il capitalismo spiegato ai ragazzi

Presentazione.
Il breve saggio dal titolo Il capitalismo spiegato ai ragazzi non vuole essere una spiegazione
del modo di funzionamento dell'economia capitalistica, e neppure una sintesi delle molteplici
teorie economiche. Esso non vuole neppure essere un saggio di critica del capitalismo, nel senso
della denuncia delle ingiustizie sociali, dello sfruttamento dell'uomo e della natura che caratterizza questo modo di produzione. Esso intende invece fornire una sintetica prova del significato
che può assumere una riflessione che volesse cogliere l'essenza del capitalismo.
L'essenza del capitalismo non va certo intesa in senso esoterico o spirituale, ma così: essenza
del capitalismo è che esso riguarda come ognuno di noi vive. Ma non come ognuno di noi vive,
solo nel senso del lavoro che svolge o del reddito di cui può disporre, ma anche in quest'altro
senso: come ognuno di noi vive insieme agli altri, cioè anche nel senso della qualità dei rapporti
umani in cui trascorre l'esistenza di ognuno, l'unica esistenza di ognuno.
A tal fine si è cercato di porre in evidenza, in primo luogo, che il modo di produzione capitali stico si caratterizza per il suo essere un processo di produzione di ricchezza astratta, di valore.
Esso infatti sorge storicamente dal mercantilismo, cioè dalla produzione destinata allo scambio
mercantile e non al consumo immediato. In estrema sintesi si è descritta la teoria del valorelavoro. La sua importanza è stata individuata non nella capacità di spiegazione dei fenomeni
economici, ma nel suo significato di sussunzione del lavoro nei rapporti di produzione capitalistici.
La teoria della rendita relativa di Ricardo, il suo essere alla base della teoria economica marginalista – ancora oggi la dottrina dominante – e la critica a cui la sottopone Marx sono la strada
seguita per evidenziare che l'economia capitalistica non può essere considerata alla maniera di
un fenomeno naturale, ma è l'esito di rapporti sociali e del corrispondente modo di dar valore
all'attività umana.
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L'emancipazione umana e la forma di vita diventano così la vera posta in palio nella critica al
capitalismo. Per poter cogliere appieno il senso di questa critica, e in che modo essa riguarda
ogni singola esistenza, si è richiamata tanto la critica all'economia politica di Marx, quanto la cri tica alla modernità di Benjamin. Ne risulta che i rapporti capitalistici sono definibili come rappor ti di potere, che hanno l'uso della violenza come loro intrinseca caratteristica, e che il modo di
produzione capitalistico è un limite alla produzione di ricchezza – se solo si sa intendere la ric chezza non come valore, denaro, ma come qualità delle relazioni e della forma di vita in cui si
conduce l'esistenza.
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IL CAPITALISMO SPIEGATO AI RAGAZZI.
1.Premessa
La principale preoccupazione e lo scopo che giustifica il tentativo qui perseguito è la consta tazione della mancanza di parole e di discorsi che rendano familiari eventi che pure sono decisivi nella vita quotidiana, ma le cui ragioni appaiono irraggiungibili. Trovare la ragione di questi
eventi, cioè renderli comprensibili, è il primo necessario passo per poter incidere su di essi, anziché subirli. Svolgere questo esercizio della ragione equivale a sviluppare l'intelligenza e il linguaggio del nostro mondo.
Nel percorso argomentativo si è evitato di seguire, per quanto possibile, le tracce della storia
economica o delle teorie economiche. . La ragione di questa scelta consiste nel voler evitare
l'apparenza di avere a che fare con problemi “oggettivi”. Nella distinzione, tutta moderna, tra
soggetto e oggetto la realtà sembra poter essere la descrizione da parte di un soggetto, che si
pone fuori dalla realtà descritta, di uno stato di fatto oggettivo. Anche senza approfondire le
contraddizioni che così si generano, è intuitivo che tale apparenza deve svanire se si considera
che l'oggetto ha qui la consistenza del soggetto,
Nella sua analisi delle virtù del pensiero umano, distinte in sensazione, intelligenza, scienza, saggezza
e sapienza, Aristotele omette una specifica descrizione della virtù dell'intelligenza. Essa infatti non attiene ad un modo del conoscere ma a quello della
sua espressione, e perciò è coestensiva a tutte le
virtù: comune a sensazione, scienza, saggezza e sapienza è la loro comunicabilità, il loro pervenire alla
lingua. Questo è ciò che si chiama intelligenza. La
cultura individualista, ancora oggi dominante, fa invece dell'intelligenza una caratteristica innata, cioè
imperscrutabile, dell'individuo.
nel senso che è dotato di potere, e il soggetto,
in quanto svuotato di ogni realtà, letteralmente
fuori dalla realtà, assume la figura non della
pura potenza (come alcuni hanno frainteso) ma
della nuda vita, della impotenza di una vita inscritta nel destino (è infatti come destino che il
decorso storico dell'esistenza si presenta alla forma di vita moderna).
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Questo svelamento dell'apparenza è presente anche nell'opera di Marx, in particolare nella
descrizione del rapporto tra capitale, in quanto consistenza oggettiva delle condizioni della produzione e della ricchezza sociale in generale, e il lavoro, che assume la consistenza di una sog gettività priva di ogni oggettività, spogliata di ogni proprietà.
Come sosteneva Walter Benjamin, perché emerga la contraddizione contenuta tra i poli contrapposti della dialettica, non si deve procedere lungo le linee di quella dialettica, alla ricerca di
una sintesi, piuttosto la dialettica va interrotta. Se si vuole far emerge la contraddizione che la
dialettica soggetto/oggetto nasconde o Das Kapital è senz'altro l'opera più nota di Karl Marx, che
ne pubblicò solo il primo volume mentre i due seguenti fu-
dissimula occorre porla in “stato di arre- rono pubblicati postumi dal suo amico Friedrich Engels. Il
sodalizio tra i due nacque nel periodo attorno al 1848,
sto” e cominciare a pensare che la realtà quando in tutta Europa si viveva la lotta rivoluzionaria con
non si lascia comprendere da quella distinzione, che l'oggettività perda il suo
potere sui soggetti e la soggettività perda la pretesa di governare il mondo
come un che di oggettivo.
Il capitalismo è un rapporto di produzione, una relazione tra esseri umani che
corrisponde a un certo grado di emancipazione dei rapporti umani e al corri-
cui la borghesia conquistava il potere politico istituendo gli
Stati Nazionali a scapito delle partizioni politiche fondate
sul potere aristocratico residuo dell'Ancien Régime di origine feudale. Ma mentre in tutta Europa la lotta era tra aristocrazia e borghesia per la conquista del potere, emergevano già, specialmente in Francia, dove la rivoluzione era
un processo molto avanzato, un'altra lotta, la lotta di classe
tra proletariato e borghesia. Marx ed Engels furono coloro
che diedero espressione a questa nascente lotta, stilando il
Manifesto del Partito Comunista. Alla base di questa lotta
essi non posero la conquista del potere ma l'abolizione dello sfruttamento e l'emancipazione umana. “La storia di
ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e
schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri
delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: un lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle
classi in lotta.”(K. Marx F. Engels Il Manifesto del Partito Comunista. Pag.55.)
spondente modo di vivere. Questo è
quanto si cercherà di argomentare.
2. La teoria del valore-lavoro.
Fino a non molti anni fa si faceva largo uso di un linguaggio che oggi deve apparire banale, se
non del tutto sbagliato, come la distinzione tra proletariato e borghesia, ma che trasmetteva, sia
pure in modo semplicistico, alcune conoscenza essenziali, ad esempio la differenza tra valore
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del lavoro e plusvalore e la correlata idea dello sfruttamento del lavoro.
Uno dei modi con cui Marx cerca di semplificare la natura di furto del capitale è il processo di
formazione del capitale eccedente. Si consideri il caso in cui un imprenditore avvii un processo
di produzione investendo un capitale, che indichiamo con C 1, di cui non conosciamo l'origine, e
assuma un certo numero di lavoratori, che retribuisce con un salario che indichiamo con V1. Alla
fine del processo di produzione vi sarà un insieme di merci che avrà un valore pari all'ammontare del capitale investito C1 più il valore dei salari V1 più un certo profitto p1. Se il profitto viene investito nel processo di produzione successivo, avremo allora un capitale C2 , pari alla somma di
C1 + p1,, che produrrà un profitto p2.
Si capisce quindi che, nel corso dei vari processi di produzione, si formano dei nuovi capitali ,
e che essi sono tutti originati, come profitto, all'interno dello stesso processo di produzione, e
poiché l'unica fonte di valore, l'unico fattore che nel processo di produzione crea nuovo valore, è
il lavoro, ecco dimostrato che il capitale non è altro che furto di lavoro, sfruttamento.
L'idea che il lavoro sia l'unica fonte del valore non è di Marx ma di Adam Smith, riconosciuto
come il padre dell'economia politica classica. Adam Smith è noto per la metafora della mano invisibile con cui indica al modo di operare dell'economia di mercato. Tale metafora, e la sua comprensione del funzionamento del capitalismo, è l'esito della filosofia morale che egli insegnava
all'Università di Glasgow, e il cui nocciolo problematico consiste nel tentativo di dare valore mo rale positivo all'individualismo, contrapponendosi alla visione pessimistica che in quegli anni
aveva segnato il successo della Favola delle api di Mandeville. L'egoismo dell'individuo che si relaziona agli altri con il solo fine di soddisfare l'amor proprio, che in Mandeville è un vizio libertino, in Adam Smith si trasforma in virtù puritana: la libertà individuale di perseguire i propri fini
egoistici è l'espressione di una società che attraverso la divisione del lavoro e il libero mercato
ha posto non la soddisfazione dei bisogni ma l'accrescimento della ricchezza come scopo della
produzione.
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Se si riesce a rispondere alla domanda: che cosa è il valore?, si è già spiegato il capitalismo.
La complessità della questione dipende dal fatto che nella sua articolazione si deve necessariamente giungere alla “concezione dell'uomo” o alla “visione del mondo”, ovvero a fare i conti, sia
pure sommariamente, con l'intera epoca
Quella concezione degli affari pubblici che si può chiamare
individualismo e laissez-fare trasse il proprio sostegno da
molte diverse correnti di pensiero e fonti di sentimento.
Alla fine del XVII secolo il diritto divino dei monarchi dava
luogo alla libertà naturale e al Contratto, e al diritto della
Chiesa subentrava il principio della tolleranza.
Il Contratto presupponeva diritti nell'individuo: la nuova
etica, in sostanza nulla di più di un calcolo scientifico delle
conseguenze di un egoismo razionale, poneva al centro
l'individuo.
Lo scopo dell'elevamento dell'individuo era di destituire il
Monarca e la Chiesa: l'effetto – grazie al nuovo significato
etico attribuito al Contratto sociale – fu di rafforzare la
proprietà e la prescrizione.
L'inizio del XIX secolo compì l'unione miracolosa: armonizzò l'individualismo conservatore di Locke, Hume, Johnson
e Burke col socialismo e la democrazia egualitaria di Rousseau, Paley, Bentham e Godwin.
Ciò non di meno, sarebbe stato arduo compito per
quell'epoca raggiungere questa armonia di elementi opposti, se non fosse stato per gli economisti, i quali entrarono
in gioco al momento giusto.
Si supponga che per leggi naturali gli individui che perseguono il loro illimitato interesse in condizioni di libertà
tendano sempre a promuovere nello stesso tempo l'interesse generale, le nostre difficoltà filosofiche sarebbero risolte. Il filosofo politico poteva ritirarsi a vantaggio
dell'uomo d'affari, giacchè quest'ultimo poteva raggiungere il sommo bene del filosofo perseguendo semplicemente
il proprio profitto privato.
J:M: Keynes La fine del Laissez-faire, in Teoria generale
dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, varie pagine.
moderna, e la consistenza sia storica che
esistenziale che ha assunto la forma di
vita dominante.
La teoria del valore-lavoro è la prima
legge dell'economia individuata da Adam
Smith, con cui si può spiegare il funzionamento del “mercato” e insieme l'aumento della ricchezza. La novità del capitalismo, e della economia politica in quanto
scienza di questo specifico modo di produzione, consiste esattamente nel coniugare gli scambi mercantili, in cui le merci
sono per definizione di uguale valore con
una produzione in cui si crea nuovo valore.
Caratteristico dell'opera di Adam Smith Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle
Nazioni, è di rendere evidente la contraddizione proprio perché espone i due lati della teoria del
valore senza neppure provare a coniugarli. Poiché la sua spiegazione del funzionamento
dell'economia capitalistica resta contraddittoria, la teoria del valore-lavoro verrà presto abban donata, di fatto già da David Ricardo che per primo, cercando di risolvere le contraddizioni di
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Smith, introduce il principio dell'incremento marginale del valore che dal 1875 circa diventerà la
teoria del valore a tutt'oggi dominante.
Per farsi un'idea più precisa della con- Ogni uomo è ricco o povero secondo il grado al quale può
traddizione tra il valore nel processo dello
scambio e il valore nel processo di produzione, occorre tener presente che il modo
di ragionare di questi autori è molto semplice. Essi pensano al mercato come a un
luogo in cui si scambiano due distinte merci, e se due merci si possono scambiare è
permettersi di godere delle cose necessarie, comode e dilettevoli della vita umana. Ma una volta che la divisione
del lavoro si sia ampiamente dispiegata, il proprio lavoro
può procurare a un uomo una piccolissima parte soltanto
di queste cose. La parte di gran lunga maggiore egli deve
trarla dal lavoro di altre persone, e sarà ricco o povero secondo la quantità di questo lavoro che può comandare,
cioè di cui può disporre, o che può permettersi di acquistare. Il valore di una merce qualsiasi, dunque, per colui
che la possiede, e che non intende usarla o consumarla da
sé ma scambiarla con altre merci, è pari alla quantità di
lavoro che essa lo mette in grado di acquistare o comandare. Il lavoro è quindi la misura reale del valore di scambio
di tutte le merci.
Adam Smith Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, pag 72.
perché hanno lo stesso valore. Ma cosa
vuol dire, in un contesto così semplice, in cui si scambiano merci diverse, avere lo “stesso” valore? Per Adam Smith la risposta è immediata: esse contengono la stessa quantità di lavoro. Ad
esempio, se per produrre un chilo di grano impiego lo stesso tempo necessario a produrre un
etto di ferro, allora le diverse quantità delle due merci hanno lo “stesso” valore. Se adesso dal
mercato di scambio ci trasferiamo all'atelier di produzione di quelle merci ci troviamo di fronte a
un altro valore. Nella produzione abbiamo infatti l'intervento di diversi fattori produttivi: la Terra,
il Capitale e il Lavoro, e il valore consisterà nei redditi con cui essi vengono remunerati: rendita,
profitto e salario. Che i fattori della produzione siano tre non è ovviamente un caso ma il risulta to della constatazione delle diverse classi in cui si divide la società: i proprietari terrieri, ovvero
l'antica nobiltà; i possessori di capitale, cioè la nascente borghesia; e chi per vivere deve vendere la forza-lavoro, il proletariato. La constatazione di queste differenze diviene una scelta morale
e una decisione politica quando viene perpetuata e salvaguardata, e una concezione dell'uomo
e del mondo quando la si considera come naturale ed eterna.
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3. La teoria della rendita relativa.
La distinzione, sorta nel corso degli eventi storici, di tre fattori produttivi (Terra, Capitale e Lavoro) e delle corrispondenti forme del reddito (Rendita, Profitto e Salario) introduce un ulteriore
aspetto con cui si presenta il problema del valore: la sua distribuzione.
Come detto, Smith non si pone l'obiettivo di risolvere in modo coerente i diversi lati del pro blema del valore, cioè lo scambio tra valori, la produzione di nuovo valore e infine la distribuzione del valore tra i fattori della produzione. La sua soluzione consiste in dichiarazioni disgiunte: le
merci si scambiano sulla base della quantità di lavoro occorso a produrle, nella produzione il valore delle merci è pari alla somma del valore dei fattori produttivi (terra, capitale e lavoro), questo nuovo valore si distribuisce tra rendita, profitto e salario. Ma Terra e Capitale non sono lavo ro, non ha perciò senso ritenere che il valore di una merce corrisponda alla quantità di lavoro in
essa contenuto, poiché contiene anche Terra e Capitale, cioè rendita e profitto.
Il tentativo di rendere coerente la teoria del valore-lavoro è affrontata da un altro autore: Da vid Ricardo. La sua soluzione è però molto curiosa, poiché introdurrà l'elemento che varrà a seppellire del tutto, nel successivo sviluppo della teoria economica, la teoria del valore-lavoro. Ri cardo sostiene che è possibile considerare il capitale come valore che, invece di venir consuma to, si è accumulato e quindi può essere equiparato a lavoro passato. La sua misurabilità in termini di lavoro può presentare difficoltà, ma in linea di principio è del tutto pertinente.
Diversa è la questione della Terra, e per estensione di tutti i beni presenti in natura, che non
sono il prodotto di lavoro umano. Per poter calcolare il contributo della Terra come fattore produttivo e la relativa remunerazione nella forma della rendita, Ricardo ricorre al concetto matematico di differenziale: la rendita è un differenziale legato alla produttività naturale della Terra.
La Terra che ha la produttività più bassa in assoluto non gode di alcuna rendita, nessuno sarebbe disposto a pagarla per usarla; la Terra che presenta una maggiore produttività relativa otterrà
una rendita in funzione della maggiore produttività. La rendita non ha perciò una misura assolu-
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ta, ma solo relativa. Il lavoro, come unità di misura del valore, funziona anche in senso assoluto,
come quantità di tempo di lavoro. La Terra invece, nella teoria della rendita differenziale, ha solo
una misura relativa: è maggiore o minore se la Terra è più o meno produttiva; ma in senso assoluto, nella Terra in assoluto meno produttiva, non ha alcun valore, perché la Terra non è valore
ma un bene naturale che non si può né accrescere né accumulare.
Nella teoria economica il principio di scarsità
Da questa teoria della rendita nascerà la teoria a gioca un ruolo molto importante: a esso si deve
la confusione che permette di nascondere gli
tutt'oggi dominante, la teoria marginalista, che così effetti della appropriazione privata. L'autore
che sostenne con particolare insistenza il princi-
estende l'idea di scarsità anche alle merci prodotte pio di scarsità fu Malthus, che ebbe notevole indal lavoro umano.
4. La teoria marginalista.
Nella teoria marginalista o neoclassica non solo
la Terra ma tutti i fattori della produzione, e non
solo la produzione ma anche la distribuzione e non
solo la distribuzione ma anche il consumo, insomma ogni aspetto dell'attività economica potrà essere compreso applicando l'analisi matematica differenziale.
Nello scambio il valore di una merce si calcola
come differenziale rispetto a un'altra merce, cioè a
fluenza su Ricardo e sulla formazione della teoria della rendita relativa. Il principio è il seguente: siccome la terra (e per estensione possiamo
dire tutti i beni naturali) è un bene scarso,
l'aumento della popolazione e dei consumi costringe a dover impiegare della terra sempre
meno fertile, così aumentano i costi di produzione e quindi i prezzi dei prodotti agricoli. Se
Ricardo accoglierà questo principio di scarsità
nel formulare la sua teoria della rendita relativa, la successiva teoria marginalista estenderà
questo principio a tutta la produzione, ponendo
una relazione diretta e univoca tra aumento
della domanda e aumento dei prezzi dei beni.
Sulla inconsistenza di questo principio, che universalizza una considerazione che può valere al
più nel brevissimo periodo, si possono chiamare
in causa tutte le analisi sulle economie di scala
e sulle innovazioni tecnologiche, ma la constatazione più diretta è quella con cui Marx critica
la teoria della rendita relativa e riconosce il
vero limite alla produzione, che non è un limite
naturale ma sociale: l'appropriazione privata e
l'accumulazione del capitale. Il rapporto tra produzione capitalistica e natura non è tale per cui
la natura è un limite, piuttosto che allo sfruttamento della natura non vi è limite.
quanto in più o in meno un consumatore è disposto a pagare una merce relativamente ad altre
merci succedanee o alternative; nella distribuzione la retribuzione di un fattore si calcola come
differenziale rispetto ad un altro fattore, cioè quanto costa un fattore rispetto ad un altro che lo
potrebbe sostituire, e così via. Così il valore è solo relativo, non ha più alcuna consistenza asso luta, non è qualcosa ma solo una relazione tra cose. Ma se il valore – come cosa in sé – non esiste, com'è possibile creare nuovo valore, aggiungere valore a valore? Eppure il capitalismo è
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proprio questo: creazione di nuovo valore, processo di accumulazione. La domanda iniziale: che
cos'è il valore? Non trova risposta
John Maynard Keynes introduce la differenza tra economia reale
ed economia monetaria, l'analisi delle attività economiche non si
può ridurre a determinare l'equilibrio che si ottiene nello scambio,
e quindi ad intendere il prezzo come espressione monetaria di
quell'equilibrio in cui domanda ed offerta sono equivalenti. La
moneta non ha infatti solo la funzione di equivalente generale,
cioè di funzionare da unità di misura ed espressione del prezzo di
tutte le merci, e neppure solo la funzione di mezzo di circolazione, cioè di strumento atto a favorire gli scambi fungendo da intermediario tra compere e vendite che accadono in tempi diversi. La
moneta si accumula, è riserva di valore, titolo di proprietà sul
mondo delle merci e come tale può essere detenuta. Ma per Keynes la moneta detenuta, il risparmio non crea valore, al contrario
ostacola gli investimenti e la piena occupazione perché tende ad
elevare il tasso di interesse, rendendo più oneroso l'investimento
industriale.. Per creare nuovo valore occorre che il valore accumulato venga investito, che la ricchezza monetaria si trasformi in
ricchezza reale, in beni di investimento e in beni di consumo, perché si metta in moto un processo produttivo da cui scaturisca
nuovo valore. Ciò significa che esiste un mercato monetario e finanziario, dove si scambiano titoli di proprietà, e un mercato dei
beni “reali” dove agisce il lavoro. Keynes ritiene possibile ed opportuno governare le relazioni tra i due mercati, attenuando le
pretese dei detentori di titoli di proprietà (riducendo la loro libertà
di scambio, tenendo basso il tasso di interesse e addirittura annullando i titoli di proprietà dopo alcuni decenni, avendo già goduto a sufficienza, con gli interessi già ottenuti, della ricchezza
sociale).
Cerchiamo di mettere in evidenza due distinti nodi problematici.
Da un lato c'è la questione della teoria del valore e, con essa, della comprensione del capitalismo; dall'altro lato c'è la questione
del governo dell'economia e di ciò che si chiamano politiche keynesiane. Dal punto di vista della teoria del valore Keynes non introduce alcuna novità esplicita rispetto alla teoria neo-classica: il
valore non è altro che il prezzo di equilibrio, quel punto attorno al
quale il prezzo oscilla. Ciò significa che per Keynes esiste veramente un'economia reale distinta da un'economia monetaria,
cioè un'attività economica che produce beni utili, il cui problema
è tutt'al più legato alle tecniche di produzione più vantaggiose e
alla facilità di commercio dei beni prodotti. Questo è quello che
Keynes chiama “il problema economico”, che a suo avviso sarà risolto nel giro di pochi decenni, giusto il tempo di estendere il benessere a tutti, senza perciò dover mettere in discussione i rapporti di produzione e la forma di vita della modernità.
nella teoria economica.
La critica che Keynes porterà
alla teoria marginalista riguarda
esattamente questo punto: la cecità di fronte alla questione della produzione di nuovo valore. In estrema sintesi: nella teoria marginalista la preoccupazione principale è
dimostrare che il processo di produzione, distribuzione e scambio
dei beni prodotti perviene ad un
equilibrio in modo automatico ed
“invisibile”. Keynes dimostra che
questa teoria ragiona in modo tautologico, poiché il sistema risulterà
sempre in equilibrio, anche nel
caso in cui vi sia un elevato tasso
di disoccupazione. Senza entrare
nei dettagli della critica keynesiana, se ne può cogliere con facilità il
senso: mancando di una unità di misura assoluta, ed utilizzandone una solo relativa, la teoria
marginalista non dispone dei criteri necessari a giudicare se l'equilibrio automatico del mercato
(che banalmente è sempre certo, poiché la quantità di merce offerta – cioè prodotta – è sempre
uguale alla quantità di merce domandata – cioè a quella acquistabile con il reddito generato da
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quella produzione) sia sufficiente a garantire la piena occupazione (concetto propriamente keynesiano) ovvero un benessere (welfare, altro concetto keynesiano) diffuso.
Le soluzioni proposte da Keynes miravano ad avvantaggiare gli investimenti riducendo il potere della finanza di attrarre il risparmio. Esse si basavano grosso modo sulla limitazione dei
movimenti dei capitali monetari regolando le attività bancarie e gli scambi borsistici all'interno
dei singoli stati nazionali, attribuendo il controllo della moneta alle banche centrali e subordinando il commercio internazionale a una disciplina di cambi fissi, che aveva il dollaro come standard
internazionale.
Queste regole sono del tutto saltate, a partire della disciplina dei cambi fissi, che entrò in crisi
nell'agosto del 1971 con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro, alle nuove legislazioni
sulle attività delle banche degli anni Ottanta e Novanta che hanno di fatto reso possibile l'annullamento della distinzione tra risparmio e investimento, alla liberalizzazione dei mercati borsistici
e valutari sanciti dagli accordi del WTO degli ultimi decenni.
Gli economisti, di ispirazione keynesiana, che hanno dovuto prendere atto del definitivo abbandono delle politiche attive keynesiane da parte dei governi nazionali, non sanno dare indicazioni teoriche sull'attuale funzionamento del modo di produzione capitalistico, e si limitano a
constatare che poche migliaia di persone decidono le sorti economiche dell'intero pianeta.
5. Valore e denaro.
La distinzione tra economia reale ed economia monetaria racchiude in qualche modo la storia
dell'evoluzione della scienza economica, che è proceduta molto più lentamente dell'evoluzione
economica. Ma poiché è la scienza economica a fornire le parole e il linguaggio con cui esprime re i rapporti economici (almeno in prima approssimazione), essa, pur con tutto il suo attardarsi,
non può essere sottovalutata.
Già Aristotele aveva elencato le funzioni della moneta. Essa è numerario, in quanto permette di misurare in modo uniforme il valore di tutte le merci; è mezzo di circolazione, poiché con
essa il valore può muoversi nello spazio e nel tempo, permettendo che lo scambio delle merci
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proceda in tempi e luoghi diversi; è tesoro, cioè strumento di riserva di valore, che permette al
valore di esistere in modo autonomo rispetto al valore delle merci di cui è espressione.
Nella storia della scienza economica il ruolo riconosciuto alla moneta si è per lungo tempo limitato alle prime due funzioni, nel senso che la moneta è stata presa in considerazione solo nelle sue funzioni di facilitazione degli scambi mercantili. Sarà con Keynes che la terza funzione
della moneta entrerà a pieno titolo nella teoria economica, in quanto alla sua funzione di tesau rizzazione del valore verrà riconosciuto un peso determinante. Essendo la moneta soggetta alla
proprietà privata, e perciò un bene scarso, essa pretende per il suo impiego un prezzo – il saggio
d'interesse – e siccome a pagare questo prezzo è il capitalista – cioè il saggio d'interesse è paga to con parte del saggio di profitto – la tesaurizzazione, il risparmio, penalizza gli investimenti e la
produzione di beni “reali”. Per John Maynard Keynes il mercato dei titoli di proprietà, cioè i mer cati borsistici e finanziari, devono essere tenuti sotto controllo per evitare, o per ridurre il più
possibile, il loro effetto negativo sul mercato “reale” fatto di merci. Uno degli strumenti per ottenere questo risultato è aumentare l'offerta di moneta da parte delle autorità pubbliche (cioè
stampare nuova moneta o aumentare la spesa pubblica e quindi il debito pubblico) mantenendo
un tasso di inflazione positivo anche se moderato, cioè permettere un aumento dei prezzi contenuto ma costante, in modo che la mo… l'atto di risparmio implica un desiderio di “ricchezza”
come tale... Ciascun atto di risparmio implica inevitabilmente trasferimento “forzato” di ricchezza a favore di colui
suo potere d'acquisto e perciò chi de- che risparmia... Questo trasferimenti di ricchezza non richiedono la creazione di ricchezza nuova; anzi, come abtiene moneta venga penalizzato relati- biamo visto, possono ostacolarla attivamente. La creazione
di ricchezza nuova dipende interamente dalla condizione
che il rendimento prospettivo della ricchezza nuova ragvamente a chi produce merci.
giunga il livello posto dal saggio corrente d'interesse … vi
è sempre un'alternativa al possesso di capitali reali: il possesso di moneta e credito; cosicché il rendimento prospettivo di cui i produttori di investimenti nuovi si devono contentare non può discendere al di sotto del livello posto dal
saggio corrente di interesse.
J.M. Keynes Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, pag. 374
neta perda costantemente parte del
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La reazione antikeynesiana degli anni Ottanta del secolo scorso si incentrerà proprio su questi
due cardini delle politiche keynesiane:
obiettivo dei governi deve essere la riduzione dell'inflazione e il rigido controllo della quantità di moneta teso ad
impedire un suo aumento. Corollario
teorico, ma di fatto reale obiettivo perseguito dalle teorie monetariste e neoliberiste, è la liberalizzazione dei mercati finanziari e la rinuncia di ogni controllo, e tanto più di interventi regolativi, da parte dei poteri pubblici. Gli economisti keynesiani hanno per lo più
contestato le posizioni monetariste e
neoliberiste divenute dominanti appellandosi alla precedenza che deve avere
la crescita economica, l'aumento della
ricchezza nazionale misurata dal PIL e
la necessità, per ottenere questi risultati, che lo Stato intervenga con strumenti di gestione della spesa pubblica, con
Gli accordi di Bretton Woods fanno parte di quella sorta di
consegna della supremazia mondiale dagli Stati europei (e
in particolare dall'Inghilterra) agli Stati Uniti d'America avvenuta nel corso del secondo conflitto mondiale. In essi si stabilisce che il dollaro sarà l'unica moneta ad avere un cambio
fisso con l'oro, mentre ogni altra valuta nazionale del sistema economico di libero mercato dovrà esprimere il suo valore in dollari. In pratica vuol dire che i flussi monetari internazionali, sia commerciali che finanziari, avvengono in dollari,
e che gli Stati Uniti devono svolgere un ruolo di garanzia
dell'ordine economico internazionale. La crisi degli anni 70
del secolo scorso e il completo cambiamento degli equilibri
politici ed economici del Mondo, hanno ridotto se pur non
annullato l'egemonia degli USA. Nell'agosto del 1971, il presidente Nixon dichiara l'inconvertibilità del dollaro, cioè minava l'idea fino allora indiscussa che gli Stati Uniti avevano
il controllo dei mercati mondiali a garanzia del capitalismo
internazionale. Giappone ed Europa devono creare aree di
influenza in cui si fanno carico di nuove garanzie nei mercati
valutari, con la propria moneta nazionale, come in Giappone, o, come in Europa, inventando una nuova moneta continentale. Ciò però avviene in un mercato mondiale dove intervengono molteplici soggetti, fra loro indipendenti: non
solo nuove economie nazionali con vasti mercati interni e
quindi con forti potenzialità, come la Cina, l'India, il Brasile,
Il Sudafrica, ecc.; ma anche imprese multinazionali, holding,
fondi comuni, agenzie di borsa e finanziarie capaci non solo
di muovere masse enormi di capitali ma anche con una propria autonoma capacità di creare moneta bancaria e attività
finanziarie, in concorrenza con le valute nazionali.
Nel sistema valutario, che potremmo definire antico, e di cui
il sistema di Bretton Woods fu l'ultimo scarno residuo, vigeva l'idea che la moneta doveva mantenere un valore fisso
(identificato con la parità con l'oro, cioè con un bene molto
scarso, la cui nuova produzione era praticamente nulla e comunque tenuta sotto stretto controllo) poiché le variazioni
del valore della moneta avrebbero distorto i prezzi delle
merci e quindi il giusto equilibrio del mercato. Attualmente
la moneta funge direttamente da capitale fruttifero di interessi, per cui anche le valute nazionali, l'antico potere di conio con cui i detentori del potere politico esercitano la loro
sovranità, deve inchinarsi al più potente potere economico
dei mercati finanziari.
la redistribuzione dei redditi (agevolando le fasce a basso reddito con una più alta propensione al consumo) e finanziando il deficit
pubblico emettendo nuova moneta. Così si è però sbagliato bersaglio, che non era e non è l'antistatalismo ideologico, cioè l'annichilimento dei poteri pubblici per consentire libertà di azione al
mercato, ma l'attivazione di politiche pubbliche che sostenessero i nuovi processi di accumula-
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zione finanziaria e la conseguente concentrazione di ricchezza.
Per il monetarismo e il neoliberismo la moneta non è più solo uno strumento per lo scambio
delle merci, e neppure solo una riserva di valore che si è reso indipendente dalle merci. Adesso
la moneta è riconosciuta nella sua funzione di capitale, di valore che si accumula. Che la moneta
sia denaro, valore che si autovalorizza, è già chiaro a Marx, che anzi ne fa la forma più pura di
capitale, quella in cui il ciclo della valorizzazione si presenta nella sua forma istantanea D-D' an ziché in quella mediata D-M-D', denaro che si trasforma in più denaro senza la metamorfosi delle
merci (senza dover assumere le molteplici sembianze di capitale fisso e capitale circolante, di
capitale costante e capitale variabile, e così via).
Ma dobbiamo di nuovo porre la stessa domanda: se il denaro è valore che si autovalorizza, allora cos'è il valore?
Con la reazione monetarista e con lo strepitoso sviluppo del capitalismo finanziario sembra in
effetti che il valore possa accrescersi senza dover passare attraverso il mondo della produzione,
e senza doversi calare in mediazioni con i possessori di quella particolare merce che è la forza lavoro. La valorizzazione non emerge come plusvalore, sfruttamento del lavoro, ma da una apparentemente innata facoltà del capitale di autovalorizzarsi.
6. La critica dell'economia politica.
Riprendiamo il ragionamento dall'analisi della rendita. Che vi sia solo rendita differenziale è
un'ipotesi restrittiva che permetterà a Marx di cogliere il limite dell'analisi di Ricardo.
La rendita è il pagamento per l'uso di un bene naturale preesistente al processo di creazione
del valore, ad esempio la Terra o un qualunque altro bene non prodotto dal lavoro. Con essa si
paga il proprietario di quel bene non in ragione del contributo che fornisce nel processo di creazione di nuovo valore, ma in quanto proprietario – per quanto il proprietario possa pretendere
una remunerazione crescente in ragione del maggior valore ottenuto sul suo fondo. La teoria
della rendita relativa è errata non perché non vi sia anche un rapporto tra rendita e produttività
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relativa, ma perché esclude la rendita assoluta, cioè la precondizione della proprietà privata della Terra.
Così come la rendita assoluta è comprensibile solo se si tiene conto della proprietà privata
della Terra, anche il valore assoluto è comprensibile solo come conseguenza della appropriazione privata del lavoro.
La proprietà privata non è ovviamente una grandezza economica, ma un modo della relazione tra esseri umani. In particolare, l'appropriazione privata del lavoro, che è qualcosa di diverso
dalla appropriazione del prodotto del lavoro. Se la questione fosse relativa al prodotto del lavoro
essa si potrebbe risolvere con un qualche principio di giustizia distributiva. Ma qualunque principio della distribuzione, anche il più
estremo, quello che vuole dare al lavoratore tutto il prodotto del suo lavoro,
non è neppure giunto a sfiorare la vera
questione della proprietà privata e del
valore.
L'appropriazione privata del lavoro
significa che il lavoro si trasforma in (si
esercita in quanto) attività che crea valore, cioè ha senso (ma anche realtà)
solo entro rapporti tra individui privati.
Il concetto di lavoro va inteso nel
senso più ampio possibile. E' l'attività
Se cade il presupposto di Ricardo che il prezzo di costo sia
uguale al valore, cade tutto il ragionamento. Viene a mancare l'interesse teorico che lo costringe a negare la rendita
fondiaria assoluta. Se il valore della merce si distingue dal
suo prezzo di costo, le merci si dividono necessariamente
in tre categorie, una il cui prezzo di costo è uguale al suo
valore, un'altra il cui valore è inferiore al suo prezzo di costo e una terza in cui il valore è superiore al suo prezzo di
costo, allora la circostanza che il prezzo dei prodotti agricoli frutta una rendita fondiaria proverebbe soltanto che il
prodotto agricolo appartiene alla classe di merci il cui valore è superiore al loro prezzo di costo. L'unico problema
che resterebbe ancora da risolvere, sarebbe: perché, a differenza delle altre merci, il cui prezzo è del pari superiore
al loro prezzo di costo, il valore dei prodotti agricoli non
viene abbassato dalla concorrenza dei capitali al loro prezzo di costo? La risposta sta già nella domanda. Perché, secondo il presupposto, ciò avviene solo in quanto la concorrenza dei capitali può causare questa perequazione, ma ciò
a sua volta può avvenire solo in quanto tutte le condizioni
di produzione o sono creazioni del capitale stesso o stanno
uniformemente – elementarmente a sua disposizione. Questo non accade per la terra poiché esiste una proprietà fondiaria e la produzione capitalistica inizia la usa carrière
nel presupposto della proprietà fondiaria non da essa scaturente, ma di una proprietà fondiaria che le preesiste. La
semplice esistenza della proprietà fondiaria risponde quindi alla domanda.
con cui l'essere umano si appropria e K. Marx Teorie sul plusvalore vol.II, pag.256.
trasforma i beni materiali, ma anche l'attività con cui si appropria e trasforma la storia dell'intera
umanità, o le condizioni attuali della società umana, o anche le basi genetiche degli esseri viventi.
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Nei rapporti di produzione dominanti ognuna di queste molteplici attività deve, più o meno
immediatamente, perché abbia senso economico e un valore riconosciuto, essere sussumibile
entro rapporti tra individui privati. Se si accetta di proceder lungo questo filo argomentativo si
entra in quella dimensione problematica che riguarda la forma di vita della modernità.
7. Sussunzione reale del lavoro nel capitale.
In un capitolo del I libro del Capitale, noto come VI capitolo inedito perché espunto dall'edizione a stampa, Marx svolge la distinzione tra sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro
nel capitale. Questo passaggio teorico è rilevante perché indica l'impossibilità di distinguere tra
processo di produzione e rapporti di produzione.
La sussunzione reale subordina ogni processo produttivo alla creazione di plusvalore, così
come riduce il lavoro umano ad attività misurabile in termini di valore. Senza questa trasforma zione del lavoro in lavoro salariato non sarebbe possibile la subordinazione dei molteplici processi produttivi al processo della valorizzazione capitalistica ed i ragionamenti sullo sviluppo della
valorizzazione economica, sulla ricchezza e sulla sua distribuzione sono destinati solo a scorgere
le conseguenze dei movimenti economici se non riconoscono che tutti i fenomeni economici
hanno corso e significato solo nella sussunzione agli attuali rapporti di produzione.
La libertà dalla schiavitù e dai rapporti di dipendenza personale sono il grande processo di
emancipazione compiuto nella modernità. Esso è avvenuto nella forma della libertà individuale
e, in primo luogo, della alienazione dell'attività e della estraneazione dei rapporti. Ogni singola
attività e ogni singolo prodotto dell'attività ha valore se scambiabili, se sono sussumibile entro
un valore universale. Il valore ha il carattere dell'astrattezza, in ragione di una universalità che
assorbe in sé ogni individualità negandola nella sua singolarità e riconoscendola solo in quanto
parte del tutto, particella di valore astratto.
Solo dopo aver colto nei rapporti di produzione capitalistici l'elemento che caratterizza la produzione capitalistica in quanto produzione di valore, è possibile comprendere le logiche di funzionamento tanto della produzione che della distribuzione del valore.
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Si possono riassumere due distinte ed essenziali logiche. La prima la si deve cogliere ritornando alla differenza tra rendita e profitto. Con lo sviluppo del capitalismo finanziario si è tornati
a discutere del senso di questa differenza,
poiché il profitto del capitale finanziario
funziona come rendita e la differenza si
annulla.
E' però utile capire qual'è o qual'era la
differenza tra rendita e profitto , poiché
essa costituisce un elemento che caratterizza in modo essenziale il funzionamento
del capitalismo, ed eventualmente la sua
fine.
Può apparire difficile cogliere la differenza tra rendita e profitto poiché entrambi non sono altro che la retribuzione alla
proprietà privata della terra e dei beni naturali per quanto riguarda la rendita, e del
capitale monetario o dei beni d'investimento per quanto riguarda il profitto.
Se poi si vuole cogliere la differenza seguendo i ragionamenti della scienza economica la cosa diventa impossibile. Poiché
Nella tradizione del pensiero occidentale l'attività umana è
distinta in opera, azione e contemplazione. L'uso, abbastanza recente, del termine lavoro con una accezione così
ampia da rendere priva di senso quella partizione dell'attività umana ha determinato delle diffidenze e delle difficoltà. Il lavoro si distingue dall'agire politico e dell'ozio del filosofo, in primo luogo perché indica un'attività eterodiretta. Sia in quanto è, ed è sempre stata, un'attività banausica svolta da chi è privo di mezzi propri: schiavi servi e proletari che, per procurarsi i mezzi di sussistenza, devono
cedere ad altri la loro attività lavorativa. Sia perché è
un'attività che, a differenza dall'azione politica e dall'ozio
teoretico che sono un fine in se stesse, ha un fine fuori di
sé, nel suo prodotto. Tale partizione è messa in crisi dalla
considerazione che il prodotto del lavoro salariato non è
un valore d'uso, cioè un bene destinato alla soddisfazione
di un bisogno specifico, ma la ricchezza astratta. Per quanto, nel mondo borghese, la ricchezza astratta sia un fine
essa stessa, per cui il lavoro è subordinato al processo della sua accumulazione, “...se la si spoglia della limitata forma borghese, che cos'è la ricchezza se non l'universalità
dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, ecc. degli individui, generata nello scambio universale? Cos'è se non il pieno sviluppo del dominio
dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della sua propria natura?
Cos'è se non l'estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo
storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello
sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come
tali, non misurate su un metro già dato? Nella quale
l'uomo non si riproduce in una dimensione determinata,
ma produce la sua totalità? Dove non cerca di rimanere
qualcosa di divenuto, ma è nel movimento assoluto del divenire? Nell'economia politica borghese – e nell'epoca della produzione cui essa corrisponde – questa completa
estrinsecazione dell'interiorità umana si presenta come un
completo svuotamento, questa universale oggettivazione
come estraneazione totale, e l'eliminazione di tutti gli scopi unilaterali determinati come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo del tutto esterno. ” (K. Marx Lineamenti
fondamentali..., pag. 466.)
essa ragiona sulle funzioni del capitalista, è facile distinguere tra il reddito del capitalista in
quanto imprenditore, una funzione imprenditoriale che oltretutto oggi è svolta per lo più da manager, dal profitto del capitale investito in quell'impresa.
Ma ciò che distingue il profitto dalla rendita non è né la natura dei beni su cui si esercita il di -
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ritto di proprietà, né la funzione dei singoli proprietari, ma il suo legame con il capitale in quanto
valore che si accumula. Il profitto è la misura dell'accumulazione: esso deve di nuovo trasfor marsi in capitale per riprodurre il processo di valorizzazione in modo sempre più allargato. Marx
distingue tra reddito del capitalista imprenditore e profitto del capitale, poiché il primo, al pari
della rendita, esce dal processo di valorizzazione, mentre il secondo vi ritorna come nuovo capitale. Il profitto è la valorizzazione del capitale e misura l'ampliamento estensivo ed intensivo del
processo di sussunzione del lavoro nel capitale, dell'attività umana nel ciclo della valorizzazione.
L'altra differenza è quella tra profitto e salario. Anche in questo caso occorre sfatare una questione che la teoria economica ha reso irrisolvibile. Il profitto è la misura in cui è cresciuto il valore del capitale: se all'inizio del processo produttivo è stato investito un valore pari a C, alla fine il
valore è pari a C+p, dove p è il profitto. Da dove nasce questo valore in più? E qui nasce la favo la: il lavoro è retribuito dal salario, quindi quello è il suo valore; il capitale è retribuito dal profitto, quindi il profitto è il valore del capitale. La favola ha vita facile se ci si scorda della premessa:
il lavoro non è valore, né tanto meno il salario può misurare il valore del lavoro. Il salario è la mi sura in cui l'attività lavorativa è stata ridotta ad attività di creazione di valore, sussunto entro i
rapporti capitalistici e quindi non tanto il prodotto ma il suo stesso svolgimento, la sua estrinse cazione, può essere misurata e valutata in termini di valore astratto. Tutto il resto: misurazione
del valore delle merci, trasformazione dei valori in prezzi, realizzazione dei valori nel mercato,
distribuzione del valore tra i redditi, tutto questo presuppone il funzionamento dei rapporti capitalistici e la sussunzione del lavoro in essi.
8. Dalla teoria del valore alla realtà dei prezzi.
Si può adesso affrontare un passaggio teorico essenziale poiché su di esso si fonda la mistifi cazione degli economisti. Chi ha chiaro questo passaggio non si lascia adescare facilmente.
Nell'interpretazione dominante, che è stata definita neo-ricardiana e che ha avuto nel saggio
di Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci la sua summa, la teoria economica classica,
quella che aveva posto il lavoro come fonte del processo di valorizzazione, deve cedere il passo
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a una realtà che è più forte della teoria.
Secondo la teoria del valore-lavoro le merci si scambiano in funzione della quantità di lavoro
necessario alla loro produzione; ma nella realtà si verifica un altro fenomeno: i prezzi non hanno
alcuna relazione immediata con la quantità di lavoro occorso per la loro produzione ma misurano solo una relazione di scambio tra merci diverse, sono solo una misura relativa che dipende, in
ultima analisi, dai rapporti generali tra domanda ed offerta di tutte le merci, ed in definitiva
dall'equilibrio economico generale e dalla distribuzione dei redditi e dai pattern dei consumi.
Questa è la realtà.
Ma la descrizione della realtà non equivale alla sua comprensione, anzi laddove la realtà apparente viene posta come uno stato di fatto ineluttabile piuttosto che come apparenza di una
realtà di cui venire a capo, ecco che si è prodotta una mistificazione e trasformata la scienza in
apologia.
Lo iato tra valore e prezzo, l'impossibilità di passare dalla teoria del valore-lavoro alla realtà
dei prezzi ha due cause essenziali. La prima consiste in un semplice difetto di logica. Quel passaggio si può spiegare logicamente non in quanto identità ma appunto in quanto trasformazione
dei valori in prezzi. Per seguire con la logica questo processo di trasformazione sono necessari
concetti adeguati.
La seconda causa di errori consiste nel ritenere che la trasformazione dei valori in prezzi sia
un problema di relazioni tra cose e non di relazioni umane, così si pensa che le categorie ade guate siano dei numeri indicanti quantità di cose: offerta, domanda, equilibrio di mercato.
Lo iato tra valori e prezzi si spiega con il fatto che una merce in quanto prodotto del lavoro ha
un valore fondato sulla quantità di lavoro necessario alla sua produzione, mentre la merce in
quanto prodotto del capitale ha un prezzo fondato su quanto profitto esso deve realizzare. Se
quando si parla di valore-lavoro si pensa alla quantità “media” o “normale” di lavoro necessario
per produrre una merce, quando si parla di prezzo si deve pensare a una quantità “normale” di
profitto che quel prezzo deve realizzare. Nel prezzo ogni singola merce deve remunerare il capi-
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tale, e lo deve fare rispettando il “normale” saggio di profitto, altrimenti quel prezzo è inadeguato e quella merce è inutile e il suo processo di produzione obsoleto o esuberante. Il potere che la
merce esercita con il suo prezzo corrisponde al potere che il capitale esercita sul lavoro. Nella
trasformazione del valore in prezzo quel potere mostra la sua doppia natura: che l'unità di misura, il metro con cui si misura il potere oggettivo è il capitale e non il lavoro, e che questa misura
è contrapposizione al lavoro necessario, riduzione del lavoro necessario a un minimo per accrescere il lavoro eccedente, il plus lavoro. Il capitalismo implica questo movimento contraddittorio
e i conflitti che ne sorgono, e ogni tentativo di risolve la faccenda con una qualche teoria
dell'equilibrio è solo una parvenza di soluzione, oppure sfacciata apologia.
A caratterizzare i moderni rapporti di produzione, basati sulla libertà individuale, non è dun que l'assenza di potere e la mancanza di uso della violenza, ma l'idea che violenza e potere possano essere usati legittimamente. L'idea di un potere legittimo è doppiamente ingannevole. In
primo luogo perché rinuncia a una critica della violenza e dei rapporti di potere in nome di un
loro uso limitato e legittimo; in secondo luogo depotenzia la possibilità di una critica del potere
La formazione del capitale fittizio la si chiama capitalizzazione. Si capitalizza ogni reddito regolare e periodico, considerandolo in base al saggio medio dell'interesse come
provento che verrebbe ricavato da un capitale dato in prestito a questo saggio d'interesse; se ad es. il reddito annuo
corrisponde a 100 Lst. e il saggio d'interesse è del 5%, le
100 Lst. rappresenterebbero allora l'interesse annuo di
2.000 Lst. E queste 2.000 Lst. sono considerate come il valore capitale del titolo giuridico di proprietà sulle 100 Lst.
annue. Per colui che acquista questo titolo di proprietà, le
100 Lst. di reddito annuo rappresentano effettivamente il
pagamento d'interessi del suo capitale investito al 5%.
Svanisce così anche l'ultima traccia di qualsiasi rapporto
con l'effettivo processo di valorizzazione del capitale e si
consolida l'idea che rappresenta il capitale come automa
che si valorizza di per se stesso.
K. Marx Il Capitale libro III, pag. 550.
con l'idea che, poiché se ne fa un uso
solo legittimo ed è perciò attributo non
personale ma di un “ufficio”, chiunque
può trovarsi nella condizione di fare uso
legittimo del potere e della violenza.
Questa falsa uguaglianza dissimula
quella vera, in cui non si esercita potere.
L'idea di una violenza legittima fa della
violenza un semplice atto ed occulta la
sua sostanza di qualificazione delle relazioni. Se vi è ricorso alla violenza, sia pur legittima e li mitata, è perché i rapporti sono intrinsecamente violenti, hanno la violenza come loro intrinseca
possibilità, anzi necessità. Tali sono i rapporti di produzione capitalistici.
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9. L'ultima fase del capitalismo. Capitalismo finanziario e bio-capitalismo.
Una delle più ricorrenti definizioni utilizzate per esprimere l'attuale fase del capitalismo (essendo l'altra, di cui si darà conto, bio-capitalismo) è capitalismo finanziario. Con questa definizione si sottolinea la rilevanza che si è attribuita negli ultimi decenni alla appropriazione privata della ricchezza monetaria e finanziaria e alla esorbitante prevalenza che essa ha assunto nei
processi di produzione e di distribuzione, tanto da poter descrivere gli ultimi decenni come un
susseguirsi di “bolle” e di “crack”.
Con lo sviluppo del capitalismo finanziario è divenuto evidente la mancanza di consistenza
teorica delle teorie monetariste e neoliberiste, e il loro carattere puramente ideologico. Non aumentare la quantità di moneta e liberalizzare i mercati creditizi e finanziari ha significato solo
trasferire il potere di controllo sui flussi della ricchezza monetaria dagli Stati nazionali alle multinazionali e ai mercati finanziari. Come gli Stati nazionali hanno per decenni finanziato lo sviluppo industriale creando debito pubblico, così le multinazionali della finanza globale hanno finanziato negli ultimi decenni lo sviluppo del capitalismo globale con la creazione di titoli di proprietà
fittizi che equivalgono a un aumento del debito globale.
I titoli finanziari sono titoli di proprietà in grado di moltiplicarsi in quanto funzionano in modo
speculare al funzionamento della moneta. Una stessa quantità di moneta può consentire molteplici compravendite, passando di mano in mano. Questa facoltà della moneta si chiama velocità
di circolazione: tanto più essa è elevata tanto minore può essere la quantità di moneta circolante. I titoli finanziari hanno una funzione similare: finanziano molteplici debiti; ma con una essenziale differenza.
Mentre il rapporto tra quantità di moneta e la sua capacità di moltiplicare gli scambi è inverso, la relazione tra titoli finanziari e la loro capacità di moltiplicare i debiti è diretta: tanti più debiti tanti più crediti, tanti più titoli di proprietà. La situazione attuale è che il valore dei titoli di
proprietà, il valore di cui si vanta la proprietà, è decine di volte superiore al valore di tutto la produzione mondiale. Il risultato, teoricamente paradossale ma praticamente stringente, è che trat-
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tandosi di capitale monetario i crediti fittizi che si sono accumulati pretendono comunque la loro
parte di profitto.
L'altra definizione con cui si descrive l'attuale fase del capitalismo è bio-capitalismo. Con essa
si vuole indicare alla trasformazione dei rapporti di produzione - di cui l'espansione della finanza
globale costituisce solo un aspetto. Il capitalismo finanziario agirebbe infatti come “proprietà assenteista”. In questo senso si dice che il profitto si trasforma in rendita: con esso si remunera la
proprietà anche se essa non esercita alcuna funzione diretta nei processi di produzione di nuovo
valore. Questa interpretazione non va intesa nel senso che il processo di valorizzazione e accumulazione del capitale, cioè la creazione di nuovo valore, si interrompe. La caratteristica del di battito sul bio-capitalismo consiste nella ipotesi che a creare nuovo valore non sia solo il lavoro
inteso come attività produttiva di merci ma, insieme ad esso, anche tutte quelle attività – dalla
cultura al tempo libero, dalla cura del corpo all'assistenza agli invalidi – che non danno come ri sultato delle merci ma la stessa esistenza fisica e biologica, e il cui valore solo fittiziamente può
essere misurato in termini di ore di lavoro occorso alla produzione.
Sviluppando questa ipotesi si può dire che nel bio-capitalismo ad essere sottoposto a sfruttamento, ad essere sussunto nel processo di valorizzazione, non è solo l'attività produttiva, che si
svolge per un numero di ore più o meno limitato, ma l'intera esistenza. Il che significa anche che
ad essere ridotta a merce non è solo la forza-lavoro ma la stessa vita e che il processo di accu mulazione del capitale non è legato allo sfruttamento diretto del tempo di lavoro, ma allo sfrut tamento indiretto sui tempi e sui modi della forma di vita sussunta nei processi della produzione
e della riproduzione dell'economia mercantile.
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Ciò che va messo in evidenza, e che accomuna tanto l'analisi delle recenti forme di appropriazione condotta dagli studi sul capitalismo finanziario, quanto le ricerche sul bio-capitalismo e
l'evoluzione dei rapporti di produzione, è
Questa “estraneazione”, per usare un termine compren-
l'impossibilità di comprendere le dinami- sibile ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinché tutto diven-
che economiche come fenomeni deter- ti un potere “insostenibile”, cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia
minati da una qualche legge del valore. Il reso la massa dell'umanità affatto “priva di proprietà” e
valore sembra anzi una conseguenza dei
precari equilibri di mercato, piuttosto che
la loro causa. Tale conclusione, piuttosto
che confutare la teoria del valore ne conferma la vera natura. Il valore, la misurabilità non solo dei prodotti del lavoro ma
della stessa forza-lavoro come particella
di valore astratto, non è l'evento che funge da causa di una catena più o meno
lunga di effetti, ma l'esito di un potere e
di una violenza il cui esercizio caratterizza i rapporti di produzione capitalistici e
la forma di vita moderna.
10. Economia politica e forma di vita.
Nell'opera di Marx la forma di vita moderna, che ha nel capitalismo la sua specifica organizzazione, trova espressione
in due contesti concettuali.
Il primo consiste nella critica all'individuo in quanto apparenza di unità e com23
l'abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che
presuppongono un grande incremento della forze produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d'altra parte
questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l'esistenza empirica degli uomini sul piano della
storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria
e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto
per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni
universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il
fenomeno della massa “priva di proprietà” contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella
storia universale, individui empiricamente universali.
Senza di che 1) il comunismo potrebbe esistere solo
come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare senza potenze
universali, e quindi insostenibili e sarebbero rimaste
“circostanze” relegate nella superstizione domestica, 3)
ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale. Il comunismo è possibile empiricamente
solo come azione dei popoli dominati tutti in “una volta”
e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che
esso comunismo implica. Il comunismo per noi non è
uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale
al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal
presupposto ora esistente. D'altronde la massa di semplici operai – forza lavorativa privata in massa del capitale o di qualsiasi limitato soddisfacimento – e quindi
anche la perdita non più temporanea di questo stesso lavoro come fonte di esistenza assicurata, presuppone, attraverso la concorrenza, il mercato mondiale. Il proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia
universale, così come il comunismo, che è la sua azione,
non può affatto esistere se non come esistenza “storica
universale”. Esistenza storica universale degli individui,
cioè esistenza degli individui che è legata direttamente
alla storia universale.
K. Marx, F. Engels La concezione materialistica della
storia, pag. 76.
piutezza dell'esistenza. L'individuo è infatti solo una compiuta contraddizione, e la sua costruzione teorica l'esempio più evidente dell'ideologia borghese. La critica al concetto di individuo permette perciò a Marx di evidenziare le contraddizioni dell'ideologia borghese, a partire dalla filo sofia hegeliana fino al socialismo utopistico. Con tale critica Marx riesce a chiarire che l'idea di
una vita compiuta in forma individuale, come una sorta di autopossesso e autoapprendimento
del singolo essere umano è un'idea priva di senso, la cui unica funzione è di natura ideologica
tesa a dissimulare il reale stato di cose, che egli individua nella natura storica dell'esistenza
umana.
Il secondo contesto concettuale è la distinzione soggetto\oggetto così come si manifesta nel
processo di produzione capitalistico. Qui l'oggetto ha la consistenza del prodotto del lavoro e del
mezzo di produzione che in quanto merce e in quanto capitale fisso si ergono di fronte al soggetto come potenze autonome e contrapposte. Di contro, il soggetto è il lavoro vivo completamente
privato di ogni consistenza oggettiva, puro dispendio di energia il cui contenuto gli proviene
dall'esterno come scopo della valorizzazione del capitale, e il cui esito gli si contrappone oggettivamente in quanto proprietà del capitale.
Tanto l'idea di una vita a cui viene riconosciuta una consistenza solo individuale, quanto quella di una soggettività svuotata da ogni oggettività, sono espressione della forma di vita moderna
e della figura che i rapporti di potere e l'esercizio della forza assumono in essa.
La critica al capitalismo e, insieme ad esso, alla forma di vita propria della modernità, è diret ta a mostrare il modo in cui, in rapporti tra individui apparentemente liberi e uguali, si esercita il
potere. Solo riconoscendo l'esercizio della forza, la violenza e il potere è possibile esercitare una
resistenza tesa a creare rapporti privi di potere, emancipati dall'uso della violenza. Se non è
emancipazione dalla violenza e dai rapporti di potere, l'emancipazione umana diventa un'idea di
progresso priva di contenuti o l'atto di fede di una religione laica.
Con umanità ci si riferisce tanto al genere umano, cioè a tutti gli esseri umani, che alla umanità di ogni singolo essere umano. La coniugazione tra questi antitetici significati della parola
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umanità è in ogni senso una contraddizione irrisolvibile, ed ogni tentativo di risolverla si traduce
in semplificazioni banalizzanti o peggio mortificanti.
Come definire l'essere umano? Cos'è l'uomo? Può apparire una questione accademica, e per
lo più è affrontata così. Ma è chiaro che in essa è in gioco non solo l'idea di umanità ma anche
l'immagine o il senso dell'identità personale. Nella modernità la contraddizione si è presentata
nella forma della estraniazione e ha sempre più assunto come propria espressione un conflitto
esistenziale interiore, dove la contrapposizione tra l'Io e gli Altri ha un significato psicologico.
L'eroe borghese si consuma nell'introspezione.
Il fascismo, e la filosofia che ne ha assunto la problematica come reale, ha inteso comporre la
contraddizione stabilendo gradi diversi di umanità, dove quella più pura sta conficcata in una
originaria profondità abissale, quella che si raggiunge solo se si è disposti a svuotare di senso
storico ogni esistenza per poterne attribuirgli uno qualunque, rendendo non solo possibile ma
anche attuale il male assoluto, quello che non avendo alcuna ragione si autogiustifica.
I recenti tentativi di pacificare la contraddizione ponendo uno con l'altro i due lati dell'antitesi,
l'Io con gli Altri, l'essere-con di ogni singola esistenza, per quanto benintenzionata, rischiano di
sfuggire al problema che dicono di affrontare. Ogni singola esistenza è un esito, un risultato di
uno stato di cose fatto da tanti altri; questa constatazione è così banale da non comunicare altro
che un'impotenza, una inettitudine, inutilmente condita da un vago amore per la vita. Ogni esistenza è anche immagine dell'umanità, e se in passato vi sono state figure umane che hanno
segnato, con la loro esistenza, epoche intere, come l'eroe nell'Antichità o il santo nel Medioevo,
lo stesso vale per l'oggi. Ma la figura di uomo attuale non è né diretta all'umanità di un popolo
né all'umanità di una comunità religiosa, ma a un'umanità che dà forma alla sua vita. A questa
umanità dell'essere umano Marx si riferisce con l'espressione essere altrimenti.
11. “Compito storico” e “limite immanente” del capitalismo.
L'idea, o la concezione filosofica, che può indicare l'esigenza da cui procede la critica del ca pitalismo condotta da Marx, è che vi sia un processo di emancipazione delle relazioni umane e
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delle forme di vita, e questo processo è l'esito dell'attività stessa degli esseri umani. Rendere
consapevole tale processo di emancipazione è allora il compito principale della critica dell'economia politica.
Il capitalismo è infatti inteso da Marx come una tappa di questo processo. Il capitalismo può
essere inteso come emancipazione umana in due significati distinti anche se strettamente legati
fra loro. Nel primo significato il capitalismo è l'esito di un processo rivoluzionario che ha abolito i
rapporti feudali e la dipendenza personale ed introdotto nuove relazioni sociali fondate sulla libertà individuale e sulla proprietà privata. Nel secondo e più proprio significato il capitalismo è
il superamento dei limiti alla produzione, poiché pone come fine della produzione non più dei valori d'uso ma la accumulazione di valore, di ricchezza astratta. Se nei precedenti modi di produzione la produzione avveniva sulla base di presupposti che si trattava solo di riprodurre, nel ca pitalismo unico presupposto della produzione è l'accumulazione di ulteriore valore. Evidentemente l'illimitatezza della produzione capitalistica non va intesa solo in senso quantitativo ma
anche qualitativo: ogni oggetto ma anche ogni abitudine o struttura sociale non è solo un pre supposto ma anche il prodotto dell'attività umana.
Gli esseri umani producono non solo degli oggetti utili ma anche le condizioni della loro esistenza, e lo fanno in quanto esseri generici, membri del genere umano. L'idea di autoproduzione
dell'uomo è per lo più un'idea antireligiosa: essa nega l'idea di un dio creatore e del mondo
come creato.
La realtà che promana dalla religione è quella del sacro, cioè di un ordine delle cose la cui ragione trascende l'umano e ne costituisce il limite all'azione. L'autoproduzione del genere umano
non ha limiti, se non quelli consapevolmente conseguiti – il che dovrebbe chiarire anche l'impegno della filosofia che anziché dedicarsi a questa consapevolezza, a causa del suo recente connubio con il fascismo e per il timore di una ricaduta, si limita alle piccole cose. Ma mentre nel sacro la vita trascorre lungo un tempo lineare tra la creazione e la redenzione, come vita incompiuta o al più, in quanto apparenza di vita compiuta, come vita sacrificata; nel profano la vita è con -
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duzione dell'esistenza nella compiutezza storica dell'essere umano. A mancare il suo senso non
è la vita, ma la vita incompiuta.
Nel capitalismo la produzione illimitata si presenta in forma astratta, come produzione di valore, che non ha limiti ma che diventa esso stesso un limite. Poiché lo scopo della produzione è il
plusvalore – un aumento del valore – la produzione stessa viene limitata laddove essa non produce plusvalore, ciò che Marx chiama liOrmai è certamente facile dire all'individuo singolo quello
mite immanente alla produzione. Il plu- che già disse Aristotele: tu sei generato da tuo padre e da
tua madre, e quindi la congiunzione di due esseri umani,
svalore come limite alla produzione è la cioè un atto proprio della specie umana ha prodotto in te
l'uomo. Tu vedi dunque che l'uomo è debitore della sua
causa diretta delle crisi capitalistiche e esistenza anche fisicamente all'uomo. Devi quindi tener
della distruzione di valore e di capacità
produttiva che esse determinano come
necessità per la ripresa del processo di
accumulazione.
Il valore è il modo in cui si presenta la
ricchezza nel modo di produzione capitalistico. In questione cioè non è il valore
assoluto di una cosa – che potrebbe consistere solo in un valore morale o religioso. Non è neppure il valore relativo tra
cose, come è suggerito dal concetto di
scarsità per cui il valore di scambio misura la relazione tra il bisogno e la disponibilità degli oggetti atti alla sua soddi-
presente non un unico lato soltanto, cioè il progresso
all'infinito per cui vieni a chiedere chi ha generato mio
padre, chi suo nonno e via di seguito. Tu devi anche porre
attenzione al movimento circolare, che si può vedere sensibilmente in quel progresso, in base al quale l'uomo nella
generazione riproduce se stesso, e l'uomo rimane quindi
sempre soggetto. Però tu mi potrai rispondere: io ti concedo questo movimento circolare, ma tu devi concedermi
a tua volta il progresso che mi spinge sempre più indietro
sino a farmi domandare chi ha generato il primo uomo e
in generale la natura. Posso limitarmi a controbattere: la
tua domanda è essa stessa un prodotto dell'astrazione.
Domandati come hai fatto ad arrivare a questa domanda;
domandati se la tua domanda non proceda da un punto di
vista, a cui non posso rispondere perché è assurdo. Domandati se quel progresso esista come tale per un pensiero razionale. Quando tu ti poni la domanda intorno alla
creazione della natura e dell'uomo, fai astrazione
dall'uomo e della natura. Tu li poni come non esistenti,
eppure vuoi che te li provi come esistenti. Ed io ora ti
dico: se rinunci alla tua astrazione, devi rinunciare pure
alla tua domanda; se vuoi invece rimanere fedele alla tua
astrazione, devi essere conseguente, e se pensi l'uomo e
la natura come non esistenti, allora pensa come non esistente anche te stesso, perché tu stesso sei pure natura e
uomo. Non pensare, non interrogarmi, perché non appena
pensi e interroghi, la tua astrazione dall'essere della natura e dell'uomo perde ogni senso. Oppure sei tu un tale
egoista che ogni cosa poni nel nulla, ma ciò nonostante
vuoi essere.
K. Marx Manoscritti economici-filosofici del 1844,
pag.124.
sfazione – tale concetto di scarsità è, nel
capitalismo, associato alla speculazione: poiché in un mondo in cui il fine della produzione non è
la soddisfazione di bisogni dati ma l'accumulazione di ricchezza astratta, quindi dove è l'offerta
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a creare la domanda, la scarsità può essere solo fittizia, e atta a mantenere il valore dei prodotti
surrettiziamente elevato. Il valore è la misura di una relazione tra l'attività umana e il suo prodotto. Esso, e con esso il sistema della produzione, entra in crisi – cioè il processo si interrompe
– quando entra in crisi la relazione tra lavoro necessario e plus lavoro. Condizione per la ripresa
del processo di valorizzazione è che l'attività produttiva venga ricondotta alla misura di lavoro
necessario, poiché solo come attività di scarso valore può essere posta come base alla creazione
di valore eccedente, valore che non ha misura propria ma è misura della sua relazione in quanto
lavoro eccedente oggettivato in un valore con il lavoro necessario alla sua produzione.
Il limite immanente non è allora un limite che si raggiunge una volta per tutte, o raggiunto il
quale il capitalismo si autodissolve. Esso è piuttosto manifestazione del potere del capitale e
della sua specifica forma di esercizio. Di fronte ad esso si deve abbandonare ogni speranza, ogni
idea di un progresso automatico della storia.
12. Tempi moderni.
Si è cercato di mostrare che il valore non è una cosa, né una relazione tra cose, quanto piut tosto l'esito di un processo: del processo di valorizzazione del capitale. Al valore occorre guardare non come a un processo lineare, come a una relazione causa-effetto, ma come un vortice: a
volerlo penetrare per coglierne il punto centrale si verrebbe trascinati nelle sue turbolenze.
Il valore non è infatti un problema da risolvere ma la soluzione offerta dalla borghesia
nell'epoca moderna, una soluzione limitata e un limite essa stessa. Se si vuole andare finalmente al centro del vortice moderno occorre cogliere la questione prima della sua soluzione. Solo
così si comprenderà in che senso quella soluzione limitata è a sua volta un limite.
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In un frammento giovanile, Walter Benjamin (radicalizzando l'interpretazione di Max Weber che
aveva associato lo spirito del capitalismo all'etica
protestante) descrive il capitalismo come una
nuova religione il cui elemento caratteristico è di
assoggettare l'esistenza a una colpa da cui non è
possibile redimersi, poiché colpevole non è
un'azione ma la vita in quanto tale.
Siccome il termine tedesco “Schuld” può essere
tradotto sia con “colpa” che con “debito”, il senso della posizione di Benjamin sembra evidente e
del tutto attuale. Ma è nel suo saggio sull'Età Barocca che quell'idea trova la sua articolazione.
Una caratteristica essenziale dell'Età Moderna è il
suo abbandono della religiosità medioevale e
dell'idea di una “fine dei tempi”. Alla concezione
escatologica della storia, secondo cui la vita era
un decorso verso la via della salvezza ultraterrena, si sostituisce un'idea di storia che si risolve
nelle azioni degli Stati e dei Capi di Stato. La vita
veniva svuotata di ogni contenuto trascendente e
ridotta a nuda vita creaturale, che come nella
creazione è priva di storia. Vita storica e vita individuale risultano così separate da una incomunicabilità e da una mancanza di senso: la storia diventa un eterno presente da salvaguardare e il
potere si legittima proprio nell'idea di continuità
del potere costituito.
Il punto di rottura, la discontinuità epocale tra
Medioevo e Modernità si può identificare nel superamento della religione come suprema ragione
della vita umana. La rivoluzione scientifica, le scoperte geografiche, la costituzione degli Stati sovrani segnano gli eventi di rottura con la Chiesa,
con la comunità dei fedeli, strumento della salvezza in Cristo. Nella modernità il concetto di storia
perde il suo riferimento a un aldilà come fine da
conseguire in quanto regno della salvezza, e assume le sembianze di un eterno presente su cui il
regno dei cieli incombe come una minaccia, un
catastrofico giorno del giudizio da scongiurare.
Su questa trasformazione del concetto di storia
- da quello religioso in cui il tempo ha una direzione che parte dalla creazione per giungere alla
redenzione, a quello prosaico in cui il tempo è un eterno presente che non conduce da nessuna
parte - si costituisce la forma di vita dell'individuo moderno.
La funzione della violenza nella creazione giuridica è infatti duplice in questo senso, che la creazione giuridica, mentre persegue, in quanto scopo, qualcosa da instaurare come diritto, con la
violenza come mezzo, nel momento di insediare lo
scopo conseguito come diritto non abdica alla violenza, piuttosto solo ora la rende in senso stretto
e immediato creazione di diritto, qualcosa di non
libero e indipendente dalla violenza, anzi necessariamente e profondamente collegato ad essa, in
quanto diritto insediato nel nome del potere.
Creazione di diritto è creazione di potere e perciò
un atto di immediata manifestazione di violenza.
W. Benjamin Per la critica della violenza, in Angelus Novus p. 24 (traduzione modificata)
L'eterno presente in cui vive l'individuo è in
debito verso il futuro poiché non si è veramente
emancipato dalle forze della religione, per quanto rifiuti di sottomettersi ad esse. La sua libertà
dalla religione resta una libertà solitaria che se
ha perso la speranza in una giustizia divina è
perché sa che nel giorno del giudizio verrà condannato. La sua infatti è la libertà borghese che
si appaga del possesso delle piccole cose e rinuncia a ogni domanda che lo interroga sul senso
29
della sua esistenza o sul valore dei suoi gesti. Il futuro agisce come destino a cui la vita individuale è soggetta.
Il destino appare quando si considera una vita
come condannata, e in fondo tale che prima è
stata condannata e solo in seguito è divenuta
colpevole. Come Goethe riassume queste due
fasi nelle parole: “Voi fate diventare il povero
colpevole”. Il diritto non condanna al castigo,
ma alla colpa. Il destino è il contesto colpevole
di ciò che vive. Esso corrisponde alla costituzione naturale del vivente... L'uomo non ne viene
mai colpito, ma solo la nuda vita in lui, che partecipa della colpa naturale e della sventura in
ragione dell'apparenza.
(W. Benjamin Destino e carattere in Angelus
Novus pag. 35)
La forma terrena del destino è il diritto. E' nel
diritto che la forma di vita dell'individuo trova il
suo senso. Esso è una reale emancipazione dal
potere dell'autorità spirituale della religione, ma il
suo prezzo è lo svuotamento del senso storico
dell'esistenza. Non solo il futuro si presenta come
l'esattore di una vita in debito in quanto dedita
all'accumulazione senza fine dei beni terreni e del
tutto disinteressata alla grazia, ma il passato svanisce nell'eterna ripetizione del presente. La
vita non è solo priva di grazia ma anche vuota di contenuto. La vita è così condotta come nel
giorno della creazione, in cui non vi è storia.
La negazione della consistenza storica dell'esistenza fa della vita una nuda vita, del tutto riducibile ai suoi elementi naturali e quindi intercambiabile: ogni esistenza è uguale a ogni altra
perché tutte sono vuote e tra loro indifferenti.
Nucleo del pensiero del destino è piuttosto
la convinzione che la colpa, che in questo
contesto è sempre colpa creaturale – in termini cristiani: il peccato originale – e non
un'infrazione morale dell'agente, attraverso
una sua manifestazione, per quanto magari
fugace, scatena la causalità come strumento
delle fatalità che inarrestabilmente si dipanano. Il destino è l'entelechia del divenire
nel campo magnetico della colpa.
W, Benjamin Il dramma barocco tedesco,
pag. 127
La vita dell'individuo moderno si è perciò emancipata dal potere spirituale ma sottomettendosi ad un
potere temporale. Per cogliere appieno il funzionamento del potere terreno si può ricorrere al concetto
di stato d'eccezione, e del cambiamento di significato che assume nell'età moderna rispetto all'epoca
precedente. Lo stato d'eccezione, nella concezione moderna, è una dichiarazione di limitazione
delle libertà costituzionali e di attribuzione di poteri eccezionali a colui che detiene il potere
esecutivo (sia esso principe, dittatore o presidente in una Repubblica democratica). Esso costi tuirebbe perciò una deroga all'esercizio legittimo del potere, poiché esercizio di un potere ecce -
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zionale non previsto dalla legge. Ritenere che una situazione di fatto giustifica una tale deroga è
del tutto fuorviante: in questione non è l'attribuzione di poteri eccezionali nel caso di eventi
straordinari (calamità naturali, rivolte o guerre) ma ritenere che lo stato d'eccezione sia un attributo del potere sovrano, un potere ulteriore oltre quello che già gli compete: il potere di dichiarare lo stato d'eccezione, poiché l'imbroglio è proprio che a dichiarare lo stato d'eccezione e ad
attribuire poteri straordinari al sovrano... è il sovrano.
Nel confronto con la concezione premoderna dello stato d'eccezione si chiarisce l'inganno. In
essa lo stato d'eccezione corrisponde alla sospensione del potere esecutivo e alla delegittimazione del sovrano. Stato d'eccezione è la dichiarazione di illegittimità di colui che esercita il potere. Quando Walter Benjamin afferma che lo stato d'eccezione in cui viviamo è la regola, e indica come compito quello di creare il “vero stato di emergenza”, fa riferimento a questa concezione, cioè a uno stato di permanente e irrisolvibile illegittimità del potere. Ma il “vero stato
d'emergenza” è possibile solo entro rapporti che abbiano deposto il potere e abbandonato per
sempre l'idea di un potere legittimo.
Il potere non è attributo personale del sovrano, non è il legittimo esercizio di un ufficio pubbli co, né la delega proveniente da un dio o da un popolo. Potere è una qualificazione dei rapporti.
Tanto più i rapporti sono svuotati di ogni contenuto storico e ridotti a relazioni tra individui privati, tanto più il potere appare legittimo, poiché diventa l'unico modo per poter decidere, fonte e
detentore del decorso storico.
L'epoca moderna ha delegato al soggetto politico, un soggetto il cui compito è governare un
mondo vuoto e meramente oggettivo, il potere temporale che rende eterno il presente e nega
consistenza storica a un'esistenza ridotta a nuda vita individuale.
In questione non è la libertà individuale ma la qualità delle relazioni in cui si conduce l'esistenza e che di ogni vita individuale costituiscono tanto la consistenza storica, il suo essere coa gulo dell'intera umanità, quanto la sua parte di grazia o di terrena felicità.
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La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola. Dobbiamo
giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro
compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro
il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò: che i suoi avversari lo combattono in nome
del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono “ancora” possibili
nel ventesimo secolo è tutt'altro che filosofico. Non è all'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella
che l'idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.
W. Benjamin Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, pag. 79.
Glossario.
Marx si rende conto che per condurre la critica alle teorie economiche occorrono adeguati concetti che egli deve elaborare per poter
specificare i fenomeni economici.
Capitale = è valore che si accumula, o che
si autovalorizza. Il suo significato non è perciò univoco, esso ne assume tanti quanti
sono gli aspetti con cui si presenta il modo di
produzione capitalistico. La sua definizione
più comprensiva, che è anche la meno definita, è :”il capitale non è una cosa, bensì un
determinato rapporto di produzione sociale,
appartenente ad una determinata formazione storica della società”. (Il Capitali vol.III,
pag 927.)
Forza-lavoro = è il lavoro nel modo di produzione capitalistico, cioè il lavoro in quanto
merce. Essa ha un valore, il salario, con cui il
capitale la può acquistare. Ma il capitale è
un valore che si autovalorizza, ed esso acquista forza-lavoro non per soddisfare bisogni ma per accumulare altro valore. Esso acquista forza-lavoro perché la forza-lavoro in
atto, il lavoro, crea valore in quantità superiori al suo costo.
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Lavoro vivo= è il lavoro in quanto esercizio, dispendio di energia, soggettività priva
di ogni oggettività.
Lavoro morto = è il lavoro accumulato, incorporato in merci e in capitale fisso, che si
contrappongono al lavoro vivo come un potere oggettivo.
Capitale fisso = indica il valore dell'investimento in beni strumentali – macchinari, fabbricati, ecc. - che cioè non ha una forma che
gli consente di circolare.
Capitale circolante = è quell'insieme di
valori investiti in forme che possono facilmente circolare, ovvero merci finite o materie prime e ovviamente denaro o titoli di credito di cui può disporre un'impresa.
Capitale
costante=
indica
il
valore
dell'investimento che nel processo produttivo non cambia il suo valore ma lo rinnova, o
meglio: lo conferma, nel senso che alla fine
del processo produttivo vi sarà una quantità
di valore che sarà destinato a sostituire o
compensare la perdita di valore dei macchinari e dei vari beni strumentali occorsi nel
processo produttivo. Il suo simbolo è C.
Capitale
variabile =
è
quel
valore
dell'investimento che nel corso del processo
di produzione si accresce, ovvero il costo
saggio di sfruttamento del lavoro. La sua
della forza-lavoro. Solo la forza-lavoro infatti
funzione è pv'=Pv/V.
ha un valore, il salario, minore del valore che
Profitto= è la misura della valorizzazione
produce. Il capitale variabile è anche la mi-
del capitale investito. In termini assoluti esso
sura in valore del lavoro necessario. Il suo
equivale al plusvalore, ma siccome è consi-
simbolo è V.
derato in quanto eccedenza del valore
Composizione organica del capitale = è
dell'intero capitale investito, e non solo del
il rapporto che misura quanto del valore in-
valore della fora-lavoro, in termini relativi
vestito nell'impresa ha la forma di capitale
esso è minore del plusvalore. La differenza
costante e quanto ha la forma di capitale va-
tra plusvalore e profitto è forse il maggior
riabile. La sua funzione è: C/V.
contributo teorico dato da Marx alla teoria
Lavoro necessario = si definisce necessa-
economica, con cui sarà in grado di scioglie-
rio la quantità di lavoro che occorre a retri-
re le contraddizioni in cui incorrono i padri
buire la forza lavoro necessaria a produrre
dell'economia classica, Adam Smith e David
una data merce. La forza lavoro ha un prez-
Ricardo.
zo, il suo salario, e questo prezzo misura il
Saggio di profitto= è la misura della valo-
lavoro necessario. Il lavoro eseguito dalla
rizzazione dell'intero capitale investito, cioè
forza lavoro retribuita dal suo salario è mag-
il plusvalore rapportato all'intero capitale. La
giore del lavoro necessario per ripagare la
sua formula è: Pv/C+V.
sua retribuzione.
Saggio medio del profitto = è quello che
Lavoro eccedente o pluslavoro = è la
Marx definisce ironicamente il comunismo
quantità di lavoro che la forza-lavoro esegue
dei capitalisti: la concorrenza capitalistica
in eccedenza al lavoro necessario, alla quan-
non si preoccupa delle differenze tra le di-
tità di lavoro che corrisponde alla sua retri-
verse forme del capitale, per i capitalisti ogni
buzione. Il valore-lavoro, cioè il valore misu-
capitale è pur sempre valore che si autovalo-
rato in termini di quantità di lavoro, di una
rizza, e ognuno di loro fa valere il proprio ca-
data merce è pari al lavoro necessario più il
pitale come parte aliquota del capitale in ge-
lavoro eccedente o pluslavoro in essa conte-
nerale, pretendendo che ognuno partecipi
nuto. Il rapporto tra plulavoro e lavoro ne-
con pari diritto alla spartizione dell'ecceden-
cessario si chiama sfruttamento del lavoro.
za di valore generato nel modo di produzio-
Plusvalore = è la quantità di valore prodot-
ne che contribuiscono a conservare alimen-
ta dal lavoro che eccede il costo della forza-
tando, ognuno per suo conto, lo scambio con
lavoro. Esso corrisponde alla misura in valo-
la forza-lavoro. La libera concorrenza, che
re del pluslavoro o lavoro eccedente. Il suo
nel mondo della produzione si esplica diri-
simbolo è Pv.
gendo gli investimenti dove più alto è il plu-
Saggio del plusvalore = è il rapporto tra
svalore estorto, nel mondo della finanza si
plusvalore e costo della forza-lavoro occorso
realizza con più facili spostamenti di titoli di
alla sua produzione, esso equivale al rappor-
proprietà finanziaria.
to tra pluslavoro e lavoro necessario, cioè al
Caduta tendenziale del saggio di pro -
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fitto = è l'esplicazione che con un aumento
più il saggio di plusvalore che si ottiene nel
della composizione organica del capitale,
suo ciclo di produzione. Pc= K+Pv (dove
cioè un aumento della parte di investimento
K=C+V), che può essere scritta nella forma:
destinata al capitale costante relativamente
Pc= K (1+ p') (dove p'= Pv/K è il saggio di
a quella investita nell'acquisto di forza-lavo-
profitto di quello specifico ciclo produttivo).
ro, il saggio di profitto diminuisce. Se si divi-
Prezzo di mercato = è il prezzo ottenuto
de numeratore e denominatore della formula
nel mercato di scambio e che può oscillare,
del saggio del profitto per il capitale variabile
cioè assumere valori maggiori o minori, ri-
V, si ottiene:
spetto al prezzo di equilibrio. Se per prezzo
Pv
V
C
+1
V
il numeratore è il saggio di plusvalore,
di equilibrio di intende quel prezzo che oltre
il denominatore contiene la formula della
brio quell'industria realizza un plus profitto e
composizione organica del capitale, per cui:
perciò attrae nuovi investimenti; nel caso in
il saggio di profitto è in relazione diretta al
cui il prezzo di mercato è minore del prezzo
saggio di plusvalore e in relazione inversa
di equilibrio quel prodotto non realizza per
con la composizione organica del capitale.
intero o per nulla il saggio medio del profitto
Valore di scambio = Se con esso, in coe-
e quindi si assisterà ad un disinvestimento.
renza con la teoria economica classica, si in-
Le stesse oscillazioni si avranno se il prezzo
tende il valore assoluto del prodotto dell'atti-
di mercato realizza il prezzo di costo, poiché
vità umana esso è pari alla quantità di lavoro
quest'ultimo può essere diverso dal prezzo
occorso alla sua produzione, quindi, al valore
di equilibrio. Infatti il saggio di profitto otte-
del capitale costante,
al lavoro retribuito,
nuto in quel particolare ciclo produttivo e
ovvero al valore della forza-lavoro misurato
contenuto in quella particolare merce, può
dal capitale variabile V, più il lavoro non re-
essere maggiore o minore del saggio medio
tribuito, pari al plusvalore Pv.
del profitto.
Prezzo di costo = Come già detto, il prezzo
Prezzo=il prezzo, senza ulteriori attributi, è
ha un significato del tutto diverso dal valore.
la normalità, l'agognato equilibrio in cui il
Il valore è l'espressione del lavoro umano in
giusto è realizzato. Giusto, in questo conte-
quanto produttivo di ricchezza astratta, sus-
sto, è che ogni capitale impegnato in una
sunto entro rapporti in cui l'accumulazione di
qualunque attività, valga come valore astrat-
valore è il fine della produzione. Il prezzo è
to e in quanto tale partecipi alla equa parti-
invece un potere attribuito a ogni singola
zione del sovrappiù di valore. Ogni ciclo pro-
merce; è una misura, per così dire, necessa-
duttivo, per particolari condizioni tecnologi-
ria: quel prezzo deve realizzarsi, e se non si
che o sociali, può rendere più o meno ampia
realizza la produzione di quella merce entra
la differenza tra lavoro necessario e plusla-
in crisi, si interrompe. Il prezzo di costo è
voro, e perciò produrre una merce in cui la
quanto la merce costa in termini di capitale
parte di plusvalore è più o meno elevata.
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a coprire i costi di produzione C+V realizza il
saggio medio del profitto allora se il prezzo
di mercato
è maggiore del prezzo di equili-
Ma, come si è già messo in evidenza, la dif-
gionare non può che fallire, e tanto più quan-
ferenza del saggio di profitto tra diverse in-
to più è accurato; poiché esso non può pren-
dustrie alimenta la concorrenza, genera in-
dere in considerazione quell'elemento del
vestimenti e disinvesti menti. L'equilibrio si
tutto pragmatico e incalcolabile in anticipo in
raggiunge quando tutti questi movimenti si
cui consiste la perequazione del saggio di
interrompono e regna la giusta distribuzione
profitto. Se si ragiona in termini di valore-
del valore eccedente su tutto il capitale esi-
lavoro, si può calcolare il saggio di plusvalo-
stente, offrendo equamente a ogni capitali-
re, se si prendono in considerazione i prezzi
sta il suo saggio medio di profitto, che remu-
di costo (ovvero la quantità di capitale speso
nera il capitale non in ragione del pluslavoro
nel corso della produzione) si calcola il sag-
che è riuscito ad estorcere nel suo ramo
gio di profitto, potendo trasformare l'uno
d'attività, ma trattandolo con uguaglianza, in
nell'altro. Ma se si usa come variabile indi-
quanto parte aliquota del capitale universa-
pendente il saggio medio di profitto si ottie-
le. Così il capitale si emancipa dalla sua esi-
ne solo un ragionamento circolare, in cui ciò
stenza particolare, in quanto investito in uno
che si deve dimostrare (cioè che nel capitali-
specifico processo di produzione, e conduce
smo il processo di produzione è un processo
la sua vita di puro valore autovalorizzantesi.
di accumulazione di valore in cui ogni capita-
Trasformazione dei valore in prezzo . I
le vale come parte aliquota di valore astratto
tentativi di dimostrare la trasformazione dei
che si autovalorizza in modo equo a ogni al-
valori delle merci secondo la quantità di la-
tro capitale, per cui i prezzi devono realizza-
voro in esse contenuto ai loro prezzi in termi-
re il saggio di profitto medio) è assunto
ni di costi di produzione (cioè somma di ca-
come premessa (l'equilibrio economico capi-
pitale costante e capitale variabile) si sono
talistico presuppone la perequazione del
sempre risolti con la costruzione di sistemi di
saggio di profitto in saggio medio del profit-
equazione, in cui ogni equazione rappresen-
to, per cui i prezzi si formano sulla base di
ta le componenti di costo di una merce, o le
un saggio di profitto medio)
quantità di lavoro necessarie alla sua produzione. Questo complicatissimo modo di ra-
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