Monsieur» è andato oltre e ha intervistato Franco Zeffirelli, l`unico itali

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Il 26 novembre è uscita la sua autobiografia.
«Monsieur» è andato oltre e ha intervistato
Franco Zeffirelli, l’unico italiano a poter esibire
la massima onorificenza della Corona inglese
SIR, SEI L’ULTIMO
MAESTRO
QUI SOPRA, UNA SCENA DELL’«AIDA», ALLESTITA E SOTTO LA REGIA DI FRANCO ZEFFIRELLI (84 ANNI: A FIANCO, UN SUO RITRATTO DEL 1994 MENTRE SIMULA
L’INQUADRATURA DELLA MACCHINA DA PRESA) OPERA CHE HA INAUGURATO IL 7 DICEMBRE SCORSO LA STAGIONE 2006-2007 DEL TEATRO ALLA SCALA DI MILANO.
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GIANLUCA TENTI
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QUI SOPRA, DA SINISTRA, GIAN FRANCO (COSÌ RIPORTA L’ANAGRAFE FIORENTINA) ZEFFIRELLI CON ANNA MAGNANI, UNA DONNA CHE HA AMATO ANCHE SE IL
PRIMO INCONTRO È AVVENUTO NEL BEL MEZZO DI UNA SCENATA APOCALITTICA PERCHÉ L’ATTRICE ROMANA ERA LETTERALMENTE INFURIATA CON IL REGISTA
LUIGI ZAMPA; UNA SCENA DELLA «TOSCA» DEL MAESTRO DEL 1984; INSIEME ALL’ATTORE BAIRD WALLACE NEL SUO FILM «UN TÈ CON MUSSOLINI» DEL 1999.
Corsi, Zeffiretti, Fioravanti, Nescio Nomen. Un poker d’identità per una personalità sensibile, quindi complessa, che racchiude in sé l’essenza, il sacro furore degli dei. La bellezza di Afrodite, la cura di Asclepio. Un essere a metà tra Atena (guerra e intelligenza) e Dioniso (vino e vizi), che unisce Elio
(sole) a Eos (aurora), Eracle (l’eroe delle dodici fatiche) a Eros (amore) e Nike (vittoria). Considerato nel mondo delle arti alla stregua di Zeus. Si è circondato di Moire e ha vissuto la sua profonda religiosità con trasporto, con
scelte nette, ponendosi a tu per tu persino con Francesco d’Assisi e Cristo
Re. È difficile scrivere questo pezzo. Ma quando Franz Botré mi ha lanciato la sfida, nelle cene del Pitti Uomo, ho sentito un alito caldo che rievocava i versi di Oscar Wilde: «So resistere a tutto, tranne che alle tentazioni».
E allora eccomi qui, in una notte d’inverno a cercare di mettere in ordine gli
appunti, le sottolineature, le domande. Perché in un certo momento del nostro disegno, ci si è messo di mezzo un «tagliando». E l’incontro col maestro
è scivolato in avanti. Ma non abbastanza da impedire a noi, dannati giornalisti,
di essere puntuali con l’appuntamento. Anche perché stavolta l’aiuto non mancava. Anzi. Il problema, semmai, è stato metter da parte un magma incandescente di spunti. Nomi, tanti. Undici pagine solo per elencarli. Teatri, da
brivido. La Scala rinata in pochi mesi dopo le ceneri della guerra. La Fenice, che pure lui illuminò con migliaia di candele per Senso, risorta. E l’Old
Vic di Londra, il Metropolitan di New York. E Dallas e Israele. Il cinema.
E che cinema. Tra arie classiche e opera. Dee e progetti.
In un unicum che è poi la sua autobiografia, uscita di recente per Mondadori: un inno alla vita, un invito a scoprire i divi, quelli veri, visti nell’umanità del dietro la macchina da presa, davanti a un piancito o da una balaustra alla Pergola di Firenze, dove scoprì un certo Visconti, «in preda a una
furia “apocalittica”: urla, parolacce, insulti irripetibili». Ma di questo parle-
ne: «Fu forse l’ombra della morte che incombeva su di lei che la spinse a portarsi in casa streghe e fattucchiere. Mi ricordo (all’epoca aveva 6 anni, ndr)
certe vecchiette spaventose che bruciavano cuori di agnello sui carboni accesi in cucina, al lume di candela, in mezzo a nuvole di incenso che invadevano tutta la casa. Erano sortilegi che avrebbero dovuto avere il potere di
far tornare mio padre». Furono queste le sue prime donne, unitamente alla balia Ersilia che lo iniziò alla vita dei campi, nelle assolate giornate estive, nella campagna toscana. Non è solo una tela di Telemaco Signorini. È
la terra delle zolle, del camminare a piedi nudi in un prato ciottoloso. «Lì
affondano le mie radici», scrive Zeffirelli nella sua villa-rifugio di Positano.
«Amo ancora la fetta di pane con mezzo pomodoro schiacciato sopra e una
“c” d’olio, la chiamavo così perché tutto l’olio che potevamo permetterci era
una sottile falce dorata, su cui si spargeva un po’ di sale e di pepe».
L’immagine che balza alla mente, quando si parla di artisti, è senza dubbio
quella dei poveri. Magari non come Les Misérables di Victor Hugo, ma sicuramente i bohémien di Giacomo Puccini. E un bohémien è stato in gioventù Zeffirelli. Uno vero. Non di quelli costruiti da un ufficio immagine.
Lui ha ragione (a sentirlo, sempre) quando ricorda: «Non ho mai conosciuto
in vita mia un artista che sia nato ricco o che non abbia mai avuto problemi di denaro». E detto da lui che ha lavorato con Oscar e Statuette… Ma
è solo se si approccia con questa chiave di lettura che si può penetrare il mistero Zeffirelli. Lui che dice: «Una volta alla settimana si faceva il pane, il venerdì. Lunedì era il giorno del bucato, per il quale le donne usavano la cenere rimasta nei forni: qualche manciata di soda caustica. I panni venivano
lavati al fiume, e si lasciavano asciugare al sole. Il giorno del rammendo era
a metà settimana». Questa è la vera storia del maestro. Di un dominatore del
teatro che oggi, dopo aver dato vita alle rappresentazioni di Shakespeare e
aver portato Pirandello in Inghilterra, ti svela che «niente a teatro è riuscito a colpirmi più delle fantasie di quei poveracci che in quella campagna si
piazzavano attorno al fuoco la sera, spesso accompagnati da qualche cagnaccio,
a raccontare storie, storie fantastiche, tragiche, classiche, cui mescolavano fatti autentici e notizie del giorno. Erano dei maestri di effetti drammatici». E
pensare che lui a teatro, nonostante tutto, ci andò presto. «Quando zio
Gustavo intuì la mia disposizione», rivela, «mi regalò un teatrino con tanti
burattini con cui lui aveva giocato da bambino. Passavo tutto il mio tempo,
dopo la scuola, a fantasticare, a immaginare storie e situazioni, a ritagliare
cartoni colorati per fare scene e personaggi». Finché un giorno, «vista l’assenza di una baby-sitter» (e qui trasuda tutto l’humour inglese), gli zii che
Il suo rapporto con le
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rò più avanti. Perché quello che mi preme al cospetto del maestro (termine, una volta tanto, adeguato), è scoprire come un fanciullo che venne registrato figlio di ignoti, come un alunno che rabbrividì davanti a una donna che lo apostrofava, come candidamente scrive, «bastardino», sia diventato il più grande regista di tutti i tempi. Perché questo è Franco Zeffirelli, età «quattro volte venti», sognatore, disegnatore, cultore, capace di provocare emozioni a un pubblico (noi tutti) che ormai si considera vaccinato
e impermeabile ai sensi che non siano le sublimi debolezze della carne. Il suo
ultimo lavoro alla Scala, con l’Aida, è stato accolto con toni entusiastici da
pubblico e critica. Poi il pit-stop che subito ha conquistato i media.
«È stata solo una revisione della mia vecchia macchina che avevo messo in
calendario già da tempo», ha detto, «funziona ancora bene, ma ha passato
varie traversie. Sono andato da Bonolis per registrare una puntata de Il senso della vita e, dopo una lunga chiacchierata e un po’ di stress, ho detto: “Ragazzi, chiamatemi un’ambulanza e portatemi al San Giovanni”. Tanto ci sarei dovuto andare comunque il giorno dopo. Evidentemente la gente non
è abituata a vedere un regista che prende l’ambulanza ed è scattato l’allarme. Comunque ho già comprato un centinaio di mani per fare le corna, anche perché dopo l’Aida per la Scala, ora preparo una grande Traviata per l’Opera di Roma. Andrà in scena il 20 aprile e sto facendo le scenografie». Questo è l’uomo Zeffirelli. Da sempre. Da quando il padre legittimo, Ottorino
Corsi, rappresentante di tessuti («Il suo commercio ebbe un insperato incremento, grazie soprattutto alle forniture militari di cui ottenne un fortunato appalto», spiega), tra le innumerevoli conquiste extraconiugali («In quegli anni Firenze gli offriva anche un’ampia scelta di donne che avevano il marito al fronte») s’innamorò di una sarta famosa, Alaide Garosi, che ebbe il
coraggio di concepire quel figlio in una società che non concedeva aiuti né
sconti. Determinante fu la voce di zia Lide che diceva ad Alaide: «Accetta
la volontà di Dio. Lui ne sa più di noi». E per questo, in età da ragione, il
giovane che sognava di diventare regista capì il senso della vita, tanto che oggi rivela: «Non c’è da meravigliarsi che io sia tanto violentemente contrario all’aborto, e tanto grato per il coraggio di mia madre». Finì insomma che
il piccolo, che non poteva chiamarsi Corsi, né tantomeno Garosi, fu ribattezzato: «Mia madre aveva scoperto in un’aria dell’Idomeneo gli “zeffiretti gentili”. La parola le era piaciuta immensamente. Così fu scelto il mio nome.
Ma un errore di trascrizione del copista comunale trasformò Zeffiretti in Zeffirelli». Fu la prima mano di carte che il destino gli attribuì. L’amore, grande, di una zia. La salute cagionevole di una madre che presto avvertì la fi-
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IN QUESTA PAGINA, IMMAGINI TRATTE DAL LIBRO «ZEFFIRELLI, AUTOBIOGRAFIA» (MONDADORI, 23 EURO): QUI SOPRA, DA SINISTRA, IL MAESTRO CON OLIVIA HUSSEY
E LEONARD WHITING A NEW YORK ALLA PRESENTAZIONE DEL FILM «ROMEO E GIULIETTA» NEL 1968; L’ATTRICE TERESA STRATAS NEL FILM «LA TRAVIATA» DEL 1983
DOVE INTERPRETA VIOLETTA; «NESCIO NOMEN» MENTRE «PROVA» ALLA SCALA E, SOTTO, NEL 1964 CON MARIA CALLAS AL COVER GARDEN DI LONDRA PER LA «TOSCA».
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lo avevano in cura si videro costretti a portarselo dietro, al Teatro comunale di Firenze. Fu un debutto da spettatore non facile la Valchiria di Wagner,
che stregò quel bambino già maturato dalle avversità della vita.
«Fui subito affascinato da quella moltitudine di signori in frac», racconta Zeffirelli, «dai musicisti, dai loro misteriosi strumenti, e dal direttore, anche lui
in frac, che sembrava un generale al fronte, dritto e impettito. Le luci si spensero e la musica iniziò. Non riuscivo a credere a quei suoni sconosciuti. Una
foresta così ben dipinta che sembrava vera. I coristi mi parevano belve selvagge, e le terribili valchirie, che correvano avanti e indietro sul palcoscenico, anche loro mi sembravano animali impazziti, fiamme altissime, fumo che
annebbiava tutto. Ma non era la musica quello che mi incantava. Era il miracolo dell’opera». Leggere queste emozioni nelle sue pagine autobiografiche è scoprire un mondo andato. Ma anche rivivere i momenti della mia prima intervista a Zeffirelli, in un hotel affacciato su piazza Santa Maria Novella a Firenze, alla vigilia delle riprese di Un tè con Mussolini. Quel giorno,
nove anni fa, mi rivelò di essersi innamorato degli Scorpioni. Non la specie animale, nemmeno il segno zodiacale. Ma di Mary O’Neill, «donna, deliziosa ma severa, che faceva parte della comunità britannica di Firenze, che
aveva adottato la nostra città come propria dimora». Lei gli insegnò l’inglese
(che suo padre avrebbe voluto utilizzare per i suoi commerci). Ma il regista scoprì il fascino particolare di queste «dame senza età, che si vestivano
e si pettinavano come se nulla fosse cambiato dal tempo della loro gioventù in Inghilterra. In primavera e d’estate», ricorda ancora oggi, «sollevavano una grande curiosità nei fiorentini con i loro merletti bianchi, i toni crema e lillà degli abiti, i delicati parasoli e i prediletti cappelli di paglia tipici
di Firenze. All’ora del tè, quando si riunivano da Doney’s, sciamavano a coppie e a piccoli gruppi lungo via Tornabuoni, sbucando dal ponte Santa
Trinita, o dalle stradine medievali adiacenti. Non perdevano occasione per
ricordare a noi fiorentini che eravamo indegni della nostra città. Anche se
le avevamo battezzate “gli scorpioni di via Tornabuoni”».
Se dovessi dedicare un’attenzione estrema ai vari aspetti della vita del maestro, questo sarebbe l’ultimo servizio per Monsieur. Perché, anche se è incredibile il solo immaginare una vita così emozionante, non si può venir meno al patto coi lettori. Eppure di immagini da riportare ce ne sarebbero. Perché Zeffirelli ha attraversato la storia con le sue mille storie quotidiane che
ne fanno ancora oggi un nume da cui apprendere. È un po’ come pensare ad
Aida. Quante rappresentazioni. Quante scenografie. Quanto Egitto. Eppure
si apre il sipario e resti lì ammutolito anche se non sei un esteta del palco.
divine? Con Maria Callas, intenso e irripetibile
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SOPRA, RITRATTO DI ZEFFIRELLI, A DESTRA CON RICCARDO CHAILLY DOPO L’«AIDA» ALLA SCALA IL 7 DICEMBRE. IN ALTO, «AIDA», BOZZETTO DEL MAESTRO DEL ’98 PER
L’IMPERIAL THEATER OF TOKYO, DAL CATALOGO DELLA MOSTRA ALLA FONDAZIONE TRUSSARDI «ZEFFIRELLI, L’ARTE DELLO SPETTACOLO, OPERE DI PITTURA SCENOGRAFICA».
MARCO BRESCIA/TEATRO ALLA SCALA
tagonista a un raccomandato di qualche pezzo
grosso, assolutamente incapace. “Guardati in giro,
cazzo! Il mondo è pieno di facce nuove!”, gridò Anna. “Non è questa la regola del vostro nuovo cinema, che chiunque può recitare basta che abbia la faccia giusta? Quello stronzetto là. Vedi se sa spiccicare due parole. La faccia ce l’ha…”».
Quello era Zeffirelli. Bisogna proprio leggersela
questa autobiografia per capire chi è davvero il
maestro. Quale sia stato il rapporto con queste divine. Con Maria Callas, per esempio: intenso, irripetibile, che Zeffirelli tentò invano di strappare alle manie di Onassis e che ha sempre amato tanto
da dedicarle un film imperdibile: Callas Forever. E
non è finita. Sì, perché non te lo puoi nemmeno immaginare l’incontro con Salvador Dalí: «Nell’autunno del 1948 Luchino mise in cantiere As You Like It di Shakespeare, titolo italiano Rosalinda, con
uno stuolo impressionante di illustri attori: Morelli,
Ruggeri, Gassman, Stoppa, e altri ancora. Con
un’idea figurativa rivoluzionaria, Luchino affidò
le scene e i costumi a Salvador Dalí, uno dei più
straordinari pittori del ’900». Salvador Dalí. Parigi. E Luchino che «aveva deciso di fare un film dal
capolavoro di Vasco Pratolini Cronache di poveri
amanti; una coproduzione franco-italiana. Mi dette tre lettere di presentazione: per Jean Cocteau, Coco Chanel e l’attore Jean Marais». Ecco un’altra divinità. Coco. Coco Chanel. «Era stata la donna più importante di Francia»,
ricorda Zeffirelli, «aveva cambiato tutto, dalla moda ai profumi, al modo di
pensare e di essere delle donne. Amante di uomini potenti, centro della vita culturale e artistica di Francia, da Diaghilev e i Ballets Russes, da Picasso e la pittura a Cocteau e la poesia, per la musica di Stravinskij via discorrendo». Gli regalò dei disegni di Matisse. Zeffirelli se li portò a Roma e li
appese al muro, con delle puntine da disegno.
Tempo dopo qualcuno notò qualcosa, chiese una gomma da cancellare, e cominciò a passarla sull’angolino di una delle riproduzioni. «Non c’era bisogno d’essere antiquari per capire che erano disegni originali, firmati di suo
pugno! Mi sarei preso a schiaffi: come potevo aver mai creduto che una donna come Chanel mi avesse regalato delle riproduzioni? Ne vendetti due per
una cifra insperata che presto, tra debiti e spese pazze, dissipammo. Allora
ne dovetti vendere altri due». Ecco il periodo bohémien. Puccini sarebbe stato entusiasta di questa raffigurazione da verismo, con Franco Zeffirelli, Piero Tosi, Anna Anni e Danilo Donati. Un rifugio sui tetti di piazza di Spagna quando non era quartiere di benestanti. Un futuro nel firmamento dello spettacolo. Affrontando sfide da far tremare i polsi. Mettere in scena Shakespeare a Londra, all’Old Vic, e raccontare qualcosa di nuovo. Conquistare
i giovani. Inventarsi i capelloni quando i Beatles neppure si vedevano. E poi
il vorticoso ascendere nell’Olimpo. Ma chi, lui, il Nescio Nomen di Firenze? Il bambino che giocava con i burattini? Sì, lui. E sai come chiama tutto quel che gli ha dato lo spettacolo? «Una lista della lavandaia», rivela.
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Ed è difficile immaginare, in quel momento, che la
mente che ha pensato a quella scena è la stessa che
vide gli orrori della guerra, che vide Adolf Hitler nel
1937 a Firenze («il tedesco coi baffetti»), Benito
Mussolini e Claretta Petacci a piazzale Loreto. «I
loro cadaveri, orrendamente sconciati, pendevano
da quel traliccio come quarti di bue al macello, in
una nube di polvere gialla che il vento sollevava a
folate». Quel giorno Zeffirelli era interprete per un
alto ufficiale americano, un corrispondente di guerra di nome Donald Downes, che pure ritroverà agli
albori di una carriera internazionale d’artista. Aveva appena lasciato le Scots guard il giovane Gian
Franco (come riportava l’anagrafe), con le quali
era salito dalla campagna fiorentina fino a Brescia.
E la sorte lo aveva baciato, pochi giorni prima,
quando a salvarlo era stato un fascista: il fratellastro
sconosciuto, che era rimasto interdetto nel sentir
raccontare, a Villa Triste, la storia di un giovane che
diceva di essere il figlio di Ottorino Corsi.
Ma questa è la vita. Dà e toglie.Toglie e rende. Mescola le carte. Una nuova mano. Anche a un Nescio
Nomen che non è mai stato un comunista in un
mondo, quello delle arti, dove tessera e orientamento agevolano molte carriere. Già, i comunisti.
Luchino Visconti di Modrone era comunista. «Un
discendente di Carlo Magno, i cui antenati avevano governato Milano, e la cui famiglia era ancora
potentissima nella città lombarda. Il padre di Visconti era duce e la madre
era l’erede milionaria degli Erba dell’industria farmaceutica. All’epoca Visconti aveva quarant’anni», scrive Zeffirelli. «Era un aristocratico, bello, ricco, elegante, al centro della vita culturale italiana. Gli scandali e i pettegolezzi sulla sua vita privata, nonché sulle sue molteplici attività sessuali, non
si contavano.Tramite la grande Coco Chanel aveva conosciuto il regista francese Jean Renoir… Dalla sua tutela uscì convinto comunista». Ha amato Visconti. Come artista e come essere umano. E oggi dice con un netto candore ciò che pensa. Lo ha sempre fatto. Ma adesso è ancora più sciolto. Difende per esempio l’omosessualità, con le parole di un antiquario fiorentino d’altri tempi: «Cosa sarebbero stati Leonardo e Michelangelo se non fossero stati come noi? O Firenze, il mondo, senza di loro?». Scrive con passione parole che suonano come sentenza: «Odio visceralmente la parola gay,
non perché desideri nasconderla, ma perché sono affari miei e di pochi altri. Odio questa maniera stupida di chiamare gli omosessuali. Forse per indicarli come se fossero dei pazzerelli, dei clown della nostra società, accettati di buon grado perché portano allegria. Ancora più offensive sono le parate gay, esibizioni veramente oscene. Essere omosessuale è un impegno molto serio con noi stessi e con la società in cui viviamo, e meno se ne parla, meno ne facciamo sfoggio, meglio è». Lo dice lui che ha amato tante donne.
E che donne. Anna Magnani, la lupa di Roma. «Il primo incontro avvenne nel bel mezzo di una scenata apocalittica: urla, insulti, parole pesantissime. Era infuriata con Zampa perché aveva affidato il ruolo del giovane pro-
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Al comune Zeffiretti si trasformò in Zeffirelli
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«Sarà stata anche lunga, ma le lenzuola erano di seta, i cuscini di piuma e io ci sprofondavo dentro beatamente». Ecco perché quando ricorda che la tv
mandava in onda «Venerdì a teatro… il servizio
pubblico faceva il suo dovere». Lui che per il servizio pubblico e per la sua città girò in diretta uno speciale sull’alluvione, affidandone la voce a Richard
Burton. Partì da Roma, raggiunse Fiesole e «dall’alto
potei vedere un quadro surreale, inimmaginabile. La
bella valle su cui è posata Firenze era diventata
una laguna. Firenze come Venezia! Le sue strade
trasformate in canali gonfi d’acqua, che luccicavano al sole che era ritornato a splendere su quel disastro spaventoso». Ricorda «la perdita quasi totale del Crocifisso di Cimabue, gelosamente conservato nel Museo di Santa Croce». Cita momenti di lacrime e sconforto, ma che, a loro modo, stimolano una speranza per un futuro. Rivede i giovani che con pazienza recuperavano tasselli di legno
e tasselli di colore, li mettevano su un piano ad
asciugare. Si fermarono a riposare, qualche istante.
«Fu proprio in quel breve intervallo che una squadra di genieri arrivò nel museo per far pulizia, e con
potenti getti d’acqua si misero a liberare dal fango
la Sala del Cimabue, secondo gli ordini ricevuti».
Raccolse 20 milioni di dollari per la sua Firenze. Di
cui parla sempre con trasporto. Della città e della
sua cittadina più illustre nei tempi moderni: «Oriana Fallaci. Era molto graziosa e sapeva incantare chi voleva, ne era consapevole e combinava equivoci e pasticci a non finire. Scappò, letteralmente,
con uno dei nostri, e per un pezzo non se ne seppe più nulla, se non che la
vedevamo un po’ dappertutto in giro per il mondo. Scriveva bene, sempre
molto forte e aggressiva, già su molti giornali internazionali». È stato un legame profondo il loro. Anche se, ammette, «la vedevo saltuariamente, però un giorno mi mandò un pacco con il suo ultimo libro. “Spero proprio che
non ti piaccia”, aveva scritto sul biglietto che lo accompagnava... Ma un vero shock lo ebbi a Los Angeles molto più tardi. Non mi ricordo nitidamente
nulla, né la data né cosa stessi facendo lì in quel momento, nulla. Restai però di sasso quando mi capitò sotto gli occhi una foto degli astronauti che si
avvicinavano alla Luna. Tra le loro schiene, la faccia di Oriana, sorridente,
appassionata. Non è che anche lei andasse sulla Luna, ma uno di loro si portava appresso la foto di Oriana; forse per darsi coraggio, o perché aveva con
lei un rapporto particolare. Si chiamava Edwin Aldrin».
Parli di Oriana e ti trascini dietro l’Islam. «Mentre riconosco la saggezza del
consiglio talmudico di Dennis van Thal, non sono mai riuscito a seguirlo. Non
è che cerchi guai a ogni costo, ma sono incapace di passare sopra a quello che
mi sembra sbagliato. Non faccio che rilasciare interviste, scrivere io stesso articoli sui giornali o apparire in Tv per sostenere i miei punti di vista, col bel
risultato di trovarmi spesso in acque agitate», scrive Zeffirelli. «Una delle questioni che più mi irrita è l’intolleranza dell’Islam, che sperimentai personalmente quando portai il mio documentario sulla Toscana a Riad, nell’Arabia
Saudita. Il film doveva essere trasmesso dalla Tv araba allo scopo di promuovere il turismo in Toscana.
Quando fu mostrato a vari funzionari arabi mi fu
detto che era bellissimo, però avrei dovuto tagliare
le immagini del David di Michelangelo e della
Nascita di Venere di Botticelli! “Non possiamo mostrare immagini così ardite al nostro popolo”, fu il
verdetto di un funzionario particolarmente untuoso. “In questo caso, non gli mostrerete niente”, replicai. “Non mi importa un accidente se venite oppure non venite a Firenze. Ma se ci volete venire, dovrete accettare e rispettare la nostra cultura, come
fanno tutte le persone civili di questo mondo”».
E già che ci siamo, non poteva mancare un riferimento alla politica di casa nostra. Silvio Berlusconi
nel ’94 lo chiamò e gli disse: «La cultura italiana è
terreno di pascolo dei comunisti ormai da cinquant’anni, comandano indisturbati nelle scuole,
nelle università, in Tv, controllano sindacati, stampa, magistratura e magistrati. Se conquistano la
maggioranza anche in Parlamento, avranno tutto
il Paese nelle loro mani». Zeffirelli, da buon fiorentino, scartò subito la Toscana: «Era una causa
persa: politicamente è forse, insieme a Cuba e alla Corea del Nord, una delle ultime “repubbliche
comuniste integraliste” rimaste al mondo! Con
Verona ho avuto da sempre un particolare legame
affettivo e culturale, ma Catania mi attraeva di
più». E in Sicilia è stato eletto, per ben due volte, come Senatore. Ci sarebbe
tanto da scrivere. Del Fratello Sole che spinse i credenti a cantare, in chiesa, la colonna sonora come inno al Signore. Del Gesù di Nazareth che fu il
primo film televisivo su un tema così delicato. E molto dovrei ancora aggiungere sull’Amleto per il grande schermo con Mel Gibson che voleva già
superare il maestro, ma fu ammutolito dai grandi attori di teatro.
No, caro Mel Gibson, non gira così il mondo. Lo insegna la grande tradizione britannica. «Chiunque entri in scena è essenziale al successo dell’ensemble. Questa regola per gli inglesi non riguardava soltanto il recitare insieme. Se questo popolo aveva vinto tutte le guerre è perché, dal generale fino all’ultimo soldato, tutti erano stati responsabili della vittoria in
egual misura», continua a raccontare il maestro Zeffirelli. Mentre lavora ai
nuovi progetti protetto dai suoi angeli Pippo e Luciano. E si ostina a sognare il film della sua vita: I fiorentini. Perché? «Firenze era stata una città che nel 1499 aveva avuto il coraggio di sfidare il mondo, proclamandosi fieramente la prima Repubblica dell’Era moderna; provocazione che suonò come una campana d’allarme agli orecchi d’imperatori, Papi, sovrani. Purtroppo fu una breve stagione, il sogno di una nuova democrazia non avrebbe potuto durare, ma regalò a Firenze 13 anni che furono invidiati da tutto il mondo. E creò un precedente di cui la storia dovette tener conto. Michelangelo, David. Leonardo da Vinci, Monna Lisa, La Vergine delle
Rocce, il Cartone detto di Burlington. Machiavelli, Giovanni da Verrazzano, Amerigo Vespucci. E io che mi chiamo Marco Fioravanti».
SOPRA, FRANCO ZEFFIRELLI E ROBERTO BOLLE DOPO L’«AIDA» CHE HA INAUGURATO LA STAGIONE ALLA SCALA LO SCORSO 7 DICEMBRE. IN ALTO, IL MAESTRO E RICHARD
BURTON MENTRE BACIANO CONTEMPORANEAMENTE LIZ TAYLOR ALLA FINE DELLE RIPRESE DEL FILM «LA BISBETICA DOMATA»: SIAMO A ROMA ED È IL 2 AGOSTO 1966.
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Sogna il film della sua vita. Titolo? I fiorentini