibilità dell’appello incidentale) proprio in
quanto il deposito dell’atto di appello notificato era avvenuto nell’udienza di
prima comparizione.
Al riguardo si osserva che la mancata (e/o tardiva) costituzione dell’appellante
produce l’improcedibilità dell’appello, che può essere dichiarata anche d’ufficio,
ed è – come osservato in dottrina – una conseguenza più drastica della dichia‑
razione di contumacia prevista in caso di mancata costituzione dell’attore nel
giudizio di primo grado, conseguenza che trova giustificazione nella prospet‑
tiva di scoraggiare il ricorso ai mezzi di impugnazione, per mezzo dell’accen‑
tuazione degli oneri posti a carico delle parti [Ferri, Appello (dir. proc. civ.),
in Digesto civ., Agg., XII, Torino, 1995, 564].
Sotto altro profilo, e secondo un saldo principio giurisprudenziale, deve altresì
escludersi la possibilità della costituzione dell’appellante fino alla prima udien‑
za anche nell’ipotesi di costituzione dell’appellato (nel termine di cui all’art. 166
c.p.c.), stante l’inapplicabilità dell’art. 171, secondo comma, c.p.c.
Ciò in quanto l’art. 347, primo comma, c.p.c., nello stabilire che la costituzione
in appello avviene secondo le forme ed i termini per i procedimenti davanti al
tribunale, rende applicabili al giudizio d’appello le previsioni di cui agli artt. 165
e 166 c.p.c., ma non quella di cui all’art. 171 c.p.c., la quale è incompatibile con
la previsione di improcedibilità dell’appello, se l’appellante non si costituisca nei
termini, di cui all’art. 348 c.p.c. Ne consegue che il giudizio di gravame sarà
improcedibile in tutti i casi di ritardata o mancata costituzione dell’appellante,
a nulla rilevando che l’appellato si sia costituito nel termine assegnatogli (in tal
senso: Cass. Civile, sez. III, 24 gennaio 2006, n. 1322 in Giust. civ. 2007, 3 708
ed in Guida al diritto, 2006, 13 82; in senso conforme cfr. anche Cass. Civile,
sez. III, sentenza 31 maggio 2005, n. 11594 in Giust. civ. Mass. 2005, 5; Cass.
civile, sez. I, sentenza 6 aprile 2004, n. 6782 in Dir. e prat. Soc. 2005, 14/15, 87;
Cass. Civile, sez. I, sentenza 23 luglio 2003, n. 11423 in Giur. it. 2004, 736;
Cass. Civile, sez. trib., sentenza 17 gennaio 2002, n. 463 in Giust. civ. Mass.
2002, 75 e di recente ribadito in un obiter dictum da Cass. Civile. Sez. Unite,
sentenza 18 maggio 2011, n. 10864, CED Cassazione, 2011).
Sul punto – sino alla riforma del 1990 (che, com’è noto, ha rimodulato l’art.
348 c.p.c.) – parte della dottrina – si era espressa, ritenendo che la mancata
costituzione tempestiva dell’appellante non comportasse necessariamente la
dichiarazione di improcedibilità, sempre che l’appellato si fosse costituito nei
termini: in tal caso l’appellante poteva validamente costituirsi sino alla prima
2 0 1 1
47
sona – Richiesta risarcimento danni – Giurisdizione giudice ordinario – Esclusione [2]
Ai fini dell’individuazione della giurisdizione rileva il
cosiddetto “petitum” sostanziale, per cui rientra nella giuri‑
sdizione dell’autorità’ giudiziaria amministrativa l’azione di
risarcimento danni proposta da un cittadino per il disservizio
nella (mancata) raccolta dei rifiuti, atteso che la fattispecie ha
ad oggetto il potere dell’amministrazione relativo all’organiz‑
zazione ed alle modalità di attuazione dello smaltimento dei
rifiuti urbani, che costituisce ex lege (d.p.r. n. 915 del 1982)
servizio pubblico universale.
(...Omissis...)
Come esposto nel verbale che precede, la presente decisio‑
ne viene adottata ai sensi dell’art. 281sexies cod. proc. civ.
essendo tale disposizione applicabile anche alle cause penden‑
ti in grado di appello innanzi al Tribunale in composizione
monocratica (cfr, Cass., 13.3.2009, n. 6205).
1. Questioni preliminari.
In via preliminare va chiarito che in ordine a tutto ciò che
non ha formato oggetto di appello (principale come inciden‑
tale), né dipende dai capi impugnati delle gravate sentenze né,
udienza (Lasagno, in Chiarloni, Le riforme del processo civile, Bologna,
1992).
Si riteneva operante il meccanismo di rinvio previsto dall’art. 348,
primo comma, c.p.c., in quanto tale norma prevedeva esplicitamente l’ipotesi
dell’appellante che non si fosse costituito «fino alla prima udienza», con ciò
lasciando desumere l’applicabilità, anche nel giudizio d’appello, dell’art. 171,
secondo comma, c.p.c. (Mandrioli, Diritto Processuale Civile, II^ ed., 485,
Torino, 2009).
Successivamente all’entrata in vigore della riforma del 1990 la dottrina si è
orientata nel ritenere che la tardiva costituzione dell’appellante dà luogo ine‑
vitabilmente alla dichiarazione di improcedibilità, non essendo possibile né la
fissazione di altra udienza da parte del giudice né una costituzione tardiva sino
alla prima udienza (Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile,
Napoli, 1991, 204; Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Pado‑
va, 1991, 152; Verde, Profili del processo civile, II, Napoli, 1996, 264; Tarzia,
Lineamenti del nuovo processo di cognizione, 2ª ed., Milano, 2002, 310;
Consolo, Luiso, Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, II
ed., 394, 396, Bologna 1998; Vullo, Mancata costituzione dell’appellante e
improcedibilità del gravame, in RDP, 2007, 478).
[2] Il Tribunale di Napoli con la sentenza in esame ha riaffermato – dichiarando
il proprio difetto di Giurisdizione – il principio espresso dalle Sezione Unite in
sede di regolamento preventivo di giurisdizione (ai sensi dell’art. 41 c.p.c.) con
l’ordinanza n. 24598 del 23 novembre 2009 (CED Cassazione, 2009). Il Su‑
premo Collegio con tale statuizione ha ribadito, come aveva già fatto in pre‑
cedenza (tra le altre Cass. Civ. Sez. Unite, sentenza 3 aprile 2007, n. 8227,
Mass. Giur. It., 2007), che la giurisdizione si determina con riguardo alla do‑
manda e, ai fini del riparto tra giudice ordinario e amministrativo, rileva non
già la prospettazione delle parti, bensì il cosiddetto “petitum” sostanziale.
Rientra, pertanto, nella giurisdizione dell’autorità’ giudiziaria amministrativa
la domanda con la quale – pur chiedendosi risarcimento del danno – la con‑
troversia investe il potere dell’Amministrazione relativo all’organizzazione ed
alle modalità di attuazione dello smaltimento dei rifiuti urbani, che costituisce
per espressa previsione (D. P. R. n. 915 del 10 settembre 1992) servizio pub‑
blico (Cass. Civ., Sez. Unite, sentenza del 27 novembre 2002, n.1683, Gius.,
2003, 6, 583).
Trovando applicazione, ai fini della giurisdizione l’art. 33, D. Lgs. 31 marzo
1998, n. 80, come modificato a seguito degli interventi della Corte Costituzio‑
nale con le sentenze n. 204 del 6 luglio 2004 (Giornale Dir. Amm., 2004, 9,
1015) e n. 191 dell’11 maggio 2006 (Foro It., 2006, 6, 1, 1626) che, nella
materia dei servizi pubblici, attribuisce al giudice amministrativo giurisdizione
esclusiva ove si sia in presenza dell’esercizio di potestà pubblicistiche.
Tale giurisdizione, secondo il principio enunciato dalle Sezioni Unite, si esten‑
de alle connesse domande risarcitorie anche se con esse si invoca la tutela di
diritti fondamentali, come quello alla salute, stante la inesistenza nell’ordina‑
mento di un principio che riservi esclusivamente al giudice ordinario la tutela
dei diritti costituzionalmente protetti (Corte Cost., n. 140 del 27 aprile 2007,
Corriere Giur., 2007, 6, 866; Civile Sez. Unite, sentenza del 25 febbraio 2008
n. 2656, Foro It., 2008, 6, 1, 1914; Cass. Civ. Sez. Unite, sentenza del 29
aprile 2009 n. 9956, Mass. Giur. It., 2009).
civile
Gazzetta
48
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
ancora, è stato oggetto di riproposizione, si è formato il giu‑
dicato interno, con esonero del Tribunale da qualsivoglia de‑
libazione in merito (cfr. artt. 329, 226, e 346 cod. proc. civ.).
Sempre in via preliminare va chiarito che i procedimenti
iscritti ai nn. 152/2009, 153/2009 e 154/2009 R.G.A.C. ven‑
gono trattati e decisi unitariamente, in virtù di quanto dispo‑
sto dall’art. 151 disp. att. cod. proc. civ..
In via ulteriormente preliminare va evidenziato come
questo Giudice non ritenga necessaria l’acquisizione del fasci‑
colo di prime cure, relativamente al fascicolo iscritto al n.
152/2009, evincendosi quanto necessario per la decisione del
gravame dalla sentenza versata in atti –sulla discrezionalità,
rimessa alla valutazione del Giudice di appello, in ordine alla
acquisizione del fascicolo di ufficio del primo grado di lite cfr.,
tra le altre, Cass., 19.1.2010, n. 688).
Ancora in via preliminare, poi, va rigettata l’eccezione
preliminare di inammissibilità degli appelli (principale ed
incidentale), per essere stato gli stessi –si dice– proposti in
violazione di quanto previsto dall’art. 339 cod. proc. civ.: ed
infatti, avendo dedotto –quali motivi di gravame– la violazio‑
ne delle disposizioni dettate in tema di riparto di giurisdizio‑
ne nonché dei principi regolatori della materia in tema di ri‑
sarcimento del danno, appare evidente come le parti appel‑
lanti abbiano censurato le gravate sentenze nei limiti consen‑
titi dalla richiamata disposizione del codice di rito (medesime
conclusioni devono ribadirsi, ovviamente, in relazione al
gravame incidentale).
Ancora in via preliminare, poi, va dichiarata l’improcedi‑
bilità dei gravami principali, avendo parte appellante deposi‑
tato l’originale dell’atto di citazione ritualmente notificato nei
confronti delle controparti solamente nel corso dell’udienza
di prima comparizione (cfr. verbale del 19.6.2009) e, dunque,
per non avere la Casoria ambiente regolarmente completato
la propria costituzione nel termine di dieci giorni fissato
dall’art. 165 cod. proc. civ., come richiamato dall’art. 347 cod.
proc. civ..
Invero, dalla documentazione in atti si evince che l’atto di
appello fu notificato nei confronti di G. A., M. F. nonché di G.
A. e P. C., nella spiegata qualità, il 10.2.2009 (cfr. relata di
notifica in calce all’atto di appello) e del Comune di Casoria
il 17.2.2009 (cfr. cartolina di ritorno della notifica eseguita a
mezzo posta), mentre la società appellante – come detto – ha
perfezionato il meccanismo di costituzione in giudizio in
giudizio – mediante il deposito dell’originale dell’atto di cita‑
zione– solamente il successivo 19.6.2009 (cfr. verbale di
udienza di prima comparizione innanzi all’allora istruttore,
G.M. dott. M. Sacchi) e, cioè, quando era già abbondante‑
mente elasso il termine di dieci giorni di cui all’art. 165,
comma 1, cod. proc. civ..
Precisamente, è noto che ai sensi dell’art. 347, comma 1,
cod. proc. civ., la costituzione in appello avviene secondo le
forme e i termini per i procedimenti davanti al tribunale; il che
implica, quale conseguenza, che, il perfezionamento del mec‑
canismo di costituzione in giudizio dell’appellante richiede: a)
in ipotesi di unico appellato – quale è il caso di specie– che
venga rispettato il termine di dieci giorni dalla notificazione per
l’iscrizione della causa a ruolo, mediante il deposito del proprio
fascicolo di parte contenente, tra l’altro, l’originale dell’atto di
citazione (cfr. art. 165, comma 1, cod. proc. civ.); b) in ipotesi
–quale di specie– di pluralità di appellati, che venga rispettato
c i v i l e
Gazzetta
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non solo il termine di dieci giorni dalla prima notifica, per
l’iscrizione della causa a ruolo (cfr. art. 165, comma 1, cod.
proc. civ.) –esibendo in visione al cancelliere l’originale della
citazione (cfr. art. 74 disp. att. cod. proc. civ.), se necessario per
rilevare gli estremi della procura– ma anche l’ulteriore termine
di 10 giorni dall’ultima notifica per provvedere al deposito
dell’originale dell’atto di citazione, ex art. 165, comma 2, cod.
proc. civ. (cfr. ex multis, Cass., 16.7.1997, n. 6481).
Analogamente rispetto a quanto accade nel primo grado
di giudizio, dunque, per espressa previsione legislativa il tem‑
pestivo deposito (come avvenuto nel caso di specie) della sola
«velina» –la quale rappresenta una semplice copia informe
dell’atto di citazione originale che riproduce, inidoneo a so‑
stituirlo (cfr. Cass., 1.6.2000, n. 7263)– non equivale, né
tantomeno surroga, l’ulteriore adempimento imposto all’atto‑
re (recte: appellante), consistente nell’altrettanto tempestivo
deposito dell’originale dell’atto di citazione (in relazione alla
necessità del tempestivo deposito dell’originale dell’atto di
citazione, cfr. anche Corte Cost. 107/2004).
Il legislatore, dunque, richiede il tempestivo compimento
di tutte le suddette formalità per ritenere la causa corretta‑
mente iscritta a ruolo. Quanto, poi, al momento a decorrere
dal quale occorra procedere al computo dei termini suddetti,
non sembrano residuare ulteriori margini di dubbio circa il
fatto che ciò debba avvenire dal momento in cui il destinata‑
rio della notificazione riceve l’atto notificato, in applicazione
del principio della scissione degli effetti della notificazione per
il notificante e per il destinatario (cfr. Corte Cost., 477/2002;
28/2004; 107/2004; Cass., S.U., ord. 13.1.2005).
Conseguentemente, avendo il Comune di Casoria ricevu‑
to la notificazione dell’atto di appello in data 17.2.2009, il
termine ultimo per provvedere alla iscrizione della causa a
ruolo (e, dunque, in ultima analisi, per provvedere alla com‑
pleta costituzione in giudizio da parte dell’appellante, anche
mediante il deposito dell’originale dell’atto di appello –cfr.
Cass., 24.8.2007, n. 17958, nonché Cass. 1 luglio 2008, n.
18009, in Foro it., 2008, I, 3558 e, ancor più recentemente,
Cass., 4.1.2010, n. 10), era il 27.2.2009.
Né, invero, produce effetto sanante rispetto a tale vizio la
successiva costituzione delle parti appellate.
Ed infatti, il successivo art. 348, comma 1, cod. proc. civ.,
dispone che ‹‹l’appello è dichiarato improcedibile, anche d’uf‑
ficio, se l’appellante non si costituisce in termini››. Orbene,
secondo il recente orientamento della Suprema Corte di Cas‑
sazione, nonché alla luce delle attente considerazioni di accre‑
ditata dottrina, non può questo Giudice esimersi dal rilevare
che, ai sensi dell’art. 348, comma 1, cod. proc. civ., nel testo
sostituito, con efficacia dal 30 aprile 1995, dall’art. 54 della
legge 26.11.1990 n. 353 – il quale ha apportato una radicale
modifica alla disciplina dell’istituto dell’improcedibilità
dell’appello, nel quadro di una rigorosa accelerazione dell’at‑
tività processuale impressa dalla novella del 1990– la manca‑
ta costituzione in termini dell’appellante, ai sensi dell’art. 347
cod. proc. civ., entro dieci giorni dalla notificazione della ci‑
tazione, determina automaticamente l’improcedibilità dell’ap‑
pello, senza che pertanto possa trovare applicazione l’art. 171,
comma 2, con la conseguente possibilità della costituzione
dell’appellante fino alla prima udienza, qualora l’appellato si
sia costituito nei termini. Infatti, il richiamo alle ‹‹forme›› ed
ai ‹‹termini›› del procedimento avanti il tribunale, contenuto
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
nell’art. 347, comma 1, cod. proc. civ., deve ritenersi riferito
solo agli art. 165 e 166 cod. proc. civ., mentre la previsione
dell’art. 171, comma 2, deve ritenersi incompatibile con il
tenore dell’art. 348 del codice di rito, il quale esclude in ogni
caso la possibilità di una ritardata costituzione di una delle
parti o l’applicazione dell’istituto dell’estinzione per la loro
inattività, stabilendo espressamente l’improcedibilità dell’ap‑
pello, senza attribuire alcun rilievo al comportamento dell’al‑
tra parte, così che, a seguito della novella del 1990, i due
termini di costituzione, fissati per l’appellante e l’appellato,
sono indipendenti l’uno dall’altro e ciascuna parte è tenuta ad
osservare il proprio (cfr. Cass., 25.7.2003, n. 11423; Cass.,
17.1.2002, n. 463. cfr. anche Corte di Appello di Trento,
2.8.2001; Trib. Napoli, 15.6.2001).
Ciò non toglie, tuttavia, che il Tribunale sia comunque
chiamato a delibare i motivi di gravame proposti dal comune,
relativamente ai procedimenti iscritti ai nn. 152/2009 e
153/2009 R.G.A.C., versandosi in presenza di appelli inciden‑
tali proposti nei termini per la formulazione dell’appello prin‑
cipale (sentenze depositate in data 20.5.2008; costituzione del
comune avvenuta in data 26.5.2008. Cfr. l’originaria formula‑
zione dell’art. 327 cod. proc. civ., applicabile ratione temporis
alcaso di specie) e, dunque, non soggetti alla sanzione di cui
all’art. 334, comma 2, cod. proc. civ. (applicabile solo in rela‑
zione alle impugnazioni incidentali tardive); diversamente, in
applicazione della menzionata disposizione del codice di rito va
dichiarata, in conseguenza della sorte dell’appello principale e
di cui si è detto, l’inefficacia dell’appello incidentale proposto
nel giudizio avente R.G.A.C. 154/2009, versandosi in presenza
di un’impugnazione incidentale tardiva (sentenza depositata il
29.2.2008; costituzione del comune avvenuta solamente in
data 26.5.2009) a fronte di un’impugnazione principale impro‑
cedibile (cfr. Cass., S.U., 14.4.2008, n. 9741).
Tanto osservato e premesso, in accoglimento del primo
motivo di gravame incidentale, va dichiarato il difetto di
giurisdizione del G.O., per essere deputato a conoscere la res
controversa il G.A.
Precisamente, sostiene la parte appellante incidentale che
la presente controversia, avente ad oggetto la richiesta di ri‑
sarcimento danni formulata dall’attrice in relazione ad una
2 0 1 1
49
materia (smaltimento e raccolta dei rifiuti solidi urbani) rien‑
trante tra quelle di cui agli artt. 33 e 34, D.Lgs. 31.3.1998, n.
80, vada devoluta alla cognizione del G.A., sulla scorta di
quanto previsto e disposto dal successivo art. 35, D.Lgs. cit.
Orbene, chiamato a pronunziarsi espressamente sul punto,
il Supremo Organo di Nomofilachia (cfr. Cass., S.U. 23.11.2009,
n. 24598) ha chiarito che nelle controversie – quale quella in
esame – in cui si chiede il risarcimento dei danni per il disser‑
vizio legato alla mancata raccolta dei rifiuti sussiste la giurisdi‑
zione del G.A.; ed infatti, pur chiedendosi il risarcimento del
danno, la fattispecie rientra nella nozione di controversia sui
“rapporti individuali di utenza”, di cui all’art. 33 D.Lgs. n. 80
del 1998, investendo il potere dell’Amministrazione relativo
all’organizzazione ed alle modalità di attuazione dello smalti‑
mento dei rifiuti urbani, che costituisce, per espressa previsio‑
ne normativa (D.p.r. n. 915 del 1982) servizio pubblico.
Quanto precede assorbe l’esame degli altri motivi di ap‑
pello (per doverosa completezza si segnala come Cass.,
30.11.2010, n. 24255, investita dell’esame del merito della
questione in conseguenza del giudicato interno formatosi,
diversamente che nella specie, sulla giurisdizione ha altresì
chiarito come il cittadino che non provi in maniera concreta
come l’emergenza rifiuti abbia condizionato la sua vita, inci‑
dendo sulla sua giornata tipo non ha diritto ad alcun risarci‑
mento a titolo di danno esistenziale. Orbene, dall’esame anche
solo cursorio delle gravate sentenze si coglie chiaramente
come il Giudice di prossimità abbia altresì violato il disposto
dell’art. 2967 cod. civ., avendo condannato il comune di Ca‑
soria al risarcimento dei danni sulla base di un presunto
“fatto notorio” –cfr. motivazione delle gravate decisioni).
In conseguenza di quanto precede, in accoglimento degli
appelli incidentali proposti dal comune di casoria, le sentenze
3686/2008 e 3687/2008 del Giudice di Pace di Casoria vanno
annullate, dovendosi dichiarare il difetto di giurisdizione del
G.O. in favore del G.A., da individuarsi nel T.A.R. Campania
– Napoli”.
* La presente nota redazionale è stata pubblicata nuovamente per esteso, atteso che nel numero precedente - per mero
errore materiale - è stata attribuita ad un diverso autore.
civile
Gazzetta
Diritto e procedura penale
Le indotte timidezze itruttorie del G.U.P nel caso della scadenza dei termini custodiali di fase
53
Enrico Campoli
La tutela dei diritti del minore nel sistema penale. Profili esemplificativi
56
Clelia Iasevoli
Il volto attuale del dolo eventuale 63
Andrea Alberico
I contrasti risolti dalle Sezioni unite penali
68
A cura di Angelo Pignatelli
Rassegna di merito [
A cura di Alessandro Jazzetti e Andrea Alberico ]
A cura di Alessandro Jazzetti e Giuseppina Marotta ]
70
73
penale
Rassegna di legittimità [
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
●
Le indotte timidezze
itruttorie del G.U.P
nel caso della scadenza
dei termini
custodiali di fase
● Enrico Campoli
G.i.p. del Tribunale di Nola
2 0 1 1
53
Uno dei modi attraverso cui la riforma Carotti ha raffor‑
zato il ruolo di filtro dell’udienza preliminare è stato senz’al‑
tro quello della riformulazione dei poteri d’intervento del
giudice all’esito della discussione delle parti.
Tutte le volte, difatti, in cui ritiene di non poter provve‑
dere “a norma dell’articolo 421”, - cioè emettendo il decreto
di rinvio a giudizio ovvero la sentenza di proscioglimento -,
il giudice ha dinanzi a sé due possibilità, rispettivamente re‑
golamentate dall’art. 421 bis c.p.p. e dall’art. 422 c.p.p.: far
integrare le indagini preliminari, disponendo la restituzione
degli atti al pubblico ministero, ovvero articolare egli stesso
una “propria” istruttoria.
Il comune denominatore di queste due alternative, – en‑
trambe rimesse ad un insindacabile potere d’ufficio del giu‑
dice -, è la necessità di completare (integrare) il materiale
raccolto nel corso delle indagini preliminari : mentre, però,
l’art. 422 c.p.p. perimetra l’attività di integrazione probatoria,
- condotta dallo stesso G.u.p -, alla finalità di poter giungere
ad una decisione proscioglitiva, l’art. 421 bis cpp è proteso a
colmare le lacune delle indagini preliminari svolte dal pm,
tant’è che in un’apposita ordinanza vanno indicati i temi in‑
completi delle stesse, il termine perentorio entro cui svolgere
l’approfondimento nonché l’udienza preliminare in prosieguo
in cui gli esiti dovranno necessariamente confluire ed essere
discussi.
Sebbene nell’art. 421 bis c.p.p. il legislatore non menzioni
il pubblico ministero è di tutta evidenza che il referente della
disposizione normativa è quest’ultimo e l’aver previsto la
comunicazione del provvedimento al procuratore generale,
- mutuando le forme dettate dall’art. 412 c.p.p. -, al fine di
consentire l’avocazione dello stesso, ne costituisce una dimo‑
strazione evidente.
Le ragioni per le quali il G.u.p può ritenere le indagini
preliminari incomplete sono infinite e possono andare dalla
sciatteria con cui le stesse sono state condotte sino alla intro‑
duzione di nuovi elementi di valutazione evinti dal fascicolo
delle indagini difensive ovvero anche da una precedente
istruttoria ex art. 422 c.p.p.: quel che conta è che il procedi‑
mento ritorna nella fase delle indagini preliminari con un
mandato ben preciso: svolgere le indagini sui temi ritenuti
incompleti e svolgerle entro un tempo prestabilito, quest’ul‑
timo del tutto svincolato dalla disciplina dei termini di cui
agli artt. 406 e ss. c.p.p.
Non v’è chi non veda che i poteri del G.u.p, – non lo si
dimentichi, esercitabili d’ufficio –, sono rilevanti ed i confini
che essi possono valicare sono numerosi : quel che ci interes‑
sa, in questa sede, è, però, il contemperamento di tale poteredovere con la disciplina dei termini custodiali.
Tutte le volte, difatti, che il giudice ritiene, all’esito
dell’udienza preliminare, di non poter decidere “allo stato
degli atti” egli ha non solo il potere, ma soprattutto il dovere,
di non dar corso ad alcuna decisione “superficiale”, – di
qualsiasi cifra essa sia connotata –, ma di approfondire i temi
probatori incompleti attraverso uno dei due strumenti forni‑
tigli dalla legge: insomma, nessuna alternativa “sommaria”
dovrebbe, in teoria, potersi prospettare.
Ma v’è una situazione, - nella prassi assai più comune di
quanto si possa pensare -, in cui la volontà del giudice
dell’udienza preliminare di approfondire probatoriamente il
materiale raccolto dal pm, - (e, laddove si verifica, anche
penale
Gazzetta
54
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
quello della difesa)-, potrebbe essere conculcata da un’altra
esigenza, quella determinata dalla eventuale scadenza dei
termini custodiali di fase con quel che ne deriverebbe in ter‑
mini di vulnus per i poteri-doveri del primo e di oggettivo
danno in capo all’imputato: quest’ultimo, difatti, si vedrebbe
negato, – e quel che è più grave senza alcun provvedimento
che lo metta a conoscenza di ciò –, di un ulteriore approfon‑
dimento probatorio che lo stesso “suo” giudice, nel foro pri‑
vato, ritiene doveroso ed utile.
Intendo riferirmi all’ipotesi in cui il giudice dell’udienza
preliminare deve decidere tra l’utilizzo degli strumenti (istrut‑
tori) integrativi messigli a disposizione dagli artt. 421 bis e
422 c.p.p. e la scadenza dei termini custodiali endofasici che
l’accesso ad essi potrebbe comportare.
Com’è noto l’art. 303, comma 1, lett. a) c.p.p., ai numeri
1, 2 e 3, detta, a seconda del tipo di reati contestati, uno sca‑
denzario di tre, sei e dodici mesi dei termini custodiali “senza
che sia stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio”
non prendendo in considerazione, - ed, invero, non potendolo
prendere in quanto solo nel 1999 tali strumenti sono stati
potenziati -, le eventuali possibilità istruttorie di cui agli artt.
421 bis c.p.p. e 422 c.p.p.
In breve, il legislatore mentre per le istruttorie degli ab‑
breviati e dei dibattimenti particolarmente complessi in rela‑
zione a determinati tipi di reato consente la possibilità per il
giudice, al di là della particolare disciplina dettata dall’art.
303, 1° comma, lett. b-bis), c.p.p., di sospendere (=allungare)
la decorrenza dei termini custodiali altrettale cosa non ha
previsto né per le udienze preliminari “secche”, – fossero esse
anche particolarmente complesse e relative ai reati di cui
all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. -, né per quelle che atti‑
vino gli strumenti di cui agli artt. 421 bis e 422 c.p.p.
La ratio “storica” di tale differenza risiede nel fatto che
mentre nel primo caso si è in sede di merito nel secondo la
decisione atterrebbe alla possibilità di accedere o meno all’ap‑
profondimento dibattimentale e, dunque, in una situazione
pre-processuale : tale schema interpretativo appare, invero,
datato ed oramai disancorato dal ruolo dell’udienza prelimi‑
nare, ammesso - ma questo è un altro discorso - che essa ne
abbia ancora uno.
Se, precedentemente alle modifiche intervenute, l’udienza
preliminare aveva, sotto il profilo probatorio, uno spettro di
influenza effettivamente circoscritto così non è più per due
ordini di ragione : in primo luogo perchè gli interventi istrut‑
tori consentiti al giudice, ex artt. 421 bis e 422 c.p.p., ne
hanno ampliato i poteri di approfondimento probatorio che,
inevitabilmente, colorano anche le decisioni assunte in quella
sede, attese le ampliate formule di proscioglimento di cui
all’art. 425 c.p.p., ed in seconda ragione perchè, oramai, il
materiale probatorio raccolto dal pubblico ministero nel cor‑
so delle indagini preliminari, e poi posto dallo stesso a fon‑
damento della richiesta di rinvio a giudizio, dev’essere ritenu‑
to non più congruo ad una mera delibazione prognostica di
quanto potrà accadere in sede dibattimentale bensì ad una
valutazione “spinta” dello stesso ai fini di una pronuncia di
condanna.
Con quanto da ultimo affermato s’intende evidenziare che
la modifica del rito abbreviato, - che ha eliso la possibilità sia
del pubblico ministero che del giudice di “ostacolare” tale
opzione dell’imputato -, ha trasformato la funzione della
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
stessa udienza preliminare, più di quanto abbiano fatto le
modifiche delle norme del titolo dedicato ad esse : il giudice,
difatti, all’esito della stessa non deve più stabilire se le fonti
di prova poste dal pm a fondamento della richiesta di rinvio
a giudizio potranno trovare nella sede dibattimentale un’evo‑
luzione bensì che quelle siano già congrue ad una pronuncia
di condanna da parte del giudice dibattimentale.
Diretto precipitato di tale ragionamento è che la possibi‑
lità data all’imputato di chiedere il rito abbreviato (secco)
sulla base del materiale raccolto dal pubblico ministero nel
corso delle indagini preliminari impone a quest’ultimo, prima
di esercitare l’azione penale, di ritenerlo congruo non ad una
pronuncia interlocutoria da parte del giudice dell’udienza
preliminare bensì a fondare una sentenza di condanna atteso
che gli stessi poteri istruttori, ex art. 441, 5° comma, c.p.p.,
devono avere uno spazio di espansione circoscritto e, soprat‑
tutto, mai suppletivo delle lacune d’indagine eventualmente
lasciate dal pubblico ministero.
Ebbene, in ogni specifico segmento processuale, il legisla‑
tore ha inteso raccordare l’esigenza delle indagini con quella
dei termini custodiali di fase in quanto, così come l’art. 305
c.p.p., è posto a presidio di tale esigenza nel pieno della fase
istruttoria del pubblico ministero, così lo stesso articolo, ap‑
positamente novellato, prevede tale possibilità in seguito
all’avviso di conclusione ex art. 415 bis c.p.p. : tutte le volte,
difatti, in cui il pm ritiene che le richieste della difesa meritino
di essere approfondite può chiedere al giudice per le indagini
preliminari l’eventuale proroga della custodia cautelare con
la paradossale conseguenza che se tale valutazione può essere
svolta dalla pubblica accusa, sposando la volontà della difesa
privata, tale cosa è negata al giudice dell’udienza preliminare
- di lì prossimo ad intervenire - se non disgiungendola dai
termini custodiali di fase.
Ci troviamo, quindi, dinanzi alla paradossale situazione
in cui il pubblico ministero - cioè una parte, per quanto pub‑
blica - può ritenere congrua una richiesta di approfondimen‑
to istruttorio formulata dalla difesa dell’imputato chiedendo,
ove quest’ultimo sia sottoposto a restrizione custodiale, al
giudice, un “allungamento” dei termini custodiali mentre
qualora a tale opzione si determini successivamente il giudice
dell’udienza preliminare, - il tanto sbandierato “organo terzo”
-, allo stesso non è concessa la medesima facoltà.
Questa breve analisi trasversale delle diverse situazioni
processuali rende evidente che la disciplina dell’art. 303 c.p.p.
tiene conto delle esigenze di tutte le parti - del pubblico mini‑
stero, della difesa privata, del giudice del merito (sia esso
quello dell’abbreviato o del dibattimento) - tranne che di
quelle del giudice dell’udienza preliminare : a quest’ultimo,
da un lato, gli si sono dati i poteri di approfondimento istrut‑
torio e, dall’altro, li si è depotenziati allorchè gli stessi non
sono stati raccordati con la disciplina dei termini custodiali.
Stando alla lettera della legge, difatti, tutte le volte in cui
l’udienza preliminare ha a celebrarsi nell’imminenza dei termi‑
ni custodiali il G.u.p che ritiene “di non poter decidere a norma
dell’art. 421” viene a trovarsi nella “drammatica” situazione
di rinviare a giudizio gli imputati, – pur ritenendo necessario
far svolgere ulteriori indagini, casomai trascurate dal pm e/o
suggeritegli dalla difesa privata oppure promuovere una “pro‑
pria” istruttoria “decisiva” ai fini del proscioglimento -, ovve‑
ro proscioglierli -, con altrettale superficialità, senza cioè la
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
possibilità di attivare quegli strumenti di approfondimento che
la legge gli offre, se non accettando la contestuale scarcerazio‑
ne degli imputati per decorrenza dei termini di fase.
Del tutto sorda a qualsiasi apertura si è sin qui mostrata
la giurisprudenza di legittimità che ha sempre precluso ogni
possibilità di estendere al giudice dell’udienza preliminare la
normativa applicabile alle altre fasi processuali trincerandosi
in una interpretazione strettamente letterale delle norme e,
soprattutto, rifiutando di dar spazio ad una lettura costitu‑
zionalmente orientata, e sistematica, delle stesse.
S’intende con quanto da ultimo affermato sottolineare la
possibilità, per quanto riguarda l’art. 422 c.p.p., – e cioè in
caso di integrazione probatoria disposta dal giudice dell’udien‑
za preliminare al fine di un potenziale proscioglimento –, di
applicare la sospensione dei termini custodiali, così come già
permesso per i giudizi abbreviati particolarmente complessi
per i reati di cui all’art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p.
Relativamente, invece, all’art. 421 bis c.p.p., una lettura
sistematica, e costituzionale, delle norme processuali esisten‑
ti consentirebbe già ora di ritenere che il rimedio esista.
Con la lettura dell’ordinanza ex art. 421 bis cpp il gup nel
dar conto dei temi d’indagine incompleti, contestualmente :
fissa un termine per gli approfondimenti da svolgere, - termine,
significativamente, svincolato dalla disciplina dei termini di
cui agli artt. 406 e ss. c.p.p -; stabilisce un’udienza prelimina‑
re in prosieguo, - svincolata anch’essa da ogni termine massimo
ma, necessariamente, raccordata al termine concesso per le
indagini -, e restituisce gli atti al pubblico ministero.
E’ difficile non ritenere che in forza di tale provvedimento,
– come del resto la disposizione che si occupa del potere di
avocazione del procuratore generale indirettamente conferma
–, il procedimento non regredisca alla fase delle indagini
preliminari anche perché il giudice indica sì dei temi incom‑
pleti ma la prerogativa di approfondire gli stessi e le modalità
con le quali deve aver luogo il loro espletamento spetta all’or‑
gano della pubblica accusa e nulla gli vieta di dar luogo anche
ad autonomi sviluppi che dovesse ritenere necessari.
A differenza di quanto avviene nelle ipotesi di indagini
coartate ex art. 409 c.p.p. è vero che il pubblico ministero non
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potrà rivedere, all’esito delle stesse, le proprie determinazioni,
essendo già stata esercitata l’azione penale e fissata l’udienza
preliminare in prosieguo, ma può certamente in sede di nuove
conclusioni giungere a determinazioni opposte rispetto a
quelle in precedenza illustrate con ciò confermandosi la ne‑
cessità di una “nuova” udienza preliminare.
Alla luce di tali riflessioni, ad avviso di chi scrive, emerge
evidente che in alcun modo il giudice dell’udienza preliminare
dinanzi alla necessità di approfondire alcuni temi d’indagine
debba essere “costretto” ad una decisione ex art. 424 c.p.p.,
pena la decadenza dei termini custodiali di fase in quanto
palesemente contro il principio di legalità – (Su di un tema
analogo vedi ordinanza Corte Costituzionale n. 88/1994: - “...
la costante corrispondenza dell’imputazione a quanto emerge dagli atti è un’esigenza presente in ciascuna fase processuale,e
quindi anche nell’udienza preliminare......se così non fosse la
norma obbligherebbe il giudice ad operare un rinvio a giudizio contrario alle sue convinzioni per una imputazione non
riscontrabile negli atti processuali...”).
E’ per questa ragione, cioè proprio perché tale poteredovere del giudice dell’udienza preliminare non può essere
conculcato attraverso la spada di Damocle della scadenza dei
termini endofasici, che può ritenersi applicabile la fattispecie
di cui all’art. 303, 2° comma, c.p.p.
Quest’ultimo, difatti, sancisce che tutte le volte in cui “il
procedimento regredisca ad una fase” precedente per una
qualsiasi causa i termini decorrono di nuovo fermo restando
ovviamente le salvaguardie di cui all’art. 304 c.p.p. – (doppio
dei termini di fase; tetto massimo; etc.).
Sotto il profilo semantico la decisione interlocutoria di cui
all’art. 421 bis c.p.p. costituisce tecnicamente un “provvedi‑
mento che dispone il regresso” e sarebbe, quantomeno, para‑
dossale che la disciplina dei termini custodiali trovi “nuova”
decorrenza in forza di un errore formale del giudice nel di‑
sporre il rinvio a giudizio e non in quei casi in cui il giudice
ritenga di approfondire un tema d’indagine che potrebbe
anche condurre al proscioglimento dell’imputato, quasi come
se quest’ultimo debba “temere” più un giudice malaccorto che
uno attento e scrupoloso.
penale
Gazzetta
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
●
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Sommario: 1. Aspetti problematici nel percorso dello
Statuto europeo dei diritti del minore – 2. La giustizia minorile: un microsistema penale da “integrare” – 3. L’irrilevanza
penale del fatto ovvero il diritto del minore al non processo.
La tutela dei diritti
del minore
nel sistema penale.
Profili esemplificativi*
● Clelia Iasevoli
p e n a l e
Ricercatore confermato in Diritto processuale penale
presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
•••
* Il testo riproduce la relazione tenuta in occasione del convegno “Riforma
del sistema penale e principi costituzionali”, organizzato dalla Facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Napoli Federico II, nell’ambito degli
incontri introduttivi allo studio del diritto, sul tema “La Costituzione
repubblicana: l’ordinamento e il progetto dell’Unità d’Italia”, Napoli, 26-30
settembre 2011.
1. Aspetti problematici nel percorso dello Statuto europeo dei
diritti del minore
Il titolo di questo intervento evoca una compagine nor‑
mativa molto complessa, dal momento che i diritti dei mino‑
ri sono stati riconosciuti in una pluralità di fonti, soprattutto
internazionali. In questa sede pare opportuno concentrare
l’attenzione intorno al rapporto tra diritti del minore – intesi
nella loro specificità e singolare forza precettiva – e processo
penale, dando per scontato l’assunto secondo cui anche al
minore spettino, in tale contesto, i diritti dell’accusato e/o
imputato e della vittima del reato.
Il taglio scelto offre l’opportunità di focalizzare il discor‑
so sul diritto all’educazione, diritto primario e di così elevata
centralità da condizionare il sistema penale, nella sua interez‑
za, sui diversi livelli della imputabilità e degli interventi indul‑
genziali (perdono, messa alla prova, ecc.) e, addirittura, da
determinare la filosofia del processo penale: ovviamente non
nel senso della sua naturale funzione di accertamento, ma
nella previsione di fuoriuscita del minore dal circuito penale,
che testimonia l’estremo rilievo del diritto all’educazione
persino in rapporto all’esigenza di repressione dei reati.
Qui va anche segnalato che i nuovi orientamenti in mate‑
ria di diritti dei minori emergono da riflessioni fondate su
inappaganti canoni di derivazione post-moderna con una
decisa inversione di tendenza rispetto alle più solide, affida‑
bili modulazioni sistemiche di derivazione tardo-illuministiche. Del resto è noto che la nuova identità della crisi si rin‑
traccia nella forzata convivenza tra rinnovati sottosistemi e
assetti tradizionali; tra aporie interne e spinte innovative,
sovente poco meditate.
L’avanzamento della prospettiva sovranazionale per la
tutela dei diritti inviolabili della persona ha posto in discus‑
sione l’organicità del sistema penale integrato, dando vita al
proliferare di interventi settoriali e frammentari, nonché a
forme di “microrazionalità” relative a specifiche fenomeno‑
logie criminose.
In questo scenario il giudice – tutto sommato impropria‑
mente – è chiamato a ricomporre l’unità sistemica, tessendo
il filo della stratificazione normativa, avviando un nuovo
processo di ricostruzione dommatico-interpretativa che ha
come fulcro la lettura costituzionalmente orientata del dirit‑
to positivo.
Questo stato di cose evidenzia la frattura tra ordinamen‑
to interno e principi convenzionali e sovranazionali, che ha
come conseguenza l’instaurarsi di un difficile rapporto tra
sistematica seriamente intesa e nuovi “prodotti” normativi.
Dall’attendibile angolo visuale del sistema integrato va
posta nel debito risalto la singolare convergenza interattiva
tra rinnovate prospettive epistemiche, sia dal versante sostan‑
ziale, che da quello processuale. Ed infatti se, da un lato, si
evidenzia il bisogno di un recupero della strumentalità posi‑
tiva della dommatica tesa all’elaborazione di regole generali
ed astratte e volta ad organizzare il materiale legislativo, te‑
nendo conto dei parametri della ragionevolezza e della con‑
formità allo scopo; dall’altro versante, si richiama l’attenzio‑
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
ne sul ruolo strumentale del valore della legalità processuale
a presidio dei diritti inviolabili della persona, ritenendo che
la legge è essenziale al processo perché il processo è il diveni‑
re della legge.
Tutto ciò si riverbera all’interno delle strutture del proces‑
so minorile, in quanto al di fuori di un’ottica di sistema inte‑
grato risultano travolte sicure, fruttuose acquisizioni metodi‑
che legate alla peculiarità del rapporto funzione della pena e
strutture del processo, perché qui – più che altrove – i filamen‑
ti del tessuto connettivo del diritto sono costituiti da una
produzione normativa internazionale ad opera delle Nazioni
Unite e del Consiglio d’Europa. Più precisamente, la prima ha
espresso il suo orientamento sulla giustizia minorile nelle se‑
guenti risoluzioni: a) le regole minime sull’Amministrazione
della giustizia minorile (c.d. regole di Pechino) 29-11-1985; b)
le linee guida sulla Prevenzione della delinquenza minorile
(linee Guida di Riyadh) 14-12-1990; c) le regole per la prote‑
zione dei minori privati della libertà (regole dell’Havana)
14-12-1990.
Nel 2008 il Consiglio d’Europa ha aggiunto alle moltepli‑
ci raccomandazioni fornite nel tempo, le regole europee per i
minori autori di reato destinatari di sanzioni o misure, insi‑
stendo sul principio di proporzionalità (gravità del reato, età
del minore, benessere psico-fisico e mentale, sviluppo capaci‑
tà e circostanze personali) e del minimo intervento. Questa
normativa contiene puntuali sollecitazioni ad adottare misu‑
re che favoriscano la chiusura anticipata del processo nei casi
più lievi, che consentano interventi precoci di sostegno e di
messa alla prova, che assicurino la specializzazione degli or‑
gani e degli operatori della giustizia minorile.
In sintesi: dalla concertazione internazionale emerge un
modello di rito minorile agile e veloce, pensato per un ambito
istituzionale con forte presenza dei servizi educativi territo‑
riali, ai quali far ricorso in alternativa al giudizio; un model‑
lo basato sulla rapida uscita dal circuito penale (diversion) e
sul concetto di responsabilizzazione del minore anche attra‑
verso forme di confronto con la vittima (mediation), che però
si impongono come strategie normative e non come forme
indulgenziali – fuori luogo – della giurisdizione minorile.
In questo delicato scenario gli ambiti interpretativi del
giudice comune sono segnati dall’art. 3 della Convenzione sui
diritti dell’Infanzia secondo cui l’interesse superiore del fan‑
ciullo deve avere una considerazione preminente; dall’art. 40
che sancisce il diritto del minore sospettato, accusato o rico‑
nosciuto colpevole di aver commesso un reato ad un tratta‑
mento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore
personale, che rafforzi il suo rispetto per i diritti dell’uomo e
le libertà fondamentali e, tenendo conto dell’età, dia spazio
alla necessità di facilitare il suo reinserimento nella società al
fine di consentirgli lo svolgimento di un ruolo costruttivo in
seno a quest’ultima.
All’interno di questa pluralità di fonti normative viene
attribuito un ruolo essenziale al giudice che si ipotizza dotato
di particolare capacità, in grado di porre in essere un’attività
esegetica, che proietti la normativa attuale verso gli orizzonti
dello Statuto europeo dei diritti del minore, aperto alle istan‑
ze dell’evoluzione socio-culturale e, in particolare, della dife‑
sa delle prerogative del fanciullo.
Ma questo è il piano del dover essere!
Altra risulta essere attualmente la realtà effettuale: essa,
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purtroppo, oscilla tra l’atteggiamento di inerzia che connota
la posizione di taluni Stati membri dell’Unione e quella di
altri Stati che perseguono tendenze involutive di inasprimen‑
to delle pene, secondo un’ottica repressivo-deterrente.
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, esso si con‑
nota per l’inadeguatezza del sistema penale minorile, accen‑
tuata nei confronti del minore straniero, del minore affetto
da disagio psichico e di colui che è imputato di reati a sfondo
sessuale. Soprattutto con riferimento ai primi, la finalità rie‑
ducativa entra in corto circuito perché la situazione familiare
ed ambientale in cui versa il minore straniero, in realtà, non
consente l’attuazione di progetti di integrazione; a ciò si ag‑
giunga il dato pregnante secondo cui non è facile trovare so‑
luzioni di accoglienza presso strutture educative idonee ad
affrontare la diversità etnica. La problematicità di questa si‑
tuazione trattamentale è stata aggravata dalla improvvida
normativa contenuta nella decretazione d’urgenza in materia
di immigrazione (l. 2009, n. 94).
In altri termini, va detto che non è più rinviabile una rifor‑
ma adeguata alle nuove esigenze della società multietnica.
Né sono meno gravi le inadempienze dell’Italia rispetto
alla tutela processuale del minore vittima del reato, risultan‑
do inattuati gli impegni assunti con la ratifica della legge 11
marzo 2002 n. 46, contenente i protocolli opzionali alla Con‑
venzione dei diritti del fanciullo, concernendo rispettivamen‑
te la vendita, la prostituzione dei bambini e il coinvolgimento
dei bambini nei conflitti armati.
Più specificamente, l’art. 8 sancisce l’obbligo per gli Stati
di adottare in ogni fase del processo penale le misure neces‑
sarie per proteggere i diritti e gli interessi dei bambini vittime
di reato: a) riconoscendo la vulnerabilità delle vittime e adat‑
tando le procedure in modo da tenere debitamente conto dei
loro particolari bisogni, in particolare, in quanto testimoni;
b) informando le vittime riguardo ai loro diritti, al ruolo e
alla portata della procedura […]; c) permettendo, nel caso in
cui gli interessi personali delle vittime siano stati coinvolti,
che le loro opinioni, i loro bisogni e le loro preoccupazioni
siano presentate ed esaminate durante la procedura, in modo
conforme alle regole di procedura del diritto interno; d) for‑
nendo alle vittime servizi di assistenza appropriati, ad ogni
stadio della vicenda giudiziaria ecc.
Ma non si notano segnali propositivi.
Da qui il bisogno di una riforma della giustizia minorile,
che necessita di un’opera di approfondimento della generalità
nel particolare attraverso l’analisi delle componenti intersti‑
ziali che costituiscono il sistema penale integrato; la conoscen‑
za di questi ambiti implica il percorso degli scorci aperti
dalla giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito:
versanti talvolta simmetrici, talaltra asimmetrici, che svelano
le ragioni della vigente crisi complessiva della legalità.
2. La giustizia minorile: un microsistema penale da “integrare”
L’attesa di una riforma radicale ed organica della giustizia
minorile si arricchisce oggi di contenuti culturali che la spin‑
gono verso le forme integrate del sistema penale e la orienta‑
no sincronicamente sul diritto sostanziale e sul diritto proces‑
suale penale: è fortemente auspicabile che non si ripeta l’erro‑
re metodologico di un intervento legislativo sulle regole del
rito minorile, sganciato da un rinnovamento razionale dell’ap‑
parato sanzionatorio conforme allo scopo, così come avvenne
penale
Gazzetta
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D i r i t t o
e
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alla fine degli anni ’80.
Non a caso, la scollatura presente nel microsistema evi‑
denzia la non aderenza del sistema sanzionatorio alla specifi‑
cità del fenomeno minorile.
Sul punto è indispensabile dare chiarezza, affermando che
salvaguardare le esigenze educative del minore non equivale
a conferire al processo mere finalità educative. Se fosse così
si attribuirebbe al processo una funzione ancipite di repres‑
sione e di rieducazione non dissimile da quella assegnata alla
pena e si attuerebbe un’assimilazione impropria, incompati‑
bile con l’assetto costituzionale che legittima l’adozione di
misure rieducative soltanto nei confronti del condannato. In
altri termini, trasformare il processo in luogo di trattamento
rieducativo significherebbe violare l’art. 27 Cost.; ciò, tutta‑
via, non esclude che nel processo minorile vadano tenute nel
debito conto istanze di non-desocializzazione o di non ulte‑
riore desocializzazione, data la peculiare categoria dei sog‑
getti interessati.
E ciò implica che nell’interazione tra misure processuali
ed esigenze pedagogiche del minore, se si piegano le prime
alle seconde, gli indizi di reato diventano sintomi di disagio
psico-sociale e vengono poste in discussione le garanzie pro‑
cessuali derivanti dalla presunzione di non colpevolezza
dell’imputato.
Si vuole dire che la tutela del diritto all’educazione può
manifestarsi nella previsione di meccanismi tipici strutturati
sulle specificità connesse allo status di minore o tradursi
nella esclusione di strumenti non compatibili con quelle spe‑
cificità, ma essa non può ridurre l’accertamento in posizione
secondaria.
Ed è così pure nell’attuale sistema, nel quale, però, le di‑
scrasie tra legge e prassi sono notevoli, essendo la giurisdizione
abituata a valutare le diverse e particolari strategie legislative
per la tutela dei diritti del minore in termini indulgenziali e
paternalistici, con il perverso effetto di relegare l’accertamento
a ruolo secondario della vicenda giudiziaria o giurisdizionale.
Il diverso atteggiamento è confermato dal d.P.R. n. 448/1988,
ove non si rinviene alcuna norma che subordina l’accertamen‑
to all’idoneità educativa: l’art. 1 sposta sul piano applicativo
delle disposizioni processuali la valutazione di adeguatezza
rispetto alla personalità e alle esigenze educative del minoren‑
ne, rimettendo al giudice l’opera di contemperamento.
Ciò significa che l’individualizzazione del processo non
può superare il limite costituito dall’oggetto del giudizio, cioè
l’accertamento della responsabilità. Dunque, se la specializ‑
zazione della giurisdizione è servente all’adeguamento delle
forme e delle strutture, alle peculiarità del soggetto in proie‑
zione finalistica per la salvaguardia dell’evoluzione della sua
personalità, ciò non sottrae ad essa lo scopo primario ed
istituzionale del processo. Il legislatore può anche decidere di
rinunciare al processo (art. 28), alla condanna (art. 27) o alla
pena (art. 169), ma non può normativizzare fenomeni disfun‑
zionali in ordine al rispetto di principi fondamentali come
quello attinente al pari trattamento, orientando su ogni im‑
putato minorenne il diritto al suo processo.
Capita, poi, di imbattersi in istituti come l’irrilevanza
penale del fatto (art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988) che spingono
lo studioso a superare i confini di una limitata appartenenza
di settore, nonché ad intraprendere un percorso caratterizza‑
to dal perseguimento di una pluralità di prospettive, in grado
p e n a l e
Gazzetta
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di dar conto in maniera esaustiva di una materia poliedrica
per il dominio della quale si impongono indagini ad ampio
respiro, non limitate settorialmente, secondo inappaganti
metodologie tradizionali.
Ed in questo ambito si collocano i pregi e i difetti dell’art.
27 d.P.R., che evidenziano nuclei concettuali e sovrapposizio‑
ni normative, poco aderenti ad un tessuto codicistico struttu‑
rato per principi, da cui si evince la filosofia sottesa all’am‑
ministrazione della giustizia minorile. E, se per un verso lo
sforzo è stato quello di delineare i tratti caratterizzanti il si‑
stema, per altro e più specifico verso, si è rivelata non soddi‑
sfacente la tecnica di costruzione delle norme, talvolta ellet‑
tica, talaltra sovrabbondante.
L’esemplificazione è costituita proprio dalle opzioni seman‑
tiche e dagli innesti strutturali che si rinvengono nell’art. 27
d.P.R., in cui si è cercato di coniugare aspetti di natura sostan‑
ziale, specificità del processo minorile ed esigenze di deflazio‑
ne dello stesso, nell’intento di contenere gli effetti dannosi
della vicenda-processo sulla personalità in fieri del minore.
Il meccanismo è il prodotto del clima intellettuale degli
anni Ottanta in cui l’Assemblea delle Nazioni Unite varava le
“Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile”
(Regole di Pechino del 1985) e il Consiglio d’Europa la Racco‑
mandazione sulle “Reazioni penali alla delinquenza minorile”
del 1987; perciò, rinviando ad un secondo momento l’indagine
critica, quanto al disposto di cui al citato art. 27, pare qui op‑
portuno porre in rilievo le linee generali seguite dal nostro or‑
dinamento, non sempre con grande consequenzialità.
I segnali di modernità di quel panorama politico-ideolo‑
gico vanno colti innanzitutto nella sensibilità euristica mo‑
strata per le tecniche di diversion. Si pensi all’art. 11.1 delle
Regole di Pechino, che evidenziava l’opportunità di trattare i
casi di delinquenza giovanile senza ricorrere al processo for‑
male da parte dell’autorità competente; nonché al contenuto
della Raccomandazione del Consiglio d’Europa: essa nella
sezione II, dedicata all’uscita dal circuito giudiziario, richia‑
mava l’attenzione sul bisogno di procedure di degiurisdizio‑
nalizzazione e di ricomposizione del conflitto da parte dell’or‑
gano che esercita l’azione penale, nell’intento di evitare il
processo attraverso il coinvolgimento dei servizi o delle com‑
missioni di protezione dell’infanzia.
Su questo terreno si radica una complessa filosofia in cui
l’idea del processo come danno si intreccia con le categorie di
diversion, mediazione tra vittima e reo, che si coniugano con
il ruolo dei servizi. I prodotti di questo humus sono proprio
l’irrilevanza penale del fatto, l’istituto della messa alla prova
e il coinvolgimento diretto del minore, contenuti nella legge
che regola il processo per i minori.
In via generale, si ricorda che l’art. 1 comma 2 conferisce
al giudice il compito di illustrare «all’imputato il significato
delle attività processuali che si svolgono in sua presenza
nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni»; l’art. 12 garantisce «l’assistenza affettiva e psicologica all’imputato minorenne, in ogni stato e grado del procedimento», la quale si realizza mediante la partecipazione di‑
retta alle attività – e fasi processuali – «dei genitori o di altra
persona idonea indicata dal minorenne e ammessa dall’autorità giudiziaria che procede» (comma 1): oltreché attraverso
l’assistenza dei servizi indicati nell’art. 6; la deroga in riferi‑
mento a singoli atti per i quali è prevista la partecipazione del
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
minorenne senza la presenza delle persone indicate nei commi
1 e 2 è consentita soltanto nell’interesse del minorenne o
quando sussistono inderogabili esigenze processuali (art. 12
comma 3). Ovviamente, le disposizioni che si riferiscono
all’imputato non hanno valore preclusivo, in virtù della rego‑
la generale di cui all’art. 61 c.p.p. che si espande, consentendo
l’estensione dei diritti e delle garanzie dell’imputato alla per‑
sona sottoposta alle indagini preliminari.
Da qui la convinzione che il microsistema minorile sia
costruito sulla partecipazione diretta del minore, che esercita
il diritto di difesa non esclusivamente attraverso il conferi‑
mento della delega difensiva e la presenza del difensore desi‑
gnato o nominato d’ufficio ex art. 97 c.p.p. alle attività pro‑
cessuali per le quali è prevista l’assistenza difensiva; qui la
peculiarità del diritto di difesa implica la partecipazione del‑
lo stesso indagato/imputato alle fasi processuali.
In realtà, la ricognizione normativa evidenzia la presenza
all’interno del microsistema di altre situazioni strutturate
sulla partecipazione diretta dell’indagato/imputato.
Mi riferisco all’art. 25 d.P.R. n. 448/1988, che consente
l’esercizio della facoltà per il pubblico ministero di richiedere
la definizione della posizione processuale del minorenne im‑
putato con il rito direttissimo «solo se è possibile compiere gli
accertamenti previsti dall’art. 9», diretti a verificare se il
minorenne sia imputabile, ovvero se è possibile assicurare al
minorenne 1’assistenza prevista dall’art. 12.
Va ora richiamato l’art. 28, che parimenti subordina
l’esercizio della facoltà riservata al collegio dell’udienza pre‑
liminare minorile (o al collegio dibattimentale) di sospendere
il giudizio penale in corso, sottoponendo l’imputato alla mes‑
sa alla prova e all’audizione dello stesso.
Ancora l’art. 31 assegna allo stesso collegio la facoltà di
disporre l’allontanamento dell’imputato minorenne nel corso
dell’udienza camerale, “nel suo esclusivo interesse, durante
l’assunzione di dichiarazioni e la discussione in ordine a fatti e circostanze inerenti alla sua personalità” (comma 2).
Ed in questo tracciato si iscrive l’art. 32, che anticipa la
definizione del processo dell’imputato minorenne all’udienza
preliminare, subordinandola all’espresso consenso del mede‑
simo minore (comma 1). Così l’art. 33 che riconosce all’impu‑
tato ultrasedicenne la facoltà di chiedere al presidente del
collegio dibattimentale la celebrazione dell’udienza nel pro‑
cesso a suo carico in forma “pubblica” (comma 2).
Assecondando un orientamento istituzionale teso alla
tutela dell’infanzia e della gioventù si favoriscono istituti
congeniali allo scopo (art. 31 comma 2 Cost.), la cui operati‑
vità si riconnette alle regole generali dell’art. 24 Cost., ma
soprattutto all’intervento personale del minore nei momenti
nevralgici del processo, quale forma di responsabilizzazione
finalizzata al suo inserimento maturo nella società.
Ed è la specificità della condizione minorile ad esigere la
diversificazione più ampia possibile del trattamento processua‑
le del minore. Su questa linea si pongono gli articoli 3-15, ca‑
pitolo II, della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti
dei fanciulli, contenente le misure per promuovere tali diritti:
dal diritto ad essere informato, a quello di esprimere la propria
opinione nei procedimenti, alla prerogativa di chiedere la de‑
signazione di un rappresentante speciale, e così via: opzioni
normative che garantiscono la partecipazione personale del
minorenne al procedimento giudiziario che lo riguarda.
2 0 1 1
59
E questo innovativo ordine di idee è riscontrabile anche
nei dicta della Corte costituzionale, soprattutto in quelle
pronunce in cui chiaramente si afferma che la tutela dell’inte‑
resse preminente del minore può tradursi in meccanismi volti
a concludere la vicenda processuale in modi e con contenuti
diversi dal rito ordinario, tra i quali rientra la sentenza di non
luogo a procedere per irrilevanza penale del fatto.
3. L’irrilevanza penale del fatto ovvero il diritto del minore
al non processo
A me sembra che lo spirito della disposizione di cui all’art.
27 d.P.R. n. 448 del 1988 sia stato tradito, nel maldestro
esercizio di codificazione, dalla eterogenesi dei fini, nonché
dall’opzione inerente alla tipologia del provvedimento: sen‑
tenza, anziché decreto di archiviazione.
Questi errori di costruzione hanno determinato incertez‑
ze e confusioni dommatiche, che si sono riversate nel contesto
applicativo, stimolando lo studio del paradigma che, in ter‑
mini di costi-benefici, offre non pochi spunti per scelte di
politica legislativa che guardano all’economia processuale.
Molto probabilmente non fu questa la visione che ispirò i
primi disegni di legge sull’irrilevanza penale del fatto, in cui
l’attenzione era incentrata sulla relazione funzionale tra infli‑
zione della sanzione ed esigenze educative del minore, relazio‑
ne interrotta dalla normativizzazione della scarsa rilevanza
sociale del fatto. In gioco erano il disvalore dell’accadimento
oggettivamente inteso e il bisogno di tutelare la personalità
in fieri del minore; ed in quest’ottica prendeva consistenza
l’idea di conferire al giudice il potere di sostituire la pronuncia
del rinvio a giudizio o della sentenza di condanna con una
semplice ammonizione.
La complessità progettuale, invero, ruotava tutta intorno
alla creazione di uno strumento processuale che operasse
sulla base di un presupposto oggettivo – l’irrilevanza penale
del fatto –, la cui manifestazione frustrava il compimento sia
della funzione specialpreventiva che di quella general preven‑
tiva della pena e, per questa ragione, rendeva inutile lo stesso
processo.
Il primo tentativo di riforma si rinveniva nel disegno di
legge 3594/C sulle norme per l’esecuzione penale nei confron‑
ti dei minorenni – presentato il 18.3. 1985 dall’allora Ministro
Martinazzoli – in cui, non a caso, l’art. 65 era rubricato “impromovibilità dell’azione penale in caso di non rilevanza
sociale del fatto”. Esso disegnava un modello, a mio avviso,
profetico e rivoluzionario sotto il profilo del riconoscimento
della non rilevanza sociale del fatto come causa di archivia‑
zione, mancando un presupposto concreto dell’azione in
connessione con un sistema di diritto penale incentrato sul
fatto e non sull’autore.
Il richiamo è utile, non solo per finalità di storicizzazione
del percorso, ma anche per introdurre le linee di un dibattito
che, stentatamente, ha assunto consapevolezza dell’intima
connessione tra diritto sostanziale e diritto processuale penale,
punto focale intorno a cui deve ruotare un assetto normativo
ed una dommatica coerentemente elaborata, che risulti foriera
di soluzioni aderenti alla realtà di un sistema integrato.
Ebbene, la costruzione del meccansimo soprattutto come
causa di archiviazione sollevò obiezioni da più parti, con la
conseguenza della sostituzione del decreto di archiviazione
con la sentenza; un esito di politica del diritto errato, sebbene
penale
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60
D i r i t t o
e
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in qualche modo comprensibile per la presenza del dubbio
intorno alla compatibilità di quell’archiviazione con il princi‑
pio dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.).
Se aveva una sua razionalità intrinseca la previsione di una
situazione di inazione come causa di archiviazione, risultava,
poi, del tutto irrazionale la scelta di intervenire sulla tipologia
del provvedimento, mutandone la veste formale e lasciando
inalterata la fattispecie di non azione. Si era creato un monstrum giuridico: l’emanazione di una sentenza senza esercizio
dell’azione penale.
Da qui la necessità dell’approfondimento ermeneutico del
concetto di “tenuità del fatto”, connotato di significatività
dalla clausola di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988, al fine
di verificare la praticabilità di un itinerario esegetico alterna‑
tivo che consenta di recuperare le specificità dell’istituto,
scevro dai condizionamenti dei modelli sostanziali di esiguità
e tenuità, che operano per scelta di politica criminale, sul
piano della commisurazione della pena o della punibilità.
Secondo l’impostazione sistematica qui sostenuta, a me
pare che l’irrilevanza penale del fatto si muova sul versante
dell’apparente tipicità del fatto nel procedimento – cioè nella
fase delle indagini preliminari e prima dell’esercizio dell’azio‑
ne penale – perciò si atteggia a leitmotiv delle strategie deflat‑
tive, incrinando l’assimilazione fatto=reato, che ha condizio‑
nato tutti i ragionamenti sulla categoria, conducendo all’in‑
quadramento della stessa tra le cause di non punibilità.
Se è così i presupposti della tenuità del fatto e dell’occa‑
sionalità del comportamento sono entrambi di natura ogget‑
tiva; il secondo, in particolare, è volto ad integrare il signifi‑
cato naturalistico del primo; laddove la condizione del pre‑
giudizio arrecato dall’ulteriore corso del procedere si caratte‑
rizza per specificità processuale ed è, quindi, interna alle
esigenze di successione teleologica degli atti. Tutto ciò, senza
dimenticare il dato secondo cui il processo non è il luogo
istituzionalmente devoluto ad interventi educativi, pur doven‑
do tener conto di queste dinamiche. Pertanto, la locuzione va
letta nel senso di evitare ogni possibile effetto desocializzan‑
te che l’iter procedimentale può provocare al minore.
Quanto all’occasionalità essa si riempie dei contenuti che
derivano dall’interazione dell’art. 27 con l’art. 9 del d.P.R. n.
448 del 1988; vale a dire che il comportamento deve essere
valutato con specifico riferimento al carattere del minore e,
più precisamente, alla maturità psichica dello stesso, assumen‑
do una certa rilevanza anche l’attitudine alla comprensione
del mondo circostante ed all’autodeterminazione secondo fi‑
nalità che il soggetto si è posto.
Questi rilievi mettono a fuoco la specularità in termini
giuridici di un gioco di agile interazione tra la tenuità del
fatto-occasionalità del comportamento ed il pregiudizio effet‑
tivo, che costituisce il fulcro della valutazione giudiziale. La
diversion può essere applicata quando l’interesse pubblico non
richiede un processo ovvero quando si ha ragione di ritenere
che i suoi effetti, sotto il profilo lato sensu preventivo, sareb‑
bero maggiori di quelli ricavabili dal processo.
A voler approfondire, poi, il punto di contatto tra fatto e
fattispecie astratta si scoprono interconnessioni dinamiche,
riconducibili ad un rapporto di progressivo avvicinamento tra
storicità e tipicità, fino all’inquadramento dell’accadimento
naturalistico nella qualificazione normativa.
In questa direzione si comprende l’autonomia in senso
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
processuale del fatto come il complesso delle note descrittive,
necessarie a cogliere un avvenimento nella sua identità o
medesimezza storica e che, in quanto tali, valgono a conno‑
tarlo già come notizia di reato. Il versante coinvolto è quello
della fenomenologia naturalistica della condotta.
Da ciò traggo la conseguenza secondo cui nella locuzione
“irrilevanza penale del fatto” l’accezione fattuale che entra in
gioco è da rinvenirsi nella storicità dell’accadimento, così come
determinato dalle coordinate spazio-temporali, nonché dalle
modalità di esecuzione; cioè l’espressione assume specificità
in ordine alla concreta estrinsecazione del comportamento.
Ora, se si ricostruisce la tenuità del fatto, privilegiando la
nozione processualistica dello stesso e, quindi, la fenomeno‑
logia naturalistica, si perviene a talune conclusioni, diverse
da chi pratica la strada della sinonimia fatto=reato, ricondu‑
cendo ad essa sia gli elementi oggettivi che soggettivi, nonché
da chi determina la tenuità del fatto comprendendo anche la
personalità e la capacità a delinquere del minore, oltre che gli
elementi oggettivi e soggettivi.
Questo disagio interpretativo ha indotto la dottrina a rite‑
nere la sussistenza di un presupposto non previsto dal legisla‑
tore, cioè l’accertamento della responsabilità dell’imputato alla
base della declaratoria di cui all’art. 27 d.P.R. n. 448 del 1988,
che ovviamente nega il diritto del minore al non processo. Da
qui il passo è stato immediato verso l’asserzione che la richiesta
di sentenza per irrilevanza penale del fatto da parte del pubbli‑
co ministero equivale ad esercizio dell’azione penale.
La tesi è opinabile, non soltanto perché non risolve l’am‑
biguità dei limiti semantici e si fonda sulla intersecazione di
piani di rilevanza dai tratti differenziali, ma soprattutto per‑
ché essa è smentita dai moderni approdi sostanzialistici
nell’ambito della teoria generale del reato.
Partendo dall’acquisizione dommatica secondo cui la
conformità al tipo è il contrassegno del fatto penalmente ri‑
levante, ne consegue che nell’ipotesi di difformità dalla fatti‑
specie astratta l’accadimento naturalistico si colloca fuori
dall’area del penalmente rilevante.
Dunque, il primo gradino da superare per l’instaurazione
del processo penale è la definizione della tipicità del compor‑
tamento attraverso l’operazione di sussunzione della condot‑
ta concreta in quella astrattamente prevista; e non è un caso
che esso sia il primo gradino anche della scala sistematica
delle categorie di reato.
A questo punto la tipicità conosce una doppia dimensione
oggettiva (condotta, nesso, evento: vale al dire offesa al bene
giuridico) e soggettiva (dolo o colpa); per questa via si pervie‑
ne alla delimitazione della tipicità oggettiva all’interno della
sfera naturalistico-descrittiva, separando da essa, oltre alla
fattispecie soggettiva, l’antigiuridicità e la colpevolezza/re‑
sponsabilità. Si sottrae, così, al giudice la considerazione di
ogni coefficiente psichico, limitando la sua valutazione alla
tipicità oggettiva e, quindi, alla tenuità del fatto.
In definitiva, la clausola si riempie dei connotati dei dati
naturalistici e diviene l’indizio per il prosieguo, scalare, della
valutazione del dolo o della colpa, dell’antigiuridicità e, quin‑
di, della colpevolezza/responsabilità.
Il riconoscimento dell’autonomia di questi giudizi si river‑
bera sul piano processuale, rinvenendo l’addentellato struttu‑
rale nella disomogeneità fasica e nella diversità degli oggetti
di ogni singola fase.
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
Perciò credo che la strutturazione del meccanismo di cui
all’art. 27 d.P.R n. 448 del 1988 abbia ad oggetto esclusivamen‑
te la fenomenologia naturalistica dell’accadimento sotto il
profilo della sua riconducibilità alla fattispecie astratta limita‑
tamente agli elementi oggettivi, al fine di stabilire se quel com‑
portamento realizzi la condotta prevista: tipicità, quindi, intesa
in senso oggettivo, essendo successivo il giudizio inerente agli
altri elementi che concorrono a definire la struttura del reato.
Sul versante della fattispecie oggettiva si scopre la funzio‑
ne esegetica del bene giuridico, secondo cui la specifica rile‑
vanza penale di un comportamento umano, già al livello
della tipicità è definita ad un tempo dal suo contenuto di ag‑
gressione a un determinato oggetto – bene giuridico – e il
dato della lesione o anche della messa in pericolo del bene
protetto si profila come condizionante e, dunque, necessario
ai fini della rilevanza penale del fatto.
In fin dei conti è la specificità procedimentale a circoscri‑
vere l’oggetto della valutazione del giudice per le indagini
preliminari nell’ambito della regola di giudizio contenuta
nell’art. 125 disp. att. Anzi, qui, la verifica è più ristretta,
perché misurata sulla base della tipizzazione di una situazio‑
ne peculiare di insostenibilità dell’azione nel giudizio, qual è
quella di un accadimento estraneo all’area penalmente rile‑
vante, che evidenzia la mancanza di un presupposto concreto
dell’azione penale e, quindi, della nascita del processo.
Siamo in uno stadio preliminare del procedimento e il
pubblico ministero si avvede che non ci sono gli elementi
idonei a fondare la notizia di reato, perciò ogni altra attività
procedimentale risulta non solo superflua, antieconomica, ma
soprattutto lesiva del diritto del minore al non processo.
Così ricostruito il concetto di irrilevanza assume una
valenza spiccatamente processuale, coniugando significati
sostanziali ed esigenze del procedere: la tipicità apparente del
fatto non giustifica l’instaurazione del processo, perché man‑
ca l’oggetto dell’accertamento e, quindi, la notizia di reato si
manifesta infondata.
D’altra parte qual è il contenuto della notizia di reato se
non l’accadimento naturalistico!
Vero è che il legislatore non definisce negli artt. 330, 335,
347 c.p.p. i contenuti strutturali della notizia di reato, ma
nella fase delle indagini preliminari essa non può che essere
identificata con una condotta o meglio con un fatto, che ap‑
pare sussumibile in una fattispecie di reato, al di là della sua
immediata attribuibilità soggettiva. Si vuole dire che essa si
traduce in un fatto specifico inteso nella sua materialità e che
tutto ciò che non ne implichi un mutamento non determina
alcun obbligo sulla tenuta del registro di cui all’art. 335 c.p.p.
Il pubblico ministero verifica attraverso l’attività di indagine
se da quell’ipotesi embrionale possa nascere un’imputazione,
sul presupposto implicito che nel corso della fase investigativa
siano emersi elementi tali, da poter condurre all’instaurazione
del processo avente ad oggetto l’accertamento della responsa‑
bilità del suo autore.
In questa proiezione finalistica se si riscontra la tenuità
del fatto e l’occasionalità del comportamento del minore, il
pubblico ministero s’imbatte in una situazione normativizza‑
ta che prescrive una regola comportamentale speciale: la ri‑
chiesta ai sensi dell’art. 27 d.P.R. n. 488/1988. La determina‑
zione dell’organo dell’accusa è vincolata al ricorrere dei pre‑
supposti che aprono un terzo itinerario rispetto alla richiesta
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61
di rinvio a giudizio o alla richiesta di archiviazione. Da qui si
origina il problema di stabilire se la richiesta di sentenza per
irrilevanza penale del fatto appartenga al genus del primo
modulo o del secondo.
Certo è che la determinazione del pubblico ministero è il
risultato di una valutazione prognostica di superfluità del
processo e, perciò, essa costituisce una manifestazione pecu‑
liare di definizione anticipata del procedimento.
Tuttavia, va chiarito che il diritto del minore al non processo affonda le sue radici negli ambiti del principio di offen‑
sività, i cui riverberi all’interno della categoria del fatto ne
costituiscono manifestazioni peculiari di tutela.
In questa direzione si aprono nuove sponde speculative
che innovano la riflessione sulla tenuità del fatto, sponde di
cui vi è traccia in una recente pronuncia della Corte di cassa‑
zione (Cass. pen., sez. II, 12 maggio 2010, n. 20688) secondo
cui «la particolare tenuità del fatto, come causa di improcedibilità per il principio di necessaria offensività si risolve
nell’individuazione in concreto di un’offesa anche minima al
bene protetto, sia pure per mezzo di un giudizio sintetico sul
fatto concreto, elaborato alla luce di tutti gli elementi normativamente indicati e che si individuano nell’esiguità del
danno o del pericolo, nell’occasionalità della condotta». La
Corte, da un lato, ricostruisce la categoria – tenuità del fatto
– come regola di funzionalità del sistema che si ferma sulla
soglia dell’an dell’azione e non invade il quomodo, dall’altro,
non si stacca da condizionamenti sostanzialistici ed estende
l’esegesi al basso grado di colpevolezza e all’eventuale pregiu‑
dizio sociale per l’imputato o le parti offese. Questa è la
parte argomentativa della pronuncia che costituisce l’arretra‑
mento o meglio il retaggio dell’impostazione ancorata ai
modelli di esiguità di diritto sostanziale, strutturati in termi‑
ni di cause di esclusione della pena, di circostanze di diminu‑
zione della stessa o di attenuazione.
L’avanzamento ermeneutico è rappresentato, invece, sia
dalla classificazione dell’irrilevanza penale del fatto come
causa di improcedibilità sia dal riconoscimento del principio
di offensività, che sposta la riflessione sull’offesa al bene giu‑
ridico e, non a caso, si specifica, nell’occasione, che «non si
ritengono meritevoli di tutela offese di natura bagatellare, che
la coscienza sociale non reputa degne di elevare a presupposti legittimanti una pronuncia di condanna per il minimo
grado di lesività al bene tutelato dalla norma penale».
Sono evidenti i segni di discontinuità con la prevalente
linea interpretativa che, fondandosi sulla sinonimia tra fatto
e reato, perviene alla classificazione dell’art. 27 d.P.R. n. 448/
1988 nell’alveo, innaturale, delle cause di non punibilità.
Perciò, il cambiamento di rotta che si registra nella pronun‑
cia della Cassazione, costituisce l’esemplificazione di un dirit‑
to giurisprudenziale creativamente “legittimo” e “prevedibile”
in tema di offensività, che prevale sull’anarchia ermeneutica
dei momenti giurisprudenziali sulla “tenuità del fatto”.
Ed è sul primo versante che la funzione di nomofilachia
dei giudici di legittimità si coniuga con gli indirizzi costitu‑
zionali, secondo cui il principio di offensività costituisce una
delle strutture portanti della concezione costituzionalmente
orientata del reato e il canone esegetico a vocazione restritti‑
va delle fattispecie incriminatrici.
Questa convergenza esegetica ha fatto da ‘ponte’ tra i
diversi ambiti di rispettiva competenza delle Corti ed è stata
penale
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e
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la risposta ‘democratica’ della giustizia amministrata in nome
del popolo (art. 101 comma 1 Cost.) alla delicatezza del mo‑
mento storico: quello della perenne emergenza e della schiz‑
zofrenia legislativa.
Dunque, seguendo la curiosità euristica di misurare
l’effettiva portata dei prodotti ermeneutici della giurispruden‑
za costituzionale, i giudici di legittimità pervengono in più di
un’occasione al riconoscimento dell’immanenza nell’ordina‑
mento del principio di offensività, come clausola generale
concernente non soltanto i reati che presentano nella struttu‑
ra normativa astratta un evento di lesione, ma anche quelli
orientati alla difesa da forme rilevanti di pericolo.
Qui affondano le radici il principio di offensività e la fun‑
zione critica del bene giuridico, ma non solo; da qui l’avvio al
processo di depenalizzazione giudiziale, cioè dell’espulsione
dall’ambito del penalmente rilevante di tutti gli accadimenti
naturalistici inoffensivi. Il fenomeno trova legittimazione at‑
traverso una lettura costituzionalmente orientata, inerente
alla polifunzionalità della sanzione penale, soltanto per questa
via è possibile il raccordo ermeneutico tra l’art. 27 comma 3
Cost. e i lineamenti della concezione teleologica del reato. Ciò
significa che l’interazione dinamica della funzione della pena
non va circoscritta al momento applicativo o esecutivo, ma
essa coinvolge il piano della struttura del reato. Ne discende
l’incostituzionalità di quelle disposizioni che compromettono
la funzione di integrazione sociale della sanzione già sul piano
della fattispecie astratta, nella misura in cui essa – la sanzione
– non è concepita come reazione dell’ordinamento ad una
specie particolare di condotta lesiva del bene.
Questa prospettiva scopre il distinguo funzionale delle
diverse componenti della pena, facendo da elemento di rac‑
cordo tra il versante della rieducazione che frena le tendenze
alla repressione della pura volontà o dell’atteggiamento inte‑
riore, connesse alla retribuzione; e quello della prevenzione
generale positiva che, ai fini dell’aggregazione del consenso
dei consociati intorno alle regole ordinamentali, pretende
l’esercizio del potere punitivo esclusivamente per fatti conno‑
p e n a l e
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tati da offensività e risulti orientato, all’interno di un rappor‑
to di proporzione, soltanto alla rieducazione del soggetto.
Si tratta di traguardi dommatico-sistematici che svelano
implicazioni dialettiche nell’ambito della selezione di fatti
costituenti reato, indirizzando la politica criminale verso la
valutazione del valore del bene giuridico, con l’unico limite
della manifesta irragionevolezza delle opzioni normative, a
cui è strettamente connessa la prospettiva dell’illegittimità
costituzionale per violazione degli artt. 3 e 13 Cost.
Tuttavia, l’analisi dello schema normativo di cui all’art.
27 n. 448/1988 coinvolge un altro ambito e più specificamen‑
te quello della tenuta del principio come discrimine tra con‑
dotte tipiche e condotte soltanto apparentemente tali, al fine
della riconducibilità di un “fatto” alla fattispecie astratta
come indizio di reato.
Attraverso questa chiave di lettura i giudici di legittimità
(Cass. pen., sez. IV, 17 febbraio, 2011, n. 25674) hanno affer‑
mato che la mera aderenza del fatto alla norma di per sé non dà
vita al reato, essendo necessario anche che la condotta sia effet‑
tivamente lesiva del bene protetto: nullum crimen sine iniuria.
Sicché il reato non può che essere un fatto tipico offensivo.
Il fondamento costituzionale di questo assunto è da rin‑
venirsi, secondo una ormai tradizionale acquisizione dottri‑
nale, nel combinato disposto degli artt. 13, 25 comma 2 e 27
comma 3 Cost., da cui emerge la necessità della presenza di
un’offesa, rilevante, ad un bene giuridico significativo. Solo
questa è in grado di giustificare il sacrificio del bene, primario,
della libertà individuale e, così, orientare l’inflizione della
sanzione all’integrazione sociale del soggetto.
Se la ricostruzione teleologica del sistema penale ordina‑
rio, intorno a questi assunti di tipo assiologico-normativo,
può considerarsi un punto di non ritorno per un ordinamento
costituzionalmente orientato ai principi dello Stato sociale di
diritto, quest’ordine di idee si impone a maggior ragione per
la (ri) costruzione del sistema del diritto minorile.
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
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CORTE DI CASSAZIONE, sezione I pen.,
sentenza 01 febbraio 2011, n. 10411
Pres. Di Tomassi – Rel. Cassano
Nota a Cassazione pen., sez. I,
sentenza 01 febbraio 2011, n. 10411
● Andrea Alberico
Dottore di Ricerca in Diritto Penale
Avvocato
Reato in genere – Dolo alternativo ed eventuale – Colpa cosciente – Distinzione – Fattispecie
In tema di distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente (o con previsione dell’evento), poiché la rappresentazione,
da parte dell’agente, dell’intero fatto tipico come probabile
o possibile è presente in entrambe le ipotesi, il criterio distintivo dev’essere ricercato sul piano della volizione, nel senso
che mentre nel dolo eventuale il soggetto avrebbe agito anche
se avesse avuto la certezza del verificarsi di quel fatto, nella
colpa cosciente una tale certezza lo avrebbe trattenuto
dall’agire. Al fine di accertare se ricorra l’una o l’altra di tali
ipotesi il giudice deve effettuare un’acuta e penetrante indagine in ordine al fatto unitariamente inteso, alle sue probabilità di verificarsi, alla percezione soggettiva delle probabilità, ai segni della percezione del rischio, ai dati obiettivi
capaci di fornire una dimensione riconoscibile dei reali processi interiori dell’agente e della loro proiezione finalistica.
(Nella specie, in applicazione di tali principi, la Corte, ritenendo deficitaria la suddetta indagine, ha annullato con
rinvio, in accoglimento del ricorso del p.m., la sentenza di
merito che, in riforma di quella di primo grado, con la quale l’imputato era stato dichiarato colpevole di omicidio con
dolo eventuale, ne aveva invece affermato la penale responsabilità a titolo di colpa cosciente, in un caso in cui l’addebito nasceva dal fatto che l’imputato, trovandosi alla guida di
un furgone oggetto di furto, per sfuggire ad un controllo
della polizia, aveva condotto il mezzo ad elevatissima velocità nel traffico cittadino, attraversando diversi incroci nonostante che il semaforo segnasse luce rossa, finché, all’ultimo di detti incroci, era venuto a collisione con un’autovettura che lo aveva regolarmente impegnato, così cagionando
al suo conducente lesioni di esito mortale).
• • • Nota a sentenza
Sommario: 1. Quesiti ermeneutici tradizionali: a volte
ritornano - 2. Le posizioni più recenti della dottrina - 3. Una
soluzione proposta al di fuori dei nostri confini - 4. La posizione della giurisprudenza - 5. Una persistente aporia.
1. Quesiti ermeneutici tradizionali: a volte ritornano
Il dolo eventuale, figura di risalente elaborazione dottri‑
nale con indiscusso riconoscimento giurisprudenziale, di re‑
cente è tornato significativamente nel fuoco della riflessione
teorica, rianimando quelle (poche) voci critiche che negli
anni sembravano ormai sopite1.
Tradizionalmente, avendo goduto l’istituto di un credito
pressoché incondizionato, il principale nodo interpretativo
da sciogliere è stato quello del fondamento teorico tramite cui
1 Per una ricostruzione esaustiva, si veda S. Prosdocimi, Dolus eventualis. Il
dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, 1993.
penale
Il volto attuale
del dolo eventuale
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ricostruire con certezza i confini di quella concreta possibilità di verificazione dell’evento che accompagna l’intrapresa
criminosa sorretta dal dolo eventuale.
Come è noto, due sono state le principali correnti che si
sono fronteggiate sul tema, quella cd. del consenso e quella
cd. dell’accettazione del rischio.
Secondo la prima, l’azione sorretta dal dolo eventuale si
qualificherebbe in forza dell’approvazione interiore, da parte
dell’agente, circa la verificazione dell’evento previsto come
possibile2 . Il limite manifesto di questa teorica risiede nell’in‑
conciliabilità tra la supervalutazione di uno stato meramente
interiore ed il diritto penale del fatto.
Secondo la più accreditata tesi dell’accettazione del ri‑
schio, il dolo eventuale consisterebbe nella previsione della
verificazione dell’evento, unita alla conseguente accettazione
del rischio del suo concreto verificarsi, intesa quale risoluzio‑
ne ad agire anche a costo di cagionare l’evento.
Nonostante la chiarezza discorsiva della tesi in parola, il
concetto di accettazione del rischio ha consentito solo in
parte di riscoprire con certezza l’essenza del dolo eventuale,
poiché, specialmente sul versante probatorio, l’esito del raf‑
fronto tra dolo eventuale e dolo diretto, da una parte, e dolo
eventuale e colpa cosciente dall’altra, rimane tutt’altro che
scontato.
Come spesso capita per le figure “di confine”, infatti, la
giurisprudenza mostra un andamento ondivago, il più delle
volte determinato dal peso dei beni oggetto di valutazione3 .
Dal canto suo, la dottrina ha invece a lungo dibattuto dei
criteri distintivi tra dolo eventuale e colpa cosciente, perve‑
nendo alla conclusione che, a parità di previsione del rischio,
la colpa cosciente si caratterizza non già per lo stato di indif‑
ferenza dell’agente rispetto alla verificazione dell’evento, ma
per la intima convinzione che questo non si verificherà. Con‑
vinzione che si consolida nell’agente in ragione delle proprie
competenze o capacità. Non a caso, l’esempio che tradizional‑
mente ricorre nei manuali per spiegare detta situazione è
quello del lanciatore di coltelli che, pur avvertendo un leggero
abbassamento nella vista, si risolve comunque a continuare lo
spettacolo confidando nella propria consumata esperienza ed
abilità, salvo poi cagionare il ferimento della malcapitata
assistente 4 .
Dall’esempio si comprende come, appurato che anche
nella colpa cosciente dimora l’accettazione del rischio, la
consapevolezza nelle proprie capacità sia idonea ad escludere
la componente volitiva caratteristica del dolo, collocando
l’avvenimento nella sfera della colpa con previsione.
Come si diceva all’inizio, però, ultimamente la giurispru‑
denza è costretta a giudicare vicende che si caratterizzano per
una tale problematicità da mettere a nudo tutti i limiti opera‑
tivi delle teorie maggiormente accreditate.
Si pensi, solo per fare degli esempi ben noti, al lancio di
2 Cfr. G. Fiandaca – E. Musco, Diritto Penale. Parte generale, 5ª ed., p. 363.
3 Da ultimo, si veda quanto accaduto nel giudizio di primo grado per le morti
dei lavoratori dell’azienda Thyssenkrupp: Corte di Assise di Torino, sez. II,
sentenza 14 novembre 2011. Nel tessuto motivo della decisione può leggersi,
infatti, che “Nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una
deliberazione con la quale l’agente subordina consapevolmente un determinato
bene ad un altro”.
4Tra i molti, si veda C. Fiore – S. Fiore, Diritto Penale. Parte generale, 2ª ed.,
vol. I, p. 267.
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sassi dai cavalcavia, al contagio di HIV tramite rapporti ses‑
suali non protetti 5 , agli omicidi commessi in seguito ad inci‑
denti stradali causati da abuso di alcol o stupefacenti.
In tutte queste ipotesi, l’accertamento del momento voli‑
tivo minus dell’accettazione del rischio e la relativa distinzio‑
ne con la colpa cosciente, si dimostra ostinatamente comples‑
so, e, specie negli accertamenti di merito, rischia di sconfina‑
re nel ricorso a sciagurati ragionamenti presuntivi.
Un quesito residuo, ma di certo non meno importante,
attiene poi a quale componente del dolo possa essere integra‑
ta dalla sola accettazione del rischio. Se, infatti, appare scon‑
tato rispondere che essa, orientandosi verso l’evento, incida
sul momento volitivo del dolo, non di rado si sono registrate
adesioni alla possibilità che l’accettazione del rischio ricada
su un diverso elemento della fattispecie, di modo da incidere
sulla componente rappresentativa del dolo 6 .
2. Le posizioni più recenti della dottrina
Dal canto proprio, la dottrina, rispetto alle ipotesi proble‑
matiche appena paventate, ha fornito risposte equivoche,
fondate per lo più sull’alternativa prevalenza dell’una compo‑
nente del dolo rispetto all’altra7.
Secondo una prima ed autorevolissima ricostruzione (che
si deve al Roxin), orientata prevalentemente alla valorizzazione
del momento rappresentativo del dolo, affinché ricorra il dolo
eventuale è sempre necessaria, da parte dell’agente, la valutazione della concreta verificabilità dell’evento e la consequen‑
ziale scelta di tenere la condotta. Solo a queste condizioni, in‑
fatti, l’evento potrà appartenere psicologicamente all’agente.
Di diverso avviso, invece, una ulteriore teorica (formulata
dal Pedrazzi) che, pur ancorandosi allo stesso modo sulla
componente rappresentativa del dolo, sottolinea come il ri‑
schio più serio connesso all’istituto del dolo eventuale sia la
mistificazione della componente intellettiva del dolo, che non
potrebbe mai mancare perché presunta, trasformandosi da
componente a presupposto immanente.
Per scongiurare la paventata deriva presuntiva, diviene
impellente l’obbligo di collegare il dolo eventuale al fatto
concreto realizzato, nella sua complessità. Il momento intel‑
lettivo proprio del dolo, infatti, intanto ha una funzione in
quanto si diriga verso il fatto realizzato. Dal fatto, dunque, si
potrà evincere se la verificazione dell’evento costituisca o
5 Propende per il dolo eventuale la giurisprudenza più recente. Cfr. Cass., sez.
5, sentenza 17 settembre 2008 ud. (dep. 01 dicembre 2008), n. 44712, Rv.
242610, secondo cui: “Sussiste il dolo eventuale e non la colpa cosciente
qualora l’agente non solo si sia rappresentato il concreto rischio del verificarsi dell’evento ma lo abbia anche accettato, nel senso che si sia determinato ad agire anche a costo di cagionarlo. (In applicazione di questo principio
la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha affermato la responsabilità, a titolo di dolo dal reato di lesioni personali gravissime, di una donna che, consapevole di essere affetta da sindrome di HIV, aveva ciò nonostante intrattenuto per lunghi anni rapporti sessuali con il proprio partner, senza avvertirlo del pericolo e così finendo per
trasmettergli il virus della suddetta malattia)”. In argomento, S. Canestrari,
Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura
delle tipologie delittuose, Milano, 1999, pp. 35 e ss.
6Sul punto, cfr. Cass., sez. un., sentenza 26 novembre 2009, n. 12433, secondo
cui “In tema di ricettazione, il dolo eventuale riguarda, oltre alla verificazione
dell’evento, il presupposto della condotta, consistendo, in questo caso, nella
rappresentazione della possibilità dell’esistenza del presupposto stesso e nell’accettazione dell’eventualità di tale esistenza”.
7Molto recente, G. De Francesco, Dolo eventuale, dolo di pericolo, colpa cosciente e “colpa grave” alla luce dei diversi modelli di incriminazione, in Cass.
Pen., 2009, n. 12, pp. 5013 e ss.
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meno la concretizzazione della scelta consapevolmente posta
in essere dall’agente.
Il vulnus ed il limite di entrambi i precedenti modi di im‑
postare il problema si manifesta sul piano probatorio 8 : rima‑
nendo il momento rappresentativo per lo più nel foro interno
dell’agente, la certezza che costui si sia risolto all’azione anche
a costo di determinare l’evento, o meglio nell’indifferenza
circa la possibile produzione dell’evento, si rivela quantomeno
utopistica sul piano processuale. Del pari, la distinzione tra
dolo eventuale e colpa cosciente risulta oggettivamente impos‑
sibile, apparendo rimessa all’intuizione del giudice.
Anche analizzando il “fatto nel suo complesso considera‑
to” non è assolutamente detto che possano trarsi sufficienti
indizi tali da distinguere oltre ogni ragionevole dubbio se
l’azione sia sorretta da dolo, sia pure eventuale, ovvero da
colpa con previsione.
Di contro, non sono mancate opzioni teoriche che si sono
concentrate esclusivamente sulla valorizzazione della compo‑
nente volitiva del dolo.
Il ragionamento muove da una banalissima considerazio‑
ne: nella colpa la volizione dell’evento deve mancare per defi‑
nizione. Nella colpa cosciente, in effetti, viene a realizzarsi un
fenomeno antitetico rispetto al dolo, proprio perché in essa è
bensì vero che l’agente ha la possibilità di antivedere l’evento,
ma questo resta non voluto per effetto di un errore di valuta‑
zione che inficia il decorso causale ipotizzato. In altri termini,
il soggetto agente ha una falsa rappresentazione degli elemen‑
ti costitutivi del fatto e della connessione “causale” tra gli
stessi, e di conseguenza non ha la possibilità di ricondurli a
quella sintesi unitaria in cui si esprime la deliberazione tipica
dell’agire doloso. La sua scelta di tenere la condotta non
esprime, insomma, data la presenza di un simile errore, quel‑
la “risoluzione” di commettere il fatto, che può riscontrarsi
unicamente laddove egli fosse realmente consapevole degli
sviluppi causali che la sua condotta avrebbe potuto determi‑
nare nelle circostanze date.
Questa diversa impostazione, seppure abbia il pregio di
tracciare una linea di confine più certa tra dolo eventuale e
colpa cosciente, corre però il rischio di condurre verso l’an‑
nullamento dommatico del dolo eventuale, il quale degrade‑
rebbe a forma di manifestazione del dolo diretto.
Una tesi più recente fonda le sue argomentazioni sull’onto‑
logica differenza del contesto di rischio in cui si produce l’azio‑
ne dolosa rispetto a quella colposa. Mentre nella colpa coscien‑
te l’orizzonte di rischio è dato pur sempre da una norma pre‑
cauzionale, nel dolo eventuale l’azione si dipana già all’interno
di uno spazio di rischio che per definizione è intollerabile.
Singolare ed unica nel panorama scientifico, è poi, infine,
la posizione sostenuta da chi 9 ritiene di individuare la distin‑
zione tra dolo eventuale e colpa cosciente nella sussistenza di
una corretta individuazione della portata causale della con‑
dotta posta in essere.
Come può subitaneamente cogliersi anche dai succinti
8 Che il profilo probatorio assuma una posizione decisiva nell’analisi di ciascuna
teoria è confermato dalla giurisprudenza. Si veda, al riguardo, quale caso pa‑
radigmatico, il giudizio di legittimità conseguente l’uccisione della studentessa
Marta Russo: Cass., sez. 5, sentenza 15 dicembre 2003 ud. (dep. 19 luglio 2004),
n. 31523, Rv. 228977.
9 G. A. De Francesco, Diritto penale. I fondamenti, Torino, 2008, p. 403.
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riferimenti appena operati, nessuna delle due teorie appare
convincente.
Parlare di spazio di rischio entro cui si sviluppa l’azione,
infatti, evoca sinistri presagi di responsabilità oggettiva, lad‑
dove l’area del dolo diverrebbe – per connotati ontologici –
terra fertile per malcelate applicazioni del principio qui in re
illicita versatur tenetur etiam pro casu.
D’altronde l’indagine sulla portata causale della condotta
non riesce a superare le critiche di indeterminatezza (ed im‑
possibilità probatoria) proprie di tutte le tesi fondate sulla
ricerca dell’effettivo stato mentale dell’agente: chiedersi se e
quanto sia corretta l’individuazione – da parte del reo – della
portata causale della condotta, equivale nella sostanza ad
indagare se l’agente, qualora preveda l’evento, agisca o meno
nella convinzione che questo non si realizzerà.
3. Una soluzione proposta al di fuori dei nostri confini
Ritenendo, forse, insolubile il problema del rapporto tra
dolo eventuale e colpa cosciente sulla sola scorta delle categorie
tradizionali, taluna dottrina (specie di matrice angloamericana)
ha pensato bene di eludere ogni ostacolo di ordine teorico at‑
traverso la configurazione di un tertium genus di responsabi‑
lità, distinto dal dolo e dalla colpa, all’interno del quale collo‑
care le ipotesi di confine ove la previsione dell’evento non sia
accompagnata da una vera e propria volontà di causarlo.
Questa categoria va sotto il nome di Recklessness, “riprovevolezza”, volendo indicare la condizione psichica di chi,
avendo percepito un coefficiente di rischio nel suo agire, si sia
mostrato spregiudicato nel persistere nella propria condotta.
Nonostante lo stupore che può cogliere il giurista nostra‑
no, si tratta di una soluzione che ha trovato riscontro in mol‑
teplici legislazioni, anche europee, di matrice di civil law.
Il postulato essenziale della teorica in parola è quello
della consapevole esposizione di un bene giuridico ad un pe‑
ricolo intollerabile.
Riscontri normativi possono rinvenirsi nella mise en danger del codice penale francese del 1994 e nel cosciente desprecio di cui all’art. 384 del codice penale spagnolo10 .
In realtà, questa proposta di soluzione dell’annoso quesi‑
to, era ben nota finanche agli albori della stesura del codice
Rocco, e già allora era stata serratamente criticata dalla mi‑
gliore dottrina italiana11. Sosteneva il Löffler, infatti, che,
accanto a dolo e colpa, si dovesse individuare una ulteriore
connotazione dell’elemento psicologico, consistente nella
semplice consapevolezza, ove l’evento è previsto dall’agente,
e cionondimeno non voluto.
Per far emergere l’apoditticità di questa proposta interpre‑
tativa, e conseguentemente l’impraticabilità del ricorso ad una
terza categoria di elemento soggettivo, basti rimarcare come
essa conduca alla conclusione di ritenere comunque involon‑
tario il risultato previsto come certo o altamente probabile12 .
10 F. Curti, Tertium datur. Dal common law al civil law per una scomposizione
tripartita dell’elemento soggettivo del reato, Milano, 2003.
11Si veda G. Delitala, Dolo eventuale e colpa cosciente, in Annuario dell’Università Cattolica del S. Cuore, Milano, 1932, oggi in Id., Scritti di diritto penale, vol. I, p. 441 e ss.
12 G. Delitala, Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., pag. 442, il quale ulterior‑
mente precisa: “almeno nel caso in cui il risultato è previsto come certo, la
consapevolezza non può non tradursi, per la nostra natura razionale, in effet‑
tivo volere”.
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Sta di fatto che il fascino di questa impostazione potrebbe
aver colpito anche il Codice Rocco laddove, come è stato so‑
stenuto, la preterintenzione “fa da ponte” rispetto al dolo,
sottraendo a quest’ultimo molte ipotesi che potrebbero apparire dubbie rispetto alla forma indiretta del dolo eventuale 13 .
4. La posizione della giurisprudenza
Come già anticipato, al dibattito non è estranea la giuri‑
sprudenza, che, però, articola la sua posizione in ragione dei
beni e delle situazioni che di volta in volta vengono in rilievo
nelle decisioni.
Con rammarico va constatato che l’incertezza dommatica
che affligge il dolo eventuale consente ai giudici la manipola‑
zione dei meccanismi ermeneutici, con esiti francamente di‑
scutibili. Prova ne sia che, in una recente decisione, la Supre‑
ma Corte ha reso il seguente principio di diritto: “Non si può
per altro prescindere, ai fini dell’accertamento del dolus
eventualis, della situazione in cui si colloca la scelta di agire:
pur senza indulgere nel versari in re illicita, occorre tener
presente che un contesto radicalmente illecito predispone in
via tendenziale all’accettazione del rischio dell’evento”14 .
Rivenire nella pronuncia un espresso riferimento alla re‑
sponsabilità oggettiva – riferimento puntualmente riscontra‑
to dalla proposizione immediatamente successiva ad esso –
conferma quanto inopportuno sia far circolare istituti carat‑
terizzati da un tale grado di incertezza ontologica. Si com‑
prende, infatti, come, esclusa la smentita di maniera, l’inciso
in analisi deponga unilateralmente nel senso dell’accoglimen‑
to del versari in re illicita.
In altri casi – ed a conferma dell’assoluta incertezza inter‑
pretativa – l’approccio al problema è stato guidato da ben
altri intendimenti. Premessa, infatti, la stilistica riproposizio‑
ne della formula distintiva tra dolo eventuale e colpa con
previsione, ritiene la Suprema Corte che “occorre distinguere
la volontà dell’evento dannoso da cui dipende l’esistenza del
reato ... dalla volontà di non osservare leggi, regolamenti,
ordini o discipline che quell’evento sono intesi ad evitare ...
Il dolo eventuale ... ricorre quando si dimostri che nell’agente sia maturata non una astratta previsione dell’evento potenzialmente derivante dalle violazioni, ma si dimostri che
l’agente abbia, in concreto, previsto quello specifico evento
poi verificatosi”, e - giova aggiungere - lo abbia accettato
nella sua possibile verificazione: “una tale dimostrazione ...
non può risolversi nella mera constatazione della condotta
integrante la violazione, per quanto grave, dei precetti cautelari ...; la constatazione di un grado quanto si voglia elevato di colpa non può porsi come di per sè dirimente al fine di
discernere se l’agente abbia agito in colpa ovvero abbia agito
dolosamente” (ovviamente sub specie di dolo eventuale).
Rilevato, poi che, per ritenere la sussistenza del dolo eventuale, “è necessario provare che l’agente abbia “in concreto”
previsto quel determinato evento poi verificatosi”, i giudici
del merito si sono interrogati, “in fatto, su quale sia stato il
momento in cui l’imputato percepì il sopraggiungere del
13 Così M. Donini, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione. Le Sezioni Unite riscoprono l’elemento psicologico, in Cass. pen., 2010, nn. 7-8, pp.
2555 e ss.
14 Cass., sez. 2, sentenza 11 novembre 2008 ud. (dep. 20 gennaio 2009), n. 2399,
Rv. 242297.
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veicolo a bordo del quale viaggiavano le vittime” (ecc.)15”.
Molto di recente, però, la Suprema Corte mostra di con‑
vergere verso una definizione di dolo eventuale che appare
rimodellata su una variante tradizionale della cd. teoria del
consenso, quella meglio nota come formula di Frank16 .
Il riferimento al risalente pensiero dell’illustre Autore è
davvero esplicito nella nota decisione delle Sezioni unite che
ha sindacato sulla compatibilità del dolo eventuale con il de‑
litto di ricettazione17.
In detta circostanza si può leggere espressamente che, ad
avviso del Supremo Collegio, nella particolare composizione,
il dolo eventuale non può consistere con un mero sospetto, ma
deve esplicitarsi nella presenza di dati di fatto inequivoci, che
rendano palese (nel caso della ricettazione) la concreta possi‑
bilità di una provenienza illecita dei beni acquistati. In termini soggettivi ciò vuoi dire che il dolo eventuale nella ricettazione richiede un atteggiamento psicologico che, pur non
attingendo il livello della certezza, si colloca su un gradino
immediatamente più alto di quello del mero sospetto. Per
dare un’idea plastica di quanto esplicitato, il Supremo Collegio
ricorre ad un esempio: “si pensi al caso del collezionista che
di fronte all’offerta di un pezzo di pregio sia in dubbio sulla
sua provenienza e, considerate le circostanze e le spiegazioni
di chi glielo offre, si rappresenti la probabilità che sia di origine delittuosa, anche se non ne ha la certezza, e tuttavia non
rinunci all’acquisto perchè il suo interesse per il pezzo è tale
che lo acquisterebbe anche se gli risultasse che per venirne in
possesso chi glielo offre ha commesso un delitto”.
Ancora più recente è la decisione che qui si richiama, ove
la Suprema Corte è di nuovo invitata a pronunciarsi sulla
qualificazione da conferire alla morte occorsa in seguito ad
incidente stradale causato dal bandito che stia provando a
sfuggire all’inseguimento delle forze dell’ordine.
Il passaggio centrale dell’iter argomentativo è il seguente:
“poiché la rappresentazione dell’intero fatto tipico come
probabile o possibile è presente sia nel dolo eventuale che
nella colpa cosciente, il criterio distintivo deve essere ricercato sul piano della volizione.
Mentre, infatti, nel dolo eventuale occorre che la realizzazione del fatto sia stata “accettata” psicologicamente dal
soggetto, nel senso che egli avrebbe agito anche se avesse
avuto la certezza del verificarsi del fatto, nella colpa con
previsione la rappresentazione come certa del determinarsi
del fatto avrebbe trattenuto l’agente”18 .
5. Una persistente aporia
La cronicità con cui è dato riscontrare l’evocazione – con‑
sapevole o meno che sia – della formula di Frank nella giuri‑
15 Cass., sez. 4, sentenza 18 febbraio 2010 ud. (dep. 24 marzo 2010), n. 11222,
Rv. 249492, con nota di G. Amato, Circolazione stradale: per il reato di omicidio volontario occorre la prova dell’accettazione del rischio mortale. La
percezione dell’esistenza del pericolo generico è insufficiente per far scattare il
dolo eventuale, in Guida dir., 2010, n. 17, pp. 80 e ss.
16 Postula la cd. prima formula di Frank che vi è dolo eventuale quando si ha la
possibilità di affermare che l’agente avrebbe posto in essere la condotta anche
se, invece di prevedere semplicemente come possibile l’evento, ne avrebbe posto
in essere la condotta anche se, invece di prevedere semplicemente come possi‑
bile l’evento, ne avesse ritenuta certa la verificazione. Diffusamente sul tema,
L. Eusebi, Il dolo come volontà, Brescia, 1993, p. 185.
17 Cfr. Cass., sez.un., n. 12433/2009, cit., con nota di M. Donini, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione, cit.
18 Così Cass., sez. I, sentenza 01 febbraio 2011, n. 10411.
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sprudenza più recente appare, a sommesso avviso di chi
scrive, la conferma dell’irrisolvibile problematicità che avvol‑
ge il dolo eventuale. problematicità che deriva da un equivoco
di fondo che è dato riscontrare nella struttura stessa di questa
forma di dolo19.
Non v’è chi non veda, infatti, che nel dolo eventuale si
realizza il discutibile innesto di una componente normativa
all’interno di un istituto che, per sua natura, non può che
essere – ed è sempre stato considerato – psicologico.
Per certi versi, sembra riproporsi lo stesso dilemma che ha
accompagnato il passaggio dalla concezione psicologica alla
concezione normativa della colpevolezza, svolta che, come è
noto, si è resa necessaria non appena è maturata la convinzio‑
ne dell’irriducibilità di un elemento psicologico (il dolo) e di
un elemento normativo (la colpa) all’interno del medesimo
concetto di genere (appunto la colpevolezza) 20 .
Formule più o meno vaghe quali accettazione del rischio,
consenso, prevedibilità, intima convinzione e via discorrendo,
se e quando non rimandano al diritto penale degli atteggiamenti interiori, non fanno altro che contaminare il dolo con
componenti normative rispetto alle quali non è possibile for‑
mulare un giudizio positivo di compatibilità.
L’incongruenza dommatica testè segnalata si affianca al
rischio di derive applicative di ordine presuntivo. Si è già ri‑
marcato come la giurisprudenza tenda a plasmare il concetto
di accettazione del rischio in ragione delle proprie esigenze e
dei beni giuridici in considerazione. Si aggiunga ora come
l’incorporazione di un coefficiente normativo all’interno del
dolo, tale da soppiantare la componente volitiva, possa essere
il preludio per la riproposizione di categorie di dolo – pensate
dalla dottrina – che invece si sono orientate per la ipervaluta‑
zione – ancora una volta in chiave normativa – della volizione.
Si pensi, per tutte, alla figura del dolus generalis, in virtù
della quale la volontà dell’azione avrebbe il potere di qualifi‑
19 M. Gallo, Ratio e struttura del dolo eventuale, in Critica dir., 1999, p. 411.
20 C. Fiore – S. Fiore, Diritto Penale. Parte generale, cit., p. 143.
2 0 1 1
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care il fatto anche quando del fatto stesso non sussistano tutti
gli elementi costitutivi. A mente della teorica in parola, infatti,
“si presume che quegli il quale intraprende l’ultima azione,
per impedire il discoprimento del delitto che crede erroneamente di aver consumato, ed approva questa ideale consumazione, avrebbe intrapreso quell’azione medesima, ad effetto di
produrre il successo del delitto pigliato di mira, ancorchè
avesse riconosciuto tempestivamente il proprio errore”21.
Tra la presunzione appena evocata ed il giudizio postula‑
to dalla formula di Frank, l’unica differenza è che la prima
opera senza dubbio contra reum, mentre la formula dovrebbe
(o meglio, vorrebbe) garantire un approfondimento più scru‑
poloso rispetto alle intenzioni dell’agente 22 .
Si tratta, in ogni caso, di giudizi presuntivi e sciolti da ogni
vincolo con la realtà, come tali non idonei a costituire ogget‑
to di giudizio nel processo penale.
In conclusione, anche se giurisprudenza e dottrina conti‑
nuano ad affinare le rispettive indagini in relazione al dolo
eventuale, non può dirsi ancora raggiunto un punto di arrivo
che fornisca una ricostruzione davvero immune da censure.
21 Questa teoria è stato formulata dal Mittermaier, Il dolo appellato generale,
in Scritti germanici di diritto criminale, 1847. Per una critica si rimanda a V.
Patalano, I delitti contro la vita, CEDAM, 1984; nonché a Id., voce Omicidio,
in Enc. Dir., vol. XXIX, p. 946.
22 Preferisce il ricorso alla formula di Frank, M. Donini, Dolo eventuale e formula di Frank nella ricettazione, cit.
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CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali, sentenza 07
novembre 2011 (ud. 14 novembre 2011), n. 40288
I contrasti risolti
dalle Sezioni unite penali
Applicazione della pena su richiesta – Condanna alla rifusione
delle spese di parte civile
La condanna alla rifusione delle spese della parte civile,
inflitta con la sentenza di patteggiamento, è censurabile in
cassazione anche in mancanza di tempestiva eccezione
***
●
A cura di Angelo Pignatelli
Avvocato
La questione di diritto devoluta alle Sezioni unite può
essere riassunta nei seguenti termini: «se sia ricorribile la
sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla condanna
alla rifusione delle spese di parte civile, in particolare per
quanto attiene alla congruità delle somme liquidate e alla
coerenza della motivazione sul punto, una volta che, sulla
relativa richiesta, proposta all’udienza di discussione, nulla
sia stato eccepito». In via preliminare si tratta, quindi, di
stabilire se la pronuncia sulle spese sostenute dalla parte ci‑
vile abbia un fondamento pattizio, dal momento che essa si
inserisce all’interno di uno schema di giustizia contrattata, e
se l’entità della somma da liquidare, così come indicata nella
nota presentata dalla stessa parte civile nel corso dell’udienza
di discussione, venga a far parte dell’accordo tra le parti,
ossia dei termini del patteggiamento.
In proposito si registrano due contrastanti orientamenti
nell’ambito della giurisprudenza di legittimità.
Un primo indirizzo interpretativo ritiene che l’accordo fra
il pubblico ministero e l’imputato, in quanto pertinente esclu‑
sivamente agli aspetti penalistici e sanzionatori, non si esten‑
de a quelli strettamente inerenti la liquidazione delle spese
sostenute dalla parte civile, la cui entità non è, pertanto, ri‑
compresa nell’accordo processuale.Proprio per consentire
siffatto controllo sulla statuizione accessoria alla sentenza di
patteggiamento, il giudice ha il dovere di fornire adeguata
motivazione (sez. 6, sentenza 03 febbraio 2006, n. 7902,
Fassina, Rv. 233698; sez. 6, sentenza 20 dicembre 2000, dep.
11 gennaio 2001, n. 3057, Fanano, Rv. 219707; cfr. inoltre,
sez. 4, sentenza 03 maggio 2006, n. 20796, Lopo, Rv. 234593
che ha affrontato il tema in modo incidentale).
Le decisioni che si collocano sull’altro versante interpreta‑
tivo argomentano che la pronuncia sulle statuizioni contenute
nella sentenza di patteggiamento in favore della parte civile,
essendo necessariamente oggetto di rappresentazione ed accet‑
tazione da parte dell’imputato che abbia avanzato l’istanza di
applicazione della pena o vi abbia aderito, viene a far parte,
pur se non espressamente, di un atto plurilaterale. Questo se‑
condo indirizzo ermeneutico non giunge, però, ad affermare il
carattere incondizionato dell’adesione all’accordo, e si pone il
problema della mancanza di conoscenza in capo alla parte - al
momento della richiesta o dell’accettazione della pena dell’ammontare e della giustificazione delle spese oggetto
dell’istanza di liquidazione della parte civile, la cui presenta‑
zione si colloca in un successivo momento processuale. A tale
riguardo osserva che è onere della parte che intenda contesta‑
re la misura delle spese richieste dalla parte civile sollevare
specifica eccezione sui contenuti della nota da quest’ultima
presentata nel corso dell’udienza. Ove nulla venga eccepito in
proposito in quella sede, è preclusa la possibilità di avanzare,
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con il ricorso per cassazione, rilievi circa la congruità delle
spese liquidate (sez. 5, sentenza 21 marzo 2008, n. 14309,
Leoni, Rv. 239491; sez. 5, sentenza 27 settembre 2002, n.
35599, Ridolfi, Rv. 222684; sez. 6, sentenza 21 gennaio 1999,
n. 2815, Mingon, Rv. 213473; sez. 5, sentenza 26 novembre
1998, dep. 18 gennaio 1999, n. 6375, Costa, Rv. 212149; sez.
3, sentenza 02 maggio 1996, n. 2000, Maranini, Rv.205469).
Sulla base di tutte le considerazioni sinora svolte può,
pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: «è ricor‑
ribile per cassazione la sentenza di patteggiamento nella
parte relativa alla condanna alla rifusione delle spese di parte
civile, in particolare per quanto attiene alla legalità della
somma liquidata e alla esistenza di una corretta motivazione
sul punto, una volta che sulla relativa richiesta, proposta
all’udienza di discussione, nulla sia stato eccepito».
CORTE DI CASSAZIONE, Sezioni unite penali, sentenza 10
g e n n a io 2 01 2 (ud . 2 9 s e t t e mb r e 2 011), n . 155
I termini processuali
Se il termine fissato per il deposito di una sentenza cade
in un giorno festivo, la scadenza slitta al giorno successivo.
***
Il quesito rimesso alle Sezioni unite chiedeva di conoscere:
«se la regola secondo cui il termine stabilito a giorni, che
scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno non
festivo, riguardi anche il termine di deposito della sentenza,
con conseguenti effetti sull’inizio di decorrenza del termine
per impugnare».
Un primo indirizzo statuiva che (sez. 3, sentenza 19 no‑
vembre 2008, dep. 2009, n. 133, Santoro, Rv. 242261; sez. 2,
sentenza 15 maggio 2008, n. 23694, Schillaci, Rv. 240622)
in materia di termini stabiliti a giorni, la proroga prevista per
i giorni festivi dall’art. 172, comma 3, c.p.p., riguarda esclu‑
sivamente la scadenza dei termini stessi, e non anche l’inizio
della loro decorrenza, la quale pertanto non potrebbe essere
prorogata di diritto, anche quando debba essere in concreto
riferita ad un giorno festivo. Da tale orientamento discende‑
rebbe nel caso di specie che il termine per l’impugnazione
dovrebbe farsi decorrere dal 13 aprile 2009, e il ricorso del
Rossi sarebbe inammissibile.
Altro indirizzo radicalmente differente dal primo risulta
quella esaminata dalla sez. 2, n. 23694 del 2008, Schillaci, e
dalle molte decisioni simili relative alla decorrenza dei termi‑
ni d’impugnazione a far data dalla cessazione del periodo
feriale (16 settembre), in situazioni in cui il termine per il
deposito della sentenza scade entro detto periodo.
Quando ciò accade, difatti, all’assenza di soluzioni di
continuità tra termini (piano normativo) non corrisponde
assenza di soluzione di continuità anche tra date del calenda‑
2 0 1 1
69
rio comune. Il giorno di inizio del termine per impugnare non
coincide più con il giorno in cui viene a cadere il termine fis‑
sato per legge o determinato dal giudice per il deposito della
sentenza, perché questo, a differenza dell’altro, non è sogget‑
to alla sospensione prevista dall’art. 1 della legge 7 ottobre
1969, n. 742 (sez.un., sentenza 19 giugno 1996, n. 7478,
Giacomini, Rv. 205335). Con la conseguenza che, ove il ter‑
mine per la redazione della sentenza venga a collocarsi in
detto periodo, la regola della decorrenza giuridica non deter‑
mina coincidenza naturale di date, perché, intervenendo
l’ulteriore regola della sospensione feriale, il termine per pro‑
porre impugnazione inizia autonomamente a decorrere dalla
fine del periodo di sospensione.
Le Sezioni unite, sulle posizioni espresse, decidono di ade‑
rire al secondo indirizzo, stabilendo che, necessariamente, bi‑
sogna verificare se l’art.172, comma 3, c.p.p., può essere appli‑
cato anche alle sentenze. La soluzione non può essere che po‑
sitiva. Nessuna indicazione normativa consente di limitare la
portata del disposto dell’art 172, comma 3, c.p.p. ai soli atti o
attività delle parti o ai soli termini perentori. La regola della
proroga del termine che cade in giorno festivo al primo giorno
immediatamente successivo non festivo, risponde, per altro, a
principio generale applicabile nei più diversi settori dell’ordi‑
namento (basterà ricordare l’art. 155, comma quarto, c.p.c.).
Neppure esiste alcuna ragione extratestuale che giustifichi
la limitazione della sfera d’applicazione della norma in esame
alla sola attività delle parti. Anche il giudice, come le parti,
dipende, per il deposito dei suoi atti dagli uffici di cancelleria.
Ove l’ultimo giorno in tesi utile coincida con un giorno festi‑
vo, la chiusura degli uffici comporterebbe, per il giudice nello
stesso modo che per le parti, l’impossibilità materiale di fru‑
ire dell’ultimo giorno utile.
In conclusione, le Sezioni unite, hanno affermato il seguen‑
te principio di diritto: «la regola per cui il termine stabilito a
giorni, il quale scade in giorno festivo, è prorogato di diritto
al giorno successivo non festivo, posta nello specifico dall’art.
172, comma 3, c.p.p., si applica anche agli atti ed ai provve‑
dimenti del giudice, e si riferisce perciò anche al termine per
la redazione della sentenza»;
«nei casi in cui, come nell’art. 585, comma 2, let. c), c.p.p.,
è previsto che il termine assegnato per il compimento di un’at‑
tività processuale decorra dalla scadenza del termine assegna‑
to per altra attività processuale, la proroga di diritto del
giorno festivo in cui il precedente termine venga a cadere al
primo giorno successivo non festivo, determina lo spostamen‑
to altresì della decorrenza del termine successivo con esso
coincidente»;
«tale situazione non si verifica ove ricorrano cause di so‑
spensione quale quella prevista per il periodo feriale che, di‑
versamente operando per i due termini, comportino una di‑
scontinuità in base al calendario comune tra il giorno in cui
il primo termine scade e il giorno da cui deve invece calcolar‑
si l’inizio del secondo».
penale
Gazzetta
70
D i r i t t o
●
Rassegna di legittimità
●
A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e Andrea Alberico
Dottore di Ricerca in Diritto Penale
Avvocato
e
p r o c e d u r a
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
Impugnazioni - Appello - Questioni di nullità - Trasmissione degli
atti - Mancata trasmissione degli atti del processo di primo grado
- Nullità a regime intermedio - Sussistenza - Condizioni
In tema di impugnazioni, la mancata trasmissione integrale alla corte d’appello degli atti del processo di primo
grado integra una nullità di ordine generale a regime intermedio, di cui la parte che intenda dedurla deve fornire prova
rigorosa mediante specifica allegazione documentale ovvero
mediante trascrizione degli atti processuali rilevanti.
Cass., sez. 5, sentenza 07 giugno 2011, n. 37370
(dep. 17 ottobre 2011) Rv. 250490
Pres. Marasca, Est. Bruno PA/Fumo, Imp. Bianchi e altri, P.M.
Iacoviello (Diff.)
(Annulla in parte senza rinvio, App. Bologna, 24 marzo
2010)
Misure cautelari - Personali - Disposizioni generali - Scelta delle
misure (criteri) - Presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia cautelare in carcere - Applicabilità al reato ex art. 74, comma
sesto, d.P.R. n. 309 del 1990 - Esclusione
La presunzione di adeguatezza esclusiva della misura
della custodia cautelare in carcere di cui all’art. 275, comma
terzo, c.p.p. non opera in relazione al reato di associazione
finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti costituita al
fine di commettere fatti di lieve entità.
Cass., sez. un., sentenza 23 giugno 2011, n. 34475
(dep. 22 settembre 2011) Rv. 250351
Pres. Lupo, Est. Siotto, Imp. Valastro, P.M. Martusciello
(Conf.)
(Annulla con rinvio, G.i.p. Trib. Messina, 18 ottobre 2010)
Misure cautelari - Personali - Estinzione – Termine di durata massima della custodia cautelare - In genere - Accertata non esecutività
della sentenza di primo grado - Ripristino della misura cautelare Decorrenza - “Dies a quo” - Data della sentenza di primo grado
Il termine di durata della custodia cautelare, ripristinata
per effetto della regressione del processo dalla fase esecutiva
alla fase di cognizione a seguito di dichiarata non esecutività
della sentenza di primo grado, riprende a decorrere dalla
data di pronuncia di quest’ultima e non già dalla data del
provvedimento del giudice dell’esecuzione che ha disposto il
regresso.
Cass., sez. 1, sentenza 14 luglio 2011, n. 33121
(dep. 05 settebre 2011) Rv. 250671
Pres. Chieffi, Rel. Caiazzo, Imp. Gremi, P.M. Gialanella
(Conf.)
(Annulla senza rinvio, G.i.p Trib. Milano, 07 febbraio 2011)
Persona giuridica - Società - In genere - Responsabilità da reato
degli enti - Falsità nelle relazioni delle società di revisione - Modifiche introdotte dal d.lgs. n. 39 del 2010 - Reato presupposto della
responsabilità - Esclusione
Il delitto di falsità nelle relazioni e nelle comunicazioni
delle società di revisione, già previsto dall’abrogato art. 174-bis
d.lgs. n. 58 del 1998 ed ora configurato dall’art. 27 d.lgs. n.
39 del 2010, non è richiamato nei cataloghi dei reati presupposto della responsabilità da reato degli enti che non menzionano le surrichiamate disposizioni e conseguentemente non
può costituire il fondamento della suddetta responsabilità. (In
motivazione la Corte ha altresì precisato che anche l’analoga
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
fattispecie prevista dall’art. 2624 c.c., norma già inserita nei
suddetti cataloghi, non può essere più considerata fonte della
menzionata responsabilità atteso che il d.lgs. n. 39 del 2010
ha provveduto ad abrogare anche il citato articolo).
Cass., sez. un., sentenza 23 giugno 2011, n. 34476
(dep. 22 settembre 2011) Rv. 250347
Pres. Lupo, Est. Sandrelli, Imp. Deloitte Touche Spa, P.M.
Martusciello (Diff.)
(Rigetta, G.u.p Trib. Milano, 03 novembre 2010)
Procedimenti speciali – Patteggiamento – Azione civile – Condanna alla rifusione delle spese della parte civile - Ricorso dell’imputato sul relativo capo della sentenza - Censure sulla congruità
della somma liquidata e sulla coerenza della motivazione, non
sollevate al momento della richiesta di liquidazione presentata
all’udienza di discussione - Ammissibilità
È ricorribile per cassazione la sentenza di patteggiamento nella parte relativa alla condanna alla rifusione delle
spese di parte civile, in particolare per quanto attiene alla
legalità della somma liquidata e alla esistenza di una corretta motivazione sul punto, una volta che sulla relativa richiesta, proposta all’udienza di discussione, nulla sia stato eccepito. (Nella specie la Corte ha annullato la sentenza di applicazione della pena, limitatamente alla liquidazione delle
spese a favore della parte civile, con rinvio al giudice competente per valore in grado d’appello, dovendosi discutere in
detta sede solo sul “quantum”).
Cass., sez. un., sentenza 14 luglio 2011, n. 40288
(dep. 07 novembre 2011) Rv. 250680
Pres. Lupo, Est. Cassano, Imp. Tizzi e altro, P.M. Spinaci
(Conf.)
(Annulla in parte con rinvio, Trib.Arezzo,s.d. Sansepolcro,
29 settembre 2010)
Reati contro il patrimonio - Delitti - Appropriazione indebita - In
genere - Somme trattenute dal datore di lavoro sulla retribuzione
del dipendente e destinate a terzi creditori di quest’ultimo - Omesso versamento - Configurabilità del reato - Esclusione
Non integra il reato di appropriazione indebita, ma mero
illecito civile, la condotta del datore di lavoro che, in caso di
cessione di quota della retribuzione da parte del lavoratore,
ometta di versarla al cessionario. (In motivazione, la Suprema
Corte ha precisato che la regola dell’acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui
che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta
nell’art. 646 c.p. Non potrà, pertanto, ritenersi responsabile
di appropriazione indebita colui che non adempia obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del
proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo).
Cass., sez. un., sentenza 25 maggio 2011, n. 37954
(dep. 20 ottobre 2011) Rv. 250592
Pres. Lupo, Est. Di Tomassi, Imp. Orlando, P.M. Ciani
(Conf.)
(Annulla senza rinvio, App. Lecce, 18 febbraio 2010)
Reati contro la Pubblica Amministrazione - Delitti - Dei Pubblici
Ufficiali - Concussione - Elemento oggettivo (materiale) - Induzione - Fattispecie
Integra il tentativo di concussione per induzione la condotta dell’ufficiale giudiziario il quale, dopo essersi introdot-
2 0 1 1
71
to nell’abitazione della vittima per eseguire un pignoramento
mobiliare, solleciti la stessa a dargli o promettergli delle prestazioni sessuali prospettandole la possibilità di una più favorevole valutazione dei beni da sottoporre all’esecuzione.
Cass., sez. 6, sentenza 06 giugno 2011, n. 34106
(dep. 15 settembre 2011) Rv. 250552
Pres. Milo, Rel. Conti, Imp. Paparo, P.M. Stabile (Conf.)
(Rigetta, App. Catanzaro, 28 giugno 2010)
Reati contro l’ordine pubblico - Delitti - Associazione per delinquere - In genere - Qualifica di organizzatore - Nozione
In tema di associazione per delinquere, la qualifica di
organizzatore spetta all’affiliato che, sia pure nell’ambito
delle direttive impartite dai capi e non necessariamente dalla
costituzione del sodalizio criminoso, esplica con autonomia
la funzione di curare il coordinamento dell’attività degli altri
aderenti ovvero l’impiego razionale delle strutture e delle
risorse associative o di reperire i mezzi necessari alla realizzazione del programma criminoso. (Fattispecie relativa
all’attività esercitata in seno al sodalizio dedito alla commissione di reati fallimentari da parte del professionista impegnatosi nella costituzione di società all’estero strumentali
all’occultamento delle risorse finanziarie distratte).
Cass., sez. 5, sentenza 07 giugno 2011, n. 37370
(dep. 17 ottobre 2011) Rv. 250491
Pres. Marasca, Est. Bruno PA/Fumo, Imp. Bianchi e altri,
P.M. Iacoviello (Diff.)
(Annulla in parte senza rinvio, App. Bologna, 24 marzo
2010)
Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - In genere - Trasferimenti infra - Gruppo - Distrazione - Configurabilità - Condizioni
In tema di reati fallimentari, integra la distrazione rilevante ai fini della bancarotta fraudolenta patrimoniale il
trasferimento di risorse tra società appartenenti allo stesso
gruppo, effettuato, senza alcuna contropartita economica, da
società che versi in gravi difficoltà finanziarie a vantaggio di
società in difficoltà economiche, posto che, in tal caso, nessuna prognosi fausta dell’operazione può essere consentita.
Cass., sez. 5, sentenza 07 giugno 2011, n. 37370
(dep. 17 ottobre 2011) Rv. 250492
Pres. Marasca, Est. Bruno PA/Fumo, Imp. Bianchi e altri,
P.M. Iacoviello (Diff.)
(Annulla in parte senza rinvio, App. Bologna, 24 marzo
2010)
Responsabile civile - Esclusione - Giudizio abbreviato - Instaurazione del rito - Automatica estromissione del responsabile civile
- Sussistenza - Apposito provvedimento del giudice - Necessità Esclusione
L’estromissione del responsabile civile nel giudizio abbreviato consegue direttamente all’accoglimento della richiesta
di instaurazione del rito alternativo anche in assenza di un
apposito provvedimento del giudice che la dichiari.
Cass., sez. 5, sentenza 07 giugno 2011, n. 37370
(dep. 17 ottobre 2011) Rv. 250489
Pres. Marasca, Est. Bruno PA/Fumo, Imp. Bianchi e altri,
P.M. Iacoviello (Diff.)
(Annulla in parte senza rinvio, App. Bologna, 24 marzo
2010)
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Stupefacenti - In genere - Associazione finalizzata a fatti di lieve
entità - Natura di reato autonomo
Il reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze
stupefacenti costituita al fine di commettere fatti di lieve
entità ex art. 74, comma sesto, d.P.R. n. 309 del 1990 costituisce fattispecie autonoma di reato e non mera ipotesi attenuata del reato di cui all’art. 74 “comma primo” d.P.R. cit.
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Cass., sez. un., sentenza 23 giugno 2011, n. 34475
(dep. 22 settembre 2011) Rv. 250352
Pres. Lupo, Est. Siotto, Imp. Valastro, P.M. Martusciello
(Conf.)
(Annulla con rinvio, G.i.p Trib. Messina, 18 ottobre 2010)
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A cura di
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
e Giuseppina Marotta
Avvocato
Circostanze aggravanti: recidiva – Concorso con altre circostanze
– Effetti e conseguenze
(art. 99 c.p.)
La recidiva, allorquando comporta un aumento di pena
superiore ad 1/3, è circostanza ad effetto speciale, per cui,
nel caso che essa concorra con altra circostanza ad effetto
speciale, come quelle di cui agli artt. 628 c.p. comma 3 e 629
c.p. comma 2, si applica soltanto la pena prevista per la
circostanza più grave, ma il giudice può (non deve) aumentarla (anche solo di un giorno e fino al massimo di 1/3, come
per qualsiasi circostanza ad effetto comune).
Corte di Appello Napoli, sez. III
sentenza 1 dicembre 2011, n. 5601
Pres. Calaselice, Est. Rizzi Ulmo
Concorso di persone nel reato: reato diverso – Elemento psichico
– Concorso anomalo
(art. 116 c.p.)
Ricorre tale ipotesi, nel caso in cui ad un soggetto, che
voleva un reato diverso da quello voluto dal correo e realizzatosi in concreto, si addebiti quest’ultimo. Per giurisprudenza costante, è necessario, ai fini della ricorrenza di tale
figura, che, accanto ad un rapporto di causalità materiale,
ve ne sia anche un altro di causalità psichica, nel senso che il
reato diverso e/o più grave commesso dal concorrente deve
rappresentarsi nella psiche dell’agente come uno sviluppo
logicamente prevedibile di quello voluto. Il giudizio di prevedibilità è escluso solo laddove il reato diverso consista in
un evento atipico, del tutto eccezionale ed imprevedibile.
Trib. Nola, G.i.p. Borrelli
ordinanza 11 gennaio 2011, n. 18356
Corruzione: fine proposto dall’agente – Irrilevanza
(art. 322 c.p.)
Il reato di corruzione non sussiste se mancai l’idoneità
potenziale dell’offerta o della promessa a conseguire lo scopo
perseguito dall’autore, per l’evidente quanto assoluta impossibilita del pubblico ufficiale di tenere il comportamento illecito richiestogli. A nulla rileva, dunque la tenuità della somma
di denaro del valore della cosa offerta al pubblico ufficiale,
giacche tale. requisito non soltanto non esclude il reato, per
la cui consumazione è irrilevante il verificarsi del fine proposto dall’agente, ma addirittura lo può rendere maggiormente
lesivo del prestigio del pubblico ufficiale, che viene implicitamente ritenuto persona suscettibile di venir meno ai propri
doveri anche in ragione di un’offerta minima.
Trib. Napoli, sez. XI
sentenza 26 ottobre 2011, n. 14106
Pres. Albanese, Est. Riccio
Danneggiamento seguito da incendio: elementi costitutivi
(art. 424 c.p.)
Il reato di danneggiamento seguito da incendio richiede,
come elemento costitutivo, il sorgere quanto meno di un
pericolo di incendio, sicché non è ravvisabile qualora il fuoco appiccato abbia caratteristiche tali che da esso non possa
sorgere detto pericolo; in questa eventualità o in quella nella
quale chi, nell’appiccare il fuoco alla cosa altrui al solo scopo
penale
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CODICE PENALE
Rassegna di merito
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di danneggiarla, raggiunge l’intento senza cagionare né un
incendio né il pericolo di un incendio, è configurabile il reato
di danneggiamento di cui all’art.635 c.p. (a fronte del quale
le ipotesi di cui agli art. 423-424 c.p. si pongono come fattispecie speciali). Se, per contro, detto pericolo sorge o se segue
l’incendio, il delitto contro il patrimonio diventa più propriamente un delitto contro la pubblica incolumità, e trovano
applicazione, rispettivamente, gli articoli 423 e 424 c.p.
Trib. Riesame Napoli, sez. feriale
ordinanza 1 agosto 2011, n. 5676
Pres. Pellecchia, Est. Bottillo
Estorsione: elemento oggettivo
(art. 629 c.p.)
Il delitto di estorsione può essere volto a costringere taluno non solo a fare, ma anche ad omettere qualcosa (cfr. art.
629 c.p. comma 1). E’ configurabile, infatti, l’estorsione allorquando il soggetto agente intende costringere la vittima a
rinunciare alla tutela di un suo diritto di credito (cfr. Cass.,
sez. 2, n° 34900/08).
Corte di Appello di Napoli, sez. III
sentenza 1 dicembre, n. 5601
Pres. Calaselice, Est. Rizzi Ulmo
Estorsione: minaccia – Caratteristiche
(art. 629 c.p.)
La minaccia, quale elemento costitutivo del delitto di
estorsione, non richiede necessariamente che la coartazione
avvenga attraverso la prospettazione di un male irreparabile,
tale da non lasciare al soggetto passivo alcuna libertà di scelta, essendo sufficiente la prospettazione di un male che, in
relazione alle circostanze che l’accompagnano, sia tale da far
sorgere nella vittima il timore di un concreto pregiudizio.
Trib. Napoli, sez. XI
sentenza 26 settembre 2011, n. 12015
Pres. Albanese, Est. Riccio
Estorsione: minaccia implicita – Caratteristiche
(art. 629 c.p.)
Colui che, per i legami con l’autore del furto o per essere
egli stesso l’autore di siffatto reato conduca le trattative volte a
far ottenere al derubato la restituzione della refurtivacontro
pagamento di una somma, deve essere ritenuto responsabile del
delitto di estorsione, ovvero di concorso in essa. In tal caso,
infatti, la costrizione richiesta per l’integrazione del suddetto
delitto è determinata dalla minaccia implicita, contestuale alla
stessa richiesta di pagamento, essendo il derubato consapevole
del fatto che l ‘omesso versamento si tradurrebbe nella perdita
definitiva del bene sottratto. E’innegabile che, in siffatta evenienza, sull’animo del derubato agisce una pressione morale
correlata alla alternativa - tra il pagare o il perdere definitivamente la possibilità di rientrare in possesso del bene.
Trib. Napoli, sez. XI
sentenza 26 settembre 2011, n. 12015
Pres. Albanese, Est. Riccio
Estorsione: intermediazione per la restituzione del bene sottratto – Sussistenza del reato
(art. 629 c.p.)
E’ ravvisabile il concorso nel reato di estorsione nella
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Gazzetta
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condotta di chi,avvenuta la sottrazione di un bene alla vittima, si adoperi, fungendo da intermediario, per il riottenimento di detto bene, previa esborso di denaro, da parte
della vittima stessa, in favore di coloro che detto bene detengano. II meccanismo estensivo della punibilità non opera,
solo quando si realizzi una pluralità di condizioni, riassumibili nell’avere l’intermediario agito nell’interesse esclusivo
della vittima, su incarico di questa e per motivi di solidarietà
umana, senza conseguire alcuna parte del prezzo o al più
ricevendo un modesto premio elargito in modo spontaneo
dal derubato medesimo.
Trib. Napoli, sez. XI
sentenza 26 settembre 2011, n. 12015
Pres. Albanese, Est. Riccio
Estorsione – Truffa: criteri distintivi
(art. 629 c.p. - 640 c.p.)
La prospettazione di un male futuro per la vittima in
termini di evento certo e realizzabile ad opera del soggetto
agente o di altri,integra il reato di estorsione e non quello di
truffa, poiché in tal caso la vittima è posta nella ineluttabile
alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di
subire il male minacciato .
Corte di Appello di Napoli, sez. I
sentenza 13 ottobre 2011, n. 4668
Pres. Marotta, Est. Santaniello
Falsità: falso inutile – Presupposti
(art. 479 c.p.)
Non è punibile, in quanto innocua, la falsità che si riveli
in concreto inidonea a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità del documento, vale a dire quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico. La lesione della
fede pubblica e, quindi il concreto pregiudizio del bene giuridico tutelato nei reati di falso, è insita però nelle falsità
documentali in atti pubblici, sicché in ordine a questi non è
mai concepibile il falso innocuo se non nel caso in cui esso
incida si un documento inesistente o assolutamente nullo. Ne
consegue che soltanto la inesistenza giuridica del documento
fa venir meno la tutela penale in caso di falsità e non anche
la semplice nullità o annullabilità dell’atto.
Trib. Nola, G.M. Critelli
sentenza 31 ottobre 2011 n. 2373
Falsità: elemento soggettivo
(art. 479 c.p.)
Il reato di falso, richiede quale elemento costitutivo il
solo dolo generico, consistente nella volontarietà e consapevolezza della falsificazione non essendo richiesto l’animus
nocendi o decipiendi sicchéle motivazioni poste all’origine
dell’azione possono entrare nella valutazione dei fatti al fine
di commisurare equamente la sanzione da irrogare.
Trib. Nola, G.M. Critelli
sentenza 31 ottobre 2011 n. 2373
Incendio: elementi costitutivi e differenza con il reato di danneggiamento seguito da incendio
(art. 423 c.p. - 424 c.p.)
Le due fattispecie (reati di pericolo presunto) differiscono
sotto il profilo dell’elemento psicologico.
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Ed invero, l’elemento psicologico del delitto di cui all’art.
423 c.p. consiste nel dolo generico, cioè nella volontà di cagionare un incendio, inteso come combustione di non lievi
proporzioni, che tenda ad espandersi e non possa facilmente
essere contenuta e spenta; viceversa, il reato di cui all’art.424
c.p. è, invece, connotato dal dolo specifico, consistente nel
voluto impiego del fuoco al solo scopo di danneggiare, senza
la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche
suindicate o il pericolo di un tale evento. In altri termini, nel
primo caso l’agente vuole che si sviluppi un incendio, mentre,
nell’ipotesi dell’art.424 c.p., vuole solo danneggiare con il
fuoco. Nel caso di incendio commesso al fine di danneggiare,
quando a detta ulteriore e specifica attività si associa la coscienza e volontà di cagionare un fatto di entità tale da assumere le dimensioni previste dall’art. 423 c.p. è applicabile
tale norma e non già l’art. 424 c.p. nel quale l’incendio è
contemplato come evento che esula dall’intenzione dell’agente, ponendosi come condizione oggettiva di punibilità e, come
tale, estranea al dolo. Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione ha precisato che l’esistenza e la natura del dolo, elemento appartenente all’interiorità psichica e, come tale, insuscettibile di diretta osservazione, devono essere desunte da elementi esteriori, in specie dallo svolgimento e dalle modalità
esecutive del fatto, atti a dimostrare, secondo regole di esperienza consolidate e affidabili, l’atteggiamento psicologico
dell’agente e la finalità da lui perseguita (cfr. Cass. pen. sez.
1, sentenza n. 11026 del 10/06/1998; Cass. pen. sez. 1, sentenza n. 6250 del 03/02/2009 Imputato: Cerasuolo).
Trib. Riesame Napoli, sez. feriale
ordinanza 1 agosto 2011, n. 5676
Pres. Pellecchia, Est. Bottillo
od a ferire la vittima, con esclusione assoluta di ogni previsione dell’evento morte; nell’omicidio volontario la volontà
dell’agente consiste nell’intenzione di uccidere, intesa quale
dolo intenzionale (sia diretto che eventuale).
Trib. Nola, G.i.p Borrelli
ordinanza 11 gennaio 2011, n. 18356
Maltrattamenti in famiglia: atti lesivi episodici – Esclusione del
reato
(art. 572 c.p.)
Non integra il delitto di maltrattamenti in famiglia la
consumazione di episodici atti lesivi di diritti fondamentali
della persona non inquadrabili in una cornice unitaria caratterizzata dall’imposizione ai soggetti passivi di un regime di
vita oggettivamente vessatorio.
Trib. Napoli, G.M. Buono
sentenza 17 ottobre 2011, n. 13374
Resistenza al pubblico ufficiale: elementi costitutivi – Rapporti
con il delitto di lesioni personali
(art. 337 c.p.)
Nel delitto di resistenza è assorbito soltanto quel minimo
di violenza che si concreta nelle percosse e non già quegli
atti che esorbitando da tali limiti, siano causa di lesioni personali. In questa ultima ipotesi, l’ ulteriore delitto di lesione,
stante il suo carattere autonomo rispetto alla resistenza -attesa la diversità degli eventi e dei beni giuridici tutelati permette di ravvisare il concorso formale. Anzi essendo le lesioni non fini a sè stesse, ma poste in essere allo scopo di resistere al Pubblico Ufficiale, si realizza il presupposto per la sussistenza dell’aggravante della connessione teleologica, che
consente di adeguare convenientemente la pena al maggior
disvalore penale del fatto.
Trib. Napoli, G.M. Riccio
sentenza 28 ottobre 2011, n. 14694
Omicidio volontario e preterintenzionale: caratteristiche e differenze
(art. 575 e 584 c.p.)
In merito ai rapporti tra le fattispecie di cui agli artt. 116
c.p. e 584 c.p. va detto che, nel caso della preterintenzione,
non vi è spazio per l’applicazione della fattispecie di cui
all’art. 116 c.p., laddove quest’ultima norma si applica solo
quando vi sia un autore principale che vuole l’evento ed un
altro che ne risponde in via attenuata (secondo i parametri
della norma citata), mentre, nel caso dell’omicidio preterintenzionale, nessuno dei concorrenti ha voluto l’evento morte,
che è conseguito tuttavia alla commissione dei reati di cui agli
artt. 581 e 582 c.p. Deve dirsi anche - affrontando nel concreto altre problematiche applicative - che il criterio distintivo fra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale è
tutto nell’elemento psicologico, atteso che, nell’ipotesi di cui
all’art. 584 c.p., la volontà dell’agente è diretta a percuotere
Resistenza al pubblico ufficiale: spintonamento e strattonamento – Configurabilità del reato
( art. 337 c.p.)
Ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 337 c.p.
è necessario il verificarsi di atti positivi d’aggressione o di
minaccia che impediscano al pubblico ufficiale di compiere
l’atto del proprio ufficio, rimanendo al di fuori della fattispecie un comportamento di mera disobbedienza o resistenza
passiva. Lo spintonamento e lo strattonamento, oltre ad essere di per se qualificabili come atti idonei ad impedire l’atto
dell’ ufficio degli operanti, si sono connotati per la particolare forza impressa, tale da richiamare l’attenzione di una
seconda pattuglia di polizia che è dovuta in concreto intervenire in aiuto degli agenti a cui l’imputato si opponeva. Si
ritiene, pertanto, sussistano elementi certi per ravvisare la
penale responsabilità in ordine al reato di resistenza a pubblico ufficiale, sebbene occorra considerare che la condotta
di resistenza e stata seguita da una sorta di successivo ravvedimento dell’imputato, consistito nel fornire le proprie generalità consegnando la propria patente di guida, rendendosi
per tale via meritevole della concessione delle circostanze
attenuanti generiche.
Trib. Napoli, G.M. Buono
sentenza 17 ottobre 2011, n. 13374
Revoca della sospensione condizionale della pena: presupposti e
condizioni
(art. 168 c.p.)
Il disposto dell’art. 168 c.p., comma 1, deve essere interpretato nel senso che la revoca della sospensione condizionale della pena deve essere sempre disposta, senza limiti e
condizioni, quando sia stata concessa per più di una volta
ovvero per più di due volte nel caso previsto dall’art. 164 c.p.,
ultimo comma, revoca adottabile anche da parte del giudice
dell’esecuzione ai sensi dell’art. 674 c.p.p.. Ne consegue che
penale
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D i r i t t o
e
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anche in sede esecutiva, se la sospensione condizionale concessa per la seconda volta, venga ad essere soggetta a revoca
per effetto di una condanna successiva, si determina la revoca anche del beneficio concesso con la prima sentenza di
condanna nonché la revoca del beneficio concesso erroneamente, come nel caso in esame, per la terza volta, in presenza delle condizioni di cui all’art.168 comma 1 nn. 1 e 2 c.p.
Trib. Napoli, sez. I, coll. B)
ordinanza 20 ottobre 2011, n. 185
Pres. Pellecchia, Est. Bottillo
Scriminati: eccesso colposo in legittima difesa
L’eccesso colposo nella legittima difesa sottintende, i
presupposti della scriminante col superamento dei limiti a
quest’ultima collegati e deve essere accertato con riferimento
all’esistenza di una determinata situazione fattuale tale da
giustificare un errore di valutazione vertente sull’adeguatezza e sulla proporzione della reazione all’altrui azione.
Trib. Nola, G.u.p Borrelli
sentenza 19 gennaio 2011, n. 37
Scriminati: legittima difesa putativa – Operatività e presupposti
(art. 59 u.c. c.p.)
Nella legittima difesa putativa la situazione di pericolo
non sussiste obiettivamente ma è supposta dall’agente sulla
base di un errore, scusabile o non, nell’apprezzamento dei
fatti, determinato da una situazione obiettiva atta a far sorgere nel soggetto la convinzione di trovarsi in presenza del
pericolo attuale di un’offesa ingiusta, di talché, in mancanza
di dati di fatto concreti, l’esimente putativa non può ricondursi ad un criterio di carattere meramente soggettivo identificato dal solo timore o dal solo stato d’animo dell’agente.
Trib. Nola, G.u.p. Borrelli
sentenza 19 gennaio 2011, n. 37
Tentato omicidio: elementi costitutivi e criteri di accertamento
(art. 56, 575 c.p.)
Per la configurabilità della fattispecie di tentato omicidio
sono richiesti l’idoneità dell’azione a cagionare l’evento lesivo, ovvero a porre in pericolo la vita della vittima e la direzione univoca degli atti, orientati obiettivamente a provocare l’evento morte. Il percorso attraverso il quale può giungersi ad un giudizio di questo tipo è quello della cd. prognosi
postuma, vale a dire di una valutazione che tenga conto delle circostanze prevedibili e del contesto in cui l’azione è stata
posta in essere; è evidente che ciò deve prescindere dagli effetti realmente raggiunti, dovendo altrimenti concludersi, in
ogni caso, per l’inidoneità dell’azione stessa, stante il mancato verificarsi dell’evento che caratterizza strutturalmente
il delitto tentato.
Trib. Nola, G.u.p Borrelli
sentenza 19 gennaio 2011, n. 37
Tentato omicidio: elemento soggettivo – Animus necandi
(art. 56,575 c.p.)
Quanto al profilo psicologico del delitto di tentato omicidio,
è necessaria la prova dell’animus necandi il cui accertamento è
necessariamente indiretto, attraverso un processo logico deduttivo da elementi e fatti oggettivi esterni e dai connotati stessi
della condotta obiettivamente indicativi del fine perseguito
p e n a l e
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dall’agente i quali, con l’ausilio delle massime di esperienza,
consentono di ricavare la prova indiziaria della volontà di cagionare la morte. In altri termini, l’aspetto oggettivo e quello
soggettivo si intersecano laddove hanno valore determinante,
ai fini dell’accertamento dell’elemento psicologico, proprio
l’idoneità ed univocità degli atti. L’elemento psicologico del
delitto deve ritenersi integrato non solo quando l’agente ha
agito con l’intenzione diretta di uccidere (dolo intenzionale), ma
anche quando si è rappresentato l’evento morte come possibile
o probabile conseguenza della propria condotta che, ciononostante, ha posto in essere e voluto (dolo diretto o alternativo).
In altri termini, in tal caso l’agente si rappresenta e vuole indifferentemente l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (morte o lesioni),
sicché al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo
del reato egli deve prevederli entrambi.
Trib. Nola, G.u.p Borrelli
sentenza 19 gennaio 2011, n. 37
Violazione degli obblighi di assistenza familiare: natura degli
obblighi di assistenza
(art. 570 c.p.)
All’interno della cornice unitaria del sottrarsi agli obblighi di assistenza, il legislatore ha individuato due distinte
note modali, due modi diversi di concretizzazione dell’offesa
al bene giuridico, ossia, da un lato l’abbandono del domicilio
domestico (condotta questa che proietta all’estremo il disinteressamento ed il ripudio degli obblighi assistenziali verso il
nucleo familiare); all’altro, il serbare una condotta contraria
all’ordine o alla morale delle famiglie. Circa quest’ultima
modalità, il venir meno agli obblighi di assistenza da parte
dell’autore del reato si riempie di contenuti che vengono
mutuati dal contesto sociale di riferimento, sicché si assumono violativi della norma i contegni a valenza disgregante
cosi riconosciuti a livello sociale. Giova precisarsi inoltre che
per obblighi di assistenza, ai sensi della norma, devono intendersi anzitutto gli obblighi giuridici inerenti alla qualità
di coniuge o a quella di genitore, cosi come sono delineati
dall’ordinamento (artt. 143, 147, C.c., 29, 30,Cost.).
Trib. Napoli, G.M. Riccio
sentenza 12 ottobre 2011, n. 13014
CODICE DI PROCEDURA PENALE
Dibattimento: lettura delle dichiarazioni di straniero irreperibile
– Condizioni
(art. 512 bis c.p.)
Non può dirsi prevedibile l’irreperibilità in dibattimento
del soggetto dichiarante per il solo fatto che egli sia un cittadino extracomunitario privo di permesso di soggiorno.
Corte di Appello di Napoli, sez. III
sentenza 1 dicembre 2011, n. 5601
Pres. Calaselice, Est. Rizzi Ulmo
Dichiarazioni indizianti: carattere di indizi - Utilizzabilità – Criteri
(art. 63 c.p.p.)
In merito al tipo e alla consistenza degli elementi apprezzabili dal giudice, al fine di verificare l’effettivo status del
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
dichiarante, devono ritenersi rilevanti i soli indizi non equivoci di reità, sussistenti già prima dell’escussione del soggetto e conosciuti dall’autorità procedente. Gli indizi di reità
devono riguardare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie ipotizzata, difettando anche uno solo dei
quali il soggetto non può ritenersi indizianti. Sono escluse
dalla sanzione di inutilizzabilità le affermazioni che si risolvano in favore del dichiarante e dei terzi ovvero, rispetto ad
essi, siano indifferenti.
Trib. Nola, G.i.p Borrelli
ordinanza 11 gennaio 2011, n. 18356
Valutazione della prova: deposizione della persona offesa – Criteri
(art. 192 c.p.p.)
Una persona offesa è riconosciuta capace di testimoniare
a condizione che la sua deposizione, non sia immune da sospetto per essere la parte portatrice di interessi in posizione di
antagonismo con quelli dell’ imputato che sono ovviamente
amplificati in caso di costituzione di parte civile. E’ pero anche
opportuno precisare che, non configurando il dettato normativo alcuna pregiudiziale di natura ontologica alla utilizzabilità della stessa deposizione quale prova ex se esaustiva per la
affermazione della responsabilità penale, eventuali riscontri
estrinseci, se acquisiti, non devono necessariamente presentare le connotazioni che si richiedono per la verifica.
Trib. Napoli, G.M. Riccio
sentenza 12 ottobre 2011, n. 13402
LEGGI PENALI SPECIALI
Armi: detenzione di pistola estera clandestina - Caratteristiche
(art. 23 co. 3 l. 110 / 75)
I contrassegni che devono essere presenti su un’arma
prodotta all’estero sono previsti dal primo comma dell’art.
11 l. 110 / 75: 1) la sigla o il marchio, idonei ad identificarle
2) il numero di iscrizione del prototipo o dell’esemplare nel
catalogo nazionale 3) il numero progressivo di matricola 4)
l’indicazione del luogo di produzione e della sigla della Repubblica Italiana o di altro Paese, nel caso di importazione
dell’arma da Paese esterno all’U.E.. Le armi devono essere
presentate al Banco nazionale di prova di Gardone Valtrompia, che ha il compito di accertare che le armi o le canne ivi
presentate rechino le indicazioni prescritte nel primo comma
(dell’art. 11 cit.) e di imprimere sulle stesse uno speciale contrassegno con l’emblema della Repubblica Italiana e la sigla
di identificazione del banco o della sezione. Detta operazione deve essere annotata con l’attribuzione di un numero
progressivo in apposito registro da tenersi a cura del Banco
o della sezione. Le armi comuni da sparo prodotte all’estero
devono recare in ogni caso i contrassegni di cui al primo
comma, mentre solo se recano i punzoni di prova di uno dei
banchi riconosciuti per legge in Italia, non sono assoggettate
alla presentazione al Banco di prova di Gardone Valtrompia
(cfr. comma 3 art. 11 cit. ) Qualora l’arma non sia dotata dei
contrassegni predetti, sarà cura di chi possiede l’arma o
dell’importatore assicurare i relativi adempimenti. Insomma
è pacifico che le armi prodotte all’estero, debbano recare i
contrassegni di cui al comma 1 dell’art. 11 e che possano
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essere esonerate solo dal “passaggio“ al Banco Nazionale e
solo se già validate da altro banco riconosciuto.
Trib. Nola, G.u.p Borrelli
sentenza 30 marzo 2011, n. 188
Circolazione stradale: conversione di patenti di guida estere –
Presupposti
(art. 136 c.d.s.)
A carico dello straniero, residente in Italia da oltre un
anno, che si pone alla guida di un veicolo in possesso di una
patente rilasciatagli dal suo paese d’origine e non convertita,
vanno ravvisati gli estremi della violazione amministrativa,
di cui all’art. 136, comma 7, c.d.s., e non il reato di cui all’art.
116 co. 13 c.d.s, anche se lo stato estero non faccia parte
dell’Unione europea.
Trib. Nola, G.i.p Borrelli
sentenza 30 agosto 2011, n. 402
Circostanze aggravanti: aggravante del metodo mafioso - Presupposti e condizioni
(art. 7 l. 203/91)
La sussistenza dell’aggravante di cui all’art. l. 203/91 può
manifestarsi in forma implicita, poiché in tema di estorsione,
integra la circostanza aggravante dell’uso del metodo mafioso la condotta di colui che prospetti l’utilizzo delle somme
estorte per aiutare le famiglie degli “amici carcerati”, non
rilevando in proposito che l’esistenza dell’organizzazione
criminale non sia stata menzionata nel contesto delle richieste estorsive, in quanto il mezzo di coartazione della volontà
facente ricorso al vincolo mafioso, e alla connessa condizione di assoggettamento, può esprimersi in forma indiretta, o
anche per implicito.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 30 settembre 2011, n. 5565
Pres. Est. Catena
Circostanze aggravanti: aggravante del metodo mafioso – Valutazione – Criteri
(art. 7 l. 203/91)
La sussistenza della citata aggravante va comunque valutata caso per caso, alla luce delle specifiche circostanze, anche
perché, altrimenti, si giungerebbe, di fatto, nelle regioni fortemente connotate da fenomeni di criminalità organizzata,
all’esclusione pressoché totale di fenomeni estorsivi semplici,
al di là, cioè, di quelli inquadrabili in un contesto di criminalità organizzata puramente e semplicemente. Non a caso, la
giurisprudenza di legittimità ha comunque affermato che “Ai
fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui
all’art. 7, legge n. 203 del 1991 è necessario l’effettivo ricorso,
nell’occasione delittuosa contestata, al metodo mafioso, il
quale deve essersi concretizzato in un comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata e non può essere desunto dalla mera reazione delle
stesse vittime alla condotta tenuta dall’agente.” (Cass. pen.,
sez. VI, sentenza del 2 aprile 2007, n. 21342, Mauro); inoltre
“In tema di reati di criminalità organizzata, la circostanza
aggravante di cui all’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella l. n. 203 del 1991, può qualificare anche la
condotta di chi, senza essere organicamente inserito in un’as-
penale
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
sociazione mafiosa, offra un contributo al perseguimento dei
suoi fini, a condizione che tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziari o sintomatici, da una
cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio
criminale” (Cass. pen., sez. VI, sentenza del 13.11.2008, n.
2696, P.M. in proc. D’Andrea).
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 30 settembre 2011, n.5565
Pres. Est. Catena
Circostanze aggravanti: aggravante del metodo mafioso – Riferimento generico agli “amici” – Esclusione della aggravante
(art. 7 l. 203/91)
Il riferimento generico agli “amici”, non accompagnato
da nessun elemento specifico che possa far ritenere che con
detta locuzione fosse assolutamente evidente e percepibile il
riferimento a strutture organizzate di tipo camorristico,
piuttosto che, semplicemente, a gruppi di criminalità comune, non essendo, ad esempio, stato fatto riferimento ai detenuti, come di norma avviene da parte di organizzazioni camorristiche, né a corresponsioni a scadenze fisse, rendono
una richiesta estorsiva inequivoca quanto al contenuto ma
non anche univoca o certa quanto alla sua provenienza, né
potendosi detta provenienza darsi per scontata, deducendo
la medesima da una sorta di connotazione territoriale di
matrice necessariamente camorristica che porti alla ontologica esclusione di fenomeni afferenti a contesti associativi
semplici ex art. 416 c.p.
Corte di Appello di Napoli, sez. II
sentenza 30 settembre 2011, n. 5565
Pres. Est. Catena
Esercizio abusivo delle attività finanziarie: soggetto agente
(art. 132 TULB)
Il reato di esercizio abusivo delle attività finanziarie, - di
cui all’art. 132 cit. -, è un reato di pericolo e può essere posto
in essere da chiunque, all’interno di una struttura professionale, sia pure non strutturata, dia luogo ad una delle specifiche condotte previste dall’art. 106 TULB senza essere previamente iscritto nell’elenco appositamente previsto dalla
medesima disposizione.
Trib. Nola, G.u.p Campoli
sentenza 19 ottobre 2011, n. 476
Esercizio abusivo delle attività finanziarie: requisiti e condotta
penalmente rilevante
(art. 132 TULB)
Requisiti fondamentali affinché l’attività finanziaria rientri nell’ambito del precetto penale sono che la stessa sia svolta
“nei confronti del pubblico”, intendendosi per tale un agire
avulso da qualsiasi occasionalità sebbene non necessariamente declinato in termini quantitativi, e che sia connotata da un
grado di abitualità atteso l’utilizzo da parte del legislatore di
una terminologia - quale quello dello svolgere - ed un rimando
- quale quello all’art. 106 cit. che elenca una serie specifica di
operazioni - assolutamente espliciti e tali da coniugare la ratio
della norma, e cioè quello di impedire l’operatività di un’attività finanziaria, alternativa a quella dei circuiti ufficiali, che
si sottragga ai controlli ed ai poteri ispettivi della Banca d’Italia (ed in precedenza dell’Ufficio Italiano Cambi), quest’ultimi
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
finalizzati alla tutela del risparmio ed all’impedimento di
condotte usurarie. Alla luce di tali premesse solo una reiterazione delle suddette attività finanziarie ex art. 106 TULB, - tra
loro eventualmente collegate da un nesso di abitualità -, fosse
anche nei confronti di un unico soggetto ed a mezzo di un’organizzazione professionale non strutturata ma potenzialmente in grado di raggiungere un numero non determinato di
utenti -, consente di configurare l’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 132 cit. tanto che, di converso, può affermarsi che
singole e/o plurime operazioni di quella medesima natura, ove
svincolate da tali presupposti fattuali, sono prive di rilevanza
penale. Ciò che contraddistingue l’illiceità (=abusività) penale
non è, pertanto, la tipologia dell’attività finanziaria posta in
essere, - ben potendo, ad esempio, un privato erogare un mutuo con tasso legale ad un altro privato -, bensì la loro protrazione (=reiterazione) nel tempo e la potenziale diffusività del
comportamento in favore di più soggetti.
Trib. Nola, G.u.p Campoli
sentenza 19 ottobre 2011, n. 476
Esercizio abusivo delle attività finanziarie: differenza con l’ipotesi contravvenzionale di cui alla lett. a)
(art. 132 TULB)
Sussiste l’ ipotesi contravvenzionale, sub lett. a) art. 132,
laddove le attività finanziarie di cui all’art. 106 cit. sono sì
poste in essere da parte di un soggetto non iscritto nell’apposito elenco previsto dalla stessa norma ma senza quelle caratteristiche di diffusività nei confronti del pubblico necessarie per configurare la fattispecie delittuale. L’aver distinto, da
parte del legislatore, una figura contravvenzionale ed una
delittuale nell’ambito dello stesso spazio comportamentale,
- laddove l’unica differenza tra esse è data dall’assenza dell’indirizzo al pubblico -, consente di affermare che l’area
dell’abusività riguarda non le attività finanziarie in sé bensì
la loro diffusività, tale da compromettere quella opportuna
sorveglianza che in tal caso dev’essere dispiegata dalla Banca
d’Italia per impedire una raccolta di risparmio priva di garanzie e/o un indirizzo dello stesso verso terzi con strumenti
che non tutelino l’utenza.
Trib. Nola, G.u.p Campoli
Sentenza 19 ottobre 2011, n. 476
Favoreggiamento della prostituzione: condotta penalmente rilevante
(l. 75/1958)
Il favoreggiamento della prostituzione comprende ogni
ipotesi di attività accessoria che offre ad una prostituta il
mezzo per realizzare il suo proposito di prostituirsi o che
comunque favorisca l’effettuazione delle prestazioni in cui si
concreta l’opera delle meretrici, non richiedendosi una reiterazione del comportamento, essendo sufficiente una sola
azione avvinta da un nesso di causalità all’esercizio del meretricio. Il delitto di sfruttamento della prostituzione si
configura poi con l’accettazione da parte dell’agente di ciò
che la prostituta si procura facendo commercio del suo corpo
così ottenendo utilità illegittime e non si richiede per la sussistenza del reato che da parte dello sfruttatore venga realizzata una condizione di vita parassitaria nel senso che egli
vive traendo i mezzi necessari di sussistenza unicamente e
totalmente dalla sua attività sfruttatrice della prostituzione
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
altrui. Pertanto, sussiste sfruttamento della prostituzione
altrui ogni qualvolta si concreti, in qualsiasi forma e senza
necessita di prefissata proporzione. una partecipazione anche
occasionale e per una sola volta. ai guadagni che la prostituta si procura con il commercio del proprio corpo, con la
volontà libera e consapevole di ricevere denaro o altre utilità
conosciute come provenienti da detto commercio.
Trib. Napoli sez. XI
sentenza 26 settembre 2011, n. 12009
Pres. Albanese, Est. De Gennaro
Guida in stato di ebbrezza: accertamento – Criteri
(art. 186 c.d.s.)
Ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui
all’art. 186 c.d.s. è sufficiente accertare lo stato di ebbrezza
del conducente del veicolo, ossia lo stato di alterazione psicofisica derivante dall’influenza dell’alcool.
Trib. Nola, G.M. Di Iorio
sentenza 18 ottobre 2011, n. 2232
Immissioni in atmosfera:impianto mobile – Autorizzazioni – Necessità
(d.lgs. 152/2006)
L’autorizzazione alle emissioni in atmosfera è necessaria
non solo nel caso di un impianto fisso, ma anche nel caso di
un impianto mobile, in quanto l’oggetto dell’autorizzazione
è costituito dall’impianto produttivo nella sua struttura globale e non dalle singole macchine utilizzate per l’espletamento dell’attività produttiva. Essendo tale reato un reato formale o di condotta, esso è integrato per il sol fatto di aver
omesso di richiedere l’autorizzazione anche nel caso in cui
l’impianto non superi di fatto detti limiti.
Trib. Nola, G.O.T. Sabato
sentenza 3 ottobre 2011, n. 2052
Inquinamento delle acque: reflui industriali – Acque meteoriche
– Differenze e caratteristiche.
(art. 137 d.lgs. 152/2006)
In virtù della legge 152/2006 non è prevista la automatica equiparazione delle acque meteoriche di dilavamento ai
reflui industriali, a meno che le stesse si mescolino con sostanze inquinanti provenienti da edifici o impianti in cui si
svolgono attività commerciali o di produzioni immesse per
iniziativa e volontà umana nel ciclo produttivo.
Trib. Riesame di Napoli, sez. feriale
ordinanza del 27 luglio 2011
Pres. Pellecchia, Est. Bottillo
Inquinamento delle acque: esposizione di veicoli in piazzale di
sosta – Esclusione dal novero delle attività di trasformazione.
(art.137 d.lgs. 152/2006)
L’attività di mera esposizione di veicoli in piazzale di
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sosta, non costituendo attività di trasformazione o produzione di beni, non comporta oggettivamente in sé il rischio che
le acque meteoriche, cadendo al suolo, possano trascinare
sostanze residue pericolose o inquinanti per l’ambiente, per
cui sono assimilabili alle acque domestiche e quindi devono
inquadrarsi nella categoria dei reflui urbani per i quali l’assenza di autorizzazione non integra la fattispecie penale ma
l’illecito amministrativo.
Trib. Riesame di Napoli, sez. feriale
ordinanza del 27 luglio 2011
Pres. Pellecchia, Est. Bottillo
Rifiuti: attività di recupero – Autorizzazione – Necessità.
(d.lgs. 22/97)
in tema di gestione di rifiuti il possesso di un’autorizzazione per l’attività di recupero dei rifiuti non legittima l’esercizio da parte dello stesso soggetto, della medesima attività
in luogo diverso da quello in relazione al quale venne originariamente presentata istanza, atteso che le finalità di controllo perseguite in materia risultano soddisfatte solo se
sussiste legame con le caratteristiche tecniche dell’impianto
per il quale l’autorizzazione risulta inizialmente rilasciata.
Trib. Nola, G.O.T. Sabato
sentenza 3 ottobre 2011, n. 2052
Rifiuti: materiali provenienti da demolizioni – Rifiuti speciali.
(d.lgs. 152/06)
In tema di rifiuti, anche dopo l’entrata in vigore della l.
21/12/2001 n. 443 continuano a costituire rifiuti speciali ai
sensi dell’art. 7 co. 3 lett. b) d.lgs 5/2/1997 n. 22 ora confluito nel d.lgs. n. 152/2006, quelli derivanti da attività di demolizione e costruzione che, incidendo su edifici, sono
strutturalmente diverse dall’attività di scavo, che incide su
terreni e per i cui prodotti soltanto l’art. 1 co. 17 citata legge
n. 443, prevede la esclusione dall’ambito di applicazione del
decreto legislativo n. 22, che li considerava rifiuti speciali.
Trib. Nola, G.O.T. Sabato
sentenza 3 ottobre 2011, n. 2052
Sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno: elemento soggettivo
(art. 9 l. 1423/56)
Quanto all’elemento soggettivo del reato, essendo sufficiente il dolo generico, e cioè la consapevolezza degli obblighi
da adempiere come tassativamente imposti e specificati per
effetto della condizione di sorvegliato speciale,e e la determinata e cosciente volontà di inadempimento di detti obblighi, risultano assolutamente irrilevanti i motivi – non giuridicamente qualificati - che possano aver specificamente indotto l’imputato a trasgredire alle prescrizioni impostegli.
Trib. Nola, G.M. Minauro
sentenza 24 novembre 2011, n. 2558
penale
Gazzetta
Diritto amministrativo
Il principio di tassatività delle cause di esclusione: spunti di riflessione 83
Paolo Corciulo
Condizioni e limiti del ricorso all’affidamento in house tra esiti referendari e recenti approdi della giurisprudenza amministrativa
88
Almerina Bove
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
97
amministrativo
A cura di Almerina Bove
F O R E N S E
●
Il principio
di tassatività
delle cause
di esclusione:
spunti di riflessione
● Paolo Corciulo
Magistrato amministrativo
n o v e m b r e • d i c e m b r e
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È noto che l’art. 46 del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 abbia
riprodotto il precedente art. 16 del decreto legislativo 17 mar‑
zo 95 n. 157 a proposito del cd. potere di soccorso. Ad una
prima lettura della novella legislativa recata dall’art. 4 del d.l.
13 maggio 2011, convertito in legge 12 luglio 2011 n. 106,
nella parte in cui ha modificato la rubrica dell’art. 46 in “Do‑
cumenti e informazioni complementari – Tassatività delle
cause di esclusione”, aggiungendo il comma 1‑bis, norma re‑
cante una nuova disciplina del regime di partecipazione alle
gare per l’affidamento di contratti pubblici, potrebbe chieder‑
si la ragione di tale collocazione sistematica, domanda la cui
risposta costituisce la cartina di tornasole per tentare di rico‑
struire un sistema, da sempre oscillante tra esigenze di tutela
della concorrenza e della par condicio ed obiettivi di massi‑
mizzazione dell’interesse pubblico specifico all’individuazione
dell’offerta maggiormente conveniente ed affidabile che il
mercato possa produrre in un determinato momento storico.
L’art. 46 del Codice prevede il potere della stazione appal‑
tante di aiutare – non a caso si parla di potere di soccorso – il
concorrente che si trovi a rischio di estromissione per essere
stato manchevole o inadeguato nell’esibizione documentale o
non esaustivo in alcuna delle dichiarazioni richieste dalla lex
specialis ai fini della partecipazione alla gara.
La norma ha costituito in passato oggetto di non agevole
lettura ed applicazione, perché, come detto, s’incuneava tra
due principi fondamentali che sottendono l’evidenza pubblica,
favor partecipationis e par condicio, in irriducibile reciproca
opposizione; nell’evoluzione giurisprudenziale il potere di
soccorso, da sempre diviso tra natura di comportamento do‑
veroso e di condotta ampiamente discrezionale, aveva tuttavia
trovato un anello di congiunzione nel principio di progressiva
distribuzione del potere discrezionale di cui dispongono – per
la verità in misura sempre minore – le stazioni appaltanti;
l’operatività del soccorso era inibita ogni qualvolta il bando
avesse imposto a pena di esclusione il mancato adempimento
a specifiche prescrizioni richieste per la partecipazione, ovvia‑
mente anche sotto il profilo della tempestività.
In questo modo, la previsione dell’immediata sanzione al
solo verificarsi dell’inosservanza del precetto, nel deporre nel
senso di un amplissimo potere discrezionale a monte della
stazione appaltante, finiva per incidere anche sulla concreta
applicabilità del potere di soccorso, di cui, tra l’altro, restava
dubbio se fosse generalmente estensibile a tutte le ipotesi di
carenze documentali non espressamente sanzionate, oppure
se a valle residuasse un potere valutativo dell’organo di gara
circa la meritevolezza di una seconda chanche in considera‑
zione della gravità e scusabilità del comportamento assunto
del concorrente, soluzione che esponeva a non lievi preoccu‑
pazioni in punto di eccesso di potere, quantomeno per ingiu‑
stificata disparità di trattamento.
In ogni caso, la preventiva individuazione dei casi di esclu‑
sione diretta consentiva di salvare un’area di operatività al
potere di soccorso e di edulcorare potenziali conflitti con i
principi comunitari, in tal senso assicurando l’esistenza di
preventive regole procedimentali di applicazione indifferenzia‑
ta. D’altronde, a ben vedere, regole di ammissione eccessiva‑
mente rigide avrebbero finito per confliggere esse stesse con
quei principi comunitari che pure regolano il mercato delle
commesse pubbliche, in quanto volti ad assicurare una parte‑
cipazione effettiva di ciascun operatore economico – a prescin‑
amministrativo
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dere da una condizione di parità nell’ambito del confronto
dialettico di gara – che non sia condizionata da limiti ingiusti‑
ficati o eccessivi; principio che, tra l’altro, trova piena cittadi‑
nanza nell’ordinamento interno attraverso il canone generale
di divieto di ingiustificato aggravamento di cui all’art. 1, se‑
condo comma della legge 8 agosto 1990 n. 241 e quello speci‑
fico delle procedure di gara di non eccedenza dei requisiti
speciali rispetto all’oggetto del contratto di cui all’art. 42,
terzo comma, primo periodo del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 263.
Dunque, l’immanenza di tale rapporto tra potere di soc‑
corso e individuazione delle cause di esclusione giustifica la
collocazione sistematica della norma di cui all’art. 46 bis, da
intendersi come limite esterno al primo.
Una volta individuata l’esistenza di tale nesso di interdi‑
pendenza, occorre anche tentare di coglierne l’attuale misura,
alla luce della portata precettiva dell’art. 46 bis, norma che
non si presenta di piana lettura.
Secondo tale disposizione,”la stazione appaltante esclude
i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento
alle prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamen‑
to e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di
incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’of‑
ferta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenzia‑
li ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta
o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative
alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circo‑
stanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono conte‑
nere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescri‑
zioni sono comunque nulle”.
Possono ad una prima lettura trarsi tre proposizioni fon‑
damentali:
• obbligo di esclusione dei candidati nel caso di violazione
di prescrizioni previste dal codice, dal regolamento e da
altre disposizioni di legge vigenti;
• previsione di esclusione nei casi di incertezza assoluta sul
contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di
sottoscrizione o di altri elementi essenziali, ovvero in caso
di non integrità del plico contenente l’offerta o la doman‑
da di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiu‑
sura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze
concrete, che sia stato violato il principio di segretezza
delle offerte;
• divieto per bandi e lettere di invito di introdurre ulteriori
prescrizioni a pena di esclusione e nullità delle stesse.
Come già rilevato in qualche primo commento, alla prima
proposizione non può che attribuirsi efficacia ricognitiva, nel
senso che la sanzione dell’esclusione deve essere già contenu‑
ta nella norma di legge o regolamento che prescrive un de‑
terminato adempimento ai fini della partecipazione; diversa‑
mente opinando, paradossalmente l’effetto che si determine‑
rebbe sarebbe addirittura contrario al contingentamento
delle ipotesi di estromissione diretta, ove, ovviamente, vi sia
concordia a ritenere che la ratio legis non debba ritenersi li‑
mitata a riservare alla sola fonte normativa l’individuazione
delle cause di esclusione.
A tal punto, all’interprete si prospetta il delicato problema
di individuare in quali casi si sia effettivamente in presenza di
cause di esclusione normativamente predefinite; a parte le
ipotesi in cui letteraliter la sanzione s’accompagna al precetto
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(art. 38 del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163), utile percorso inter‑
pretativo potrebbe essere offerto dalle espressioni contenute
nella disposizione precettiva che assume il comportamento o
l’adempimento richiesto come indefettibile richiamandone più
o meno apertamente la doverosità o obbligatorietà; ovviamen‑
te, si è in presenza comunque di meri criteri indiziari, dal
momento che la soluzione ci si attende sia rimessa prima alla
prudente valutazione delle stazioni appaltanti e quindi alla
giurisprudenza.
Va aggiunto che nel compimento dell’indagine non occor‑
re confondersi sul significato effettivo della norma in commen‑
to; ciò che è vietato alle amministrazione è solo la previsione
di sanzioni di esclusione ulteriori rispetto a quelle già contem‑
plate da una fonte normativa primaria o secondaria; le stazio‑
ni appaltanti invece restano titolari del potere di individua‑
re – intervenendo in questo senso sulla sola parte precettiva
della disposizione – requisiti di partecipazione, nei limiti in
cui tale potere è conformato dalla legge; ci si riferisce, ad
esempio, alla possibilità di scelta tra più elementi che la norma
ritiene idonei a comprovare il possesso della necessaria capa‑
cità economico‑finanziaria e tecnico‑organizzativa (art. 41 e
42, primo comma del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163).
Altra ipotesi che può far discutere è quella dell’adempi‑
mento dell’onere cauzionale di cui all’art. 75 del codice; anche
in questo caso l’indefettibilità della garanzia si può inferire,
a parte ogni questione lessicale, dalla sua specifica funzione
di assicurare la serietà della partecipazione alla gara.
Proseguendo nel discorso, in tutti questi casi non può se‑
riamente dubitarsi che le prescrizioni siano richieste a pena di
esclusione, atteso che si tratta di condizioni soggettive dell’of‑
ferente che, nel comprovarne l’idoneità partecipativa, costitu‑
iscono nell’un tempo anticipazione della piena legittimazione
a contrarre, secondo la logica che – nonostante si riveli di
maggiore elasticità nei contratti aventi ad oggetto lavori pub‑
blici – lega funzionalmente procedimento di gara e contratto.
Ferma restando la tipicità delle cause di esclusione, intese
come fattispecie in cui risulta azzerato ogni potere discrezio‑
nale della stazione appaltante – ad imitazione del precedente
rapporto tra operazioni di gara ed applicazione della lex spe‑
cialis, dalla novella ora sostituita integralmente dalla fonte
normativa – residuando unicamente un obbligo di verifica, al
più di ordine tecnico – valutativo (art. 86 e ss. del d.lgs. 12
aprile 2006 n. 163), ciò che appare sottratto ad ogni previsio‑
ne normativa è ora solo la valutazione di idoneità della docu‑
mentazione e delle dichiarazioni rese a supporto dell’onere
dimostrativo dell’esistenza dei requisiti che, come detto, non
possono mai mancare.
È qui che affiora l’esigenza di circoscrivere davvero la di‑
screzionalità della stazione appaltante; si vuol dire, cioè, che il
legislatore, recependo un recente ed ampiamente condivisibile
orientamento del Consiglio di Stato, ha inteso escludere che
l’intempestiva o carente allegazione documentale o di alcuna
delle dichiarazioni a corredo della domanda di partecipazione
possa in sé costituire ragione di estromissione, in quanto tale
sillogismo opera un deprecato salto logico, secondo cui una
siffatta mancanza giustificherebbe, con presunzione iuris et de
iure, un giudizio di assenza del requisito. Occorre, in altri ter‑
mini, non confondere tra esistenza del requisito di partecipa‑
zione, prescritto a pena di esclusione, e mancata dimostrazione
dello stesso, attraverso una carente allegazione documentale.
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Questa non può mai costituire ragione autonoma di esclu‑
sione, sia perché la legge non la prevede espressamente, sia
perché una tale sanzione non può essere introdotta dalle sta‑
zioni appaltanti.
Ecco sullo sfondo forse apparire la risposta al quesito che
precede: la nuova disciplina impedisce alla stazione appaltan‑
te di escludere quel concorrente che sia stato carente nell’alle‑
gazione di documentazione e dichiarazioni comprovanti il
possesso del requisito – come del resto già ammesso dal codi‑
ce all’art 41, terzo comma – perché ciò che va accertata è la
carenza effettiva dei requisiti di partecipazione; soluzione che,
del resto, non deve neanche stupire dal momento che è già
presente nel sistema, atteso che l’esistenza di norme o di prin‑
cipi che impongono l’estromissione da una gara per carenze
documentali è resistita, a contrariis, dalla stessa previsione di
un potere di soccorso.
Potrebbe, pertanto, accedersi ad un’ipotesi ricostruttiva
secondo cui in caso di carenza di documentazione, non poten‑
do disporsi l’esclusione del concorrente alla stazione appaltan‑
te è imposto un potere/dovere di soccorso, in armonia con il
principio di favor partecipationis e senza confliggere con quel‑
lo di par condicio, trattandosi di regole generali che a mon‑
te – anzi in sede normativa – valgono per tutti i concorrenti.
Resta inteso che nell’ipotesi in cui il concorrente sollecita‑
to ad integrare la documentazione carente non vi provveda,
la sanzione dell’estromissione sarà ineludibile conseguenza
della violazione del principio generale secondo cui incombe
sul partecipante l’onere di dimostrazione del possesso dei
requisiti di partecipazione.
Né potrebbe obiettarsi che una simile soluzione rischia di
urtare con il principio di certezza e celerità del procedimento,
atteso che una volta concepito tale step come modo ordinario
di svolgimento dell’iter procedimentale, la fase di verifica
della documentazione fisiologicamente finisce per assumere
una nuova scansione (tra l’altro solo eventuale e nemmeno
innovativa, attesa la preesistenza alla novella del potere di
soccorso), nemmeno ignota al procedimento di gara attuale,
se sol s’intende volgere lo sguardo all’attuale e complessa con‑
figurazione della fase di verifica dell’anomalia dell’offerta.
Mentre eventuali dubbi interpretativi possono ritenersi
agevolmente risolvibili nel caso di insufficiente allegazione di
documentazione o dichiarazione ad esempio contabile, ban‑
caria, inerente il fatturato o afferente a requisiti di ordine
generale, qualche perplessità potrebbe sorgere con riguardo
alla cauzione provvisoria che sia stata insufficiente o manche‑
vole; qui torna l’antico principio secondo cui il potere di
soccorso non deve eccedere le finalità cui è preposto, ossia
porre rimedio a requisiti effettivamente posseduti, ma non
compiutamente dimostrati; ne consegue che non sarà possibi‑
le consentire al concorrente di stipulare una garanzia cauzio‑
nale successivamente al termine di scadenza per la partecipa‑
zione alla gara, ma solo di depositare tardivamente la prova
dell’avvenuta sua costituzione in epoca anteriore, o, al più, di
integrare l’importo solo parziale.
Altra questione da ritenersi superata è quella della legitti‑
mità dell’apposizione della sanzione di esclusione relativamen‑
te ad adempimenti che la stazione appaltante abbia ritenuto
indispensabili ai fini della formulazione dell’offerta, quali la
previa conoscenza dello stato dei luoghi, della documentazio‑
ne progettuale o delle prescrizioni capitolari contenenti ele‑
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menti costitutivi dell’oggetto del contratto; la chiara lettera
della legge impedisce tale cautela che la stazione appaltante
può sempre richiedere, senza sanzione alcuna, rimettendo
ogni questione all’eventuale fase di verifica dell’anomalia.
La seconda proposizione si presenta come un elenco, tra
l’altro alquanto disaggregato, di ipotesi di esclusione consen‑
tite, alcune delle quali, a ben vedere, replicano principi giuri‑
sprudenziali consolidati o comunque si risolvono nella posi‑
tivizzazione (ovvia) di regole di imparzialità; ci si riferisce
alla violazione del principio di segretezza delle offerte, che
costituisce funzione e quindi limite del potere di verifica
dell’integrità dei plichi, nel senso che rimette all’organo di
gara il giudizio di fatto sul verificarsi, non già della mera
esposizione a rischio del principio di trasparenza delle opera‑
zioni di selezione, ma della sua effettiva alterazione, esigendo
una valutazione che trascende il mero accertamento sulle
condizioni di preventiva accessibilità alla documentazione del
concorrente.
La norma poi sfugge al preteso obiettivo di tipizzazione
ove si riferisce ad”altre irregolarità relative alla chiusura dei
plichi”; poiché l’irregolarità, intesa da un punto di vista stret‑
tamente giuridico come figura patologica meno grave, non
legittima affatto la previsione di una sanzione espulsiva, al
difetto di tipicità s’accompagna anche l’improprietà di lin‑
guaggio tecnico; con tale accezione non potrebbe comunque
che farsi riferimento a difetti di confezionamento afferenti
non ad eventi accidentali che ne abbiano pregiudicato l’origi‑
naria integrità, ma a difettosi meccanismi di chiusura dei
plichi; resta esclusa la possibilità di imporre con la legge di
gara specifiche tecniche o metodologie di sigillatura, fermo
restando che quelle in concreto adottate restano soggette alla
verifica “di tenuta” da parte della commissione di gara.
Di non agevole lettura si presentano le ipotesi di incertez‑
za assoluta sul contenuto o sulla provenienza delle offerte.
Quest’ultima potrebbe riguardare l’eventualità in cui il plico
pervenga alla stazione appaltante in forma anonima (ipotesi
assai remota), o priva di idonei elementi che ne attestino la
certa provenienza (nome, indirizzo dell’impresa), salva la
possibilità per il concorrente di evitare l’esclusione dimostran‑
do in sede di verifica preliminare la paternità dell’offerta.
L’incertezza sul contenuto potrebbe dare invece luogo a
due distinte accezioni interpretative, l’una di tipo materiale,
relativa ai casi in cui la documentazione contenuta nel plico
non sia formalmente riconducibile al concorrente che l’ha
presentata, l’altra di tipo ideologico, nel senso di non intelli‑
gibilità della proposta contrattuale.
Dal tenore complessivo della norma sembra preferibile la
prima soluzione, sia perché maggiormente omogenea con le
altre ipotesi previste, sia perché, più propriamente, carenze di
tipo ideologico possono trovare riscontro nella successiva
fase di rilevazione o apprezzamento delle offerte e, di conse‑
guenza, incidere sul punteggio.
La mancata sottoscrizione dell’offerta, poi, a parte che
potrebbe impedire di verificarne la certa provenienza, si risolve
in un impegno negoziale giuridicamente inesistente, come tale
giustamente sanzionabile da un punto di vista amministrativo
con l’esclusione, in quanto afferente alla presentazione di un’of‑
ferta inutile. Resta da chiedersi se per mancanza di sottoscri‑
zione debba farsi riferimento solo all’offerta economica – oltre
che alla mancata apposizione di essa su tutti gli eventuali fogli
amministrativo
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su cui è riportata – oppure anche a tutti gli elaborati costituen‑
ti l’offerta tecnica, in quest’ultimo caso interrogandosi se la
firma debba essere quella del tecnico redattore o del titolare
dell’impresa concorrente. È ovvio che, ferma restando l’esigen‑
za del clare loqui nelle procedure di gara, il completamento
della parte precettiva di tale disposizione dovrebbe ritenersi
rimesso alla discrezionalità della stazione appaltante che nel
bando potrebbe descrivere e disciplinare tali aspetti, la cui
inosservanza resterà comunque sanzionata ope legis.
Resta l’ultima categoria, ossia quella degli elementi essen‑
ziali.
Emerge subito l’interrogativo se il contenuto di tale cate‑
goria debba essere rimesso alla discrezionalità della stazione
appaltante, con l’ulteriore questione se ciò debba essere pre‑
determinato nel bando, oppure risolversi nell’esercizio di una
valutazione specifica, o se la norma abbia mera portata rico‑
gnitiva, imponendo all’interprete di cercare la soluzione nel
tessuto del Codice o di leggi speciali.
Quest’ultima, che nello spirito della novella sembra rap‑
presentare la soluzione maggiormente aderente ai dichiarati
obiettivi di tipizzazione e predeterminazione delle cause di
esclusione, impone di tenere distinti gli elementi essenziali
dalla più ampia categoria del “mancato adempimento alle
prescrizioni previste dal presente codice e dal regolamento e
da altre disposizioni di legge vigenti”, pure richiamata
dall’art. 4; in questo senso, elementi essenziali devono senz’al‑
tro essere qualificati quelli costitutivi e strutturali dell’offerta,
quali l’indicazione del prezzo o di tutti gli aspetti qualitativi
minimi richiesti per la valutazione della sua parte tecnica;
potrebbe qui riproporsi il problema della cauzione provviso‑
ria, la cui eventuale intesa essenzialità suffragherebbe l’ipote‑
si di esclusione tout court, espungendola, ovviamente, dalla
generale categoria degli adempimenti a prescrizioni del codi‑
ce, suo regolamento ed altre leggi speciali.
Sebbene altra strada non sembra percorribile in tal senso,
va evidenziato come alla stazione appaltante sia ormai stata
sottratta qualsiasi possibilità di assegnare una connotazione
sostanziale ad aspetti dell’offerta che essa, in quanto titolare
del compito a cui il contratto è funzionalmente volto, ben a
ragione potrebbe ritenere fondamentali; ad esempio, potrebbe
trattarsi di particolari modalità formali di redazione di ela‑
borati progettuali ritenuti rispetto al contratto da affidare
necessari al raggiungimento di un idoneo livello di rappresen‑
tazione delle soluzioni proposte.
Pertanto, la seconda parte dispositiva della norma presen‑
ta marcata difficoltà di interpretazione, soprattutto in termini
di pretesa di individuare ipotesi predeterminate di esclusione.
Il terzo caposaldo della novella contiene innanzitutto un
precetto rivolto alle stazioni appaltanti cui viene inibito di
introdurre ulteriori prescrizioni a pena di esclusione.
Come detto, sembra potersi limitare la portata del divieto
alla sola parte comminatoria della prescrizione, ferma restan‑
do la piena discrezionalità della stazione appaltante di intro‑
durre clausole e adempimenti inerenti le caratteristiche proprie
dell’oggetto del contratto.
La norma risente della necessità di un coordinamento di
tipo relazionale con le ipotesi tipizzate di esclusione di cui
verrebbe vietata l’implementazione come effetto della sola
volontà della stazione appaltante; ciò, a dire che l’ampiezza
del divieto non può che essere inversamente proporzionale
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alla portata precettiva della medesima disposizione nella
parte in cui individua cause tipiche di estromissione; ne di‑
scende che tutte le difficoltà interpretative che può compor‑
tare l’individuazione dell’ambito di estensione del divieto sono
riferibili sostanzialmente alla portata che si riconosce al prin‑
cipio di tassatività.
La ratio legis potrebbe essere ascritta al principio gene‑
rale dell’attività amministrativa di divieto di inutile aggravio
del procedimento, con la conseguenza che se le cause di
esclusione sono solo quelle indicate dalla legge che, in quan‑
to tali, sono di immediata e diretta applicazione, i bandi non
dovrebbero più contenere prescrizioni espressamente esclu‑
denti, da un lato perché pleonastiche, dall’altro perché vie‑
tate ove eccedenti i modelli legali tipizzati. La lex specialis
di gara che ne contenesse solo alcune rischierebbe di rivelar‑
si di dubbia applicazione, se non addirittura formalmente
illegittima, potendo l’omesso richiamo a tutte quelle non
contemplate essere inteso come implicita rinuncia di appli‑
cazione.
Il problema più complesso riguarda la sanzione che colpi‑
sce la clausola escludente non tipizzata; secondo la lettera
della legge siffatte prescrizioni sono comunque nulle.
Ma di quale nullità si tratta?
Va premesso che la nullità colpisce esclusivamente la parte
sanzionatoria della disposizione e non anche quella precettiva.
La categoria della nullità è noto che assume connotazioni
diverse, a seconda se afferisca a figure negoziali o di tipo
autoritativo.
La qualificazione ed il regime giuridico della nullità in
senso civilistico presenta una forte connotazione sanzionato‑
ria per il negozio che ne risulti affetto: improduttività di ef‑
fetti (si parla al riguardo di retroattività della dichiarazione
di nullità), imprescrittibilità dell’azione, salve circoscritte
ipotesi in cui la legge riconosca rilevanza a fatti giuridici
prevalenti ai fini del consolidamento di posizioni giuridiche
determinate (art. 1422 c.c.), inammissibilità di convalida e
altre forme di sanatoria della medesima funzione specifica che
ha riguardato il contratto (art. 1424 c.c.). Vi è poi nei casi di
nullità parziale la possibilità di non considerare viziato il
contratto quando le clausola nulle siano sostituite di diritto
da norme imperative (art. 1419, secondo comma c.c.).
Tale disciplina non sembra conferente all’ipotesi in esame
di bandi e capitolati in cui siano presenti clausole nulle, a tal
fine bastando pensare proprio alla norma da ultimo citata
che, ove plasmata in senso pubblicistico, darebbe vita ad
un’inammissibile disapplicazione delle clausole contra legem;
resta poi l’irriducibile incompatibilità tra le rigide conseguen‑
ze imposte dalla normativa civilistica e l’immanente ius poenitendi dell’amministrazione che sempre potrebbe, tornando
sui suoi passi, rimuovere autoritativamente la causa di nullità;
soluzione, questa a ben vedere, favorita dalla stesso legislato‑
re che all’art. 6 del d.lgs. 20 marzo 2010 n. 53, aggiungendo
al tessuto del codice dei contratti l’art. 243 bis, ha costruito
un interessante regime collaborativo endoprocedimentale
proprio al fine di superare eventuali criticità attraverso il ri‑
corso all’autotutela.
Non va poi dimenticato che se è vero che il regime della
nullità civilistica appare fortemente connotato dall’invasività
della forza imperativa della legge, si resta pur sempre nell’al‑
veo della negoziabilità in cui le esigenze di tutela del terzo
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sono meno rilevanti rispetto al coinvolgimento di altri sogget‑
ti nella vicende amministrative che ineriscono ad una gara.
Altra configurazione positiva della nullità è quella che
concerne il provvedimento ed è prevista dall’art. 21 septies
della legge 7 agosto 1990 n. 241, secondo cui “è nullo il
provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione,
che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato,
nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”.
Ad un primo esame tale qualificazione appare quella
preferibile, soprattutto in ragione della natura provvedimen‑
tale e comunque autoritativa ed unilaterale degli atti costi‑
tuenti la lex specialis di gara, inclusi i capitolati; né sembrano
sorgere dubbi in merito alla qualificazione della nullità di
tali clausole, da intendersi non già come di tipo funzionale,
ma come un’ipotesi espressamente contemplata dalla legge.
La legge sul procedimento nulla aggiunge circa il regime
giuridico del provvedimento nullo, potendo comunque intuiti‑
vamente rilevarsi che si tratta di un vizio più grave rispetto
all’annullabilità, a forte connotazione tipica, non sanabile,
nemmeno attraverso il ricorso all’autotutela che per definizione
riguarda il solo provvedimento illegittimo, quindi annullabile.
Vero elemento di criticità è costituito dal regime di rile‑
vazione processuale di tale categoria di nullità, che l’art. 31,
quarto comma del c.p.a. assoggetta al termine decadenziale
di 180 giorni, tuttavia ammettendone la rilevabilità d’ufficio
e l’eccepibilità da parte degli altri litisconsorti; eccepibilità
che, escluso il ricorso all’autotutela, deve in primis essere ri‑
conosciuta alla stessa autorità emanante.
Ma è proprio tale sfalsato assetto processuale a prospet‑
tare scenari non chiari; innanzitutto, se tutte le clausole poste
dalla legge di gara a pena di esclusione – più precisamente
quelle che ne condizionano l’ammissione e la formulazione
dell’offerta – sono, come tali, immediatamente lesive ed esiste
comunque un onere di decadenza per contestare giudizial‑
mente quelle che si ritengono nulle, il termine per agire sarà
quello generale di 180 giorni, oppure anche l’azione di nulli‑
tà va intesa come “impugnazione”, per cui il termine sarà
invece quello di soli trenta giorni proprio dello speciale regi‑
me giuridico che connota il rito degli appalti? E come conci‑
liare la rilevabilità d’ufficio della nullità o l’eccepibilità nel
corso di tutto il giudizio su eccezione di parte, con l’onere
decadenziale di impugnazione che pur dovrebbe riguardare
almeno il controinteressato che intenda contestare la nullità
di altre clausole favorevoli al ricorrente? È quest’ultimo, in
verità, un problema che investe la disciplina giuridica
dell’azione di nullità in generale e non solo ove esercitata
nell’ambito del rito speciale dei contratti.
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A sciogliere il nodo potrebbe essere la lettera della norma
secondo cui le clausole eccedenti il limite di tipicità sarebbe‑
ro “comunque” nulle; se anche l’avverbio non è idoneo ad
incidere sul regime sostanziale della nullità, potrebbe invece
mostrarsi decisivo sul piano processuale, nel senso di ritene‑
re che la nullità rileva a prescindere da un’espressa azione da
proporsi a pena di decadenza; si sarebbe, in questi termini,
in presenza di una categoria di nullità “spuria”, ovverosia con
connotati tipici dell’istituto di cui all’art. 21 septies, ma con
la forza propria della corrispondente figura civilistica.
In questo modo, almeno nel rito degli appalti, si consente
il raggiungimento di un equilibrio tra azione e reazione pro‑
cessuale, dal momento che si libera il ricorrente dall’onere di
proposizione di un’azione tempestiva.
Una simile ricostruzione comporta però l’esigenza di in‑
terrogarsi riguardo al rapporto procedimentale tra legge di
gara e suo atto applicativo dal punto di vista della contami‑
nazione patologica; il vizio di nullità del bando, secondo il
principio “quod nullum est, nullum effectum producit”, in
quanto più grave categoria di invalidità, dovrebbe avere effi‑
cacia caducante sugli atti della successiva sequenza procedi‑
mentale, da ritenersi anch’essi nulli. Ovviamente, il ricorren‑
te potrebbe non impugnare la clausola di bando, in quanto
“comunque” nulla, ma senz’altro dovrebbe agire per la nul‑
lità dell’atto applicativo entro il termine di legge, secondo le
opzioni già illustrate.
Ove si ritenesse, invece, che la lesione del corretto vinco‑
lo funzionale tra bando ed atto applicativo sia piuttosto
ascrivibile alla figura dell’annullabilità, sotto il profilo dell’il‑
legittimità del secondo per effetto invalidante, il termine di
impugnazione sarà senz’altro quello proprio di trenta giorni
dalla comunicazione di rito.
Ne discende che l’iniziativa diretta alla declaratoria im‑
mediata della sola clausola di bando che si assume nulla, non
sarà più un imprescindibile onere decadenziale condizionan‑
te l’intera iniziativa processuale, ma solo una facoltà per il
ricorrente, la cui utilità potrebbe rivelarsi sul piano della
tutela cautelare, come potere generale del giudice di impedire
la produzione di qualsiasi effetto procedimentale, vietando
alla stazione appaltante di dare comunque esecuzione all’atto
in tutto in parte nullo.
Le brevi considerazioni esposte non hanno naturalmente
alcuna pretesa di esaustività, né offrono soluzioni certe ai
numerosi problemi applicativi e di collocazione sistematica
conseguenti alla novella in commento, ma intendono soltan‑
to suggerire possibili strade percorribili nella sempre più
difficile lettura del tessuto normativo della contrattualistica
pubblica.
amministrativo
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d i r i t t o
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●
Consiglio di Stato, Sez. V,
Sentenza 8 febbraio 2011, n. 854
Pier Giorgio Trovato, Presidente; Antonio Amicuzzi, Estensore
Condizioni e limiti
del ricorso all’affidamento
in house tra esiti referendari
e recenti approdi
della giurisprudenza
amministrativa
Servizi pubblici a rilevanza economica – scelta della modalità di
gestione – obbligo della previa valutazione comparativa – sussiste anche nell’ipotesi di affidamento diretto a società in house
(art. 113 d.lgs. 267/2000)
Laddove la P.A. debba soddisfare la richiesta di un pubblico servizio, la scelta di non trasferire ad un terzo la funzione amministrativa atta a soddisfare tale domanda costituisce
una facoltà legittima (come previsto dal Trattato CE). Ciò
non esclude, peraltro, che la decisione di ricorrere ad una
società in house invece che ad un soggetto terzo debba essere
comunque effettuata previa valutazione comparativa dei rispettivi servizi offerti. Tanto, in linea con il principio generale di buona amministrazione, che impone la scelta più
consona agli interessi dell’Amministrazione, e a prescindere
dal fatto che la gestione non in house è riferita ad un soggetto giuridico formalmente e sostanzialmente distinto dall’ente
locale, cui lo lega un rapporto di terzietà e non di immedesimazione, non potendosi escludere a priori che il ricorso a
tale soggetto terzo sia più conveniente dal ricorso ad una
società in house.
Un’apposita ed approfondita motivazione della scelta di
affidamento diretto di un servizio ad una società in house non
è necessaria solo dopo che sia stata dimostrata non soltanto
la sussistenza dei presupposti richiesti per l’autoproduzione,
ma anche la convenienza rispetto all’affidamento della gestione del servizio a soggetti terzi: in difetto, la scelta sarebbe
del tutto immotivata e contraria al principio di buona amministrazione cui deve conformarsi l’operato della P.A.
Contra: TAR Puglia, Lecce, 11 febbraio 2008, n. 432: La
scelta organizzativa operata dall’Amm.ne Com.le nell’affidamento del servizio mediante il modulo dell’in house provi‑
ding, ove sia provata la sussistenza dei rigorosi presupposti
di legge legittimanti tale affidamento, non necessita di una
stringente esternazione motivazionale circa il ricorso a detto
sistema di affidamento. Né gli atti di affidamento possono
ritenersi illegittimi ove non abbiano esternato in che termini
tale proposta sia risultata più conveniente ed affidabile rispetto a quella formulata da un operatore esterno.
La scelta di ricorrere all’in house attiene alla valutazione
dell’interesse pubblico da soddisfare e, quindi, al merito
dell’azione amministrativa, rispetto al quale il sindacato
giurisdizionale può esercitarsi solo attraverso le c.d. figure
sintomatiche dell’eccesso di potere).
Nota a Cons. Stato,
Sez. V, 8 febbraio 2011, n. 854
● Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura
Regionale della Campania
Il fatto
Un Comune, titolare di una partecipazione azionaria del
7,7% del capitale sociale della s.p.a. Servizi Ambientali, so‑
cietà a capitale interamente pubblico detenuto da diversi Co‑
muni e già affidataria della gestione della rete fognante e del
servizio di depurazione delle acque reflue, stipulava con l’in‑
dicata società una convenzione per la gestione del locale ac‑
quedotto irriguo.
Con ricorso al Tar Liguria, integrato da motivi aggiunti,
una società operante nel settore oggetto dell’affidamento
chiedeva, tra l’altro, l’annullamento delle deliberazioni comu‑
nali di affidamento diretto del servizio, nonché la declaratoria
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
di nullità o inefficacia del contratto di servizio stipulato tra il
Comune citato e detta società.
Con sentenza n. 2974/2009, la seconda Sezione dell’adito
Tar accoglieva il ricorso ed i motivi aggiunti e, per l’effetto,
annullava gli atti di affidamento. Tanto non per contrasto con
l’art.23‑bis d.l. 112/2008, non applicabile alla fattispecie
ratione temporis (la determinazione a contrarre era interve‑
nuta prima dell’entrata in vigore della norma), né per viola‑
zione dell’art.113 d.lgs. 267/2000, che, prevedendo come al‑
ternative le tre forme di affidamento ivi contemplate, impone,
secondo la giurisprudenza prevalente, un obbligo di motiva‑
zione solo in caso di affidamento a terzi1, bensì per violazione
della norma di Statuto comunale (art.42) che imponeva espres‑
samente un obbligo di valutazione comparativa tra le alterna‑
tive forme di gestione.
Avverso l’indicata pronuncia proponeva appello il Comu‑
ne il quale ha denunciava – tra l’altro‑ “Violazione e falsa
applicazione dell’art. 45 del Trattato C.E. (ora art. 51 del
Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea). Violazione falsa applicazione dell’art. 113 del d.lgs. n. 267 del 2000
e S.M.I.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 244 del
Trattato C.E. (oggi art. 280 T.F.U.E.) per manifesto travisa‑
mento e disapplicazione dei principi elaborati dalla Corte di
Giustizia in tema di “in house providing”. L’ente lamentava,
in particolare, l’erronea interpretazione dell’art 42 dello Sta‑
tuto comunale, di contenuto sostanzialmente corrispondente
al testo dell’art. 113 d.lgs. n. 267 del 2000 e quindi tale da
non imporre, secondo quanto ritenuto dallo stesso TAR, un
obbligo di motivazione della scelta operata.
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può convenirsi che non sia necessaria un’apposita ed approfondita motivazione di tale scelta, ma solo dopo che sia stata
dimostrata non solo la sussistenza dei presupposti richiesti
per l’autoproduzione, ma anche la convenienza rispetto
all’affidamento della gestione del servizio a soggetti terzi,
perché, in difetto, la scelta sarebbe del tutto immotivata e
contraria al principio di buona amministrazione cui deve
conformarsi l’operato della PA”.
I giudici di Palazzo Spada rinvengono, dunque‑ a differen‑
za del Collegio di primo grado‑ la fonte dell’obbligo della
previa valutazione comparativa con l’affidamento attraverso
ricorso al mercato nella previsione dell’art.113 d.lgs. 267/2000
e, più in generale, nel principio di buona amministrazione, in
tal guisa riconoscendo all’indicato obbligo carattere generale,
a prescindere dalle previsioni dell’art. 23 bis d.l.112/2008,
conv. in l. 133/2008 (attualmente non più in vigore, perché
abrogato con il referendum del 2011).
• • • Nota a sentenza
Motivi della decisione
Il Consiglio di Stato respinge la tesi diretta a circoscrivere
alle sole ipotesi di affidamento a terzi l’obbligo della previa
valutazione comparativa tra le forme di gestione dei servizi
pubblici economici previste dalla legge, al riguardo afferman‑
do che: “la previsione della valutazione comparativa appare
evidentemente riferita a qualsiasi forma di gestione, esterna
od interna, in linea, peraltro, con il principio generale di
buona amministrazione, che impone la scelta più consona
agli interessi dell’Amministrazione all’atto della adozione di
atti comportanti una scelta tra più opportunità […].
Se è vero infatti, come sostenuto nel motivo in esame, che
la scelta di non trasferire ad un soggetto terzo la funzione
amministrativa atta a soddisfare la domanda relativa ad un
pubblico servizio costituisce per la P.A. una facoltà legittima
(come previsto dal Trattato CE), ciò non esclude che comunque la decisione di ricorrere ad una società “in house” invece
che ad un soggetto terzo debba essere effettuata, per le ragioni prima evidenziate, previa valutazione comparativa dei
rispettivi servizi offerti.
Posto che l’art. 113, V c., del d.lgs. n. 267 del 2000, prevede che la gestione dei servizi pubblici locali avvenga secondo una delle alternative modalità ivi contemplate, tra cui
quella che si sostanzia nel conferire il servizio a società a
capitale interamente pubblico, e che il ricorso all’affidamento diretto è sempre consentito, alla sola condizione che sussistano i requisiti indicati nella lett. c) di detto quinto comma,
1. L’affidamento in house
L’affidamento cd. in house ricorre, come è noto, laddove
la PA affidi determinate prestazioni di beni o di servizi ad una
società o altro ente (ad es., fondazione) all’uopo costituito,
invece di rivolgersi al mercato attraverso l’espletamento di una
procedura di gara concorrenziale.
L’ambito di applicazione di maggiore importanza dell’isti‑
tuto è certamente quello dei servizi pubblici‑ ossia l’affida‑
mento all’ente in house della gestione di un determinato ser‑
vizio nei confronti dei terzi‑ ma massiccio è anche il ricorso a
siffatta forma di affidamento alternativa alla gara per l’acqui‑
sizione di beni e servizi strumentali alla P.A.
L’istituto, come è noto, è di origine pretoria: la prima
definizione del fenomeno si rinviene nella sentenza della Cor‑
te di Giustizia della Comunità Europee 18 novembre 1999,
causa C‑107/98‑ Teckal). In quella occasione, per la prima
volta, la Corte di giustizia ritenne legittimo l’affidamento
diretto di un servizio “in favore di un soggetto avente diversa
personalità giuridica e, pertanto, distinto dall’amministrazione affidante”. Tuttavia, i giudici europei ancorarono tale
possibilità a due precise condizioni, tra loro concorrenti, a
tutt’oggi ritenute necessarie: 1) che l’ente pubblico esercitasse
sull’affidatario un controllo analogo a quello esercitato sui
propri servizi; 2) che quest’ultimo svolgesse la parte più im‑
portante della propria attività con l’ente o con gli enti che lo
controllavano. In questo modo, il soggetto affidatario si at‑
teggiava ad una sorta di articolazione interna dell’ammini‑
strazione aggiudicatrice che, utilizzando la propria organiz‑
zazione, evitava di rivolgersi al mercato per reperire i servizi
di cui aveva bisogno.
Alla giurisprudenza, comunitaria e nazionale, si deve
anche la qualificazione dell’istituto in termini di delegazione
interorganica e la successiva elaborazione in ordine ai presup‑
posti e condizioni del ricorso a siffatta forma di autoprodu‑
zione di beni e/ servizi 2.
1Su tale profilo si tornerà ampiamente infra.
2Si è rilevato in dottrina (Giovagnoli, “Gli affidamenti in house tra lacune del
amministrativo
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d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
Con la decisione in commento il Consiglio di Stato si
pronuncia su un profilo problematico dell’in house, concer‑
nente l’obbligo di esperire, in via propedeutica e funzionale
alla scelta di tale forma di gestione o di affidamento nell’am‑
bito dei modelli predisposti dal legislatore, un’indagine di
mercato volta a valutare la convenienza della scelta o, in ogni
caso, a fornire una esplicita motivazione della opportunità del
ricorso all’in house.
Il tema, relativo alle condizioni “estrinseche” del ricorso
all’in house (in quanto non relative all’atteggiarsi dei rappor‑
ti interni agli enti coinvolti, bensì al rapporto tra la scelta
dell’autoproduzione e l’alternativa del ricorso al mercato),
assume particolare rilevanza all’esito dell’abrogazione refe‑
rendaria dell’art. 23 bis del d.l. del 25 giugno 2008, conver‑
tito, con modifiche, nella legge n. 133 del 6 agosto 2008 che,
come è noto, aveva introdotto condizioni particolarmente
rigorose, sia sul piano sostanziale che su quello procedimen‑
tale, al fine del ricorso all’autoproduzione dei servizi pubblici,
configurata quale ipotesi derogatoria rispetto al meccanismo
ordinario della procedura competitiva ad evidenza pubblica.
La pronuncia offre lo spunto per una riflessione relativa
agli attuali limiti del ricorso all’istituto in esame, sui quali
giurisprudenza, dottrina e prassi non fanno registrare unani‑
mità di vedute, al fine di ricostruirne il perimetro, interno ed
esterno: la trattazione dello specifico tema oggetto della pro‑
nuncia in oggetto, concernente l’ampiezza dell’obbligo di mo‑
tivazione imposto alla P.A. affidante è, pertanto, preceduta da
una sintetica panoramica della condizioni generali cui soggia‑
ce il ricorso all’in house, sul piano soggettivo ed oggettivo.
2. Le condizioni soggettive per l’affidamento in house nella giurisprudenza comunitaria e nazionale
Come sopra rilevato, i requisiti necessari ai fini del ricor‑
so all’in house vengono individuati, a partire dalla sentenza
Teckal, nel cd. “controllo analogo” e nell’attività prevalente‑
mente prestata nei confronti della P.A. affidante.
Con l’indicata pronuncia la Corte chiarisce, in particolare,
che il controllo analogo è ravvisabile allorché, in considerazio‑
ne degli ampi e penetranti poteri di vigilanza e controllo spet‑
tanti alla P.A. nei confronti dell’ente in house, questo si trovi
assoggettato gerarchicamente alla prima, alla stregua degli
uffici interni. Il requisito dell’attività prevalente si ritiene sod‑
disfatto, invece, allorché l’affidatario svolga la propria attività
esclusivamente nei confronti della P.A affidante, o, in ogni
caso, renda nei confronti di enti terzi, pubblici o privati, pre‑
stazioni da ritenersi rispetto alla prima irrisorie o marginali.
Un importante contributo relativo alla puntualizzazione del
requisito del controllo analogo si rinviene, poi, nella sentenza
della Corte di Giustizia del gennaio 2005 (cd. Sentenza Standt
codice e recenti interventi legislativi”) che l’istituto è il frutto della spiccata e
ricorrente attenzione dell’ordinamento comunitario (e della Corte di Giustizia
chiamata ad applicare quell’ordinamento) per gli aspetti sostanziali dei feno‑
meni giuridici: alla base dell’in house vi è, in particolare, una nozione sostan‑
ziale di contratto. La Corte ha invero chiarito che la nozione di contratto im‑
plica la sussistenza di una relazione intersoggettiva, ossia l’esistenza di almeno
due soggetti che siano sostanzialmente – oltre che formalmente‑ distinti. Ove,
pertanto, l’Amministrazione si rivolga ad un soggetto che, pur dotato di auto‑
noma personalità giuridica, sia sottoposto ad un controllo così stringente da
poter essere equiparato ad una struttura interna all’ente, non può esservi con‑
tratto, mancando una relazione intersoggettiva, e pertanto non si applicheran‑
no le regole comunitarie a tutela della concorrenza.
Gazzetta
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Halle), in cui viene escluso che l’Ente conferente possa esercita‑
re un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi nel
caso di partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata
al capitale di una società partecipata dall’Ente locale, con con‑
seguente esclusione della possibilità di affidamento in house.
Il requisito del controllo analogo può ritenersi sussistente,
dunque, unicamente in presenza di una partecipazione pub‑
blica totalitaria.
Un ulteriore presupposto dell’affidamento diretto è indivi‑
duato nella sentenza del 15 ottobre 2005 (cd. Sentenza Parking
Brixen), ove si afferma che “non è conforme al diritto comunitario l’attribuzione di una concessione di pubblici servizi
senza svolgimento di pubblica gara qualora l’impresa concessionaria sia una società per azioni costituita mediante la trasformazione di un’azienda speciale di un’autorità pubblica, il
cui capitale sociale al momento dell’attribuzione sia interamente detenuto dall’autorità pubblica concedente, il cui Consiglio di amministrazione disponga però dei più ampi poteri di
ordinaria amministrazione e possa concludere autonomamente, senza l’accordo dell’assemblea dei soci, taluni negozi”.
In sintesi, la Corte di Giustizia ha sostenuto che il control‑
lo analogo deve escludersi:
1) quando a livello statutario è consentita la partecipazio‑
ne al capitale sociale da parte di un soggetto privato;
2) quando sono attribuiti al Consiglio di Amministrazio‑
ne poteri gestionali rilevanti3.
Elemento rilevante ai fini della sussistenza del c.d. “control‑
lo analogo” è dato dalla possibilità per l’Ente committente di
esercitare una serie di facoltà che si sostanziano nella nomina
degli organi direttivi della società affidataria, nella determina‑
zione delle spese di funzionamento di detta società e nello
svolgimento di una serie di verifiche sull’attività sociale.
Qualora al momento dell’affidamento in house non vi sia
un’effettiva partecipazione alla società di soggetti privati, ma
sussista solo la possibilità che tale evenienza possa verificarsi
in futuro, ciò non costituisce elemento sufficiente per esclu‑
dere l’esistenza di un controllo analogo.
Da ultimo, con sentenza del 10 settembre 2009 (causa
C‑573/07), il Giudice comunitario ha affermato che il con‑
trollo esercitato dagli Enti azionisti sulla società affidataria
può essere considerato analogo a quello esercitato sui propri
servizi quando l’attività della società sia espletata limitata‑
mente al territorio di tali Enti e, fondamentalmente, a bene‑
ficio di questi, nonché quando – tramite organi statutari
composti da rappresentanti degli Enti stessi – questi ultimi
esercitino una influenza determinante sia sugli obiettivi stra‑
tegici che sulle decisioni importanti della società.
Anche la giurisprudenza amministrativa nazionale, sulla
base delle indicazioni e degli orientamenti espressi a livello
comunitario, ha esplicitato le condizioni affinché il controllo
esercitato dalle Amministrazioni aggiudicatrici sulle società
affidatarie pubbliche presenti le caratteristiche legittimanti il
ricorso all’affidamento diretto.
3 Nella sentenza del 19 aprile 2007 (cd. Tragsa, causa C‑295/05), la Corte di
Giustizia è ritornata ad occuparsi dell’istituto in esame, indicando come ele‑
mento sintomatico della sussistenza del controllo analogo la circostanza che il
soggetto affidatario non goda di alcun margine di libertà né relativamente alle
modalità di esecuzione degli incarichi conferiti, né con riguardo alle tariffe da
applicare alle prestazioni.
Gazzetta
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
La sesta sezione del Consiglio di Stato, nella sentenza del
25 gennaio 2005, n. 168, ha, ad esempio, chiarito che il con‑
trollo analogo sussiste in presenza di “un rapporto equivalente ad una relazione di subordinazione gerarchica; tale situazione si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario”.
Il Tar Campania, in una decisione coeva (30 marzo 2005,
n. 2784), ha rilevato, altresì, che “il soggetto gestore deve
sostanzialmente essere configurato come una sorta di longa
manus dell‘affidante, pur conservando natura distinta e autonoma rispetto all’apparato organizzativo dell‘ente: deve, in
altri termini, determinarsi una sorta di “amministrazione
indiretta”, nella quale la gestione del servizio, in un certo
senso, resta saldamente nelle mani dell’ente concedente, attraverso un controllo assoluto sulla attività della società affidataria la quale, a sua volta, è istituzionalmente destinata in
modo assorbente ad operare in favore di questo. Si deve verificare se i rapporti organizzativi e funzionali tra Ente e società a capitale pubblico siano tali da realizzare in concreto
questa assimilazione e tale indagine dovrà incentrarsi sull’esame dell’atto costitutivo e dello statuto della società”. Nello
stesso senso si sono espresse numerose altre pronunce, tra le
quali si segnalano Tar Friuli Venezia Giulia, 15 luglio 2005
n. 634 e TAR Sardegna, 2 agosto 2005, n. 1729, secondo cui
può ritenersi raggiunto l’obiettivo del controllo qualora esista
“una forma penetrante di controllo, che investe non solo gli
atti di gestione straordinaria, ma anche, in parte rilevante, la
gestione ordinaria e gli organi stessi” della società.
In definitiva, ai sensi della richiamata giurisprudenza, il
controllo analogo sulla società pubblica affidataria del servi‑
zio può ritenersi garantito dalla previsione, espressa nell’atto
costitutivo e nello statuto della società, di stringenti poteri di
controllo finanziario e gestionale a favore dell’Amministra‑
zione aggiudicatrice. Il controllo deve riguardare le attività
fondamentali e di straordinaria amministrazione, nonché il
perseguimento degli obiettivi di interesse pubblico assegnati
e gli organi della società.
Il Consiglio di Stato (Sez. V, 30 agosto 2006, n. 5072) ha
statuito, inoltre, che “lo statuto della società non deve consentire che una quota del capitale sociale, anche minoritaria,
possa essere alienata a soggetti privati”; ed ha precisato, al‑
tresì, che “il consiglio di amministrazione della società non
deve avere rilevanti poteri gestionali e all’Ente pubblico controllante deve essere consentito esercitare poteri maggiori
rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale” (Cons. di Stato, Sez. VI, 3
aprile 2007, n. 1514).
In sintesi si ritiene che, ai fini della configurazione dell’in
house, non sia sufficiente il controllo societario totalitario,
occorrendo anche un’influenza determinante da parte del
socio pubblico, sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni
di maggior rilievo.
I connotati dell’istituto in esame e i suoi rapporti con la
fattispecie di affidamento a società mista risultano ampiamen‑
te rassegnati nella pronuncia dell’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato del 3 marzo 2008, n. 14.
4 Per un commento (critico) alla sentenza si rinvia a Marrama, “La Plenaria –
nicchia – sull’in house providing”, in questa Rivista, n.2/2008.
2 0 1 1
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Tra le pronunce più recenti si segnala, infine, Tar Puglia
Lecce, 24 febbraio 2010, n.622, la quale chiarisce che la so‑
cietà in house si connota rispetto all’organismo di diritto
pubblico per una maggiore aderenza organizzativa rispetto
all’ente pubblico controllante e ribadisce che tra questo e
l’affidataria in house sussiste un rapporto non di autonomia
quanto piuttosto, in chiave sostanziale, di subordinazione
gerarchica: “il modello dell’in house, infatti, implica che la
società di gestione sia priva di una propria autonomia imprenditoriale e di capacità decisionali distinte da quelle della
pubblica amministrazione di cui costituisce, come efficacemente descritto da parte della dottrina, un “prolungamento
organizzativo”.
Gli estremi dell’ingerenza pubblica sono tali da conside‑
rare la società alla stregua di parte integrante dell’ammini‑
strazione controllante, la quale esercita i propri poteri (for‑
malmente) di azionista mediante gli schemi di diritto ammi‑
nistrativo dell’autoritatività e della unilateralità: non si tratta
di semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di
maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario,
ma di un assoluto potere – come peraltro evidenziato dalla
Commissione UE nella nota 26 giugno 2002 diretta al Gover‑
no Italiano – di direzione, coordinamento e supervisione
dell’attività del soggetto partecipato. L’importante conseguen‑
za cui siffatta ricostruzione dei rapporti conduce è la qualifi‑
cazione della società alla stregua di “ente strumentale”
dell’Amministrazione, con ogni conseguenza in merito alla
natura sostanzialmente pubblicistica della medesima: se il
rapporto tra i due enti deve essere ricondotto ad un modello
organizzativo di dipendenza organica (simile a quello che
normalmente si realizza nell’organizzazione burocratica di
una pubblica amministrazione) e dunque di derivazione pub‑
blicistica, allo stesso modo gli atti organizzativi, ossia quegli
atti attraverso i quali tale rapporto va regolato (e tra questi le
nomine dei membri della società), debbono essere concepiti
secondo analoghi schemi di diritto pubblico5.
3. Le diverse declinazioni dell’in house (in house indiretto, in house frantumato, in house convenzionato) e i limiti della rispettiva
ammissibilità
Si parla generalmente di “in house indiretto” in riferimen‑
to all’ipotesi in cui l’ente pubblico controlli la società affida‑
taria non attraverso il capitale sociale, ma con l’interposizione
di un’altra società, sulla quale eserciti il controllo analogo.
In ordine all’ammissibilità di tale fattispecie si registrano
diversi approcci: se la formulazione letterale dell’art. 113 del
d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (T.U.E.L) sembra postulare che
l’ente locale debba essere socio diretto dell’ente in house 6, la
5 Sulla scorta delle riportate considerazioni, si è ritenuto applicabile ai fini delle
nomine nelle società in house il principio di pari opportunità di cui all’art.51
Cost. Ad analoghe conclusioni la giurisprudenza è giunta, come è noto, in or‑
dine all’obbligo di rispetto sia dei criteri di evidenza pubblica per la scelta dei
contraenti, sia del principio di concorsualità per il reclutamento del personale
(cfr. art. 18 del decreto‑legge n. 112 del 2008).
6La norma sancisce che “I servizi pubblici locali sono gestiti nelle seguenti forme:
a) in economia, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del
servizio non sia opportuno costituire una istituzione o una azienda;
b) in concessione a terzi, quando sussistano ragioni tecniche, economiche e di
opportunità sociale; c) a mezzo di azienda speciale, anche per la gestione di più
servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale; d) a mezzo di istituzione, per
l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale; e) a mezzo di socie‑
92
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a m m i n i s t r at i v o
prassi comunitaria appare, invece, orientata in una direzione
sostanzialista, attenta al “risultato finale dell’affidamento”.
Sulla scorta dell’indicato orientamento, si ritiene che i
presupposti dell’affidamento diretto sussistano anche nel caso
in cui‑ nonostante gli schermi societari‑ le regole legali, sta‑
tutarie ed amministrative assicurino comunque all’ente loca‑
le il controllo sulla società affidataria. La circostanza che
l’ente locale non assuma la veste di socio non è, pertanto,
dirimente, se comunque l’ente affidante sia titolare di un po‑
tere di controllo sugli organi e sull’attività dell’affidataria.
La giurisprudenza ha, peraltro, chiarito che l’ispessimen‑
to di schermi intermedi può rendere più complesso la verifica
del controllo, con conseguente esigenza di verifica caso per
caso della sussistenza dell’indicato requisito.
Altra fattispecie su cui si è registrato il consenso della
giurisprudenza comunitaria (nonché di quella nazionale: cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, 9 marzo 2009, n.1365 e 29 dicem‑
bre 2009, n. 8970) è quella dell’in house cd. frantumato, in
cui più enti pubblici detengono il capitale della società affida‑
taria, sebbene nessuno sia titolare, individualmente, di una
partecipazione tale da condizionarne il funzionamento. In
questa ipotesi il concetto di controllo analogo va valutato in
una prospettiva sintetica, secondo la quale assume rilievo
dirimente la circostanza che i vari azionisti pubblici, alla
stregua di un unico soggetto composito, esercitino il control‑
lo nella prospettiva sostanzialistica comunitaria.
Con riferimento ai limiti in cui è consentito siffatto affi‑
damento in house, il Consiglio di Stato‑ da ultimo con sen‑
tenza 8.3.2011, n.1447‑ si è espresso nel senso che l’affida‑
mento del servizio è ammesso anche quando il controllo è
esercitato da uno degli enti che detiene una quota minoritaria
del capitale sociale, al riguardo richiamando una pronuncia
della Corte di giustizia (sent. 13.11.2008, causa C – 324 – 07),
la quale ha fissato due principi rilevanti ai fini di delimitare
il corretto campo di operatività degli affidamenti in house a
favore di una società interamente pubblica e partecipata da
una pluralità di Enti: si è, in particolare, affermato che la
presenza, nell’ambito delle società, di un organo statutario
composto da rappresentanti dei soci Enti pubblici costituisce
elemento idoneo a configurare la sussistenza di un controllo
analogo da parte dei secondi (Enti) sulle prime (società); e si
è chiarito, altresì, che il controllo in questione deve essere
effettivo, ma non è necessario che esso sia esercitato in forma
individuale, potendo invece ammettersi anche un controllo
che si esprima in forma congiunta.
Un’ulteriore articolazione dell’istituto dell’in house, della
quale la giurisprudenza amministrativa ha invece negato l’am‑
missibilità con orientamento pressocché unanime, è quella del
cd. in house convenzionato, consistente nell’affidamento diret‑
to da parte di un ente locale, ai sensi dell’art. 113, comma 5,
T.U.E.L., a favore di una società controllata da un ente pub‑
blico diverso da quello affidante, previa sottoscrizione di ap‑
posita convenzione per la gestione del servizio pubblico ex
art. 30 T.U.E.L.‑ che riconosce agli enti locali la facoltà di
tà per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale
costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio, qualora sia op‑
portuna in relazione alla natura o all’ambito territoriale del servizio la parteci‑
pazione di più soggetti pubblici o privati; f) a mezzo di società per azioni senza
il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria a norma dell’articolo 116”.
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stipulare tra loro apposite convenzioni “al fine di svolgere in
modo coordinato funzioni e servizi determinati”‑ in base alla
quale la prima sia stata delegata all’esercizio delle funzioni di
controllo sull’affidataria e che preveda l’obbligo di reciproca
consultazione e cooperazione tra gli enti locali in questione.
I giudici di Palazzo Spada – cfr., in particolare, Consiglio
di Stato, Sez. V, 28 dicembre 2007, n. 6736‑ hanno rilevato
che in questa ipotesi il requisito del “controllo analogo” man‑
ca sia sul piano formale della titolarità del diritto di proprie‑
tà della società, che su quello sostanziale dell’effettiva gestio‑
ne del potere societario, che non può ritenersi garantito dalla
predetta convenzione. La soluzione negativa è stata ribadita
dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, la qua‑
le, nel parere 06.09.2011 n. 47798, emesso ai sensi dell’arti‑
colo 22 della legge 287/1990 e concernente una convenzione
stipulata fra la Regione Calabria, quattro Asl calabresi, la
Regione Lombardia e la Ilspa, relativa alla realizzazione di
quattro presidi ospedalieri (Vibo Valentia, Piana di Gioia
Tauro, Sibaritide e Catanzaro), ha affermato che è illegittimo
l’affidamento in house, a una società strumentale interamen‑
te partecipata da una regione, di attività di supporto al re‑
sponsabile del procedimento, di alta sorveglianza e di Pcm
(project construction management) che non abbiano caratte‑
re istituzionale e che soprattutto siano a beneficio di un’altra
Regione7.
4. La Deliberazione 51/2011 dell’A.v.c.p. in ordine alla inammissibilità di affidamento in house di lavori pubblici
Sul piano dei limiti di carattere oggettivo, si segnala che,
con deliberazione n. 51 del 18 maggio 2011, l’Autorità di vi‑
gilanza ha affermato che “deve escludersi la praticabilità
dello schema dell’in house providing nel settore dei lavori
pubblici, in quanto non si rinvengono nell’ordinamento norme che ne legittimino l’utilizzo”. L’AVCP ha, in particolare,
affermato che “l’istituto dell’in house providing, in quanto
concerne l’autoproduzione di beni e servizi da parte delle
pubbliche amministrazioni in deroga ai principi generali che
prevedono il ricorso al mercato attraverso procedure di evidenza pubblica, è insuscettibile di applicazione estensiva.
Resta salva la sola possibilità che le società in house realizzino in affidamento diretto lavori di importo contenuto eseguibili in economia, ove ricorrano le condizioni già indicate
nella Deliberazione n. 109 del 05/04/2007”.
Nello stesso senso si è espresso il Consiglio di Stato con
sentenza 3 aprile 2007, n.1514.
7 L’Autorità per la concorrenza e il mercato pone in luce come la convenzione si
concretizzi “in un affidamento diretto alla Ilspa di attività che, lungi dal consistere nella produzione di beni e servizi strumentali all’attività istituzionale
della regione Lombardia, vanno a beneficio di un altro soggetto pubblico”, cioè
il commissario delegato all’emergenza socio‑economico‑sanitaria nella Regione
Calabria, in violazione dell’articolo 13 della legge 248/2006 che fa divieto alla
società strumentale di rendere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o
privati (cfr. ItaliaOggi del 07.10.2011 – tratto da www.ecostampa.it). L’Auto‑
rità garante per la Concorrenza e il Mercato, con segnalazione del 26/8/2011
aveva svolto alcune osservazioni in merito al disegno di legge di conversione
del d.l n.138/2011. In particolare il legislatore con l’art. 9 comma. 2 ha inteso
accogliere l’invito dell’Autorità di evitare che le Amministrazioni che non in‑
tendano procedere agli affidamenti tramite gara, con il ricorso alla gestione in
house, frazionino il servizio, eludendo in tal modo la soglia di 900.000 annui
prevista al comma 13 dell’art 4 del d.l. 138/2011.
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
5. I limiti “estrinseci” dell’in house: l’art. 23 bis d.lgs. 112/2008,
conv. in l. 133/2008 in tema di affidamento dei servizi pubblici.
L’in house quale sistema di affidamento derogatorio rispetto a
quelli ordinari
L’art. 23 bis del d.l. 112/2008, introdotto in sede di con‑
versione operata con L. 133/2008, ha riformato la disciplina
dei servizi pubblici locali a rilevanza economica contenuta
nell’art 113 del Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti e nella legislazione di settore. Con l’indicata norma il
legislatore ha, in particolare, previsto che “Il conferimento
della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque
forma costituite individuati mediante procedure competitive
ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato
che istituisce la Comunità europea e dei principi generali
relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di
economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata
pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità” (secondo comma). Ciò
posto, la norma ha stabilito che, in deroga alle indicate mo‑
dalità ordinarie di affidamento, l’affidamento possa avvenire‑
in casi eccezionali e specificamente indicati (“per situazioni
che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali,
ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al
mercato”) 8 anche a favore di società a capitale interamente
pubblico in possesso dei requisiti richiesti dal diritto comuni‑
tario per l’affidamento in house.
Il comma 4 ha imposto di dare adeguata pubblicità alla
scelta dell’affidamento in house, di motivarla in base ad
un’analisi del mercato e di trasmettere una relazione conte‑
nente gli esiti della predetta verifica all’Autorità garante della
concorrenza e del mercato ed alle autorità di regolazione del
settore, ove costituite, per l’acquisizione del relativo parere sui
profili di competenza, da rendersi entro 60 gg. dalla ricezione
della predetta relazione.
Il legislatore statale ha, dunque, espresso un chiaro favor
per l’affidamento a terzi a mezzo di procedura di evidenza
pubblica, configurando l’in house quale meccanismo deroga‑
torio, subordinato alla ricorrenza di situazioni “peculiari”, se
non eccezionali, tali da rendere inutile o inefficace il ricorso
al mercato.
Il decreto legge 25 settembre 2009, n. 153, convertito in
legge 20 novembre 2009, n. 166, ha modificato l’art. 23 bis,
integrando ed innovando la disciplina dei servizi pubblici
locali a rilevanza economica.
Il comma 1 dell’art. 15 ha, in particolare, ridisegnato l’am‑
bito oggettivo di applicazione del nuovo regime dei servizi
pubblici locali a rilevanza economica, escludendovi l’attività di
8 Le categorie dell’efficacia e dell’utilità (“non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”) sono state dunque individuate dal legislatore quali punti di
riferimento essenziali rispetto ai quali valutare se, nelle specifiche fattispecie,
emergesse o meno il dovere di ricorrere al mercato. La considerazione che
precede consente di individuare un primo punto fermo: a mente dell’art. 23 bis
il ricorso all’autoproduzione di un determinato servizio pubblico locale non era
consentito soltanto ove non vi fosse un possibile mercato concorrenziale nel
contesto territoriale di riferimento, ma anche nel caso in cui, in ragione della
peculiarità di quel mercato, l’affidamento secondo le procedure ordinarie ap‑
parisse non utile o non efficace. Ciò significa che sarebbe errato ritenere che si
potesse procedere all’in house solo nei casi in cui si potesse dimostrare l’asso‑
luta assenza o il fallimento del mercato.
2 0 1 1
93
distribuzione del gas, la distribuzione di energia elettrica non‑
ché il trasporto ferroviario regionale e la gestione delle farma‑
cie comunali. I commi 2, 3, e 4 dell’art. 23 bis della legge 6
agosto 2008, n. 133 sono stati, poi, sostituiti da un unico
comma che ha aggiunto alla fattispecie di affidamento dei
servizi pubblici locali a rilevanza economica ad imprenditori e
società di qualunque tipo mediante procedura ad evidenza
pubblica secondo gli standard e principi comunitari, l’ipotesi
di affidamento a società mista pubblica‑privata, che, pertanto,
è stata inquadrata espressamente come altra fattispecie ordi‑
naria di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali9.
Secondo il nuovo testo della norma, si è previsto che l’af‑
fidamento in esame fosse possibile solo a favore di società
totalmente partecipate dall’ente locale, ferma, altresì, la ne‑
cessità per l’ente affidante di redigere una relazione motivata
sulle circostanze in base alle quali è difficoltoso il ricorso al
mercato, da sottoporre al vaglio dell’AGCM, competente al
rilascio di un parere preventivo sull’affidamento. È stata, in‑
vece, eliminata la previsione del parere dell’autorità di rego‑
lazione del settore.
5.1 (segue). L’abrogazione dell’art. 23 bis e le nuove regole dettate dal d.l. 13 agosto 2011, n.138.
L’articolo 23‑bis del d.l. n. 112/2008, nella formulazione
introdotta dall’articolo 15 del d.l. n. 135/2009 sopra citato, è
risultato abrogato all’esito delle consultazioni elettorali tenu‑
tesi in date 12 e 13 giugno 2011. La Corte Costituzionale, con
sentenza n. 24/2011, nel contesto dell’esame preventivo in
ordine all’ammissibilità del citato referendum, aveva già con‑
figurato lo scenario che sarebbe conseguito all’eventuale
abrogazione, con specifico riferimento ai rapporti con la di‑
sciplina comunitaria dell’in house, rilevando che l’eventuale
abrogazione della norma non avrebbe inciso sugli obblighi
comunitari, giacché “il quesito non viola i limiti di cui
all’art. 75 Cost. nemmeno con riferimento al diritto comunitario, perché: a) non ha ad oggetto una legge a contenuto
comunitariamente vincolato (e, quindi, costituzionalmente
vincolato, in applicazione degli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost.); b) in particolare, l’eventuale abrogazione referendaria
non comporterebbe alcun inadempimento degli obblighi comunitari”. La Corte aveva altresì chiarito che “nel caso in
esame, all’abrogazione dell’art. 23‑bis, da un lato, non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale
articolo (reviviscenza, del resto, costantemente esclusa in simili ipotesi sia dalla giurisprudenza di questa Corte – sentenze n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997 –, sia da quella della
Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato); dall’altro, conseguirebbe l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria (come si è visto, meno restrittiva rispetto a quella oggetto di referendum) relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza
pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici
9 L’indicato affidamento alle società miste risulta, peraltro, validamente realizza‑
to soltanto a condizione che sussistano i seguenti requisiti: 1) il socio privato
venga selezionato mediante una procedura ad evidenza pubblica (cd. “gara a
doppio oggetto”); 2) la misura della partecipazione privata non sia, in ogni
caso, inferiore al 40% del capitale sociale. Cfr. Balocco, Commento all’art.148
d.lgs. 163/2006 in Codice e regolamento unico dei contratti pubblici, a cura di
Caringella e Protto, p. 942 e ss.
amministrativo
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94
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
di rilevanza economica”. Con decreto legge 13 agosto 2011,
n. 138 (“Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”) il legislatore ha dettato una nuova
disciplina dell’affidamento di servizi pubblici al fine di garan‑
tire l’adeguamento della disciplina dei SPL di rilevanza econo‑
mica agli esiti referendari. Le norme che riguardano, diretta‑
mente o indirettamente, l’affidamento in house sono contenu‑
te nell’art.14, commi 8 e ss. e, in particolare, comma 13.
Il comma 8 sancisce che “Nel caso in cui l’ente locale, a
seguito della verifica di cui al comma 110, intende procedere
all’attribuzione di diritti di esclusiva, il conferimento della
gestione di servizi pubblici locali avviene in favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati
mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel
rispetto dei principi del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, imparzialità,
trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità.
Le medesime procedure sono indette nel rispetto degli standard qualitativi, quantitativi, ambientali, di equa distribuzione sul territorio e di sicurezza definiti dalla legge, ove esistente, dalla competente autorità di settore o, in mancanza di
essa, dagli enti affidanti.” Il comma 9 sancisce che le società
a capitale interamente pubblico possono partecipare alle pro‑
cedure competitive ad evidenza pubblica, sempre che non vi
siano specifici divieti previsti dalla legge11.
Per quanto di specifico interesse ai fini della presente di‑
samina, il comma 13 stabilisce che “In deroga a quanto previsto dai commi 8, 9, 10, 11 e 12 se il valore economico del
servizio oggetto dell’affidamento è pari o inferiore alla somma
complessiva di 900.000 euro annui12 , l’affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico che
abbia i requisiti richiesti dall’ordinamento europeo per la
gestione cosiddetta «in house»”.
Il comma 14 assoggetta le società “in house” affidatarie
dirette della gestione di servizi pubblici locali al patto di sta‑
bilità interno. In coerenza con la natura dei rapporti tra P.A.
affidante e società affidataria, infine, i commi 15 e 17 assog‑
gettano le società cosiddette “in house” e le società a parteci‑
10 A mente del comma 1, “Gli enti locali, nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, verificano la
realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, di seguito «servizi pubblici locali», liberalizzando tutte
le attività economiche compatibilmente con le caratteristiche di universalità
e accessibilità del servizio e limitando, negli altri casi, l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera
iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità”.
11 A norma del comma 12, “Fermo restando quanto previsto ai commi 8, 9,10 e
11, nel caso di procedure aventi ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio,
al quale deve essere conferita una partecipazione non inferiore al 40 per cento,
e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio,
il bando di gara o la lettera di invito assicura che: a) i criteri di valutazione
delle offerte basati su qualità e corrispettivo del servizio prevalgano di norma
su quelli riferiti al prezzo delle quote societarie;b) il socio privato selezionato
svolga gli specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio per
l’intera durata del servizio stesso e che, ove ciò non si verifica, si proceda a un
nuovo affidamento;c) siano previsti criteri e modalità di liquidazione del socio
privato alla cessazione della gestione”.
12 Rispetto a quanto previsto dal d.P.R. 168/2010 la soglia entro la quale è possi‑
bile l’autoproduzione cambia, dunque, da 200.000 euro a 900.000 euro annui,
con conseguente aumento della possibilità per gli enti locali di gestire un servi‑
zio pubblico di rilevanza economica in regime di autoproduzione.
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pazione mista pubblica e privata, affidatarie di servizi pubbli‑
ci locali, anche alla disciplina per l’acquisto di beni e servizi
recata dalle disposizioni di cui al decreto legislativo 12 aprile
2006, n. 163, e ne sanciscono l’obbligo di adozione, con propri
provvedimenti, di criteri e modalità per il reclutamento del
personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei
principi di cui al comma 3 dell’articolo 35 del decreto legisla‑
tivo 30 marzo 2001, n. 165. Fino all’adozione dei predetti
provvedimenti, è fatto divieto di procedere al reclutamento di
personale ovvero di conferire incarichi.
Il legislatore ha, dunque, in primo luogo espresso un chia‑
ro favor per la liberalizzazione dei servizi pubblici, imponendo
alle Amministrazioni pubbliche di vagliare la realizzabilità di
una gestione concorrenziale del servizio (art. 4, comma 1); in
via gradata, ove tale verifica dia esito negativo, il sistema or‑
dinario di affidamento viene individuato nella procedura di
evidenza pubblica (commi 8 e ss.), alla quale possono parteci‑
pare anche società a totale partecipazione pubblica, entro i
limiti consentiti dall’ordinamento (comma 9); se, peraltro, il
valore economico del servizio non eccede l’importo di 900
mila euro l’anno, l’affidamento può farsi direttamente ad un
ente in house, purché, ovviamente, ricorrano i requisiti a tal
fine richiesti in sede comunitaria. Non viene riproposta, dun‑
que, la previsione della previa valutazione comparativa tra le
condizioni ottenibili dal mercato e quelle dedotte nella conven‑
zione in house, né si richiede specificamente un’analisi di
mercato al fine di suffragare la scelta di autoproduzione.
6. L’ammissibilità di affidamento diretto di forniture di beni e
servizi strumentali (art. 13, primo comma, del Decreto Legge
n. 223/2006, convertito nella Legge n. 248/2006)
Il primo comma dell’art. 13 del Decreto Legge n. 223/2006
(“Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per
il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica,
nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale”), convertito in legge n. 248/2006, prevede, al
comma 1, che “le società a capitale interamente pubblico o
misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche
regionali e locali per la produzione di beni e servizi “strumentali” all’attività di tali enti, con l’esclusione dei servizi pubblici locali… devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non possono svolgere prestazioni (lavori, servizi e forniture) a favore di altri soggetti
pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non
possono partecipare ad altre società o enti”. Il secondo com‑
ma introduce il principio della esclusività dell’oggetto sociale,
vietando alle società c.d. “strumentali” la possibilità di affian‑
care attività ulteriori rispetto a quelle funzionalmente svolte
nell’interesse dell’ente pubblico partecipante. Infine, il com‑
ma quarto dell’art. 13 sanziona con la nullità i contratti stipu‑
lati in violazione del divieto di cui al comma primo13.
13 Consiglio di Stato, Sez. V, 11 gennaio 2011, n. 7, rilevata la distinzione tra il
concetto di “società strumentale” (avente per oggetto sociale esclusivo la pro‑
duzione di beni e servizi strumentali all’attività degli enti pubblici partecipanti
in funzione della loro attività) e quello, ben diverso, di “società mista per la
gestione di servizi pubblici locali”, ha chiarito, con riferimento alla norma in
commento, che i divieti a tutela della libertà della concorrenza di cui all’art. 13
del Decreto Bersani bis trovano una ragionevole giustificazione per le sole so‑
cietà c.d. “strumentali”, non apparendo altrettanto ragionevole nè fondata
(sopratutto in base alla ratio della predetta norma) l’applicazione dei medesimi
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
Si è osservato in dottrina come la norma, in quanto pre‑
suppone la possibilità di affidamento diretto secondo il mo‑
dello dell’in house, di prestazioni (quantomeno) di servizi e
forniture che potrebbero in alternativa essere acquisite con il
contratto di appalto, fornisce una prova indiretta dell’ammis‑
sibilità del ricorso all’in house anche per l’acquisto di beni e
servizi strumentali all’attività della P.A. affidante14.
Per quanto concerne i lavori, invece, depone in senso con‑
trario all’ammissibilità del ricorso all’in house la previsione
dell’art. 53, comma 1, del codice, a norma del quale, “fatti
salvi i contratti di sponsorizzazione e i lavori eseguiti in economia, i lavori pubblici possono essere realizzati mediante
contratti di appalto o di concessione, come definiti nell’art. 3”.
Si è sopra rilevato, d’altronde, che tanto l’Autorità di vigilan‑
za quanto la giurisprudenza hanno espressamente escluso la
possibilità di siffatta forma di affidamento per i lavori.
In ordine alla portata applicativa dell’art. 13 del d.l. n. 223
del 2006 è recentemente intervenuta – con pronuncia n.17 del
2011 – l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, afferman‑
do che per le società miste o a capitale interamente pubblico
il divieto sopra indicato opera esclusivamente nei confronti
delle società costituite o partecipate dalle amministrazioni
locali per la produzione di servizi strumentali alle loro attivi‑
tà, in funzione o a supporto della stessa e non anche per le
società miste o a capitale totalmente pubblico costituite per lo
svolgimento di servizi pubblici locali. Il Consiglio di Stato ha
altresì precisato che, ai sensi dell’art.13 del d.l. n.223 del 2006,
quale interpretato dalla Corte Costituzionale, la limitazione
alla legittimazione negoziale delle società strumentali si rife‑
risce a qualsiasi prestazione a favore di soggetti terzi rispetto
agli enti costituenti partecipanti o affidanti, senza che a nulla
rilevi la qualificazione di tale attività, indi la qualificazione
differenziale tra attività strumentale e attività di gestione di
servizi pubblici deve essere riferita non all’oggetto della gara,
bensì all’oggetto sociale delle imprese partecipanti ad essa.
7. Ricorso all’in house ed obbligo di motivazione. Riflessioni critiche in ordine alla sentenza in rassegna
Sulla base della panoramica che precede in ordine ai di‑
versi limiti, oggettivi e soggettivi, cui soggiace il ricorso al
fenomeno dell’autoproduzione, può, ora, svolgersi qualche
riflessione sul tema delle pronunce in epigrafe, concernente
l’ampiezza dell’obbligo di motivazione incombente sulla P.A.
affidante e, a monte di essa, la necessità o meno di apposita
verifica della convenienza del ricorso all’in house rispetto
divieti anche per le società c.d. “miste” aventi ad oggetto la gestione di servizi
pubblici locali.
14 I dubbi in ordine a siffatta possibilità, confermati dal silenzio del legislatore del
codice dei contratti pubblici, nel quale si è letta dai più la volontà di non gene‑
ralizzare l’istituto dell’in house – e vieppiù avvalorati dalla espunzione, in sede
di lavori preparatori, della norma rubricata “Affidamenti in house” che ne le‑
gittimava il ricorso – si fondano essenzialmente su seguenti argomenti: 1) ca‑
rattere eccezionale dell’istituto in house: 2) necessità di rispettare il principio di
legalità (con la conseguenza che dovrebbe escludersi che si possa dar luogo a
trasferimenti di poteri e compiti amministrativi in assenza di un’espressa coper‑
tura legislativa); 3) l’art 125 del Codice dei Contratti Pubblici consente alla P.A.
di acquisire beni, servizi e lavori in economia mediante amministrazione diret‑
ta (cioè con materiali e mezzi propri o appositamente acquistati e con persona‑
le proprio o assunto per l’occasione) solo entro il limite di spesa di 50.000 euro.
Sul tema cfr. GIOVAGNOLI, Gli affidamenti in house tra lacune del codice e
recenti interventi legislativi, in www.giustizia‑amministrativa.it, ove un’ampia
disamina critica dei citati argomenti.
2 0 1 1
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alla alternativa del ricorso al mercato al fine dello specifico
affidamento. Come sopra rilevato, il Consiglio di Stato ha
ritenuto che, anche a prescindere dalla previsione dell’art. 23
bis d.l. 112/2008, incombe sulla P.A. un obbligo di ampia
motivazione della scelta dell’in house. Diverso, invece, l’avvi‑
so espresso dal TAR Puglia, che pone in rilievo la attinenza
della scelta del sistema di affidamento al merito amministra‑
tivo e afferma che, purché siano sussistenti i requisiti di ma‑
trice comunitaria del controllo analogo e della attività preva‑
lente, la P.A. non è tenuta ad esternare motivi di convenienza
economica dell’affidamento.
Costituisce parere di chi scrive che la sentenza da ultimo
citata contenga coordinate ermeneutiche meritevoli di condi‑
visione e quindi preferibili a quelle prospettate dalla sentenza
d’appello in rassegna.
Ed invero, appurato che all’abrogato art. 23 bis d.l.
112/2008 cit. è succeduta la norma di cui all’art.14, comma 3,
che non ha riprodotto l’obbligo di un’analisi comparativa delle
condizioni di affidamento in outsourcing rispetto a quelle in
house e che analoga assenza di una previsione in tal senso si
rinviene, per le forniture di beni e servizi strumentali, nell’art.13
del decreto “Bersani”, il ricorso all’autoproduzione deve rite‑
nersi assoggettato ai soli limiti enucleati dalla giurisprudenza
comunitaria (e recepiti dalla giurisprudenza interna).
Una indiretta conferma in tal senso si rinviene nelle ar‑
gomentazioni svolte nella sentenza 17 novembre 2010, n. 325,
con la quale la Corte Costituzionale, investita della questione
di legittimità costituzionale dell’art.23 bis da diverse Regioni
che ne sostenevano il contrasto con il modello della gestione
in house delineato a livello comunitario, ha esaminato la
portata della norma nel contesto normativo previgente, di
fatto oggi ripristinato15. Ebbene, la Corte ha rilevato che la
giurisprudenza comunitaria “non pone ulteriori requisiti per
procedere a tale tipo di affidamento” rispetto a quelli enucle‑
ati nelle numerose pronunce adottate a partire dalla sentenza
Teckal, ed ha ricondotto la rigorosa previsione dell’art.23 bis
al “margine di apprezzamento del legislatore nazionale rispetto ai principi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti
dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore
ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela
della concorrenza nel mercato e per il mercato”.
In definitiva, la Corte ha osservato che l’ordinamento co‑
munitario in tema di tutela della concorrenza, ed in partico‑
lare in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici,
costituisce “… solo un minimo inderogabile per il legislatore
degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la legislazione
interna disciplini più rigorosamente le modalità di tale affidamento. Pertanto il legislatore nazionale ha piena libertà di
scelta tra una pluralità di discipline ugualmente legittime
senza che violare l’evocato primo comma dell’art. 117 Cost.”.
Da tali ultime considerazioni può ricavarsi, a contrario, che
ove non sia dettata una disciplina che esprima il disfavore per
tale forma di affidamento, l’in house deve considerarsi istitu‑
to “neutro” e pertanto, pur nei limiti previsti, alternativo al
ricorso al mercato senza alcun profilo di subalternità rispetto
ad esso. Tanto, in ossequio al principio di autonomia istitu‑
15 Per un interessante commento alla pronuncia cfr. M. Buonauro, in Innovazione e diritto, n.1/2011, p. 127 e ss.
amministrativo
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zionale – più volte affermato in sede comunitaria e riconosciu‑
to da tempo anche dal Consiglio di Stato16‑ in virtù del quale
spetta all’Amministrazione ampia autonomia organizzativa
nell’approntare la produzione di beni e servizi, ed in coerenza
con la ratio, sottesa alla stessa enucleazione dell’istituto, se‑
condo cui non v’è un mercato da tutelare o garantire giacché
l’in house si dispiega nell’ambito dell’impiego di un potere
amministrativo esercitato sui profili organizzativi dell’ammi‑
nistrazione medesima e pertanto si pone al di fuori del merca‑
to. Si è, invero, correttamente rilevato che l’in house deve es‑
sere considerato, nella sua globalità, come sistema organizza‑
tivo della p.a. relativamente ai propri organi e alle loro fun‑
zioni, espressione del potere di autoregolamentazione e auto‑
organizzazione proprie di qualsiasi pubblica amministrazione;
di guisa che l’eccezionalità del modello consegue, semplice‑
mente, alla considerazione che non è organismo in house
quello che non rispetti stringenti e precisi requisiti (controllo
analogo, capitale totalmente pubblico e incedibile, attività
prevalente con la p.a. da cui emana) normativamente sanciti
e che, in tale ultima circostanza, la p.a. incorre in un (auten‑
tico) affidamento diretto, escluso dalle norme in vigore.
In dottrina non si è mancato di rilevare, altresì, che non è
quest’ultima una prospettiva sconosciuta al nostro ordina‑
mento il quale, ad esempio, nel settore degli incarichi di
progettazione già impone di motivare la ricerca del progettista
esterno alla p.a., sancendo la regola della “normalità” del
ricorso alla prestazione di professionisti eventualmente in
forza all’organico dell’amministrazione17.
16 Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 23 aprile 1998, n. 477.
17 Cfr. A. Del Dotto, L’in house providing e il paradosso del caffè, 12.1.2009,
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Così posta la questione, dovrebbe ritenersi che l’obbligo
di motivazione sussistente in capo alla P.A. non si atteggi in
termini particolarmente stringenti, e tanto più non contempli
la necessità di dar conto di una previa indagine di mercato o
analisi comparativa dei valori economici offerti da terzi, ri‑
manendo la valutazione‑ e la relativa motivazione‑ assorbiti,
su un piano generale (ed a monte), dalla deliberazione con la
quale l’ente si è determinato alla costituzione della società in
house, nonché, più in particolare, nell’istruttoria svolta
dall’ufficio tecnico al fine di determinare il corrispettivo del‑
la specifica convenzione in house.
Tale istruttoria, poi, a sua volta non potrà non tener de‑
bito conto del fatto che una parte dei costi sarà generalmente
assorbita dai capitoli di spesa corrente dell’ente, costituito o
partecipato proprio al fine del perseguimento dell’interesse
dedotto nell’affidamento, e pertanto dotato in via ordinaria
delle risorse, umane e strumentali, per l’espletamento del
servizio.
su www.altalex.com, che si pronuncia in favore della necessità di considera‑
zione dei rapporti fra organizzazione in house e affidamento a terzi difforme
da quella prospettata dalla sentenza in commento.
F O R E N S E
●
Rassegna
di giurisprudenza
sul Codice
dei contratti pubblici
di lavori, servizi
e forniture
(d.lgs. 12 Aprile 2006,
n. 163 e ss. mm.)
●
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato presso
l’Avvocatura Regionale della Campania
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Annullamento in autotutela degli atti di gara – comunicazione di
avvio del procedimento – omissione – illegittimità
A seguito della presentazione della domanda di partecipazione e, ancor più, della predisposizione ed inoltro dell’offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata che giustifica la posizione di contro interessati ai quali è necessario comunicare l’avviso di avvio del procedimento di ritiro della gara ai sensi della legge sulla trasparenza amministrativa; tanto, al fine di consentire la difesa del
bene della vita dato dalla chance di aggiudicazione.
Ed invero, il profilo sostanziale rilevante, al di là del
dato formale dell’omissione procedimentale, si coglie proprio nella circostanza per cui il controinteressato non ha
potuto esporre le sue ragioni in sede amministrativa, in guisa che il mancato avviso ha comportato una lesione della sua
posizione defensionale, non potendosi escludere che l’attivazione del contraddittorio non avrebbe potuto comportare
alcuna modifica della soluzione adottata dalla pubblica
amministrazione.
Tar Campania, Napoli, Sez. I, 21 dicembre 2011, n. 6001;
Pres. Antonio Guida; Est. Michele Buonauro
Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici – competenze – non
è contemplato il potere di imporre alle stazioni appaltanti, in via
autoritativa, l’adozione di provvedimenti in autotutela, a fronte
del riscontro di irregolarità o vizi di legittimità nella procedura di
gara (art.6 d.lgs. 163/2006)
Nell’ambito dei compiti assegnati all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici non è compreso il potere di intervenire, in via autoritativa, nei confronti delle stazioni appaltanti, a fronte della rilevazione di irregolarità o vizi di legittimità dei provvedimenti da queste adottati in tema di affidamento di lavori pubblici.
Sulla base di tale considerazione devono ritenersi illegittime le deliberazioni con cui la citata Autorità sancisca obblighi in capo alla stazione appaltante rispetto all’adozione,
entro i termini all’uopo prescritti, di determinazioni in sede
di autotutela.
Vero è piuttosto che la stazione appaltante, a seguito
della deliberazione dell’AVCP, ha il potere‑dovere di riesaminare gli atti della procedura concorsuale alla luce delle valutazioni espresse dall’Autorità, fermo restando che la concreta adozione di provvedimenti di autotutela ed il loro contenuto rimane nella esclusiva competenza e responsabilità decisionale della stazione appaltante. L’esercizio del potere di
autotutela conserva dunque natura discrezionale ed è assoggettato in via di principio alle disposizioni generali dettate
dall’art. 21‑nonies della legge n. 241 del 1990.
Tar Campania, Napoli, Sez. I, 21 dicembre 2011, n.6015;
Pres. Antonio Guida; Est. Francesco Guarracino
Capacità economica e finanziaria del concorrente – tipologie documentali atte a comprovarne il possesso – omogeneità sul piano
dell’efficacia probatoria – conseguenze (art. 41 d.lgs.
n. 163/2006)
La stazione appaltante può inferire l’insussistenza della capacità economica di una ditta concorrente dalla criticità dei
dati di bilancio, quantunque gli altri indicatori relativi al
fatturato ed all’esposizione bancaria non diano conto di situazioni di sofferenza.
amministrativo
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a m m i n i s t r at i v o
Ciò perché i dati di fatturato, le referenze bancarie e le
risultanze di bilancio, sebbene diversi per contenuto e funzioni (i primi essendo preordinati alla dimostrazione delle
concrete capacità operative dell’impresa concorrente, le seconde essendo finalizzate ad attestare l’affidabilità della
stessa in relazione al credito, e le terze mirando a lumeggiare
la situazione interna contabile e finanziaria dell’azienda e,
dunque, le sue effettive capacità imprenditoriali), sono stati
ritenuti dal legislatore tutti egualmente idonei, anche isolatamente, a fornire prova della capacità economica e finanziaria di un’impresa concorrente, tanto vero che è stata rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante la scelta
tra una o più delle predette categorie (cfr. Consiglio di Stato,
Sez. V, 23 febbraio 2010 n. 1040).
Tar Campania, Napoli, Sez. I, 21 dicembre 2011, n.6006;
Pres. Antonio Guida; Est. Carlo Dell’Olio
Cauzione provvisoria prestata a mezzo di polizza fideiussoria – soggetti obbligati – raggruppamento temporaneo di imprese – deve essere prestata da tutti i soggetti partecipanti (art. 75
d.lgs. n. 163/2006)
A norma dell’ art. 75 del Codice dei Contratti pubblici,
come interpretato dalla giurisprudenza (Adunanza Plenaria
n. 8 del 4 ottobre 2005), la cauzione provvisoria deve essere prestata da tutti i soggetti partecipanti, compresi mandanti e mandatari nel caso di raggruppamenti non costituiti, di modo che, ove la cauzione sia prestata a mezzo polizza fideiussoria, la polizza deve essere intestata a tutti i
soggetti del costituendo raggruppamento e non solo alla
mandataria.
In materia di cauzione provvisoria vanno considerati,
infatti, obbligati a prestare la cauzione provvisoria tutti i
soggetti che intendono partecipare alla gara, senza esclusione
alcuna, perché individualmente responsabili delle dichiarazioni rese. Diversamente opinando, qualora l’inadempimento non dipenda dalla capogruppo designata, ma dalle mandanti, verrebbe a configurarsi una carenza di garanzia per la
stazione appaltante.
Cons. Stato, Sez. V, 2 novembre 2011, n. 5841;
Pres. Stefano Baccarini; Est. Doris Durante
Chiarimenti forniti dalla stazione appaltante su richiesta di un
concorrente – oggetto – non possono risolversi in una sostanziale rettifica o integrazione delle clausole della lex specialis
È illegittima l’integrazione delle clausole del bando realizzata attraverso i chiarimenti resi ai concorrenti: ciò sia nel
caso che si tratti di chiarimenti sull’interpretazione di clausole dubbie del bando, quanto‑ ed a fortiori‑ che si tratti di
informazioni o chiarimenti aventi valore di sostanziale rettifica o integrazione delle clausole della lex specialis.
È noto, invero, che le regole di gara non possono essere
modificate mentre quest’ultima è in corso (cfr. C.d.S. Sez. V,
20.05.2002, n. 2717), se non utilizzando le stesse forme di
pubblicità della gara‑ e quindi con strumenti di comunicazione
generali‑ e mediante atti tipici rientranti nei poteri della stazione appaltante, che, a seconda dei casi, potrebbe scegliere motivatamente se annullare la gara ovvero se riaprire il bando ed
assegnare ai concorrenti un nuovo termine per ottemperare
alla nuova prescrizione, al fine di ripristinare la condizione
di par condicio alterata dalla modifica, a posteriori, delle rego-
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le di gara (cfr. C.d.S. Sez. V, 5 ottobre 2005 n. 5316 TAR
Lazio, Sez. III ter 27 novembre 2003 n. 11966).
Tar Campania, Napoli, Sez. I, 21 dicembre 2011, n.6001;
Pres. Antonio Guida; Est. Michele Buonauro
Dichiarazioni dirette a comprovare il possesso dei requisiti di
ordine generale – assenza di un’espressa comminatoria di esclusione nella lex specialis – difetto formale della dichiarazione – sussistenza in concreto del requisito – esclusione – illegittimità (art. 38, comma 1, lett. l d.lgs. n. 163/2006)
Solo la sussistenza, in concreto, delle cause di esclusione
previste dall’art. 38 del D. Lgs 163/2006 comporta, “ope
legis”, l’effetto espulsivo.
Quando invece il partecipante sia in possesso di tutti i
requisiti richiesti e la “lex specialis” non preveda espressamente la sanzione dell’esclusione a seguito della mancata
osservanza delle puntuali prescrizioni sulle modalità e sull’oggetto delle dichiarazioni da fornire, l’omissione non produce
alcun pregiudizio agli interessi presidiati dalla norma, ricorrendo al più un’ipotesi di “falso innocuo”, come tale non
suscettibile, in carenza di una espressa previsione legislativa
o della legge di gara, a fondare l’esclusione, le cui ipotesi
sono tassative.
Consiglio di Stato, Sez. V, 24 novembre 2011, n.6240;
Pres. Pier Giorgio Trovato; Est. Antonio Amicuzzi
Dichiarazioni dirette a comprovare il possesso dei requisiti di
ordine generale – soggetti obbligati – criterio formale (art. 38 d.
lgs. n. 163/2006)
L’art. 38 del d. lgs. n. 163/06 richiede la compresenza
della qualifica di amministratore e del potere di rappresentanza (che può essere limitato per gli amministratori ex
art. 2384, comma 2, c.c.) e non vi è alcuna possibilità per
estendere l’applicabilità della disposizione a soggetti, quali i
procuratori, che amministratori non sono.
Posto che la norma de qua, in quanto prescrittiva dei requisiti di partecipazione, ha carattere eccezionale, deve ritenersi insuscettibile di interpretazione estensiva a situazioni
diverse, quale è quella dei procuratori.
Peraltro, anche l’applicazione analogica sarebbe opinabile, in presenza di una radicale diversità della situazione
dell’amministratore, cui spettano compiti gestionali, decisionali di indirizzo e scelte imprenditoriali, e quella del procuratore, il quale, benché possa essere munito di poteri di rappresentanza, è soggetto dotato di limitati poteri rappresentativi e gestionali, ma non decisionali (nel senso che i poteri di
gestione sono pur sempre circoscritti dalle direttive fornite
dagli amministratori).
Cons. Stato, Sez. V, 21 novembre 2011, n.6136;
Pres. Pier Giorgio Trovato; Est. Nicola Gaviano
Dichiarazioni dirette a comprovare il possesso dei requisiti di
ordine generale‑ Dichiarazioni rese dal legale rappresentante
dell’impresa anche nei confronti degli altri soggetti obbligati – ammissibilità – condizioni (art. 38 d.lgs. n. 163/2006)
La dichiarazione in ordine all’insussistenza delle cause di
esclusione di cui all’ art. 38 può essere resa e sottoscritta dal
legale rappresentante dell’impresa concorrente con riferimento espresso anche agli altri soggetti nei cui confronti il requisito va comprovato; perché la dichiarazione sia valida occor-
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re, tuttavia, che dalla stessa sia ricavabile l’indicazione analitica e nominativa dei predetti soggetti in quanto la mancata
indicazione dei nominativi dei soggetti diversi dal dichiarante implica la mancanza dell’assunzione di responsabilità per
il caso di non veridicità della dichiarazione, che rappresenta
il proprium del meccanismo dell’autocertificazione.
Analogo principio è riferibile alla dichiarazione relativa
agli amministratori cessati dalla carica nel triennio antecedente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27 giugno 2011, nr. 3862),
con rilievi però a fortiori estensibili anche a quella concernente gli amministratori in carica, i cui nominativi sono di
certo ancor più agevolmente conoscibili dal dichiarante.
Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2011, n. 6053;
Pres. Gaetano Trotta; Est. Raffaele Greco
Documentazione a corredo dell’offerta – prescrizioni a pena di
esclusione – produzione di un documento in copia semplice in
luogo della copia autentica– esclusione – legittimità
Dovendo considerare le norme della “lex specialis” della gara concernenti l’esclusione dalla medesima come norme
di stretta interpretazione, è da ritenere impossibile la interpretazione delle stesse in maniera estensiva, secondo principi di semplificazione e celerità di cui al D.P.R. 445/2000,
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ed è quindi da ritenere legittima l’esclusione del concorrente che aveva omesso di produrre un documento nelle forme
richieste dalla lettera d’invito (copia autentica dell’atto costitutivo) e l’aveva, invece, prodotto nelle forme dell’atto di
notorietà. Parimenti inammissibile, in ragione dell’assenza
del documento prescritto, è l’argomentazione volta a configurare la fattispecie quale irregolarità sanabile con l’integrazione postuma.
Cons. Stato, Sez. V, 18 novembre 2011, n.6090;
Pres. Calogero Piscitiello; Est. Antonio Amicuzzi
Procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta – “ulteriori”
chiarimenti ex art. 88, comma 3 – oggetto (art. 88, comma 3)
Nella fase procedimentale deputata ai chiarimenti alle
giustificazioni dell’offerta non è possibile richiedere nuove
giustificazioni relative a fatti non direttamente collegati con
quanto oggetto della prima richiesta; tanto, in ossequio alla
ratio delle norme di cui all’art. 88, commi 1, 2, e 3 – rispondente all’esigenza di assicurare il rispetto delle regole concorrenziali e del buon andamento – e al tenore letterale della
locuzione “se resi necessari o utili a seguito di tale esame”.
Cons. Stato, Sez. V, 18 novembre 2011, n.6093;
Pres. Calogero Piscitiello; Est. Antonio Amicuzzi
amministrativo
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Diritto tributario
Il reclamo e la mediazione nel processo tributario
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tributario
Clelia Buccico
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●
Sommario: 1. Premessa – 2. Ambito applicativo del reclamo e della mediazione – 3. Conclusioni.
Il reclamo e la mediazione
nel processo tributario
Premessa
La Manovra 2011 (D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 39 – con‑
vertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111) ha apportato talune
interessanti modifiche alle norme che disciplinano il conten‑
zioso tributario ed ha, in particolare, introdotto la pos,In
particolare l’articolo 39, comma 9, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98,
inserisce nel corpo normativo del D.Lgs. 546/1992, riguardan‑
te il contenzioso tributario, il nuovo articolo 17‑bis, rubricato
«Il reclamo e la mediazione» con il quale viene disciplinata una
speciale procedura di reclamo e mediazione avente ad oggetto
le controversie relative ad atti emessi dall’Agenzia delle Entra‑
te di valore non superiore a ventimila euro1.
Detti istituti hanno lo scopo di deflazionare il contenzioso
tributario, evitando di interessare il giudizio delle Commissioni
Tributarie e non precludono la possibilità per il contribuente di
applicare altri istituti deflativi come, per esempio, l’accertamen‑
to con adesione ovvero la chiusura agevolata dei processi ver‑
bali di constatazione, ma si pone come un’ulteriore opportuni‑
tà per definire, in modo agevolato, il rapporto con il fisco.
● Clelia Buccico
Professore aggregato di Diritto tributario
Clelia Buccico
● presso
la Seconda Università degli Studi di Napoli
Professore Associato di Diritto tributario
presso la Facoltà di Economia – Seconda Università
degli Studi di Napoli
Ambito applicativo
La norma sancisce che per gli atti notificati a decorrere al
1o aprile 2012, per le controversie, come detto, di valore infe‑
riore a ventimila euro2 , calcolato sulla base del valore del tri‑
buto e al netto di sanzioni e interessi 3 , e relative ad atti emessi
dall’Agenzia delle Entrate, il contribuente che intende opporsi
al provvedimento dovrà preventivamente presentare un appo‑
sito “reclamo” (avente peraltro ad oggetto il contenuto “mini‑
mo” del ricorso).
In tali casi è espressamente esclusa la conciliazione giudi‑
ziale di cui all’art. 48 del d.lgs. n. 546/1992. L’estraneità di
questa ultima norma è evidente che si è resa necessaria per
evitare la duplicazione di istituti transattivi di portanza quasi
equipollente.
La nuova procedura non trova inoltre applicazione con
riferimento alle controversie relative ad atti volti al recupero
di aiuti di Stato di cui all’articolo 47‑bis del predetto decreto
legislativo n. 546.
La norma, poi, sancisce che la proposizione del reclamo è
nel contempo condizione sospensiva della definitività della
pretesa tributaria, fino al termine di costituzione in giudizio
del ricorrente, cioè entro trenta giorni dalla notifica del riget‑
1Secondo quanto emerge dalla relazione illustrativa (A.S. 2814), tali controversie
costituiscono oltre la metà (105.000 controversie) di quelle instaurate presso le
Commissioni Tributarie.
2 Per valore della lite, al fine di verificare la connessione con le nuove regole, si
intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni
irrogate con l’atto impugnato. In caso di controversie riguardanti l’irrogazione
di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste. Dal dato letterale della
norma, è necessario precisare che essa è applicabile solo agli atti emessi dall’agen‑
zia delle entrate. In pratica, quindi, non rientrano tutti gli atti emessi dagli enti
locali ovvero da altre agenzie fiscali, pur potendo il contribuente adire comunque
le vie del contenzioso tributario. Sotto il profilo oggettivo, il comma 4 del nuo‑
vo articolo 17‑bis, esclude, dall’applicazione dei nuovi strumenti, le controversie
riguardanti il recupero di aiuti di Stato, di cui all’articolo 47‑bis del decreto sul
processo tributario. Ne consegue che, nella maggior parte dei casi, le liti ogget‑
to di reclamo o mediazione riguarderanno le imposte sui redditi, le imposte in‑
dirette e l’Irap.
3 Relazione illustrativa del decreto‑legge (D.L. 6 luglio 2011, n. 98) recante:
«Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria».
tributario
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to totale o parziale del reclamo o dalla decorrenza dei novan‑
ta giorni dalla sua proposizione senza che la Direzione com‑
petente si sia formalmente pronunciata, e condizione di am‑
missibilità del ricorso.
Il reclamo segue, inoltre, alcune disposizioni del D.Lgs.
546/92 in quanto compatibili che disciplinano la forma e il
contenuto del ricorso. In particolare il riferimento è agli arti‑
coli 12,18,19,20,21 e al comma 4 dell’art. 22.
Ne consegue che ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 546/1992,
per proporre reclamo contro atti dell’Agenzia di valore supe‑
riore a € 2.582,28, il reclamante deve essere assistito da un
difensore; possono formare oggetto di reclamo solo gli atti
impugnabili ex art. 194 ; il reclamo deve contenere tutti gli
elementi di cui all’art. 18, dovendo individuare, attraverso i
motivi, la causa petendi e il petitum dell’azione amministra‑
tiva; il reclamo deve essere notificato in una delle tre modali‑
tà previste dall’art. 16 e va depositato presso l’ufficio che ha
emesso l’atto impugnato, competente ex art. 22 (che riguarda,
peraltro, la costituzione in giudizio). Infine, il termine è quel‑
lo stesso previsto dall’art. 21, per cui il reclamo deve essere
proposto entro 60 giorni dalla notifica dell’atto impositivo.
Il reclamo, che “può” anche contenere una proposta mo‑
tivata di mediazione5 , completa della rideterminazione dell’am‑
montare della pretesa impositiva, va presentato entro sessanta
giorni, dalla data di notificazione dell’atto impugnato alla
Direzione provinciale o regionale dell’Agenzia delle Entrate
competente e verrà esaminato da un ufficio differente rispetto
a quello che ha emanato l’atto. In particolare la norma parla
di “apposite strutture diverse ed autonome” da quelle che
curano l’istruttoria degli atti reclamabili. Ci si chiede perché
mai un’“apposita struttura” diversa ed autonoma debba e
possa agire, modificando, annullando in toto o parzialmente
o mediare sul contenuto dell’accertamento emanato dal sog‑
getto che ha curato l’istruttoria dello stesso atto, se entrambi
appartengono alla stessa Direzione Provinciale o Regionale.
A tal punto si evidenzia che l’esame del reclamo viene
analizzato comunque dal personale dell’Agenzia anche se
appartenente a strutture diverse che difficilmente avranno
difficoltà a valutare negativamente l’operato di chi ha istruito
la pratica6 . Si aggiunga che difficile, inoltre, sarà per i c.d.
4 Attualmente, però, sono molto più numerosi i casi in cui, o per modifiche
normative, ovvero per ampliamenti giurisprudenziali, risultano impugnabili
atti dell’Agenzia delle Entrate che sono di valore indeterminabile: si pensi alle
controversie su agevolazioni non quantificabili, su provvedimenti autorizzato‑
ri come quelli che riguardano la attribuzione o la cancellazione della partita
IVA, sugli interpelli disapplicativi: il valore indeterminabile della «pretesa», in
questi casi, dovrebbe comportare l’esclusione dalla procedura di reclamo.
Non vi è un’incompatibilità assoluta tra reclamo e processi su dinieghi di rim‑
borsi, e, più in generale, su liti pretensive: come spesso accade, la norma è
stata evidentemente pensata avendo riguardo agli atti impositivi e soprattutto
agli atti di accertamento, ma il generico riferimento all’art. 19 rende arbitrario
escludere a priori le controversie di rimborso, se di valore non superiore a €
20.000. Non è però agevole stabilire se il reclamo vada presentato anche in
caso di silenzio dell’Amministrazione, là dove un atto, in senso formale e pro‑
babilmente anche in senso sostanziale, manca.
5Il reclamo può contenere una proposta di mediazione completa della rideter‑
minazione dell’ammontare della pretesa. In proposito, si pone l’accento sul
fatto che la norma contempla una facoltà (può) e non un obbligo, ma è consi‑
gliabile proporre sempre la mediazione, naturalmente giustificando e motivan‑
do come si è giunti a rideterminare la pretesa originaria.
6F. Barone, Mediazione e reclamo nel contenzioso fiscale, Guida al Diritto,
Sole 24 ore, pag. 95 “Forse una struttura super partes sarebbe stata idonea per
la gestione delle liti in parola, visto anche l’inserimento delle nuove disposizio‑
ni nell’ambito delle regole sul contenzioso tributario, dove vige l’indipendenza
dei giudici, i quali giudicano in piena autonomia dalle parti in causa”.
t r i b u ta r i o
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mediatori, funzionari dell’Agenzia trovare una soluzione per
i reclami che non contengano alcuna proposta di mediazione
e che, limitandosi a contestare la legittimità dell’atto sono
delle vere e proprie richieste di annullamento totale o parzia‑
le in autotutela.
La norma prevede, poi, espressamente che quando l’ufficio
non accoglie il reclamo volto all’annullamento totale o par‑
ziale dell’atto, formula una proposta di mediazione avendo
riguardo all’eventuale incertezza delle questioni controverse,
del grado di sostenibilità della pretesa e del principio di eco‑
nomicità dell’azione amministrativa. La mediazione si perfe‑
ziona nei modi previsti per la conciliazione giudiziale, le cui
disposizioni, in quanto compatibili, sono espressamente ri‑
chiamate.
Da quanto detto, quindi, l’Ufficio potrebbe non pervenire
all’annullamento totale o parziale dell’atto, o non accettare la
proposta del contribuente, in tal caso sarà tenuto a formulare
una propria proposta di mediazione tenendo in considerazio‑
ne le questione potenzialmente controversie della pretesa, la
sostenibilità della stessa ed il grado di economicità dell’azione
amministrativa7.
A tal punti dell’analisi si può affermare che la natura del
reclamo è assimilabile a quella di un’istanza obbligatoria di
autotutela, dato che l’art. 17‑bis la definisce in termini di an‑
nullamento totale o parziale dell’atto contro cui il reclamo è
presentato. Per annullamento parziale sembra doversi intende‑
re che l’Agenzia delle Entrate può ridurre in parte la propria
pretesa, non solo incidendo sull’aspetto meramente quantita‑
tivo, ma anche modificando i contenuti e le motivazioni dell’at‑
to. Questo però fa emergere un dubbio, perché, se si forma un
consenso sull’annullamento parziale, non vi sono problemi,
ma se invece sulla pretesa ridotta il contribuente decide comun‑
que di andare in giudizio, potrebbe non esservi più corrispon‑
denza tra i contenuti del ricorso e quelli dell’atto impugnato,
parzialmente modificato. Dovrà allora o ammettersi una pro‑
posizione di motivi aggiunti, o ipotizzare che l’annullamento
parziale «modificativo» possa essere disposto solo quando
sull’atto residuo il contribuente sia disposto a fare acquiescen‑
za. Tra queste due alternative, si pone forse come ipotesi più
razionale che in realtà di annullamento parziale si parli nel
nuovo art. 17‑bis ai soli fini di una riduzione quantitativa
della pretesa, mentre una riconsiderazione dei contenuti dell’at‑
to impugnabile, in chiave modificativa, sia propria piuttosto
della mediazione, che è una vicenda nella quale appunto si crea
un consenso tra Amministrazione e contribuente.
L’elemento innovativo della fase amministrativa è così
l’obbligo delle parti di tentare una mediazione. Mentre, infat‑
ti, in capo al contribuente è prevista la mera facoltà – e non
l’obbligo – di formulare con il reclamo “una motivata propo‑
sta di mediazione, completa della rideterminazione dell’am‑
montare della pretesa” scaturente dall’atto impositivo, nei
confronti dell’Agenzia delle Entrate, invece, nel caso in cui
quest’ultima non accolga le richieste del contribuente o l’even‑
tuale sua proposta di mediazione, quella facoltà diventa un
obbligo, visto che, come sancisce la legge, essa è tenuta a
7In questa fase si applicano, in quanto compatibili, le regole sulla conciliazione
giudiziale. Si tratta di una conciliazione “fuori udienza”, visto che ancora non
si è incardinato il processo tributario, e si applica pervenendo a un accordo tra
il contribuente e l’Ente impositore attraverso intese extra‑processuali.
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
formulare una proposta di mediazione. Come risulta, quindi,
dall’enunciato del comma 8 del nuovo art. 17‑bis, ove si per‑
venga all’esame del merito del reclamo, la presentazione di
una proposta di mediazione, necessariamente concernente
l’ammontare della pretesa (comprensiva del tributo, delle
sanzioni e degli interessi) è di fatto obbligatoria, dovendo
essere formulata facoltativamente dal contribuente o, in man‑
canza, obbligatoriamente dall’Amministrazione.
Salvo che la giurisprudenza non ritenga che tale obbligo
sussista solo in “risposta” alla mozione di mediazione del con‑
tribuente, ne deriva che il soggetto che ha emesso l’atto oggetto
di lite sarà obbligatoriamente costretto a metterlo poi – almeno
residualmente – in discussione pur in via potenziale e per mezzo
di una proposta in qualche modo transattiva.
Da quanto brevemente detto sembra evidente la violazio‑
ne dei precetti costituzionali del diritto di difesa ex art. 24
della Costituzione e della imparzialità della Pubblica Ammi‑
nistrazione ex art. 97 della Costituzione.
Infine, decorsi novanta giorni senza che sia stato “notifica‑
to” l’accoglimento del reclamo o senza che sia stata “conclusa
la mediazione” il reclamo medesimo “produce gli effetti del
ricorso”, da tale momento, altresì, decorrono i termini per il
compimento delle attività relative alla costituzione in giudizio
delle parti, di cui agli artt. 22 e 23 del d.lgs. n. 546/1992.
Ne consegue che il ricorso del contribuente potrà ritual‑
mente essere presentato e depositato, nei successivi trenta
giorni, presso la segreteria della Commissione Tributaria
Provinciale. Entro lo stesso termine, l’Agenzia delle Entrate,
si deve costituire in giudizio, depositando nella menzionata
segreteria il proprio fascicolo.
Se, invece, prima del decorso dei 90 gg. viene notificato
un provvedimento di diniego ovvero un atto di accoglimento
parziale, i predetti 30 gg. decorreranno dalla notifica di que‑
sto atto.
A tal punto valga un’osservazione.
Per annullamento parziale sembra doversi intendere che
l’Agenzia delle Entrate può ridurre in parte la propria pretesa,
non solo incidendo sull’aspetto meramente quantitativo, ma
anche modificando i contenuti e le motivazioni dell’atto.
Questo però fa emergere un dubbio, perché, se si forma un
consenso sull’annullamento parziale, non vi sono problemi,
ma se invece sulla pretesa ridotta il contribuente decide co‑
munque di andare in giudizio, potrebbe non esservi più cor‑
rispondenza tra i contenuti del ricorso e quelli dell’atto impu‑
gnato, parzialmente modificato. Dovrà allora o ammettersi
una proposizione di motivi aggiunti, o ipotizzare che l’annul‑
lamento parziale «modificativo» possa essere disposto solo
quando sull’atto residuo il contribuente sia disposto a fare
acquiescenza8 .
Da evidenziare che la presentazione del reclamo è condi‑
zione di ammissibilità del ricorso, pena l’inammissibilità rile‑
vabile d’ufficio in ogni stato e grado di giudizio.
Resta il dubbio se gli effetti normalmente connessi alla
8 Cfr M. Basilavecchia, Reclamo, mediazione fiscale e definizione delle liti
pendenti, “Tra queste due alternative, si pone forse come ipotesi più razionale
che in realtà di annullamento parziale si parli nel nuovo art. 17‑bis ai soli fini
di una riduzione quantitativa della pretesa, mentre una riconsiderazione dei
contenuti dell’atto impugnabile, in chiave modificativa, sia propria piuttosto
della mediazione, che è una vicenda nella quale appunto si crea un consenso tra
Amministrazione e contribuente”, in Corr. Trib., n.31/2001.
2 0 1 1
105
pendenza della lite si producano già con la notificazione del
reclamo o, secondo l’enunciato testuale, solo dal momento
suddetto.
Il comma 10 dell’art. 17‑bis, infine, disciplina le spese. In
particolare stabilisce che la parte soccombente è tenuta a
rimborsare, in aggiunta alle spese di giudizio, una somma
pari al cinquanta per cento delle spese di giudizio a titolo di
rimborso. Si sottolinea come il riferimento e alle sole ipotesi
nelle quali non si raggiunga la mediazione, il reclamo si è
trasformato in ricorso e il giudizio si conclude con sentenza.
Fuori dei casi della soccombenza reciproca, i giudici di
primo grado possono decidere di compensare, tra le parti, le
spese parzialmente o per intero solo se ricorrono giusti moti‑
vi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno in‑
dotto la parte soccombente a disattendere la proposta di
mediazione.
Analogamente a quanto disposto in materia di accerta‑
mento con adesione e di conciliazione giudiziale dall’articolo
29, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, il comma 10
del D.L. n.98/2011 prevede che i rappresentanti dell’ente che
concludono la mediazione o accolgono il reclamo rispondono
ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 14 gennaio 1994,
n. 20, solo in caso di dolo.
Il comma 11 della medesima disposizione prevede infine che
l’istituto del reclamo e della mediazione trovino applicazione a
decorrere dal 1o aprile 2012, ossia con riferimento agli atti su‑
scettibili di reclamo notificati a decorrere dalla medesima data.
Conclusioni
Il reclamo e la mediazione di cui al nuovo art. 17‑bis del
d.lgs. n. 546/1992 presentano aspetti sicuramente singolari,
molti dei quali criticabili sia sotto un profilo giuridico che
operativo. La norma, nel suo complesso, sviluppa effetti pre‑
liminarmente amministrativi e solo, in un eventuale e succes‑
sivo momento, processuali.
L’effetto propriamente processuale è eventuale e succes‑
sivo in quanto si produce ben oltre il momento della notifi‑
ca del reclamo al competente destinatario e questa circostan‑
za induce a più di una riflessione sulla carenza – in capo al
reclamo – di una valenza esclusivamente giurisdizionale. La
collocazione del nuovo istituto nell’ambito del corpo del
d.lgs. n. 546/1992, può risultare ingannevole: infatti, ana‑
lizzando le norme dell’art. 17‑bis, è evidente come essa sia
chiaramente orientata a rimarcare la produzione degli effet‑
ti del ricorso – da parte del reclamo – solo dopo il rigetto
(totale o parziale) da parte dell’ufficio impositore delle
istanze sollevate o comunque, in caso di silenzio, decorsi i
novanta giorni dalla proposizione del reclamo stesso. Ne
consegue che ci troviamo con due fasi, una meramente am‑
ministrativa, propriamente introdotta dal reclamo, e un’al‑
tra pienamente processuale che si radica in un momento
successivo a questo atto.
Si aggiunga poi l’evidente dubbio su quale potrà essere il
ruolo che l’istituto della mediazione tributaria all’interno dei
sistemi deflattivi del contenzioso, rivelandosi quasi un dop‑
pione di istituti già esistenti, e, soprattutto, considerando la
sostanziale inesistenza di un reale mediatore, posto che, come
si è detto, non è possibile attribuire tale ruolo a strutture or‑
ganicamente interne all’Agenzia delle Entrate.
Tale istituto si presenta quindi come un tentativo obbliga‑
tributario
Gazzetta
106
d i r i t t o
torio di transazione (e non di mediazione) extragiudiziale che,
rispetto alla mediazione del processo civile, non obbliga i
difensori ad informare per iscritto il contribuente della possi‑
bilità di avvalersi del procedimento di mediazione, laddove
tale obbligo – ex art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 28/2010 – nel
giudizio civile è stato previsto come norma di protezione
dell’assistito ed è stato “radicato” nel rapporto attraverso la
prescrizione del rilascio dell’informativa al momento del con‑
ferimento dell’incarico, da allegarsi all’atto introduttivo
dell’eventuale giudizio.
Per concludere si sottolinea come, inoltre, il reclamo e
la mediazione tributaria dilatino i tempi di instaurazione
della lite.
A fronte della notificazione dell’atto impositivo, l’avvio
della nuova procedura comporta che tra la data di proposi‑
zione del reclamo e quella ultima per l’instaurazione del
contraddittorio intercorrano circa 150 giorni (un massimo di
90 giorni per il riscontro, positivo o negativo dell’ufficio, più
altri 60 per la costituzione di quest’ultimo ex art. 23 del d.
lgs. n. 546/1992). Considerato poi che l’art. 17‑bis implicita‑
mente consente l’inoltro del reclamo entro il sessantesimo
giorno dalla notificazione dell’atto impositivo, per individua‑
re il giorno in cui può avviarsi l’azione giudiziale vanno
computati – ai precedenti – altri 60 giorni, per un totale di
210 giorni a far data dalla notifica della pretesa fiscale.
Si aggiunga che il termine di avvio dell’azione giudiziale
può “lievitare” di ulteriori 90 giorni se si tiene conto di un
altro fatto, eventuale e precedente al reclamo. Ci si riferisce
alla sospensione dei termini – ex artt. 6, comma 24, e 12,
comma 3, del d.lgs. n. 218/1997 – per proporre ricorso, con‑
t r i b u ta r i o
Gazzetta
F O R E N S E
seguente alla richiesta del contribuente per il tentativo di ac‑
certamento con adesione.
Considerando anche l’incidenza della sospensione feriale
dei termini processuali nella tempistica dianzi descritta non‑
ché il rispetto dei 30 giorni che devono intercorrere tra decre‑
to di fissazione di udienza e discussione della causa, si può
ipotizzare che, secondo le stime appena prospettate – la trat‑
tazione della controversia potrebbe svolgersi – finanche in‑
nanzi le commissioni tributarie non particolarmente oberate
da grandi carichi di lavoro – ben oltre un anno dalla notifi‑
cazione dell’atto impositivo.
Quest’ultima circostanza pone seri dubbi sul rispetto del
diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione nonché
sulla “ragionevole durata del processo” ex art. 111, comma 2,
della Costituzione.
Tali articoli della Costituzione sembrano essere violati
anche dal semplice fatto che lo stesso art. 17‑bis è potenziale
fonte di questioni processuali inutili e contrarie alla finalità
perseguita, come quelle concernenti l’inammissibilità della
domanda in difetto dell’attivazione del reclamo o quelle atti‑
nenti il rituale svolgimento di reclamo e mediazione.
Diritto internazionale
[ A cura di Francesco Romanelli ]
Rassegna di diritto internazionale
109
internazionale
A cura di Francesco Romanelli
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
●
Rassegna
di diritto internazionale
●
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e specialista
di diritto ed economia delle Comunità europee
2 0 1 1
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Assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per gli autoveicoli – Direttiva 84/5/CEE – Artt. 1, n. 4, e 2, n. 1 – Terzo vittima –
Autorizzazione alla guida esplicita o implicita – Direttiva 90/232/
CEE – Art. 1, primo comma – Direttiva 2009/103/CE – Artt. 10, 12, n.
1, e 13, n. 1 – Vittima di un incidente stradale quale passeggero di
un veicolo per il quale è assicurata come conducente – Veicolo guidato da una persona non assicurata dalla polizza di assicurazione
– Vittima assicurata non esclusa dal beneficio dell’assicurazione
L’art. 1, primo comma, della terza direttiva del Consiglio
14 maggio 1990, 90/232/CEE, relativa al ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di
autoveicoli, e l’art. 2, n. 1, della seconda direttiva del Consiglio 30 dicembre 1983, 84/5/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli, devono essere interpretati nel senso che
essi ostano a una normativa nazionale la quale produca l’effetto di escludere in modo automatico l’obbligo in capo all’assicuratore di risarcire la vittima di un incidente stradale
qualora tale incidente sia stato causato da un conducente non
assicurato dalla polizza assicurativa e detta vittima, passeggero del veicolo al momento dell’incidente, fosse assicurata
per la guida di tale veicolo e avesse dato a tale conducente il
permesso di guidarlo.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. IV, 1° dicembre
2011, Causa C442/10
Il sig. W. era menzionato come conducente in una polizza
assicurativa sottoscritta presso la C. ltd per la guida di un auto‑
veicolo. Il giorno del sinistro, egli permetteva ad un amico di
guidare tale autoveicolo e prendeva posto nello stesso come
passeggero. È pacifico che il sig. W. sapeva che tale persona non
era assicurata da detta polizza assicurativa. Il conducente perde‑
va il controllo del citato autoveicolo, il quale andava a scontrar‑
si con un veicolo proveniente in senso opposto. Il sig. W. è stato
gravemente ferito. La C. ltd riconosceva l’indennizzo al sig. W.,
ma pretendeva che quest’ultimo, in quanto assicurato, le versas‑
se un rimborso dell’importo pari a quello dell’indennizzo con‑
cesso, il che veniva contestato dal sig. W. Poiché il giudice di
primo grado ha adottato una decisione favorevole a quest’ultimo,
la C. ltd impugnava tale decisione dinanzi al giudice del rinvio.
La sig.ra E., proprietaria di un ciclomotore assicurato presso la
E. ltd, era assicurata come unico conducente di tale veicolo. Il
giorno del sinistro, essa consentiva ad un amico di guidare tale
ciclomotore e prendeva posto come passeggero nella parte po‑
steriore dello stesso. Per negligenza, il conducente tamponava un
camion. La sig.ra E. veniva gravemente ferita. Il giudice di primo
grado considerava che, dando a tale conducente il permesso di
guidare il suo ciclomotore, la sig.ra E. non si era posta la que‑
stione di sapere se quest’ultimo fosse assicurato a tal fine. Esso
decideva dunque che la E.ltd era legittimata ad ottenere un rim‑
borso pari alle somme che avrebbe dovuto versare alla sig.ra E.,
dal momento che quest’ultima aveva autorizzato una persona
non assicurata a guidare il ciclomotore. La sig.ra E. impugnava
tale decisione dinanzi al giudice del rinvio. Le compagnie assi‑
curatrici, invocandone l’applicazione, deducono che l’art. 151,
n. 8, del Road Traffic Act 1988 non costituisce una disposizione
«che escluda dall’assicurazione», ai sensi dell’art. 13, n. 1, della
internazionale
Gazzetta
110
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
IVA – Recupero dell’imposta indebitamente versata – Normativa
nazionale che prevede la possibilità di agire per la ripetizione
dell’indebito dinanzi a organi giurisdizionali diversi, con termini
differenti, a seconda che si tratti del committente oppure del prestatore di servizi – Possibilità per il committente di servizi di chiedere il rimborso dell’imposta al prestatore dopo che per quest’ultimo è spirato il termine per agire nei confronti dell’amministrazione finanziaria – Principio di effettività
Il principio di effettività non osta ad una normativa nazionale in materia di ripetizione dell’indebito che prevede un
termine di prescrizione per l’azione civilistica di ripetizione
dell’indebito, esercitata dal committente di servizi nei confronti del prestatore di detti servizi, soggetto passivo dell’imposta sul valore aggiunto, più lungo rispetto al termine di
decadenza previsto per l’azione di rimborso di diritto tributario, esercitata da detto prestatore nei confronti dell’amministrazione finanziaria, purché tale soggetto passivo possa
effettivamente reclamare il rimborso dell’imposta di cui trattasi nei confronti della predetta amministrazione. Quest’ultima condizione non è soddisfatta qualora l’applicazione di
una normativa siffatta abbia la conseguenza di privare completamente il soggetto passivo del diritto di ottenere dall’amministrazione finanziaria il rimborso dell’imposta sul valore
aggiunto non dovuta che egli stesso ha dovuto rimborsare al
committente dei suoi servizi.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. III, sent. 15 di‑
cembre 2011, causa C427/10.
dalla legge, giacché all’epoca l’amministrazione riteneva che
l’attività di riscossione dei contributi consortili non rientrasse
nell’ambito dell’esenzione di cui all’art. 10, n. 5, del DPR n.
633/72. Successivamente, nel 1999, l’amministrazione finanzia‑
ria comunicava di aver mutato l’originaria interpretazione della
disposizione citata, ritenendo che i contributi consortili avesse‑
ro natura tributaria e che, conseguentemente, i compensi dovu‑
ti dai consorzi per i servizi di riscossione di detti contributi
dovessero essere considerati esenti da IVA. I consorzi di bonifi‑
ca chiedevano la restituzione, a titolo d’indebito oggettivo ai
sensi dell’art. 2033 del codice civile, di quanto pagato per l’IVA
su tali compensi. In esito all’azione di uno dei consorzi dinanzi
al Tribunale civile di Ferrara, la Banca è stata condannata a
rimborsare detti importi. Dal canto suo, la Banca presentava
all’amministrazione finanziaria delle domande di rimborso
dell’IVA corrispondente alle somme che le erano state richieste
dai committenti dei suoi servizi. A fronte del silenzio-rifiuto
oppostole, la Banca proponeva, dinanzi alla Commissione tri‑
butaria provinciale di Roma, tre distinti ricorsi che venivano
accolti da tale organo giurisdizionale. Tuttavia, a seguito degli
appelli interposti dall’amministrazione finanziaria avverso le
tre decisioni emesse, la Commissione tributaria regionale del
Lazio, dopo aver riunito gli appelli, dichiarava che la Banca era
decaduta dal diritto al rimborso per decorrenza del termine di
due anni dai pagamenti dell’IVA, previsto all’art. 21, n. 2, del
decreto legislativo n. 546 del 31 dicembre 1992. In proposito
detto organo giurisdizionale dichiarava che la circolare ammi‑
nistrativa del 26 febbraio 1999 non poteva costituire il presup‑
posto a partire dal quale inizia a decorrere detto termine. La
Banca ha proposto un ricorso per cassazione contro tale deci‑
sione dinanzi alla Corte suprema di cassazione. La Corte supre‑
ma di cassazione nutrendo dubbi circa la compatibilità coi
principi informatori in materia di IVA della disciplina proces‑
suale nazionale, in considerazione del fatto che da tali norme
possono derivare situazioni come quella di cui si discute, che si
risolvono in una sostanziale negazione del diritto al rimborso
dell’IVA pagata a torto, a proposto ricorso pregiudiziale alla
Corte del Lussemburgo. Il S. C. ha osservato, infatti, che la
Banca, che ha versato l’IVA all’amministrazione finanziaria, si
trova obbligata, in forza di una sentenza del giudice civile, a
rimborsarla al soggetto che aveva subito l’addebito senza poter‑
ne ottenere il rimborso da parte dell’amministrazione finanzia‑
ria. Quindi, secondo la Corte di cassazione, le norme di diritto
nazionale sulle modalità procedurali e le regole di diritto sostan‑
ziale che disciplinano il rimborso dell’imposta non dovuta fini‑
rebbero per rendere praticamente impossibile l’esercizio del di‑
ritto al rimborso. Con la sentenza in epigrafe la Corte comuni‑
taria ha chiarito che deve essere garantito in ogni caso il diritto
al rimborso delle imposte non dovute che il sostituto sia stato
condannato a restituire al contribuente.
Negli anni 1984-1994 la Banca forniva servizi sotto forma di
riscossione di contributi consortili dovuti dagli associati per
conto di tre consorzi di bonifica, vale a dire organismi pubblici
disciplinati dalle leggi nazionali e regionali e incaricati della
realizzazione di opere di infrastruttura pubblica. Poiché i com‑
pensi ricevuti quali corrispettivo di tali prestazioni erano stati
assoggettati all’IVA, la Banca l’ha addebitata a titolo di rivalsa
a tali consorzi. L’IVA è stata regolarmente versata dalla Banca
all’amministrazione finanziaria secondo le modalità previste
Trattamento dei dati personali – Direttiva 95/46/CE – Art. 7, lett. f)
– Effetto diretto
L’art. 7, lett.f), della direttiva del Parlamento europeo e
del Consiglio 24 ottobre 1995, 95/46/CE, relativa alla tutela
delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati
personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, che ha
effetto diretto, deve essere interpretato nel senso che osta ad
una normativa nazionale che, in assenza del consenso della
persona interessata e per autorizzare il trattamento dei suoi
direttiva 2009/103, non essendo quindi in conflitto con la nor‑
mativa comunitaria e che ciascuno dei conducenti di cui tratta‑
si disponeva dell’autorizzazione richiesta per utilizzare o guida‑
re il rispettivo veicolo. Per contro, il sig. W. e la sig.ra E. fanno
valere, da un lato, che tale disposizione, se applicata ad un as‑
sicurato vittima di modo che quest’ultimo non possa ricevere
alcun versamento da parte del suo assicuratore, esclude tale
vittima dall’assicurazione, ai sensi del citato art. 13, n. 1, e,
dall’altro, che l’autorizzazione cui fa riferimento tale disposizio‑
ne è quella dell’assicuratore e non dell’assicurato. Il giudice del
rinvio indicava che, nel diritto inglese, la portata dell’art. 151,
n. 8, della legge del 1988 produce l’effetto di escludere in modo
automatico dal beneficio dell’assicurazione l’assicurato il quale,
avendo preso posto come passeggero nel veicolo per la guida del
quale è assicurato, abbia dato il permesso di guidarlo ad un
conducente non assicurato. Esso si chiesto quindi se il diritto
dell’Unione osti ad una siffatta esclusione e se, eventualmente,
tale disposizione possa essere oggetto di un’interpretazione
conforme al diritto dell’Unione. La Corte ha ritenuto che la
norma inglese disponendo l’automatica esclusione del diritto al
risarcimento fosse in contrasto con le direttive comunitarie in
materia.
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
dati personali, necessario alla realizzazione dell’interesse
legittimo perseguito dal responsabile di tale trattamento
oppure dal o dai terzi ai quali tali dati vengono comunicati,
richiede, oltre al rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali di detta persona, che i dati in parola figurino in fonti
accessibili al pubblico, escludendo quindi in modo categorico e generalizzato qualsiasi trattamento di dati che non figurino in tali fonti.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. III, sent. 24
novembre 2011, procedimenti riuniti C468/10 e C469/10
I ricorrenti hanno impugnano dinanzi all’autorità giudiziaria
spagnola il r.d. 170/2007 con il quale è stata data attuazione
alla Ley Organica n.15/1999, sulla protezione dei dati persona‑
li (BOE n. 298 del 14 dicembre 1999) che traspone la direttiva
95/46 nel diritto spagnolo. In particolare, l’A. S.N.E.F. e la
F.C.E.M.D. osservavano che il diritto spagnolo aggiunge alla
condizione attinente all’interesse legittimo al trattamento dei
dati senza il consenso della persona interessata una condizione
che non esiste nella direttiva 95/46, che, cioè, i dati compaiano
in fonti accessibili al pubblico. Il Tribunal Supremo considerava
che la fondatezza dei ricorsi proposti rispettivamente
dall’A.S.N.E.F. e dalla F.C.E.M.D. dipende in larga misura
dall’interpretazione, da parte della Corte, dell’art. 7, lett. f),
della direttiva 95/46. Esso precisava, quindi, che qualora la
Corte ritenesse che non spetta agli Stati membri aggiungere
condizioni supplementari a quelle previste in tale disposizione
e che a quest’ultima può essere riconosciuto effetto diretto, l’art.
10, n. 2, lett. b), del regio decreto n. 1720/2007 dovrebbe esse‑
re disapplicato. Il Tribunal Supremo chiariva che, in assenza del
consenso della persona interessata, per autorizzare il trattamen‑
to dei dati personali di quest’ultima, necessario alla realizzazio‑
ne dell’interesse legittimo perseguito dal responsabile di detto
trattamento oppure dal o dai terzi cui questi dati sono comuni‑
cati, il diritto spagnolo richiede, oltre al rispetto dei diritti e
delle libertà fondamentali della persona interessata, che tali
dati figurino negli archivi elencati all’art. 3, lett.j), della legge
organica n. 15/1999. Esso considera al riguardo che tale legge
e il regio decreto n. 1720/2007 restringono la portata dell’art.
7, lett. f), della direttiva 95/46. Secondo il Tribunal Supremo,
detta restrizione costituisce un ostacolo alla libera circolazione
dei dati personali che è compatibile con la direttiva 95/46 sol‑
2 0 1 1
111
tanto se lo richiedono l’interesse oppure i diritti e le libertà
fondamentali del titolare dei dati. Esso ne deduce che l’unica
possibilità per evitare una contraddizione tra tale direttiva e il
diritto spagnolo consiste nel ritenere che la libera circolazione
dei dati personali che figurano in archivi diversi da quelli elen‑
cati all’art. 3, lett.j), della legge organica n. 15/1999 pregiudica
l’interesse oppure i diritti e le libertà fondamentali del titolare
dei dati. La Corte Europea ha chiarito che nell’interpretazione
della direttiva è necessario effettuare una ponderazione dei
contrapposti diritti e interessi in gioco che dipende, in linea di
principio, dalle circostanze concrete del caso specifico e nell’am‑
bito della quale la persona o l’istituzione che l’effettua deve te‑
nere conto dell’importanza dei diritti della persona interessata
derivanti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea. A tale riguardo occorre rilevare che l’art.
8, n. 1, della Carta enuncia che «ogni persona ha diritto alla
protezione dei dati di carattere personale che la riguardano».
Tale diritto fondamentale è strettamente connesso al diritto al
rispetto della vita privata sancito dall’art. 7 della medesima
Carta1. Secondo la giurisprudenza della Corte, il rispetto del
diritto alla vita privata con riguardo al trattamento dei dati
personali, riconosciuto dagli artt. 7 e 8 della Carta, è riferito ad
ogni informazione relativa ad una persona fisica identificata o
identificabile. Inoltre, spetta agli Stati membri il compito di
vegliare, all’atto di recepire la direttiva 95/46, ad accogliere
un’interpretazione di quest’ultima che consenta loro di garanti‑
re il giusto equilibrio tra i diversi diritti e le libertà fondamen‑
tali protetti dall’ordinamento giuridico dell’Unione22. La Corte
ha ritenuto che quello raggiunto dal Governo spagnolo fosse un
equilibrato punto di compromesso, consentendo l’uso dei dati
personali senza l’espresso consenso dell’interessato se questi
fossero contenuti in banche dati accessibili al pubblico.
1 CGUE 9 novembre 2010, causa C92/09 e C93/09, Volker und Markus
Schecke e Eifert, punto 47.
2 CGUE 29 gennaio 2008, causa C275/06, Promusicae, Racc. pag. I271,
punto 68.
internazionale
Gazzetta
Questioni
[ A cura di Mariano Valente / Procuratore dello Stato ]
Il ricorso reiterato da parte della P.a. allo strumento del contratto a tempo determinato può
configurare un illecito sanzionato con la conversione in contratto a tempo indeterminato e/o
115
con il risarcimento del danno? / Riccardo Esposito
Può operare la causa di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie
nel procedimento penale davanti al Giudice di pace nel caso in cui l’attività risarcitoria
provenga da un terzo? / Alfredo Capuano
117
questioni
Quale giurisdizione opera in caso di tutela avverso un provvedimento scolastico di assegnazione delle ore di sostegno, asseritamente discriminatorio ai sensi della Legge 67/06? / Ida Sorrentino
119
F O R E N S E
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DIRITTO processuale CIVILE
Il ricorso reiterato da parte
della P.a. allo strumento del
contratto a tempo determinato
può configurare un illecito
sanzionato con la conversione
in contratto a tempo
indeterminato e/o
con il risarcimento del danno?
● Riccardo Esposito
Dottore in Giurisprudenza
Nel campo del pubblico impiego
privatizzato merita rilevare come la
reiterata assunzione di personale docen‑
te e non docente a mezzo di contratto a
tempo determinato sia divenuta pratica
sempre più diffusa.
Questa tendenza - con cui la singola
Amministrazione scolastica rinviene lo
strumento idoneo a garantire la conti‑
nuità didattica - ha dato luogo ad un
notevole contenzioso.
Come noto, l’art. 5 del D.lgs. 368/01,
in tema di contratto a termine, dispone
la conversione del contratto a tempo
determinato in contratto a tempo inde‑
terminato qualora vi sia stato un abuso
dello strumento.
Orbene bisogna domandarsi, se a
seguito della successione di contratti a
tempo determinato, il soggetto impie‑
gato nella scuola come personale docen‑
te o non docente, possa rivolgersi ad un
giudice per ottenere la conversione del
proprio contratto o, in subordine, la
condanna dell’Amministrazione scola‑
stica al risarcimento del danno subito.
Sul punto, invero, la giurisprudenza
di merito è pacifica nel riconoscere la
giurisdizione del giudice ordinario e
nell’escludere l’applicabilità del rimedio
della conversione del contratto a fronte
di una successione di contratti a tempo
determinato.
Quanto al primo punto, è evidente
che non è applicabile la riserva di giuri‑
n o v e m b r e • d i c e m b r e
2 0 1 1
sdizione in favore del giudice ammini‑
strativo di cui all’art. 63 del D.lgs.
165/01 che riguarda esclusivamente le
procedure concorsuali dirette all’in‑
staurazione di un rapporto di lavoro
con la Pubblica Amministrazione men‑
tre la controversia ha ad oggetto un
rapporto di lavoro già in atto e le sue
vicende, ovvero la gestione del rappor‑
to. Dovrà essere accertato se l’apposi‑
zione del termine al contratto è da rite‑
nersi illegittima ed in caso affermativo
quale debba essere la sanzione: è indub‑
bio che tale valutazione appartenga alla
giurisdizione del G.O., in funzione di
giudice del lavoro.
Quanto al secondo punto, va osser‑
vato (come da ultimo rilevato dalla
Corte d’Appello di Perugia con sentenza
n. 448/11, depositata il 3 novembre
2011) che al settore scolastico non è
applicabile la disciplina generale di cui
al D.lgs. 165/01 (norme generali sul
lavoro alle dipendenze della P.A.) ed al
D.lgs. 368/01 (attuazione della direttiva
1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato
concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal
CES) bensì un complesso di norme
aventi carattere generale (in particolare
il D.lgs. 267/94 e la l. 124/99). Tale as‑
sunto è confermato dallo stesso D.lgs.
165/01 che all’art. 70, comma 8, statu‑
isce: “sono fatte salve le procedure di
reclutamento del personale della scuola
di cui al D.lgs. 297/94 e successive
modificazioni ed integrazioni”.
Posto quindi che in questo partico‑
lare settore della Pubblica Amministra‑
zione non è applicabile la disciplina
generale dei contratti a tempo determi‑
nato, bisogna considerare che il divieto
di conversione, sancito in via generale
per il pubblico impiego all’art. 36, com‑
ma 2, del D.lgs. 165/01, opererà anche
per lo specifico settore della scuola:
tale divieto trae giustificazione diretta‑
mente dall’art. 97, comma 3, della Co‑
stituzione secondo cui: “agli impieghi
nella Pubblica Amministrazione si accede mediante concorso salvo i casi
stabiliti dalla legge”.
La stessa direttiva 1999/70/CE, re‑
lativa all’accordo quadro sul lavoro a
tempo determinato (in attuazione della
quale è stato emanato il D.lgs. 368/2001),
non prevede la conversione come l’unica
possibile sanzione all’illegittima succes‑
sione di contratti a termine, essendo
rimesso ai singoli ordinamenti statali ed
115
alla contrattazione collettiva la scelta
del rimedio.
Ciò posto, è ammissibile una diver‑
sificazione normativa tra pubblico im‑
piego (nei suoi vari settori) e lavoro
privato che salvaguardi principi genera‑
li di valore costituzionale. Tale orienta‑
mento trova conferma sia a livello co‑
munitario con la sentenza della Corte
di Giustizia dell’Unione Europea, emes‑
sa il 29 aprile nel caso Kiriaki, sia a li‑
vello nazionale con la sentenza della
Corte di Cassazione n. 955/2010.
La Corte di Giustizia nel caso citato
ha stabilito infatti che la clausola 5, n.
1, dell’accordo quadro sul lavoro a tem‑
po determinato, figurante nell’allegato
alla direttiva del Consiglio 1999/70/
CE, relativa all’accordo quadro CES,
UNICE e CEEP sul lavoro a tempo de‑
terminato, deve essere interpretata nel
senso che essa non osta all’adozione, da
parte di uno Stato membro, di una nor‑
mativa nazionale che, al fine di traspor‑
re la direttiva 1999/70 specificamente
nel settore pubblico, preveda l’applica‑
zione delle misure volte a prevenire
l’utilizzo abusivo di contratti o di rap‑
porti di lavoro a tempo determinato
successivi, qualora nel diritto interno
esista già una “norma equivalente”.
Bisogna registrare, sulla questione
della conversione, una recente pronun‑
cia difforme del Tribunale di Napoli sezione Lavoro e Previdenza (sentenza
n. 18261/2011 del 16 giugno 2011) che,
in un caso analogo a quello di cui si
discute, ha dichiarato che “tra l’istante
ed il Ministero convenuto [sussisteva]
un rapporto di lavoro a tempo indeterminato” considerando applicabile l’art.
5 del D.lgs. n. 368/2001. Tale pronuncia
appare destinata a rimanere isolata,
anche in considerazione del definitivo
avallo del legislatore alla tesi maggiori‑
taria sopra citata. La l. 124/99 all’art.
4, comma 14 bis, aggiunto dal D. l.
134/09 (convertito in legge, dall’art. 1,
comma 1, della l. 167/2009), infatti,
sembra aver risolto definitamente la
questione prevedendo che “i contratti a
tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze (…), possono
trasformarsi in rapporti di lavoro a
tempo indeterminato solo nel caso di
immissione in ruolo”.
Risolta in senso negativo la prima
questione, relativa alla possibilità di
convertire il contratto, non rimane che
verificare se il lavoratore della scuola
questioni
Gazzetta
116
pubblica, che si dolga di una presunta
illegittima successione di contratti a
tempo determinato, possa ottenere il
risarcimento del danno che ritenga di
aver subito (sul punto Corte d’Appello
di Perugia sentenza n. 448/11).
Posto che, come visto supra, il set‑
tore scolastico è regolato da un com‑
plesso di norme aventi carattere specia‑
le, occorre verificare se la condotta
dell’Amministrazione scolastica possa
dar luogo ad un abuso dello strumento
della contrattazione a termine, costi‑
tuente una condotta illegittima alla
stregua della direttiva 1999/70/CE, che
possa far sorgere il diritto al risarcimen‑
to per il lavoratore.
A tal proposito è necessario tener
presente che in tale settore le assunzioni
a tempo determinato sono destinate a
soddisfare esigenze peculiari quali:
• la variabilità degli utenti del servizio
scolastico;
• ragioni di contenimento della spesa
pubblica;
• la necessità di assicurare una eroga‑
zione costante di un servizio costi‑
tuzionalmente garantito.
Analizzando la normativa speciale,
si osserva che i contratti a tempo deter‑
minato del settore scolastico rispondo‑
no a tre tipologie:
1. supplenze annuali cosiddette su “or‑
ganico di diritto”, riguardanti posti
disponibili e vacanti al termine
dell’anno scolastico (31 agosto), che
interessano in genere sedi disagiate o
di scarso gradimento. Tale “scoper‑
tura” non è prevedibile e si manifesta
dopo le procedure di trasferimento,
di assegnazione provvisoria, di uti‑
lizzazione del personale soprannu‑
merario e di immissione a ruolo;
2. supplenze annuali cosiddette su “or‑
ganico di fatto” al termine dell’atti‑
vità didattica (30 giugno). Tali posti
non sono tecnicamente vacanti ma si
rendono disponibili, ad esempio, a
causa di un aumento della popola‑
zione scolastica del singolo istituto
non corrispondenti ad una modifica
della pianta organica;
3. supplenze temporanee, conferite per
ogni altra necessità come ad esempio
la sostituzione di personale assente
dopo il 31 dicembre, destinate a
terminare quando venga meno la
specifica esigenza.
Ciò posto, tali contratti a termine sono
stipulati ai sensi di specifiche disposizioni
q u e s t i o n i
normative (art. 4, comma 11 l. 124/99, art.
1 regolamento per le supplenze del perso‑
nale ATA D.M. 430/2000, e per il perso‑
nale docente art. 1 del D.M. 201/2000,
poi D.M. 131/2007) che contengono le
ragioni organizzative poste a fondamento
dell’assunzione a tempo determinato indi‑
cate ex ante dal legislatore in via generale
ed astratta e che verranno richiamate per
relationem nel singolo contratto.
Per tali ragioni è fuor di dubbio che
non potrà essere configurato alcun
abuso dello strumento in ipotesi di so‑
stituzione dei docenti assenti per malat‑
tia o per altra causa e di supplenze su
cosiddetto “organico di fatto”, essendo
le esigenze che le giustificano impreve‑
dibili e contingenti.
Più complessa sarà, invece, la solu‑
zione in caso di supplenze su cosiddetto
“organico di diritto”, dovendosi accer‑
tare, caso per caso, se una assegnazione
ripetuta possa configurare una condot‑
ta abusiva alla stregua della Direttiva
70/1999/CE.
Tale direttiva ha affermato che l’uti‑
lizzo di contratti a tempo determinato
debba essere basata su ragioni oggettive
per non configurare un abuso. Ciascun
ordinamento interno ha la facoltà di
attuare la direttiva utilizzando i mezzi
più opportuni ed adeguati a condizione
di realizzare le finalità indicate nell’ac‑
cordo quadro (migliorare la qualità del
lavoro a tempo determinato, garanten‑
do il rispetto del principio di non discri‑
minazione con la prevenzione degli
abusi derivanti da una successione di
contratti a termine).
La Corte di giustizia dell’Unione
Europea, con sentenza del 4 luglio
2006, e la giurisprudenza di merito
nazionale (Corte d’Appello di Milano
con sentenze nn. 151 e 198 del 2009)
hanno specificato che il principio sanci‑
to nella direttiva (secondo cui il contrat‑
to a termine costituisce una eccezione)
non è quello di porre ragioni obiettive a
sostegno della singola assunzione “pre‑
caria” bensì “la necessità che le normative interne dei singoli Stati prevedano
presupposti specifici per la conclusione
del contratto a tempo determinato”.
Di conseguenza pare che il conferi‑
mento delle supplenze da parte dell’Am‑
ministrazione scolastica non sia idoneo ad
integrare un abuso quando l’incarico:
1. sia svincolato da precedenti non
costituendone né prosecuzione, né
proroga;
Gazzetta
F O R E N S E
2. sia conferito nel rispetto delle gra‑
duatorie permanenti provinciali (o
delle graduatorie d’istituto per le
supplenze su cosiddetto “organico
di fatto” o temporanee);
3. sia conferito secondo criteri prede‑
terminati che l’Amministrazione è
tenuta a rispettare.
Nel rispetto di tali criteri, l’indivi‑
duazione del lavoratore costituisce un
vero e proprio obbligo per l’Ammini‑
strazione scolastica.
Inoltre, sebbene sia innegabile che il
lavoratore in virtù di una reiterazione di
contratti a tempo determinato versi in
una situazione di precarietà idonea a
generare disagio, tale reiterazione raf‑
forza la sua condizione acquisendo
punteggio per ogni periodo di servizio,
ottenendo maggiori titoli per gli incari‑
chi successivi dovendosi l’Amministra‑
zione (a differenza del datore di lavoro
privato) attenere alle graduatorie per il
conferimento dei nuovi incarichi. Tale
avanzamento in graduatoria rileva altre‑
sì ai fini dell’immissione in ruolo, con‑
siderando che l’Amministrazione oltre
che tramite l’espletamento di concorsi
per esami e titoli (che sono peraltro
sempre più sporadici) attinge alle gra‑
duatorie permanenti per selezionare i
soggetti da assumere in pianta stabile.
Alla luce di tali circostanze si può
affermare che le assunzioni a termine
nella scuola pubblica non sono assun‑
zioni a tempo indeterminato in senso
tecnico ma si inseriscono all’interno di
uno “speciale e progressivo sistema di
reclutamento destinato a concludersi
fisiologicamente con l’assunzione in
ruolo e la ricostruzione della carriera”
(sul punto si veda Corte d’Appello di
Firenze sentenza n. 499/2006).
Tale tesi è confermata da un recente
intervento legislativo (art. 9, comma 18,
del D. L. 70 /2011 convertito con legge
1/2011) che, esercitando un potere rico‑
nosciuto dalla direttiva 1999/70/CE,
esclude espressamente il rapporto di
lavoro scolastico dall’applicazione della
disciplina sui contratti a termine.
La sottrazione alla disciplina comune
è giustificata dalla “necessità di garantire la costante erogazione del servizio
scolastico ed educativo” (art. 4, comma
4 bis l. 124/99) e dalla circostanza che le
supplenze sono necessarie per sopperire
alla rigidità dell’organico della scuola.
A questo punto appare chiaro che
ove sia rispettata la normativa speciale,
n o v e m b r e • d i c e m b r e
F O R E N S E
non residua spazio per alcun rimedio
per il lavoratore della scuola che lamen‑
ti un abuso dello strumento della con‑
trattazione a termine.
Il legislatore è intervenuto, in modo
costituzionalmente legittimo e comuni‑
tariamente orientato, per dirimere ogni
possibile controversia operando a mon‑
te un bilanciamento tra l’interesse par‑
ticolare del lavoratore cosiddetto preca‑
rio e l’interesse generale in considerazio‑
ne delle specifiche esigenze del settore.
In conclusione, secondo recente giu‑
risprudenza di merito (Corte d’Appello
di Perugia sentenza 448/11) tale inter‑
vento legislativo rafforza il convinci‑
mento che l’Amministrazione scolastica
ha ampi margini, rispetto a quanto pre‑
visto alla disciplina comune (di cui al
D.lgs. 368/01 per il datore di lavoro
privato e al D.lgs. 165/01 per il datore di
lavoro pubblico), per utilizzare lo stru‑
mento della contrattazione a termine.
Solo all’interno di tali “larghe ma‑
glie” può configurarsi una condotta
abusiva ove l’Amministrazione scolasti‑
ca violi la normativa di settore che indi‑
ca a monte le ragioni oggettive per cui si
possa ricorrere ai contratti a termine.
2 0 1 1
●
DIRITTO penale
Può operare la causa
di estinzione del reato
conseguente a condotte
riparatorie nel procedimento
penale davanti al Giudice di
pace nel caso in cui l’attività
risarcitoria provenga da un
terzo?
● Alfredo Capuano
Dottore in giurisprudenza
L’art. 35 del D. Lgs. n. 274/2000
(“Estinzione del reato conseguente a
condotte riparatorie”) costituisce una
forma alternativa del procedimento
penale innanzi il Giudice di pace cui il
legislatore affida una funzione concilia‑
tiva, connotazione propria dell’intero
rito, ed ha introdotto un nuovo concet‑
to di giustizia che si può definire “ristorativa”, dal contenuto spiccatamente
patrimoniale, nella prospettiva di rista‑
bilire lo status quo ante e di compensa‑
re, sul piano economico, gli effetti
dell’illecito.
Questa speciale causa di estinzione
del reato conseguente a condotte ripara‑
torie non opera sul solo presupposto
dell’avvenuto risarcimento ma, al con‑
trario, presuppone altresì il mancato
permanere di conseguenze pericolose o
dannose del reato e, comunque, necessi‑
ta che le condotte riparatorie siano ido‑
nee a soddisfare le esigenze di riprova‑
zione del reato e quelle di prevenzione
(Cass. Pen., sez. IV, 29 maggio 2008, n.
27439, in Cass. pen. 2009, 10, 3938; Id.,
sez. V, 18 gennaio 2007, n. 5581; Id.,
sez. V, 14 marzo 2003, n. 15798; Id., sez.
V, 24 marzo 2005, n. 14070, Id., n.
11522 del 2004; Id, sez. IV, 9 dicembre
2003, n. 11522. In dottrina, conforme‑
mente, Baldi, Il manuale del Giudice di
pace penale, Milano, 2000, p. 309 ss.).
La norma in commento è stata fin
dagli inizi bersaglio di numerose critiche
che hanno portato a sollevare numerose
ed eterogenee questioni di illegittimità
117
costituzionale che, tuttavia, la Corte
Costituzionale, da un lato, e la Suprema
Corte, da l’altro, hanno sempre respinto
fino ad oggi (in ordine alla discreziona‑
lità della valutazione del giudice sulla
congruità del quantum et qualitas vedi
Cass. Pen., sez. V, 14 marzo 2003, n.
15798, in Cass. pen. 2004, 1641; in
ordine alla (non) obbligatorietà del de‑
creto di citazione a giudizio di contene‑
re l’avviso che l’imputato prima della
dichiarazione di apertura del dibatti‑
mento possa porre in essere le condotte
riparatorie di cui all’art. 35 vedi Corte
Cost., 02 marzo 2005, n. 86 in Giur.
cost. 2005, 2; Id., 26 luglio 2005, n.
333, in Giur. cost. 2005, 4; Id., 13 gen‑
naio 2004, n. 11, in Giur. cost. 2004;
Id., 29 gennaio 2004, n. 56, in Giur.
cost. 2004; in ordine alla parte in cui
non prevede che non possa partecipare
al giudizio il giudice che, prima dell’aper‑
tura del dibattimento, si sia pronunciato
in ordine all’idoneità - o meglio inido‑
neità - della condotta riparatoria propo‑
sta dall’imputato ai fini del prosciogli‑
mento per estinzione del reato ex art. 35
cit. vedi Corte Cost., 09 marzo 2007, n.
76, in Giur. cost. 2007, 2 ed in Cass.
pen. 2007, 7-8, 2772; sul combinato
disposto dell’art. 516 c.p.p. e dell’art. 35
cit., nella parte in cui non prevedono
che, in caso di modifica del capo di
imputazione nel corso del dibattimento,
anche quando la nuova contestazione
concerna un fatto che già risultava dagli
atti di indagine al momento dell’eserci‑
zio dell’azione penale ovvero quando
l’imputato abbia tempestivamente e ri‑
tualmente proposto la definizione anti‑
cipata del procedimento in ordine alle
originarie imputazioni, l’imputato possa
usufruire dei benefici di cui all’art. 35
cit. vedi Corte Cost., 13 luglio 2011, n.
206).
La condotta riparatoria necessaria
ai fini dell’estinzione del reato nel pro‑
cedimento penale davanti al Giudice di
pace necessità di un giudizio di con‑
gruità da parte di quest’ultimo median‑
te una valutazione dell’idoneità in con‑
creto a soddisfare le esigenze di ripro‑
vazione del reato e quelle di prevenzione
e di fornire, al riguardo, adeguata mo‑
tivazione - avuto riguardo al contesto
nel quale si inseriscono le condotte cri‑
minose, al significato di concreto rav‑
vedimento dell’offerta e alla concreta
efficacia dell’attività riparatoria a pre‑
venire ulteriori reati - al fine di assicu‑
questioni
Gazzetta
118
rare comunque una valenza retributiva
e di prevenzione speciale all’intervento
giurisdizionale dinanzi a condotte di un
certo grado di gravità e pericolosità.
(Cass. Pen., sez. V, 26 febbraio 2009, n.
12736; Id., n. 45355 del 2008; Id., n.
27439 del 2008; Id., n. 5581 del
2007; Id., sez. V, 24 marzo 2005, n.
14070, Id., n. 11522 del 2004). Non
basta, pertanto, la mera soddisfazione
della vittima del reato e, comunque,
l’integralità della riparazione lato sensu
posta in essere dal reo (sub specie, del
risarcimento, della riparazione ovvero
dell’eliminazione delle conseguenze
dannose o pericolose). Occorre, sotto il
primo profilo, che il giudice ritenga
l’attività risarcitoria o riparatoria ido‑
nea a compensare la gravità della con‑
dotta criminosa (è l’ipotesi, esemplifi‑
cando, dei reati commessi con modalità
particolarmente gravi, rispetto ai quali
occorre pur sempre conservare all’inter‑
vento giurisdizionale una valenza “re‑
tributiva” e “repressiva” nei confronti
del reo, che sarebbe svuotata di qualsi‑
voglia contenuto dalla declaratoria di
estinzione); e, sotto l’altro profilo, che il
giudice ritenga l’attività risarcitoria o
riparatoria idonea a prevenire, per il
futuro, la reiterazione della condotta
criminosa (è l’ipotesi, sempre esemplifi‑
cando, di reati “professionali” o quella
di reati commessi da un recidivo o co‑
munque da persona che abbia denotato
una spiccata capacità a delinquere, ri‑
spetto ai quali è necessario conservare
all’intervento giurisdizionale una valen‑
za “di prevenzione speciale” a tutela
delle esigenze di tutela della collettività).
(Cass. Pen., sez. IV, 09 dicembre 2003,
n. 11522, in Cass. pen. 2005, 6, 195).
La dottrina, già nell’immediatezza
dell’introduzione della norma, era giun‑
ta alle stesse conclusioni circa la dove‑
rosità della contemporanea soddisfazio‑
ne delle esigenze di prevenzione specia‑
le e retribuzione, proprio alla luce del
carattere pubblicistico dell’istituto: in
tal senso, cfr. Baldi, op. cit., p. 309 ss.,
il quale aveva osservato che «il nuovo
istituto è strutturato in modo tale che
il fatto penale non diventi una questione privata tra reo e persona offesa».
(Vedi anche Natalini, La disintossica‑
zione non estingue il reato, in Dir. e
giust., 2004, n. 36, p. 46; D'Ascola 2000: Il ruolo del difensore, in
Aa.Vv., La competenza penale del giudice di pace, Ipsoa, p. 273; Quattroco‑
q u e s t i o n i
lo, Sub art. 35, in Leg. pen., 2001, 203
ss. In ordine, invece, alla natura “integrale ed effettiva” della condotta risar‑
citoria vedi Amato, Così il ravvedimento operoso estingue il reato, in
Guida dir., 2000, n. 38, 124 ss.).
In giurisprudenza, al contempo, si è
verificato un contrasto circa la operabi‑
lità dell’art. 35 cit. allorquando la con‑
dotta riparatoria provenga da soggetto
terzo rispetto al reato. Alcuni giudici di
merito sostengono che la causa di estin‑
zione in parola non può operare in
presenza di un mero risarcimento del
danno effettuato da un soggetto diverso
dall’imputato. (G.d.p. di Foggia, 19
giugno 2003, Cicolella, in Arch. giur.
circol. e sinistri 2003, 811).
Secondo un altro orientamento, che
potremmo definire intermedio, è illegit‑
tima la decisione con cui il G.d.p. subor‑
dina l’operatività della speciale causa di
estinzione del reato prevista dall’art. 35
cit. al risarcimento del danno da parte
dell’imputato ma l’attività risarcitoria,
non essendo da sola sufficiente a con‑
sentirne l’operatività della stessa, richie‑
de anche la dimostrazione, da parte
dell’imputato, dell’avvenuta riparazione
del danno cagionato alla vittima, anche
mediante l’eliminazione effettiva delle
conseguenze dannose o pericolose del
reato (Cass. Pen., sez. V, 18 gennaio
2007, n. 5581); è necessario, quindi, che
il risarcimento sia idoneo a soddisfare
anche le esigenze di riprovazione del
reato e quello di prevenzione, da valu‑
tarsi però di volta in volta in relazione
alla natura del reato o alle caratteristi‑
che proprie del singolo caso (in un caso
di lesioni colpose lievi da incidente
stradale la Suprema Corte - sez. IV, 05
marzo 2009, n. 14439, in Arch. giur.
circol. e sinistri 2009, 9, 689 - ha rite‑
nuto che anche le suddette esigenze
potessero, per implicito, ritenersi soddi‑
sfatte a seguito del risarcimento effet‑
tuato dall’impresa assicuratrice: in que‑
sti termini Cass. Pen., sez. IV, 16 dicem‑
bre 2009, n. 1831, in Arch. giur. circol.
e sinistri 2010, 6, 536; Id., sez. V, 09
luglio 2009, n. 38597, in Guida al diritto 2010 - Dossier 2, 75; Id., sez. V, 26
febbraio 2009, n. 12736; Id., sez. V, 6
novembre 2008, n. 45355; Id., sez. IV,
29 maggio 2008, n. 27439; Id., sez. V,
18 gennaio 2007, n. 5581; Id., 22 set‑
tembre 2005, n. 40818; Id., 24 marzo
2005, n. 14070; Id., sez. IV, 9 dicembre
2003, n. 11522).
Gazzetta
F O R E N S E
Secondo un terzo orientamento
l’operatività della speciale causa di estin‑
zione del reato connessa alla riparazione
del danno non è subordinata al fatto che
il risarcimento sia riconducibile diretta‑
mente e personalmente all’imputato e
nessun riferimento esplicito è fatto circa
l’eliminazione effettiva delle conseguen‑
ze dannose o pericolose del reato (Cass.
Pen., sez. IV, 11 novembre 2010, n. 112;
Id., 02 aprile 2008, n. 20014, in Arch.
giur. circol. e sinistri 2008, 9, 729; Id.,
sez. IV, 24 settembre 2008, n. 41043;
Id., sez. IV, 29 febbraio 2008, n.
15248, in Arch. giur. circol. e sini‑
stri 2008, 12, 1038; Id., n. 5581 del
2007; Id., sez. VI, 9 novembre 2005, n.
46329; Id., sez. V, 24 marzo 2005 n.
14070; Id., sez. IV, 4 ottobre 2004 n.
46557; Id., sez. IV, 25 novembre 2004
n. 20525; Id., sez. IV, 9 dicembre 2003
n. 11522. Sul tema in dottrina vedi
Ceccarelli, Ai fini dell’estinzione del
reato è sufficiente la riparazione ad
opera dell’assicurazione obbligatoria, in
Diritto e giustizia 2009, 0, 79; Aprile,
La competenza penale del giudice di
pace, 2001, p. 174; Pittaro, La compe‑
tenza penale del giudice di pace: profili
di diritto sostanziale, in QG, 2000, 6,
1053; Pisa, La disciplina sanzionatoria,
in Aa.Vv., La competenza penale del
giudice di pace, Ipsoa, 2000, 209-259).
Di certo non può condividersi
quell’orientamento secondo il quale il
risarcimento, per essere valido, debba
essere direttamente eseguito dall’impu‑
tato e, per conseguenza, nel caso di
copertura assicurativa questi non potrà
beneficiare del beneficio in parola. L’im‑
putato-assicurato, seppure si avvale di
una compagnia assicuratrice, risponde,
ancorché indirettamente, delle modalità
e delle conseguenze del pagamento. La
“volontà della riparazione” sussiste,
infatti, anche nell’aver stipulato un’as‑
sicurazione o nell’aver rispettato gli
obblighi assicurativi per salvaguardare
la copertura dei danni derivati dalla
condotta pericolosa. Il risarcimento è,
quindi, personale e l’avvalersi di una
compagnia assicuratrice non può essere
motivo valido per non rispettare il ter‑
mine di cui all’art. 35 cit. Ragionando
al contrario si potrebbe giungere al
paradosso che l’autore di un reato privo
di copertura assicurativa possa benefi‑
ciare della speciale causa di estinzione
del reato risarcendo personalmente il
soggetto danneggiato mentre, al contra‑
n o v e m b r e • d i c e m b r e
F O R E N S E
rio, l’autore della medesima condotta
criminosa provvisto però di copertura
assicurativa (e che, pertanto, abbia te‑
nuto un comportamento quantomeno
apprezzabile, soprattutto in caso di
polizza assicurativa non obbligatoria)
non né possa beneficiare della stessa
speciale causa estintiva del reato.
Forse qualche dubbio potrebbe pa‑
ventarsi nel caso in cui l’imputato non
sia il soggetto assicurato ma mero uti‑
lizzatore di un bene assicurato. Ma
anche in questo caso, ad avviso di chi
scrive, deve poter trovare applicazione
la causa estintiva del reato in parola in
quanto appare avulso dalla realtà dei
rapporti sociali pretendere che l’impu‑
tato, per godere della causa estintiva di
cui all’art. 35 cit., proceda ad un risar‑
cimento personale, pur in presenza di
un contratto di assicurazione che, in
alcuni casi, ha addirittura carattere di
obbligatorietà.
2 0 1 1
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Quale giurisdizione opera in
caso di tutela avverso
un provvedimento scolastico
di assegnazione delle ore
di sostegno, asseritamente
discriminatorio ai sensi della
Legge 67/06?
● Ida Sorrentino
Dottore in giurisprudenza
Sussiste il difetto di giurisdizione del
giudice ordinario in favore del giudice
amministrativo ove, lamentando una
discriminazione ingiustificata ai danni
del disabile, ex art 3, Legge 67/06, da
parte dell’Amministrazione scolastica
nell’assegnazione del monte ore di inse‑
gnamento di sostegno, si richieda un
provvedimento cautelare di urgenza teso
al ripristino delle ore di insegnamento
decurtate, previo accertamento dell’esi‑
stenza di una condotta discriminatoria
da parte della PA ai danni del disabile.
E’ quanto si ricava da una recente
ordinanza del Tribunale di Sant’Angelo
dei Lombardi n. 2668 del 21/12/11 con
la quale il giudice ha ribadito che sussiste
la giurisdizione esclusiva sui diritti ex art
133, co.1, lett.c), d.lgs. 2 Luglio 2010 n.
104, per il ricorso col quale si lamenta il
sacrificio del diritto allo studio del mi‑
nore disabile, in conseguenza della con‑
trazione delle ore di sostegno, funziona‑
li a consentire la sua proficua partecipa‑
zione alle attività didattiche, altrimenti
preclusa dallo stato di disabilità.
Con ricorso ex art. 700 c.p.c. i ricor‑
renti, in qualità di genitori esercenti la
patria potestà sul loro figlio disabile,
avevano adito il Tribunale ordinario
lamentando che, per effetto della ridu‑
zione delle ore di sostegno, il proprio
figlio, affetto da grave handicap, avesse
subito una ingiustificata compromissio‑
ne del diritto all’istruzione e dunque una
discriminazione rispetto agli altri alun‑
ni, in violazione della Legge 67/06.
Sostenevano che la condotta della
P.A. fosse discriminatoria in quanto
poneva il loro figlio in condizioni di
119
svantaggio rispetto agli altri alunni.
Asserivano che l’inadeguata assegnazio‑
ne delle ore di sostegno costituisse una
vera e propria discriminazione a danno
dello stesso e non solo una lesione del
diritto allo studio in quanto la riduzione
delle ore di sostegno non gli consentiva
di frequentare la scuola al pari degli altri,
in violazione del principio di uguaglian‑
za sostanziale sancito dalla Costituzione
e su cui si basa la tutela antidiscrimina‑
toria introdotta con la legge 67/06.
Chiedevano pertanto che, previo
accertamento del carattere discrimina‑
torio della condotta della P.A. ai danni
del disabile, fosse disposto il ripristino
delle ore di insegnamento decurtate
onde consentire all’alunno di recepire,
al pari dei suoi compagni di classe,
l’offerta formativa data dalla frequenza
scolastica, disponendo poi la continua‑
zione del giudizio innanzi al giudice
compente per il merito.
Si costituiva in giudizio la difesa
erariale eccependo il difetto di giurisdi‑
zione del giudicante adito.
Il Tribunale rigettava il ricorso di‑
chiarando il proprio difetto di giurisdi‑
zione in favore del G.a.
Come è noto, la legge 1 Marzo
2006, n. 67, ha fornito strumenti di
tutela in favore delle persone disabili. In
particolare, dopo aver evidenziato l’in‑
tenzione di attuare il principio di ugua‑
glianza formale e sostanziale sancito
dall’art. 3 Cost. (art. 1), ha affermato il
divieto di ogni pratica discriminatoria
in pregiudizio delle persone con disabi‑
lità (art. 2). Secondo la normativa, la
discriminazione può essere diretta,
quando, per motivi connessi alla disa‑
bilità, una persona è trattata meno fa‑
vorevolmente di quanto sia, sia stata o
sarebbe trattata una persona non disa‑
bile in situazione analoga, o indiretta,
quando una disposizione, un criterio,
una prassi, un atto, un patto o un com‑
portamento apparentemente neutri
mettano una persona con disabilità in
una posizione di svantaggio rispetto ad
altre persone. Sono, altresì, considerate
discriminazioni le molestie ovvero quei
comportamenti indesiderati, posti in
essere per motivi connessi alla disabili‑
tà, che violano la dignità e la libertà di
una persona con disabilità ovvero crea‑
no un clima di intimidazione, di umilia‑
zione e di ostilità nei suoi confronti.
Tenuto conto di quanto sopra, non
vi è dubbio che la normativa introdotta
questioni
Gazzetta
120
con la legge n. 67/06 ha apprestato una
tutela ad ampio raggio della persona
disabile da qualsiasi comportamento
che, di fatto, lo ponga in una condizio‑
ne di esclusione ed emarginazione ri‑
spetto al contesto in cui agisce.
L’art 3 della legge n. 67/2006 (Mi‑
sure per la tutela giudiziaria delle per‑
sone con disabilità vittime di discrimi‑
nazioni), stabilisce, attraverso il richia‑
mo all’art. 28 del D.lgs. 1-9-2011 n. 150
(Disposizioni complementari al codice
di procedura civile in materia di ridu‑
zione e semplificazione dei procedimen‑
ti civili di cognizione, ai sensi dell’arti‑
colo 54 della legge 18 giugno 2009, n.
69), che le controversie in materia di
discriminazione di cui all’articolo 3
della legge 1° marzo 2006, n. 67, sono
regolate dal rito sommario di cognizio‑
ne, sancendo altresì la competenza del
Tribunale del luogo in cui il ricorrente
ha il domicilio.
Il comma 5 dell’art. 28 D.lgs. 1-92011 n. 150, prosegue prevedendo che
con l’ordinanza che definisce il giudizio
il giudice può condannare il convenuto
al risarcimento del danno anche non
patrimoniale e ordinare la cessazione del
comportamento, della condotta o dell’at‑
to discriminatorio pregiudizievole, adot‑
tando, anche nei confronti della pubbli‑
ca amministrazione, ogni altro provve‑
dimento idoneo a rimuoverne gli effetti.
Al fine di impedire la ripetizione della
discriminazione, il giudice può ordinare
di adottare, entro il termine fissato nel
provvedimento, un piano di rimozione
delle discriminazioni accertate.
In senso ostativo all’applicazione
della normativa citata si pone l’afferma‑
zione della giurisdizione esclusiva del
G.a. ex art. 133 comma 1 lett. c) del
d.lgs. 104/2010.
q u e s t i o n i
L’oggetto del giudizio, al di là dell’ef‑
fetto discriminatorio, risulta, infatti, es‑
sere l’accertamento di una presunta ille‑
cita attività provvedimentale in materia
di servizi pubblici della Amministrazione
e la conseguente rimozione del provvedi‑
mento: tale materia, appartenente alla
giurisdizione esclusiva del giudice ammi‑
nistrativo ai sensi dell’art. 133, comma 1
lett. c) del d.lgs. 104/2010.
Difatti l’articolo summenzionato
comma 1 lett. c) indica quali rientrante
nella giurisdizione esclusiva del g.a. “le
controversie in materia di pubblici
servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti
indennità,, canoni ed altri corrispettivi,
ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o
dal gestore di un pubblico servizio in un
procedimento amministrativo, ovvero
ancora relative all’affidamento di un
pubblico servizio, ed alla vigilanza e
controllo nei confronti del gestore,
nonchè afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato
mobiliare, al servizio farmaceutico, ai
trasporti, alle telecomunicazioni e ai
servizi di pubblica utilità.”
In tal senso si esprime anche il cita‑
to Tribunale che ha rigettato il ricorso
considerando che le controversie aventi
ad oggetto l’accertamento del diritto
all’assegnazione di un insegnante di
sostegno sono incentrate sull’annulla‑
mento dell’operato illegittimo dell’Am‑
ministrazione scolastica e che dunque la
tutela delle posizioni soggettive coinvol‑
te competerebbe al G.a. dal momento
che l’azione proposta tende a mettere in
discussione la correttezza del potere
amministrativo esercitato nell’organiz‑
zazione del servizio.
Pertanto anche ove si lamenti una
Gazzetta
F O R E N S E
discriminazione ai sensi della Legge
67/06, richiedendo la rimozione del
provvedimento illegittimo asseritamen‑
te discriminatorio onde ottenere un
numero di ore di insegnamento propor‑
zionato all’handicap ed in grado di
consentire al disabile di essere in condi‑
zioni di parità rispetto agli altri studen‑
ti, resta la giurisdizione in capo al giu‑
dice amministrativo.
Appare opportuno sottolineare che
l’elemento discriminatorio della condot‑
ta assunta dalla PA. ai danni del disabi‑
le ai sensi della legge n. 67/2006, rilevi
ai fini di una subordinata richiesta di
risarcimento dei danni patrimoniali e
non, formulabile, ugualmente in sede
giurisdizionale amministrativa, ai sensi
degli artt. 7, co. 5 c.p.a. e 28, co. 5,
D.lgs. 150/2011.
L’accoglimento della domanda di
risarcimento del danno non patrimonia‑
le, quantificabile in via equitativa sulla
base della durata della discriminazione
e dei disagi in concreto subiti dell’allievo
disabile sarebbe subordinato alla prova
dell’elemento soggettivo, l’intento di‑
scriminatorio, e dell’elemento oggettivo,
ossia la discriminazione del disabile ri‑
spetto agli altri e dei disagi subiti. Tali
elementi certamente non sussisterebbero
nell’ipotesi, tutt’altro che infrequente, in
cui gli istituti scolastici dimostrino di
aver attivato il procedimento atto ad
ottenere un numero di insegnanti ade‑
guato alle esigenze degli alunni disabili
ma con esito negativo per comprovate
difficoltà economiche.
Quanto al danno patrimoniale, il
risarcimento sarà subordinato alla pro‑
va delle spese extra sostenute per l’istru‑
zione del disabile onde sopperire al de‑
ficit conseguente alla riduzione del
monte ore scolastico.
Recensioni
Codice dell’ADR: mediazione, conciliazione, arbitrato
di Aldo Niccoli Editrice Edises, Collana Editest – Obiettivo professioni, 2011
123
recensioni
A cura di Valeria D'Antò
F O R E N S E
●
Codice dell’ADR:
mediazione, conciliazione,
arbitrato
di Aldo Niccoli
Editrice Edises
Collana Editest – Obiettivo
professioni, 2011
● A cura di Valeria D'Antò
Avvocato, Conciliatore, Mediatore
Come si legge nella premessa al vo‑
lume, la giustizia è amministrata in
nome del popolo (art. 101 Cost.), ma
non necessariamente o esclusivamente
da parte degli organi giudiziari.
Al di là dei ricorsi di natura giurisdi‑
zionale o amministrativa, esistono, in‑
fatti, dei sistemi di “risoluzione alterna‑
tiva delle controversie”, terminologica‑
mente riuniti sotto l’acronimo ADR, che
indica l’Alternative Dispute Resolution;
da ciò già si può comprendere come
l’origine di tali sistemi alternativi non sia
rinvenibile nel diritto nazionale o, risa‑
lendo nel tempo, nel diritto romano.
L’ADR include oggi varie procedu‑
re, tra cui spiccano la mediazione/con‑
ciliazione e l’arbitrato, anche se la defi‑
nizione si estende anche alle cd. proce‑
dure di reclamo.
Dal punto di vista terminologico,
mediazione e conciliazione vengono
utilizzati come sinonimi, anche se a
voler trovare una differenza sostanziale
si può sostenere che la mediazione rap‑
presenta l’attività o l’iter del procedi‑
mento, mentre la conciliazione è più
propriamente il risultato finale della
mediazione.
La conciliazione si definisce facolta‑
tiva ove le parti liberamente decidano
di accedervi, obbligatoria quando è
prevista da un obbligo normativo o
convenzionale (come una clausola con‑
trattuale o statutaria), oppure delegata
se è attivata su invito del giudice.
n o v e m b r e • d i c e m b r e
2 0 1 1
Diverse e parallele alla conciliazio‑
ne, inoltre, sono le negoziazioni volon‑
tarie, le conciliazioni paritetiche e le
procedure di reclamo previste dalle
varie carte dei servizi.
Dal punto di vista procedurale, la
mediazione è una procedura riservata
nella quale un terzo (soggetto indivi‑
duale o collegiale) neutrale, imparziale,
privo di poteri decisori e specificamente
preparato aiuta le parti a gestire la con‑
troversia (concernente diritti disponibi‑
li), e a raggiungere un accordo soddisfa‑
cente, il tutto senza esprimere alcuna
opinione se non richiesta dalle parti.
Nell’arbitrato, invece, il terzo, al‑
trettanto qualificato e imparziale, viene
chiamato ad emettere una vera e propria
decisione, in luogo del giudice e dunque
d’autorità, anche se di norma dopo aver
tentato una conciliazione (come d’altra
parte sovente deve fare anche il magi‑
strato, ai sensi del codice di procedura
vigente).
La ragione “politica” di tali sistemi
alternativi risiede nel fatto che il proce‑
dimento giudiziario, con cui il magistra‑
to è chiamato a pronunciarsi sulle ra‑
gioni e sui torti, ha un notevole peso in
termini di costi per le parti e per l’ordi‑
namento, nonché in termini di tempi per
l’istruzione della causa e la pronuncia
della sentenza; pertanto, le esigenze di
certezza delle situazioni giuridiche e di
celerità degli scambi economici rendono
decisamente conveniente il ricorso alle
procedure alternative, nelle quali soven‑
te gioca un ruolo centrale l’accordo
delle parti.
Per tali ragioni l’istituto ha trovato
crescente diffusione nei vari ordinamen‑
ti, incluso quello italiano.
Inoltre, spesso il ricorso alle proce‑
dure alternative, in quanto consente
l’alleggerimento del circuito giudiziario,
è accompagnato da sgravi o altri van‑
taggi di natura fiscale.
Il Codice dell’ADR di Aldo Niccoli,
della Casa Editrice Edises, collana Edi‑
test, non si limita alla sola media‑con‑
ciliazione ma tiene conto di tutte le ci‑
tate procedure non tipicamente giurisdi‑
zionali, e si rivolge a professionisti del
settore relativo alla risoluzione alterna‑
tiva delle controversie, più in particola‑
123
re avvocati, mediatori, conciliatori, ar‑
bitri, consulenti del lavoro.
È un codice di formato maneggevo‑
le ma che intende essere completo dal
punto di vista della normativa applica‑
bile; lo scopo dell’Autore, difatti, è
stato quello di creare un vero supporto
professionale per la soluzione alternati‑
va delle controversie, raggruppando in
sé tutta la normativa di interesse.
Strutturalmente, il volume si suddi‑
vide in quattro parti che aiutano gli
operatori della materia a districarsi nella
disciplina vigente. Più precisamente:
‑ la Parte prima, recante la disciplina
generale della mediazione concilia‑
zione civile e commerciale, costitui‑
ta da 23 paragrafi, tra cui normati‑
va di spicco sono il d.lgs. 28/2010
(Mediazione finalizzata alla conci‑
liazione delle controversie) e il d.m.
180/2010 (Registro degli organismi
di mediazione e elenco formatori);
‑ la Parte seconda, recante la discipli‑
na dell’arbitrato e della conciliazio‑
ne;
‑ la Parte terza, recante le discipline
speciali, suddivisa nei vari ambiti di
settore: agrario, assicurativo banca‑
rio e finanziario, comunicazioni,
contratti pubblici, famiglia, lavoro
pubblico e privato, società, traspor‑
ti, tributi, sport, etc.;
‑ la Parte quarta, recante le linee
guida racchiuse nella normativa
comunitaria ed internazionale.
Punti di forza del lavoro sono l’ac‑
curata selezione dei provvedimenti in
materia e la completezza del panorama
legislativo di riferimento (aggiornato
alla l.10/2001, di conversione del d.l.
225/2010, cd. milleproroghe 2011).
Inoltre, nei testi di legge non diretta‑
mente incentrati sulla conciliazione o
sull’arbitrato (ad esempio il c.p.c. o il
codice del consumo), si trova una accu‑
rata selezione di termini in neretto che
costituiscono una sorta di parole‑guida
alla lettura dei testi estratti.
Sul sito della casa Editrice, inoltre,
in un’apposita sezione di Strumenti del
Codice, si possono rinvenire anche gli
aggiornamenti alle più rilevanti norme
emanate successivamente alla pubblica‑
zione del volume.
recensioni
Gazzetta
Indice delle sentenze
Diritto e procedura civile
corte di cassazione
sez. III, sent. 20.12.2011, n. 27562 s.m.
sez. III, sent. 20.12.2011, n. 27561 s.m.
sez. III, sent. 13.12.2011, n. 26709 s.m.
sez. III, sent. 30.11.2011, n. 25568 s.m.
sez. III, sent. 29.11.2011, n. 25230 s.m.
sez. I, sent. 25.11.2011, n. 24954 s.m.
sez. unite, sent. 25.11.2011, n. 24906 s.m.
sez. III, sent. 01.04.2011, n. 7557 (con nota di D’Alessandro)
corte d’appello
Napoli, sez. lavoro, sent. 24.11.2011, n. 6349 s.m.
Napoli, sez. lavoro, sent. 09.11.2011, n. 6563 s.m.
Napoli, sez. lavoro, sent. 03.06.2011, n. 3604 s.m.
tribunale
Napoli, sez. lavoro, ord. caut. 15.11.2011 (con nota di Micillo)
Napoli, sez. XII civ., sent. 09.03.2011, n. 2801 s.m.
Napoli, sez. distaccata di Casoria, sent. 25.02.2011
(con nota di Tramontano)
Diritto e procedura penale
corte di cassazione
sez. un. pen., sent. 29.09.2011, n. 155 (dep.10/01/2012)
(con nota di Pignatelli)
sez. un. pen., sent.14.07.2011, n. 40288(dep. 07/11/2011)
(con nota di Pignatelli)
sez. I pen., sent. 14.07.2011, n. 33121 (dep. 05/09/2011 )
sez. un. pen., sent. 23.06.2011, n. 34476 (dep. 22/09/2011)
sez. un. pen., sent. 23.06.2011, n. 34475 (dep. 22/09/2011)
sez. V pen., sent. 07.06.2011, n. 37370 (dep. 17/10/2011)
sez. VI pen., sent. 06.06.2011, n. 34106 (dep. 15/09/2011)
sez. un. pen., sent. 25.05.2011, n. 37954 (dep. 20/10/2011)
tribunale
Nola, G.M., sent. 24.11.2011, n. 2558 s.m.
Nola, G.M., sent. 31.10.2011 n. 2373 s.m.
Napoli, G.M., sent. 28.10.2011, n. 14694 s.m.
Napoli, sez. II pen., sent. 26.10.2011, n. 14106 s.m.
Napoli, sez. I, coll. B), ord. 20.10.2011, n. 185 s.m.
Nola, G.M., sent. 18.10.2011, n. 2232 s.m.
Napoli, G.M., sent. 17.10.2011, n. 13374 s.m.
Napoli, G.M., sent. 12.10.2011, n. 13014 s.m.
Napoli, G.M., sent. 12.10.2011, n. 13402 s.m.
Nola, G.M., sent. 3.10.2011, n. 2052 s.m.
Napoli, sez. XI pen., sent. 26.9.2011, n. 12015 s.m.
Napoli, sez. XI pen., sent. 26.09.2011, n. 12009 s.m.
Napoli, Riesame, sez. feriale, ord. 27.07.2011 s.m.
Napoli, Riesame, sez. feriale, ord. 01.8.2011, n. 5676 s. m.
corte d’appello
Napoli, sez. III pen., sent. 01.12.2011, n. 5601 s.m.
Napoli, sez. I pen., sent. 13.10.2011, n. 4668 s.m.
Napoli, sez. II pen., sent. 30.09.2011, n. 5565 s.m.
g.i.p. – g.u.p.
Nola, sent. 19.10.2011, n. 476 s.m.
Nola, sent. 30.03.2011, n. 188 s.m.
Nola, sent. 19.01.2011, n. 37 s.m.
Nola, ord. 11.01.2011, n. 18356s.m.
Diritto amministrativo
tar
Campania, Napoli, sez. I, 21.12.2011, n.6015 s.m.
Campania, Napoli, sez. I, 21.12.2011, n.6006 s.m.
Campania, Napoli, sez. I, 21.12.2011, n. 6001 s.m.
consiglio di stato
sez. V, 24.11.2011, n.6240 s.m.
sez. V, 21.11.2011, n.6136 s.m.
sez. V, 18.11.2011, n.6093 s.m.
sez. V, 18.11.2011, n.6090 s.m.
sez. IV, 16.11.2011, n. 6053 s.m.
sez. V, 02.11.2011, n. 5841 s.m.
sez. V, 08.02.2011, n. 854 (con nota di Bove)
Elenco autori
Andrea Alberico
- Il volto attuale del dolo eventuale, Nota a Corte di Cassazione, sez. I, sentenza 01 febbraio 2011, n. 10411, Gazz. Forense 2011, 6, 63
Giuseppe Amarelli
- Imprese individuali e responsabilità da reato degli enti: tra interpretazione estensiva ed analogia, Nota a Corte di Cassazione, III sez. penale, sent.
15.12.2010 - dep. 20.04.2011, n. 15657, Gazz. Forense 2011, 3, 51
Vittorio Sabato Ambrosio
- Art. 1225 c.c.: applicazione in campo aquiliano e nuova frontiera del danno non patrimoniale da inadempimento Gazz. Forense 2011, 2, 20
- Ricostruzione sistematica dell’articolo 1225 c.c. con riferimento alla sua applicazione in campo aquiliano e alla nuova frontiera del danno non patrimoniale da inadempimento, Gazz. Forense, 4, 18
- L’operazione economica e il collegamento negoziale con riferimento al credito al consumo, Gazz. Forense 2011, 5, 9
- Le principali novità introdotta dalla Legge di stabilità, Gazz. Forense 2011, 6, 16
Alessandro Barbieri
- Pregiudiziale amministrativa e danno da ritardo alla luce del Codice del processo amministrativo, Gazz. Forense 2011, 5, 80
Fernando Bocchini
- Le conciliazioni amministrate. I contratti del servizio di mediazione, Gazz. Forense 2011, 2, 9
Pierangelo Bonanno
- La mediazione civile e commerciale: le indennità spettanti agli organismi e le agevolazioni fiscali, Gazz. Forense 2011, 1, 26
- Le controversie tra investitori ed intermediari finanziari dinanzi la Camera di Conciliazione presso la Consob, Gazz. Forense 2011, allegato al n. 5, 37
Pierangelo Bonanno e Giuseppe Pedersoli
- Difesa civica e mediazione dopo la Finanziaria 2010. Motivazione della nomina del difensore civico, Gazz. Forense 2011, 2, 82
Almerina Bove
- Condizioni e limiti del ricorso all’affidamento in house tra esiti refendari e recenti approdi della giurisprudenza amministrativa, Gazz. Forense 2011, 6, 88
Laura Brizzi
- L’obbligatorietà della mediazione e gli organismi deputati a gestire il procedimento: dubbi di legittimità costituzionale, Gazz. Forense 2011, allegato
al n. 5, 7
Carlo Buonauro
- Appalti pubblici e competenza: novità del Codice del Processo Amministrativo e prime applicazioni giurisprudenziali, Gazz. Forense 2011, 3, 75
- I giudici e l’Europa. La responsabilità civile dei magistrati al vaglio della Corte di Giustizia CE, Gazz. Forense 2011, 5, 73
Carlo Buonauro e Cristina Natale
- Le clausole ulteriori del bando di gara: giurisprudenza e novità normative ex d.l. 70/2011, Gazz. Forense 2011, 3, 83
Clelia Buccico
- Il decentramento delle funzioni catastali, Gazz. Forense 2011, 3, 107
- La mediazione dai primi interventi comunitari alla normativa italiana con particolare riferimento agli aspetti fiscali, Gazz. Forense 2011, allegato al
n. 5, 23
- Il reclamo e la mediazione nel processo tributario, Gazz. Forense 2011, 6, 103
Enrico Campoli
- Le indotte timidezze itruttorie del G.U.P nel caso della scadenza dei termini custodiali di fase, Gazz. Forense 2011, 6, 53
Raffaele Cantone
- La controversia sulla restituzione dell’Iva sulla Tia di competenza della giurisdizione ordinaria, Gazz. Forense 2011, 1, 116
- Una ulteriore conferma della Cassazione: le norme dello Statuto del contribuente non hanno forza costituzionale. Nota a Cass., sez. trib., sentenza
11 aprile 2011, n. 8145, Gazz. Forense 2011, 2, 110
- Il regime fiscale delle stock option, Gazz. Forense 2011, 3, 118
- Ulteriori puntualizzazioni della Cassazione sul fermo amministrativo, Gazz. Forense 2011, 5, 89
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a u t o r i
Gazzetta
F O R E N S E
Rossella Catena
- Il reato di clandestinità, Nota a Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, G.M. Cervo, ordinanza 24.02.2011, Gazz. Forense 2001, 2, 52
- Una riflessione sui recenti spunti giurisprudenziali in merito alla normativa di cui agli artt. 334 e 335 c.p., Nota a Tribunale di Nola, G.M. Scermino,
ordinanza 1.6.2011, Gazz. Forense 2011, 3, 43
- Brevi riflessioni sul reato di atti persecutori, Gazz. Forense 2011, 5, 35
Carla Ciccarelli
- La mediazione: struttura, fasi e compiti del mediatore, Gazz. Forense 2011, allegato al n. 5, 21
Carla Ciccarelli e Flora Pirozzi
- Gli ostacoli al procedimento di mediazione, Gazz. Forense 2011, allegato al n. 5, 16
- Il procedimento di mediazione, Gazz. Forense 2011, allegato al n. 5, 34
Salvatore Ciccarelli
- Presunzione di responsabilità civile e pubblica amministrazione: l’eliminazione definitiva dei privilegi ingiustificati?, Gazz. Forense 2011, 5, 17
Alessandro Clemente
- Sotto la veste di appaltatore non sempre si cela un nudus minister, Nota a Tribunale di Napoli, sez. X, sentenza 29 gennaio 2011, Gazz. Forense 2011, 4, 21
Paolo Corciulo
- Il principio di tassatività delle clausole di esclusione: spunti di riflessione, Gazz. Forense 2011, 6, 83
Giulia d’Alessandro
- Applicabilità alle persone giuridiche delle misure interdittive in relazione ai delitti di corruzione internazionale: legittima interpretazione estensiva?,
Nota a Corte di Cassazione, sez. IV penale, sentenza 1 dicembre 2010, n. 42701, Gazz. Forense 2011, 5, 49
Corrado d’Ambrosio
- Il professionista negli accordi di ristrutturazione, Gazz. Forense, 2011, 3, 9
- Politiche creditizie nei piani attestati di risanamento, Gazz. Forense, 2011, 6, 9
Valeria D’Antò
- Organismi di mediazione e mediatori, Gazz. Forense, 2011, 1, 20
- Mediazione: una materia ancora in fieri, Gazz. Forense, 2011, allegato al n. 5, 40
Federica de Bellis
- Legittimazione passiva e responsabilità solidale della Regione nei giudizi di responsabilità medica. Nota a Tribunale di Napoli, sez. X sentenza 15
febbraio 2011, n. 1770, Gazz. Forense, 2011, 3, 15
Emanuele de Franco
- Sui “ pericolosi percorsi “ dei rapporti tra ordinamenti, Il caso Drassich, Gazz. Forense 2011, 2, 47
Alberto de Vita
- Il trattamento medico-chirugico “arbitrario” dopo l’intervento delle Sezioni unite penali, Gazz. Forense 2011, 4, 49
Giuseppe Ferraro
- Le relazioni industriali dopo Mirafiori, Gazz. Forense, 2011, 2, 15
Francesco Fuschino
- Il procedimento di equa riparazione ex lege 24 marzo 2001, n. 89, Gazz. Forense, 2011, 2, 23
Francesco Foggia
- La notifica per pubblici proclami: aspetti problematici e nuovi orientamenti, Gazz. Forense 2011, 1, 77
Clelia Iasevoli
- Nella sentenza il giudice può dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione,Gazz. Forense 2011, 1, 54
- Il dopo Drassich. Fatto e fattispecie nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, Gazz. Forense 2011, 2, 42
Gazzetta
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
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- La tutela processuale della vittima del reato, Gazz. Forense 2011, 3, 39
- La tutela dei diritti del minore nel sistema penale. Profili esemplifcativi, Gazz. Forense 2011, 6, 56
Rosanna Itto
- La circolazione abusiva con veicolo sequestrato in via amministrativa non costituisce reato, Nota a Corte di Cassazione, sez. un. penali, 21 gennaio
2011, n. 1963, Gazz. Forense 2011, 5, 41
Daniela Iossa
- La circolazione dell’immobile esistente “sulla carta”, Nota a Cassazione civ., Sez. II, sentenza 10 marzo 2011, n. 5749, Gazz. Forense, 2011, 4, 25
Angela Libardi
- L’interpello costituisce un segmento della precedente gara d’appalto. Nota a Tar Campania – Napoli, Sez. VIII, sentenza 10 novembre 2010, n. 23753,
Gazz. Forense 2011, 2, 92
- La procedura negoziata nei contatti sotto soglia: dopo il d.l. 70/2011 (c.d. decreto sviluppo), Gazz. Forense 2011, 3, 94
Raffaele Manfrellotti
- Le ipotesi di giurisdizione esclusiva ordinaria sugli atti delle amministrazioni indipendenti, Gazz. Forense 2011, 4, 77
Gaetana Marena
- La proprietà edilizia e la scia: tra conformazione e liberalizzazione, Gazz. Forense 2011, 4, 80
Teodoro Marena
- La nullità degli atti di alienazione privi delle indicazioni catastali e connessa responsabilità notarile, Gazz. Forense, 2011, 1, 29
- Il progressivo ampliamento del potere di controllo del notaio nella fase genetica e dinamica di una società di capitali, Gazz. Forense, 2011, 4, 15
Enzo Napolano
- Prime considerazioni sulla Legge Regionale n. 1 del 05.01.2011 (c.d. piano casa), Gazz. Forense 2011, 1, 89
Maria Pia Nastri
Aldo Niccoli
- Gestione dei beni pubblici e responsabilità degli enti, Gazz. Forense 2011, 1, 82
- Le occupazioni di immobili da parte della P.A. tra normativa e giurisprudenza, Gazz. Forense 2011, 2, 82
Giovanni Perlingieri
- Heredis institutio ex certa re, acquisto di beni non contemplati nel testamento e l’art. 686 codice civile, Gazz. Forense, 2011, 1, 9
Tina Petitt
- La legittimazione attiva nel processo tributario, Gazz. Forense 2011, 1, 111
Giuseppe Riccio
- Valutazioni giudiziali e principio di separazione dei poteri, Gazz. Forense 2011, 1, 51
Francesco Rinaldi e Luigi Molvetti
- Le progressioni verticali nell’ambito della Pubblica Amministrazione post “decreto Brunetta”, Gazz. Forense 2011, 4, 88
Luigi Russo
- Gli acquisti manente comunione legale ai sensi dell’art. 179 lett. f) c.c.: brevi considerazioni, Gazz. Forense, 2011, 4, 9
- L’aumento del capitale sociale in presenza di perdite, Gazz. Forense, 2011, 6, 22
Valentina Santoro
- Patologia dell’atto amministrativo per violazione del diritto comunitario, Gazz. Forense 2011, 1, 97
Cristina Sgobbo
- Vendita di immobile privo del certificato di agibilità, Gazz. Forense 2011, 3, 13
novità legislative
- La tassazione del trust e le imposte indirette, Gazz. Forense 2011, 2, 105
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Gazzetta
F O R E N S E
Patrizia Trapanese
- Del Contributo Unificato per le cause di Lavoro e di Previdenza, Gazz. Forense 2011, 6, 28
Maria Antonietta Troncone
- L’usura e contesto sociale: vecchi e nuovi problemi interpretativi, Gazz. Forense 2011, 2, 37
Questioni
Francesca Bonito
- Obbligo di motivazione del provvedimento amministrativo, Gazz. Forense 2011, 3, 139
- Nell’ambito di un pubblico concorso, può ritenersi prevalente il diritto di un candidato all’accesso agli atti procedimentali sul diritto alla riservatezza
degli altri concorrenti?, Gazz. Forense 2011, 4, 112
Alfredo Capuano
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Misure alternative alla detenzione, Gazz. Forense 2011, 1, 127
Guida in stato di ebbrezza, Gazz. Forense 2011, 2, 124
Il minore di anni quattordici e l’obbligo della immediata declaratoria della non imputabilità, Gazz. Forense 2011, 3, 137
L’omessa esposizione della tabella dei giochi proibiti ex art. 110, comma 1, t.u.l.p.s. Quale sanzione applicare e se applicarla, Gazz. Forense 2011, 4, 111
L’amministratore di diritto che di fatto non eserciti la funzione di amministratore ed il reato di bancarotta, Gazz. Forense 2011, 5, 107
Può operare la causa di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie nel procedimento penale davanti al Giudice di pace nel caso in cui
l’attività risarcitoria, Gazz. Forense 2011, 6, 117
Giulio d’Andrea
- Mediazione civile, Gazz. Forense 2011, 2, 123
Riccardo Esposito
- Il ricorso reiterato da parte della P.A. allo strumento del contratto a tempo determinato può configurare un illecito sanzionato con la conversione in
contratto a tempo indeterminato e/o con il risarcimento del danno?, Gazz. Forense 2011, 6, 115
Daniele Imbruglia
- Procedimento d’ingiunzione, Gazz. Forense 2011, 1, 125
- Revoca finanziamento e iscrizione a ruolo, Gazz. Forense 2011, 3, 135
- Avverso una decisione sfavorevole di primo grado sull’opposizione ad ordinanza amministrativa presentato con ricorso, la parte soccombente deve
presentare l’appello mediante ricorso o tramite atto di citazione?, Gazz. Forense 2011, 4, 109
- In caso di notifica a più parti, il termine entro il quale l’appellante deve costituirsi decorre dalla prima o dall’ultima notificazione?, Gazz. Forense
2011, 5, 105
Ida Sorrentino
- Pubblici Concorsi, Gazz. Forense 2011, 1, 128
- Occupazione provvedimentale, Gazz. Forense 2011, 2, 125
- Reformatio in pejus di un provvedimento disciplinare adottato dalla p.a – Può la P.A. annullare, in via di autotutela, un provvedimento disciplinare,
adottandone uno più grave? , Gazz. Forense 2011, 5, 109
- Quale giurisprudenza opera in caso di tutela avverso un provvedimento scolastico di assegnazione delle ore di sostegno asseritamente discriminatorio ai sensi della L. 67/06?, Gazz. Forense 2011, 6, 119
Note redazionali
Raffaella Argenzio
- Nota a Tribunale di Napoli, sezione VII civile, decreto 19 luglio 2011, Gazz. Forense, 2011, 4, 38
Pietro D’Alessandro
- Nota a Tribunale di Napoli, VII sezione civile, sentenza 11 maggio 2010, Gazz. Forense, 2011, 4, 41
Gazzetta
F O R E N S E
g e n n a i o • f e b b r a i o
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- Nota a Cassazione civile, Sezione III, sentenza 1 aprile 2011, Gazz. Forense, 2011, 6, 39
Luisa Enrico
- Nota a Corte di appello di Napoli, sezione IV civile, sentenza 14 maggio 2010 n. 1798, Gazz. Forense, 2011,1, 41
Raffaele Micillo
- Nota a Tribunale di Nola, sezione I civile, sentenza 10 gennaio 2011, n.143 Gazz. Forense, 2011, 1, 47
- Nota a Tribunale di Torre Annunziata, sezione Lavoro, sentenza 31 maggio 2011, Gazz. Forense, 2011,3, 30
Ermanno Restucci
- Nota a Tribunale civile di Napoli, sezione V, sentenza 29 dicembre 2010, n. 13117, Gazz. Forense, 2011, 3, 33
- Nota a Tribunale di Napoli, VII sezione civile, sentenza 11 maggio 2010, Gazz. Forense, 2011, 5, 32
Giuseppe Tais
- Nota a Tribunale di Torre Annunziata, sez. Lavoro e previdenza, ordinanza del 17 febbraio 2011, Gazz. Forense, 2011, 1, 43
Lucio Tramontano
novità legislative
- Nota Tribunale di Napoli, Sezione Distaccata di Casoria sentenza 25 febbraio 2011, Gazz. Forense, 2011, 4, 47