percorso tematico - conferenza Anagni

Al martedì filosofando di...
Teatro del Convitto “Principe di Piemonte”, Anagni
(20 maggio 2014, ore 16.00)
EUGENIO CANONE
Giordano Bruno: l’essere umano di fronte all’infinito
Come si legge pure nei manuali scolastici di storia della filosofia, Giordano Bruno (15481600) è il filosofo dell’infinito, cioè il filosofo di una concezione dell’universo (fisico)
infinito. Di sicuro, quella di Bruno è una radicale cosmologia infinitistica, che aderisce alla
teoria eliocentrica e che comporta l’idea di uno spazio infinito, nonché di una pluralità
infinita di mondi, organizzati in sistemi tra loro simili (ogni sistema comporta un certo
numero di pianeti e una stella/sole centrale). Non bisogna però ritenere che Bruno, come
filosofo, sia soltanto interessato a una concezione cosmologica, anche se rivoluzionaria.
Non a caso, nei suoi scritti Bruno menziona Cusano e non solo Copernico. Bruno intende
delineare la propria cosmologia a partire da una nuova ontologia, che a sua volta comporta
un’attenzione nei confronti della filosofia greca (in particolare, del pensiero dei
Presocratici) e che, assieme, comporta una critica della metafisica/teologia aristotelicoscolastica, quindi una critica della teologia ebraico-cristiana. Inoltre, e si tratta di un punto
importante, Bruno intende proporre una nuova antropologia, proprio a seguito di un
rinnovamento dell’ontologia e della cosmologia. L’obiettivo del filosofo è quello di portare
l’idea di pluralità nel concetto di essere/uno, ma come pluralità che oggi diremmo virtuale,
quindi non sostanziale. Per Bruno, una nuova antropologia (dell’essere umano ‘liberato’)
non può prescindere dall’apertura dell’uomo verso l’infinito. L’esperienza umana
dell’infinito è tuttavia sempre in un radicamento terrestre. Su tali presupposti si basa la
concezione bruniana della «via vera alla vera moralità» e dell’«eroico furore».
1 Nella conferenza del 20 maggio 2014 farò riferimento, in particolare, ai seguenti scritti di
Giordano Bruno. Dialoghi filosofici italiani: Cena de le Ceneri (1584); De la causa,
principio et uno (1584); De l’infinito, universo e mondi (1584); Spaccio de la bestia
trionfante (1584); De gli eroici furori (1585). Per gli scritti latini, farò riferimento al
Camoeracensis acrotismus (1588) e al poema filosofico De innumerabilibus, immenso et
infigurabili (1591).
Qui di seguito riporto delle schede relative ai Dialoghi filosofici di Bruno, sulla base dei
testi che ho scritto per il Dizionario delle opere della Letteratura italiana, Torino, Einaudi,
2 voll., 1999-2000. Nelle schede vengono evidenziati alcuni temi che tratterò nella
conferenza nell’ambito dell’iniziativa Al martedì filosofando di...
La cena de le Ceneri
di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600).
◊ Dialogo filosofico; il testo è trasmesso dall’editio princeps: La cena de le Ceneri.
Descritta in cinque dialogi, per quattro interlocutori, con tre considerationi, circa doi
suggetti, s.l., s.e. [Londra, J. Charlewood], 1584. Con ogni probabilità la Cena fu pubblicata
da B. entro il mese di aprile del 1584. È da presumere che la composizione dell’opera abbia
avuto inizio nella settimana successiva a quella del 15 febbraio – appunto il mercoledì delle
Ceneri cui si fa riferimento nel titolo –, pur sulla base di materiali risalenti verosimilmente
alla seconda metà dell’anno precedente: B. era giunto in Inghilterra nell’aprile del 1583 e
durante alcune lezioni, tenute nell’estate presso l’Università di Oxford, aveva proposto una
sua interpretazione del copernicanesimo, collegandosi alla tradizione neoplatonica e in
particolare a Ficino. Non avendo lo stampatore, John Charlewood, alcuna pratica su testi
italiani, B. intervenne nelle varie fasi di stampa dell’opera; intervento che si ripeterà anche
per gli altri cinque dialoghi filosofici in volgare da lui pubblicati tra il 1584 e il 1585. B.
incise inoltre personalmente quasi tutte le xilografie per le figure presenti nelle
cinquecentine. A ragione si è quindi parlato di ‘stampe d’autore’ per gli archetipi dei
dialoghi londinesi del filosofo. ◊ La Cena è il primo dei cosiddetti dialoghi cosmologici di
B. (un trilogia comprendente anche il De la causa, principio et uno e il De l’infinito,
universo e mondi), non solo in merito alla stampa ma anche riguardo al completamento
della redazione dell’opera. Con la Cena, per citare le parole di un interlocutore del dialogo,
l’A. comincia a pubblicare «tanto solenne filosofia». Tuttavia, ciò non implica
necessariamente che quando B. iniziava a comporre il testo non avesse già scritto una parte
2 (ed è da ritenere una buona parte, con specifico riferimento alla dottrina e alla struttura
tematica) del De la causa e del De l’infinito, nei quali viene a delinearsi gran parte del
sistema della «nolana filosofia» come radicale filosofia della natura, della quale la Cena è
assieme preludio e sintesi, con il suo ultracopernicanesimo. Dal punto di vista formale, la
Cena, come gli altri Dialoghi di B., appartiene al tipo dialogico ‘mimetico’. L’opera,
dedicata all’ambasciatore francese Michel de Castelnau – presso il quale l’A. alloggiava sin
dal suo arrivo a Londra – è suddivisa in cinque dialoghi con quattro interlocutori: Teofilo
(alter ego di B.), Smitho (personaggio inglese che aderirà progressivamente alle teorie
dell’A.), Prudenzio (il pedante, che eredita i caratteri del Manfurio della commedia
Candelaio, con una modulazione scolastico-teologica) e Frulla (che incarna il tipo del
servitore da commedia che dileggia il pedante). Il dial. I introduce gli argomenti del
dibattito; il dial. II è invece dedicato alla narrazione dei preliminari della cena
nell’appartamento di corte di Fulke Greville, mentre i diall. III-IV riportano la discussione
con i dottori aristotelici oxoniensi ‘Nundinio’ e ‘Torquato’ durante l’incontro. Il dial. V,
infine, è il più impegnativo sul piano teorico e, per il tono, affine a quelli del De l’infinito.
Precedono i dialoghi un sonetto e l’epistola proemiale. L’esame dei vari esemplari della
princeps ha reso possibile l’individuazione di una duplice redazione a stampa, sia del
principio del dial. I – la redazione primitiva fu segnalata da G. Gentile, Prefazione a G. B.,
Dialoghi morali, 1908 –, sia della seconda parte del dial. II nonché dell’esordio del terzo, la
cui redazione definitiva è stata scoperta, in forma manoscritta, da G. Aquilecchia, La
lezione definitiva, 1950 (la versione a stampa è stata successivamente segnalata da R.
Tissoni, Lo sconosciuto fondo bruniano, 1959). La riscrittura di parti significative del testo,
per lo più con propositi di autocensura, è una testimonianza eloquente del profondo
coinvolgimento dell’opera nelle vicende biografiche dell’A. Nella Cena la teoria
eliocentrica viene propugnata e a sua volta superata, mediante una concezione che sostiene
con forza sia la realtà fisica del sistema copernicano sia, con la negazione dell’esistenza
della sfera delle stelle fisse, l’infinità dell’universo: «infinito effetto dell’infinita causa, il
vero e vivo vestigio de l’infinito vigore». Un universo senza alcun centro e omogeneo nella
sua costituzione materiale e spaziale – «in vano si cerca il centro o la circonferenza del
mondo universale» –, popolato di una pluralità di mondi, di innumerevoli sistemi solari. La
Cena è come il manifesto, con le necessarie premesse epistemologiche dedotte dalla
gnoseologia del Sigillus sigillorum pubblicato nel 1583, di una nuova visione del mondo
che coglie il significato e le implicazioni derivanti dal saldarsi di una concezione dell’essere
(uno, infinito, immobile) e del divenire (vicissitudine dei corpi, delle cose dell’universo),
3 proprie dell’«antiqua vera filosofia» preplatonica, con le acquisizioni della scienza
contemporanea. Una visione che l’A. considerava profondamente innovativa e che era
eversiva per un intero sistema di valori, sul piano fisico con radicali conseguenze di ordine
metafisico: nell’universo omogeneo non esistono i ‘luoghi naturali’ degli elementi né una
presunta quinta essenza di cui sarebbero fatti i corpi celesti. La terra, con il suo moto di
rotazione intorno al proprio asse e di rivoluzione intorno al sole, ha la stessa realtà
ontologica degli altri corpi celesti. Come la terra, anche gli altri astri sono corpi composti
che subiscono fenomeni di alterazione.
◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. II;
testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1994; a c. di G. Aquilecchia, Torino 1955; testo
vulgato in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia,
Firenze 1958, pp. 3-171.
Eugenio Canone
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De la causa, principio et uno
di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600).
◊ Dialogo filosofico pubblicato dall’A. qualche mese dopo la Cena de le Ceneri; il testo è
trasmesso dall’ed. pr.: De la causa, principio, et uno. Stampato in Venetia [in realtà:
Londra, J. Charlewood], anno M.D.LXXXIIII. La composizione del De la causa – riguardo
alla materia dei dialoghi II-V – è da presumere non distante da quella della Cena, se non
addirittura precedente a essa, laddove si faccia riferimento al nucleo tematico-concettuale
dei testi, indipendentemente dalla loro redazione in forma dialogica. ◊ Nel corpus dei sei
dialoghi italiani pubblicati da B. a Londra tra il 1584 e il 1585, il De la causa, assieme al
De l’infinito, universo e mondi, è l’opera che maggiormente si confronta con la tradizione
filosofica aristotelico-scolastica e con la sua terminologia tecnica. Come la Cena e il De
l’infinito, anche il De la causa è dedicata all’ambasciatore francese Michel de Castelnau ed
è suddivisa in cinque dialoghi, introdotti dall’epistola proemiale e da cinque componimenti
poetici, di cui tre in latino. Dalla collazione degli esemplari superstiti della princeps, per
l’edizione critica del testo, si è potuto appurare che la redazione a stampa è univoca. Il dial.
I del De la causa, scritto dopo gli altri quattro dell’opera, si differenzia da questi, essendo
una difesa della Cena, resasi necessaria dopo gli attacchi subiti dall’A. per le sarcastiche
critiche presenti in questo testo nei confronti della società inglese e dell’università
oxoniense. Diversi sono anche i tre interlocutori del dial. I – Filoteo, Elitropio, Armesso –
4 rispetto ai quattro dei diall. II-V: Teofilo (che corrisponde a Filoteo ed è definito «fidel
relatore della nolana filosofia»), Dicsono Arelio (lo scozzese Alexander Dicson Arelius,
forse da B. già conosciuto precedentemente in Francia), Polihimnio (l’aristotelico pedante)
e Gervasio (personaggio da commedia che mette in risalto la ‘pazzia’ del pedante).
L’argomentazione dei diall. II-V, di grande impegno speculativo, si sviluppa parallelamente
attorno ai termini che ricorrono nel titolo dell’opera, con varie anticipazioni rispetto alle
acquisizioni teoriche progressivamente confermate. Il dial. II si sofferma in particolare sul
concetto di causa (inteso come forma/anima), il III su quello di principio (come materia, già
con riferimento all’identità potenza-atto); mentre il dial. IV viene poi a incentrarsi sul
rapporto forma/anima-materia, con il decisivo concetto di ‘indifferenza’ della sostanza
(«uno indistinto, prima che la materia vegna distinta in corporale e non corporale»), il V
prospetta con forza la loro unificazione nell’uno-tutto. Nella prospettiva della sostanza una,
eterna e infinita, la questione delle forme accidentali viene risolta richiamandosi al concetto
di un’unica forma sostanziale, l’anima mundi, unica fonte di tutte le forme. L’attività del
principio formale si manifesta nella diversa complessione della materia: l’efficiente fisico
universale è l’intelletto universale («prima e principal facultà de l’anima del mondo»),
l’artefice interno che è uno, come una è la materia sulla quale o nella quale esso esercita la
sua azione plasmatrice. L’unità della forma e l’unità della materia non conducono a un
dualismo sostanziale, in quanto, mediante il cusaniano principio della coincidenza dei
contrari – dell’unità assoluta come identità di essere e poter essere che si determina come
infinita attualità – si prospetta un’unità superiore, l’unità della sostanza nell’universo
infinito: «Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l’atto. Una la forma o anima; una la
materia […]. Uno lo ente».
◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. II;
testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1996; ed. in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note
da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia, Firenze 1958, pp. 173-342; a c. di G.
Aquilecchia, Torino 1973; a c. di A. Guzzo, Milano 1985 (ristampa).
Eugenio Canone
* * * De l’infinito, universo e mondi
di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600).
◊ Dialogo filosofico pubblicato dall’A. subito dopo il De la causa, principio et uno, se non
contemporaneamente ad esso. Il testo è trasmesso dall’ed. pr.: De l’infinito universo et
5 mondi. Stampato in Venetia [in realtà: Londra, J. Charlewood], anno M.D.LXXXIIII.
L’elaborazione del De l’infinito è da ritenere non molto distante dall’ideazione e da una
prima composizione del De la causa, principio et uno, con riferimento alla dottrina e alla
struttura tematica dei testi, indipendentemente dalla loro stesura in forma dialogica (una
prima messa a punto della materia di queste due opere è da far risalire a un arco di tempo
che va dall’estate del 1583 agli inizi del 1584). ◊ Il De l’infinito svolge e approfondisce,
con un andamento più vicino al genere della trattatistica, i princìpi della nuova cosmologia
infinitistica annunciati nella Cena de le Ceneri, fondandosi sulle acquisizioni teoriche del
De la causa. Come già nella Cena, le critiche di B. si rivolgono in particolare contro la
Fisica e il De caelo di Aristotele. Dalla collazione degli esemplari superstiti della princeps,
per l’edizione critica del testo, si è potuto accertare l’univocità della redazione a stampa del
De l’infinito. Riguardo alla struttura esterna, il De l’infinito, come le altre due opere della
cosiddetta trilogia cosmologica londinese, segue uno schema numerico 4+1: cinque
dialoghi di cui uno variamente eccentrico rispetto agli altri (il secondo della Cena, il primo
del De la causa, il quinto del De l’infinito). Un’intelaiatura fondamentalmente quadripartita
che si riflette anche nel numero degli interlocutori, che sono quattro sia nella Cena sia nei
diall. II-V del De la causa, così come nei diall. I-IV del De l’infinito: Filoteo (alter ego
dell’A.), Elpino (identificabile con il gallese Mattew Gwinn, della cerchia da B. frequentata
a Londra), Fracastorio (rievocazione del celebre medico e filosofo veronese morto nel 1553,
che nel De l’infinito verrà a sostenere la nuova cosmologia dell’A.) e Burchio (il
peripatetico pedante che appare come interlocutore solo nei diall. I-III). L’Albertino
introdotto nel dial. V, che nel testo inizialmente avversa le teorie di B. per poi alla fine
approvarle, è identificabile con il giurista marchigiano Alberico Gentili, dall’A. conosciuto
a Oxford nel 1583. I cinque dialoghi sono preceduti da un’ampia epistola proemiale, rivolta
all’ambasciatore francese Michel de Castelnau, e da tre sonetti. Il De l’infinito viene a
costituire, con il De la causa, un dittico in cui sono esposti i princìpi della ‘nolana
filosofia’, una filosofia della natura che si ispira ai presocratici, senza sottrarsi al confronto
con il dibattito scientifico coevo, e che fonda una cosmologia infinitistica su un’ontologia
rigorosamente monistica, con l’idea dell’unità del principio che anima in eterno tutto
l’universo, nella molteplicità e mutabilità delle cose particolari. Per B. la ‘vicissitudine’ è
una fondamentale legge di natura e dell’anima mundi che rinvia al principio anassagoreo
del ‘tutto in tutto’ (omnia in omnibus). Una concezione che viene a raccordarsi con le tesi
esposte nella Cena, con la difesa dell’interpretazione realista del sistema copernicano fino
al superamento di esso in una prospettiva infinitistica. Universo infinito, spazio omogeneo,
6 pluralità dei mondi, nonché questione del vuoto e costituzione atomica della materia
vengono a definire la fisionomia di quella nuova cosmologia che troverà poi una sua
definitiva sistemazione nel poema latino De immenso, pubblicato da B. nel 1591. Nel De
l’infinito – come nel De immenso –, l’A. denuncia anche la vanità della distinzione
scolastica tra potentia absoluta e ordinata di Dio, affermando che «chi nega l’effetto
infinito nega la potenza infinita».
◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. II;
testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1995; ed. in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note
da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia, Firenze 1958, pp. 343-537.
Eugenio Canone
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Spaccio de la bestia trionfante
di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600).
◊ Dialogo filosofico; il testo è trasmesso dall’ed. pr.: Spaccio de la bestia trionfante,
proposto da Giove, effettuato dal conseglo, revelato da Mercurio, recitato da Sophia, udito
da Saulino, registrato dal Nolano. Diviso in tre dialogi, subdivisi in tre parti. Stampato in
Parigi [in realtà: Londra, J. Charlewood] M.D.LXXXIIII. Lo Spaccio apparve con ogni
probabilità nell’autunno del 1584. L’ideazione e una prima messa a punto della materia
dell’opera sono da far risalire verosimilmente al 1583 e, per alcuni spunti, anche a un
periodo precedente; l’accenno, nella Cena de le Ceneri, a un «dialogo del Nolano, che si
chiama Purgatorio de l’inferno», è da intendere quale allusione allo Spaccio. ◊ L’opera è
dedicata, come poi gli Eroici furori, a Philip Sidney ed è suddivisa in tre dialoghi, ognuno
dei quali si articola in tre parti; tre sono anche gli interlocutori: Sofia, Mercurio e il nolano
Saulino. Come B. sottolinea nell’Epistola esplicatoria, lo Spaccio presenta gli «numerati ed
ordinati semi della sua moral filosofia», facendo riferimento in particolare alle «prime
forme de la moralità, che sono le virtudi e vizii capitali». Sul piano letterario, lo Spaccio si
collega al genere satirico dei dialoghi lucianei, cui si erano ispirati vari autori del
Quattrocento e della prima metà del Cinquecento, tra i quali Niccolò Franco. A uno dei
Dialoghi piacevoli (1539) di quest’ultimo fa un qualche riferimento la trama dello Spaccio:
un «repentito Giove», intenzionato a mutar vita, chiama gli dèi a consiglio, proponendo loro
di cacciare via dal cielo tutte quelle ‘bestie’ e altre raffigurazioni di vizi, per insediare al
loro posto, nelle costellazioni, delle personificazioni di virtù. Sofia, che ha appreso da
Mercurio tale riordinamento celeste, ne informa Saulino. L’A. precisa che Giove
7 «rapresenta ciascun di noi» e che, in quanto ‘governatore’ dell’Olimpo, egli sta a significare
il «lume intellettuale». B. insiste sul fatto che è sua intenzione trattare la filosofia morale
«secondo il lume interno»; in tal senso, una profonda ‘riformazione’ dell’animo –
dell’«interiore affetto» – precederà una non meno necessaria ‘riformazione’ del mondo
esterno, del mondo dei valori e delle leggi. Una riforma che investe la sfera economicosociale come pure quella giuridico-politica e lo stesso ambito religioso (nello Spaccio,
come in altri suoi scritti, anche con riferimento all’impostazione averroistica, l’A. si
richiama al concetto di religione come lex). Una radicale considerazione di ordine morale si
rende indispensabile a seguito dell’elaborazione di una cosmologia infinitistica – da B.
definita nei suoi tre precedenti Dialoghi italiani pubblicati a Londra nel 1584 –, che ha
mostrato la falsità dell’idea geocentrica e di una concezione antropocentrica della natura,
oltre a denunciare l’illusione di un’idea antropomorfica della divinità. Alla base dello
Spaccio agisce l’istanza di un riesame della funzione delle scienze e delle arti a partire da
una nuova antropologia. Nell’opera, la riflessione etica prende le mosse dai concetti di
anima – ‘sostanza incorporea’ eterna, unica forma sostanziale in cui niente «si forma o si
difforma» – e di individuo, le «nature particolari infinite et innumerabili» soggette al fato
della mutazione, cioè al «principio della dissoluzione» come incessante dinamica di
trasformazione e «vicissitudinale circolazione». Per B., che rifiuta la concezione aristotelica
e tomistica della sostanzialità del sinolo, l’individuo umano, la persona come ‘composto’,
non è sostanza, la quale è «ente impartibile». L’immortalità dell’uomo non può realizzarsi
sul piano della conservazione di una coscienza individuale dopo la morte, come concepito
dal cristianesimo; per contrasto, l’A. fa riferimento alla dottrina pitagorica della
metempsicosi interpretata metaforicamente (è da notare che nella successiva Cabala del
cavallo pegaseo B. usa il termine ‘metamfisicosi’). D’altra parte, pur essendo la materia il
principium individuationis, è l’anima, che come anima mundi è deus in rebus, a ‘fabbricare’
le nature particolari, in quanto la stessa materia è animata; tuttavia, tale anima non entra nel
composto: lo ‘governa’ senza esserne parte. Da queste premesse, il destino dell’individuo,
con una sua possibile immortalità, viene considerato nella prospettiva della costruzione
della civiltà. Vero e proprio motivo conduttore dello Spaccio, assieme alla riflessione
sull’ingenium come capacità di far interagire intelletto e mano, è l’idea delle opere
dell’uomo come «effetti eroici» e «onorati e gloriosi frutti», l’apprezzamento del lavoro e
della sollecitudine che nascono da necessità e da ‘virtuosa’ emulazione. In tal senso, l’A.
critica aspramente i capisaldi teologici della Riforma, l’elezione di grazia e la salvezza per
sola fede. Se l’uomo, come interior homo, è anima, la sua essenza si identifica con una
8 «studiosa contemplazione» e con il suo agire, con la sua capacità di edificare ‘nuovi
mondi’: umanità, civiltà e moralità per B. vengono a coincidere. Alcuni motivi polemici nei
confronti del cristianesimo, presenti nello Spaccio, saranno dall’A. ripresi e portati
all’estremo nella Cabala del cavallo pegaseo, con l’aggiunta dell’Asino cillenico,
pubblicata a Londra nei primi mesi del 1585: tra lo Spaccio e la Cabala corre un rapporto
stretto e vari sono i riferimenti incrociati tra i due testi; tra l’altro, in entrambi i dialoghi
riecheggia il tono satirico della commedia Candelaio. Sviluppando in modo originale
tematiche già affrontate da Erasmo e da Agrippa di Nettesheim – il ribaltamento tra verità e
apparenza che si esprime sia nella metafora dei Sileni di Alcibiade che nell’elogio della
follia, il doppio livello dell’encomio dell’asino e della ‘pia asinità’ ecc. – B. dà un giudizio
estremamente negativo su tutto un sistema di valori che il cristianesimo avrebbe
storicamente incarnato, anche nei suoi rapporti con la tradizione giudaica. Per B. quella che
viene ritenuta la promessa più allettante della religione cristiana – la grazia-salvezza come
dono divino –, pur essendo illusoria, sarebbe perfettamente adeguata a un modello di virtù a
rovescio.
◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. III; ed.
in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia, Firenze
1958, pp. 547-831; testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1999; ed. a c. di E. Canone,
Milano 2001.
Eugenio Canone
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De gli eroici furori
di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600).
◊ Dialogo filosofico; il testo è trasmesso dall’ed. pr.: De gl’heroici furori. Parigi, appresso
Antonio Baio [in realtà: Londra, J. Charlewood], l’anno 1585 (i Furori furono pubblicati
probabilmente nell’estate di quell’anno). L’opera chiude il ciclo dei sei dialoghi da B.
redatti in volgare. Nel testo, che ha una struttura più complessa rispetto a quella dei
precedenti dialoghi londinesi di B. – con una continua e suggestiva alternanza tra versi e
prosa già sperimentata nella letteratura italiana, a partire da Dante – dovettero forse
confluire spunti e materiali, in particolare poetici, risalenti a un periodo precedente. ◊ I
Furori, come lo Spaccio de la bestia trionfante, sono dedicati a Philip Sidney, poeta e
personaggio di spicco della corte di Elisabetta I d’Inghilterra. L’opera, che è introdotta da
un dettagliato Argomento e da un sonetto, è suddivisa in due parti, ognuna delle quali si
articola in cinque dialoghi, in cui si avvicendano dieci interlocutori. Nei Furori, escludendo
9 quattro sonetti di Luigi Tansillo e oltre al sonetto preliminare, sono inseriti sessantasette
sonetti di B., dei quali uno già pubblicato, con varianti, nel De la causa, principio et uno.
Assieme allo Spaccio e alla Cabala del cavallo pegaseo, i Furori sono, tra i dialoghi italiani
di B., l’opera con maggiori implicazioni teologiche, con frequenti richiami biblici, in
particolare al Cantico dei Cantici, interpretati all’interno di un «naturale e fisico discorso»;
in questa prospettiva va considerata anche la presenza nei Furori di motivi e di una
terminologia di ascendenza neoplatonica. Il testo sviluppa il tema di quella ‘riformazione’
interiore «de gli affetti naturali» che nello Spaccio è considerata il fondamento di una vera e
radicale ‘riformazione’ del mondo esterno; in tal senso, l’orizzonte etico dei Furori si salda
intimamente con quello gnoseologico. Tra lo Spaccio e i Furori c’è un legame più profondo
di quanto viene solitamente riconosciuto, rinviando entrambi i testi a un medesimo oggetto
– il «teatro e campo de le virtudi e vitii» – esaminato da due diverse angolazioni. È da
segnalare che già nell’Epistola esplicatoria dello Spaccio l’A., riferendosi ai Furori e al
ruolo decisivo dell’opera nel sistema della ‘nolana filosofia’, cioè la radicale filosofia della
natura propugnata da B., parla di «altri particulari dialogi, ne li quali l’universal architettura
di cotal filosofia verrà pienamente compita, e dove raggionaremo più per modo definitivo».
Al centro della riflessione etica dei Furori si colloca, come nello Spaccio, il concetto di
anima, nella duplice considerazione di anima mundi e di anima hominis. Mentre la prima,
che coincide con la fonte di vita e ‘intelligenza’ presente in ogni astro, si muove «in
circolo», le anime particolari sarebbero dotate invece di un movimento rettilineo, «secondo
diversi gradi d’ascenso e descenso» rispetto agli estremi di un’elevata vita spirituale (come
vita contemplativa, speculativa, che si apre alla arti e alle scienze, nonché come vita attiva,
specificamente morale) e di una vita bestiale, «ociosa e voluptaria». Estremi che segnano
l’itinerario dell’anima e ai quali corrispondono un «eroico amore», che dalla bellezza della
forma corporea si innalza alla considerazione di quella spirituale e divina, e un amore
«cupidinesco volgare e animale», che rimane vincolato alla «concupiscenza del toccare». In
merito all’elevazione spirituale, è da sottolineare che per B. non esiste alcun luogo
celeste/sopraceleste, e comunque separato, come concepito dal platonismo o dalla teologia
cristiana, essendo per lui patria dell’anima la natura, quale ‘simulacro’ dell’essenza divina –
universo spazio-tempo infinito –, nonché teatro della civiltà come domus sapientiae. Tra le
possibili vie che si aprono all’umanità, l’A., che discute l’idea aristotelica di virtù come
temperanza degli affetti, introduce la figura dell’eroico furioso, che rappresenta un nuovo
concetto di uomo proteso nella venatio veritatis e con cui si prospetta il superamento
dell’idea tradizionale di ‘sapiente’. Se, come sottolineato dagli averroisti, la suprema
10 felicità per l’uomo consisterebbe «nella perfezione per le scienze speculative», B. sottolinea
che quella perfezione non può essere intesa tale rispetto all’«altissimo oggetto», cioè al
Sommo Bene e supremo intelligibile, ma rispetto al nostro intelletto, in quanto
quell’oggetto è infinito; e, in quanto infinito, esso potrà essere «infinitamente perseguitato»,
essendo la mente umana potenzialmente infinita, ma mai totalmente compreso.
◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. IV; ed.
in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia, Firenze
1958, pp. 925-1178; ed. a c. di P.-H. Michel, Paris 1954; testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1999; ed. a c. di E. Canone, Milano 2011.
Eugenio Canone
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