Al martedì filosofando di... Teatro del Convitto “Principe di Piemonte”, Anagni (20 maggio 2014, ore 16.00) EUGENIO CANONE Giordano Bruno: l’essere umano di fronte all’infinito Come si legge pure nei manuali scolastici di storia della filosofia, Giordano Bruno (15481600) è il filosofo dell’infinito, cioè il filosofo di una concezione dell’universo (fisico) infinito. Di sicuro, quella di Bruno è una radicale cosmologia infinitistica, che aderisce alla teoria eliocentrica e che comporta l’idea di uno spazio infinito, nonché di una pluralità infinita di mondi, organizzati in sistemi tra loro simili (ogni sistema comporta un certo numero di pianeti e una stella/sole centrale). Non bisogna però ritenere che Bruno, come filosofo, sia soltanto interessato a una concezione cosmologica, anche se rivoluzionaria. Non a caso, nei suoi scritti Bruno menziona Cusano e non solo Copernico. Bruno intende delineare la propria cosmologia a partire da una nuova ontologia, che a sua volta comporta un’attenzione nei confronti della filosofia greca (in particolare, del pensiero dei Presocratici) e che, assieme, comporta una critica della metafisica/teologia aristotelicoscolastica, quindi una critica della teologia ebraico-cristiana. Inoltre, e si tratta di un punto importante, Bruno intende proporre una nuova antropologia, proprio a seguito di un rinnovamento dell’ontologia e della cosmologia. L’obiettivo del filosofo è quello di portare l’idea di pluralità nel concetto di essere/uno, ma come pluralità che oggi diremmo virtuale, quindi non sostanziale. Per Bruno, una nuova antropologia (dell’essere umano ‘liberato’) non può prescindere dall’apertura dell’uomo verso l’infinito. L’esperienza umana dell’infinito è tuttavia sempre in un radicamento terrestre. Su tali presupposti si basa la concezione bruniana della «via vera alla vera moralità» e dell’«eroico furore». 1 Nella conferenza del 20 maggio 2014 farò riferimento, in particolare, ai seguenti scritti di Giordano Bruno. Dialoghi filosofici italiani: Cena de le Ceneri (1584); De la causa, principio et uno (1584); De l’infinito, universo e mondi (1584); Spaccio de la bestia trionfante (1584); De gli eroici furori (1585). Per gli scritti latini, farò riferimento al Camoeracensis acrotismus (1588) e al poema filosofico De innumerabilibus, immenso et infigurabili (1591). Qui di seguito riporto delle schede relative ai Dialoghi filosofici di Bruno, sulla base dei testi che ho scritto per il Dizionario delle opere della Letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2 voll., 1999-2000. Nelle schede vengono evidenziati alcuni temi che tratterò nella conferenza nell’ambito dell’iniziativa Al martedì filosofando di... La cena de le Ceneri di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600). ◊ Dialogo filosofico; il testo è trasmesso dall’editio princeps: La cena de le Ceneri. Descritta in cinque dialogi, per quattro interlocutori, con tre considerationi, circa doi suggetti, s.l., s.e. [Londra, J. Charlewood], 1584. Con ogni probabilità la Cena fu pubblicata da B. entro il mese di aprile del 1584. È da presumere che la composizione dell’opera abbia avuto inizio nella settimana successiva a quella del 15 febbraio – appunto il mercoledì delle Ceneri cui si fa riferimento nel titolo –, pur sulla base di materiali risalenti verosimilmente alla seconda metà dell’anno precedente: B. era giunto in Inghilterra nell’aprile del 1583 e durante alcune lezioni, tenute nell’estate presso l’Università di Oxford, aveva proposto una sua interpretazione del copernicanesimo, collegandosi alla tradizione neoplatonica e in particolare a Ficino. Non avendo lo stampatore, John Charlewood, alcuna pratica su testi italiani, B. intervenne nelle varie fasi di stampa dell’opera; intervento che si ripeterà anche per gli altri cinque dialoghi filosofici in volgare da lui pubblicati tra il 1584 e il 1585. B. incise inoltre personalmente quasi tutte le xilografie per le figure presenti nelle cinquecentine. A ragione si è quindi parlato di ‘stampe d’autore’ per gli archetipi dei dialoghi londinesi del filosofo. ◊ La Cena è il primo dei cosiddetti dialoghi cosmologici di B. (un trilogia comprendente anche il De la causa, principio et uno e il De l’infinito, universo e mondi), non solo in merito alla stampa ma anche riguardo al completamento della redazione dell’opera. Con la Cena, per citare le parole di un interlocutore del dialogo, l’A. comincia a pubblicare «tanto solenne filosofia». Tuttavia, ciò non implica necessariamente che quando B. iniziava a comporre il testo non avesse già scritto una parte 2 (ed è da ritenere una buona parte, con specifico riferimento alla dottrina e alla struttura tematica) del De la causa e del De l’infinito, nei quali viene a delinearsi gran parte del sistema della «nolana filosofia» come radicale filosofia della natura, della quale la Cena è assieme preludio e sintesi, con il suo ultracopernicanesimo. Dal punto di vista formale, la Cena, come gli altri Dialoghi di B., appartiene al tipo dialogico ‘mimetico’. L’opera, dedicata all’ambasciatore francese Michel de Castelnau – presso il quale l’A. alloggiava sin dal suo arrivo a Londra – è suddivisa in cinque dialoghi con quattro interlocutori: Teofilo (alter ego di B.), Smitho (personaggio inglese che aderirà progressivamente alle teorie dell’A.), Prudenzio (il pedante, che eredita i caratteri del Manfurio della commedia Candelaio, con una modulazione scolastico-teologica) e Frulla (che incarna il tipo del servitore da commedia che dileggia il pedante). Il dial. I introduce gli argomenti del dibattito; il dial. II è invece dedicato alla narrazione dei preliminari della cena nell’appartamento di corte di Fulke Greville, mentre i diall. III-IV riportano la discussione con i dottori aristotelici oxoniensi ‘Nundinio’ e ‘Torquato’ durante l’incontro. Il dial. V, infine, è il più impegnativo sul piano teorico e, per il tono, affine a quelli del De l’infinito. Precedono i dialoghi un sonetto e l’epistola proemiale. L’esame dei vari esemplari della princeps ha reso possibile l’individuazione di una duplice redazione a stampa, sia del principio del dial. I – la redazione primitiva fu segnalata da G. Gentile, Prefazione a G. B., Dialoghi morali, 1908 –, sia della seconda parte del dial. II nonché dell’esordio del terzo, la cui redazione definitiva è stata scoperta, in forma manoscritta, da G. Aquilecchia, La lezione definitiva, 1950 (la versione a stampa è stata successivamente segnalata da R. Tissoni, Lo sconosciuto fondo bruniano, 1959). La riscrittura di parti significative del testo, per lo più con propositi di autocensura, è una testimonianza eloquente del profondo coinvolgimento dell’opera nelle vicende biografiche dell’A. Nella Cena la teoria eliocentrica viene propugnata e a sua volta superata, mediante una concezione che sostiene con forza sia la realtà fisica del sistema copernicano sia, con la negazione dell’esistenza della sfera delle stelle fisse, l’infinità dell’universo: «infinito effetto dell’infinita causa, il vero e vivo vestigio de l’infinito vigore». Un universo senza alcun centro e omogeneo nella sua costituzione materiale e spaziale – «in vano si cerca il centro o la circonferenza del mondo universale» –, popolato di una pluralità di mondi, di innumerevoli sistemi solari. La Cena è come il manifesto, con le necessarie premesse epistemologiche dedotte dalla gnoseologia del Sigillus sigillorum pubblicato nel 1583, di una nuova visione del mondo che coglie il significato e le implicazioni derivanti dal saldarsi di una concezione dell’essere (uno, infinito, immobile) e del divenire (vicissitudine dei corpi, delle cose dell’universo), 3 proprie dell’«antiqua vera filosofia» preplatonica, con le acquisizioni della scienza contemporanea. Una visione che l’A. considerava profondamente innovativa e che era eversiva per un intero sistema di valori, sul piano fisico con radicali conseguenze di ordine metafisico: nell’universo omogeneo non esistono i ‘luoghi naturali’ degli elementi né una presunta quinta essenza di cui sarebbero fatti i corpi celesti. La terra, con il suo moto di rotazione intorno al proprio asse e di rivoluzione intorno al sole, ha la stessa realtà ontologica degli altri corpi celesti. Come la terra, anche gli altri astri sono corpi composti che subiscono fenomeni di alterazione. ◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. II; testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1994; a c. di G. Aquilecchia, Torino 1955; testo vulgato in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia, Firenze 1958, pp. 3-171. Eugenio Canone *** De la causa, principio et uno di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600). ◊ Dialogo filosofico pubblicato dall’A. qualche mese dopo la Cena de le Ceneri; il testo è trasmesso dall’ed. pr.: De la causa, principio, et uno. Stampato in Venetia [in realtà: Londra, J. Charlewood], anno M.D.LXXXIIII. La composizione del De la causa – riguardo alla materia dei dialoghi II-V – è da presumere non distante da quella della Cena, se non addirittura precedente a essa, laddove si faccia riferimento al nucleo tematico-concettuale dei testi, indipendentemente dalla loro redazione in forma dialogica. ◊ Nel corpus dei sei dialoghi italiani pubblicati da B. a Londra tra il 1584 e il 1585, il De la causa, assieme al De l’infinito, universo e mondi, è l’opera che maggiormente si confronta con la tradizione filosofica aristotelico-scolastica e con la sua terminologia tecnica. Come la Cena e il De l’infinito, anche il De la causa è dedicata all’ambasciatore francese Michel de Castelnau ed è suddivisa in cinque dialoghi, introdotti dall’epistola proemiale e da cinque componimenti poetici, di cui tre in latino. Dalla collazione degli esemplari superstiti della princeps, per l’edizione critica del testo, si è potuto appurare che la redazione a stampa è univoca. Il dial. I del De la causa, scritto dopo gli altri quattro dell’opera, si differenzia da questi, essendo una difesa della Cena, resasi necessaria dopo gli attacchi subiti dall’A. per le sarcastiche critiche presenti in questo testo nei confronti della società inglese e dell’università oxoniense. Diversi sono anche i tre interlocutori del dial. I – Filoteo, Elitropio, Armesso – 4 rispetto ai quattro dei diall. II-V: Teofilo (che corrisponde a Filoteo ed è definito «fidel relatore della nolana filosofia»), Dicsono Arelio (lo scozzese Alexander Dicson Arelius, forse da B. già conosciuto precedentemente in Francia), Polihimnio (l’aristotelico pedante) e Gervasio (personaggio da commedia che mette in risalto la ‘pazzia’ del pedante). L’argomentazione dei diall. II-V, di grande impegno speculativo, si sviluppa parallelamente attorno ai termini che ricorrono nel titolo dell’opera, con varie anticipazioni rispetto alle acquisizioni teoriche progressivamente confermate. Il dial. II si sofferma in particolare sul concetto di causa (inteso come forma/anima), il III su quello di principio (come materia, già con riferimento all’identità potenza-atto); mentre il dial. IV viene poi a incentrarsi sul rapporto forma/anima-materia, con il decisivo concetto di ‘indifferenza’ della sostanza («uno indistinto, prima che la materia vegna distinta in corporale e non corporale»), il V prospetta con forza la loro unificazione nell’uno-tutto. Nella prospettiva della sostanza una, eterna e infinita, la questione delle forme accidentali viene risolta richiamandosi al concetto di un’unica forma sostanziale, l’anima mundi, unica fonte di tutte le forme. L’attività del principio formale si manifesta nella diversa complessione della materia: l’efficiente fisico universale è l’intelletto universale («prima e principal facultà de l’anima del mondo»), l’artefice interno che è uno, come una è la materia sulla quale o nella quale esso esercita la sua azione plasmatrice. L’unità della forma e l’unità della materia non conducono a un dualismo sostanziale, in quanto, mediante il cusaniano principio della coincidenza dei contrari – dell’unità assoluta come identità di essere e poter essere che si determina come infinita attualità – si prospetta un’unità superiore, l’unità della sostanza nell’universo infinito: «Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l’atto. Una la forma o anima; una la materia […]. Uno lo ente». ◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. II; testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1996; ed. in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia, Firenze 1958, pp. 173-342; a c. di G. Aquilecchia, Torino 1973; a c. di A. Guzzo, Milano 1985 (ristampa). Eugenio Canone * * * De l’infinito, universo e mondi di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600). ◊ Dialogo filosofico pubblicato dall’A. subito dopo il De la causa, principio et uno, se non contemporaneamente ad esso. Il testo è trasmesso dall’ed. pr.: De l’infinito universo et 5 mondi. Stampato in Venetia [in realtà: Londra, J. Charlewood], anno M.D.LXXXIIII. L’elaborazione del De l’infinito è da ritenere non molto distante dall’ideazione e da una prima composizione del De la causa, principio et uno, con riferimento alla dottrina e alla struttura tematica dei testi, indipendentemente dalla loro stesura in forma dialogica (una prima messa a punto della materia di queste due opere è da far risalire a un arco di tempo che va dall’estate del 1583 agli inizi del 1584). ◊ Il De l’infinito svolge e approfondisce, con un andamento più vicino al genere della trattatistica, i princìpi della nuova cosmologia infinitistica annunciati nella Cena de le Ceneri, fondandosi sulle acquisizioni teoriche del De la causa. Come già nella Cena, le critiche di B. si rivolgono in particolare contro la Fisica e il De caelo di Aristotele. Dalla collazione degli esemplari superstiti della princeps, per l’edizione critica del testo, si è potuto accertare l’univocità della redazione a stampa del De l’infinito. Riguardo alla struttura esterna, il De l’infinito, come le altre due opere della cosiddetta trilogia cosmologica londinese, segue uno schema numerico 4+1: cinque dialoghi di cui uno variamente eccentrico rispetto agli altri (il secondo della Cena, il primo del De la causa, il quinto del De l’infinito). Un’intelaiatura fondamentalmente quadripartita che si riflette anche nel numero degli interlocutori, che sono quattro sia nella Cena sia nei diall. II-V del De la causa, così come nei diall. I-IV del De l’infinito: Filoteo (alter ego dell’A.), Elpino (identificabile con il gallese Mattew Gwinn, della cerchia da B. frequentata a Londra), Fracastorio (rievocazione del celebre medico e filosofo veronese morto nel 1553, che nel De l’infinito verrà a sostenere la nuova cosmologia dell’A.) e Burchio (il peripatetico pedante che appare come interlocutore solo nei diall. I-III). L’Albertino introdotto nel dial. V, che nel testo inizialmente avversa le teorie di B. per poi alla fine approvarle, è identificabile con il giurista marchigiano Alberico Gentili, dall’A. conosciuto a Oxford nel 1583. I cinque dialoghi sono preceduti da un’ampia epistola proemiale, rivolta all’ambasciatore francese Michel de Castelnau, e da tre sonetti. Il De l’infinito viene a costituire, con il De la causa, un dittico in cui sono esposti i princìpi della ‘nolana filosofia’, una filosofia della natura che si ispira ai presocratici, senza sottrarsi al confronto con il dibattito scientifico coevo, e che fonda una cosmologia infinitistica su un’ontologia rigorosamente monistica, con l’idea dell’unità del principio che anima in eterno tutto l’universo, nella molteplicità e mutabilità delle cose particolari. Per B. la ‘vicissitudine’ è una fondamentale legge di natura e dell’anima mundi che rinvia al principio anassagoreo del ‘tutto in tutto’ (omnia in omnibus). Una concezione che viene a raccordarsi con le tesi esposte nella Cena, con la difesa dell’interpretazione realista del sistema copernicano fino al superamento di esso in una prospettiva infinitistica. Universo infinito, spazio omogeneo, 6 pluralità dei mondi, nonché questione del vuoto e costituzione atomica della materia vengono a definire la fisionomia di quella nuova cosmologia che troverà poi una sua definitiva sistemazione nel poema latino De immenso, pubblicato da B. nel 1591. Nel De l’infinito – come nel De immenso –, l’A. denuncia anche la vanità della distinzione scolastica tra potentia absoluta e ordinata di Dio, affermando che «chi nega l’effetto infinito nega la potenza infinita». ◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. II; testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1995; ed. in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia, Firenze 1958, pp. 343-537. Eugenio Canone *** Spaccio de la bestia trionfante di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600). ◊ Dialogo filosofico; il testo è trasmesso dall’ed. pr.: Spaccio de la bestia trionfante, proposto da Giove, effettuato dal conseglo, revelato da Mercurio, recitato da Sophia, udito da Saulino, registrato dal Nolano. Diviso in tre dialogi, subdivisi in tre parti. Stampato in Parigi [in realtà: Londra, J. Charlewood] M.D.LXXXIIII. Lo Spaccio apparve con ogni probabilità nell’autunno del 1584. L’ideazione e una prima messa a punto della materia dell’opera sono da far risalire verosimilmente al 1583 e, per alcuni spunti, anche a un periodo precedente; l’accenno, nella Cena de le Ceneri, a un «dialogo del Nolano, che si chiama Purgatorio de l’inferno», è da intendere quale allusione allo Spaccio. ◊ L’opera è dedicata, come poi gli Eroici furori, a Philip Sidney ed è suddivisa in tre dialoghi, ognuno dei quali si articola in tre parti; tre sono anche gli interlocutori: Sofia, Mercurio e il nolano Saulino. Come B. sottolinea nell’Epistola esplicatoria, lo Spaccio presenta gli «numerati ed ordinati semi della sua moral filosofia», facendo riferimento in particolare alle «prime forme de la moralità, che sono le virtudi e vizii capitali». Sul piano letterario, lo Spaccio si collega al genere satirico dei dialoghi lucianei, cui si erano ispirati vari autori del Quattrocento e della prima metà del Cinquecento, tra i quali Niccolò Franco. A uno dei Dialoghi piacevoli (1539) di quest’ultimo fa un qualche riferimento la trama dello Spaccio: un «repentito Giove», intenzionato a mutar vita, chiama gli dèi a consiglio, proponendo loro di cacciare via dal cielo tutte quelle ‘bestie’ e altre raffigurazioni di vizi, per insediare al loro posto, nelle costellazioni, delle personificazioni di virtù. Sofia, che ha appreso da Mercurio tale riordinamento celeste, ne informa Saulino. L’A. precisa che Giove 7 «rapresenta ciascun di noi» e che, in quanto ‘governatore’ dell’Olimpo, egli sta a significare il «lume intellettuale». B. insiste sul fatto che è sua intenzione trattare la filosofia morale «secondo il lume interno»; in tal senso, una profonda ‘riformazione’ dell’animo – dell’«interiore affetto» – precederà una non meno necessaria ‘riformazione’ del mondo esterno, del mondo dei valori e delle leggi. Una riforma che investe la sfera economicosociale come pure quella giuridico-politica e lo stesso ambito religioso (nello Spaccio, come in altri suoi scritti, anche con riferimento all’impostazione averroistica, l’A. si richiama al concetto di religione come lex). Una radicale considerazione di ordine morale si rende indispensabile a seguito dell’elaborazione di una cosmologia infinitistica – da B. definita nei suoi tre precedenti Dialoghi italiani pubblicati a Londra nel 1584 –, che ha mostrato la falsità dell’idea geocentrica e di una concezione antropocentrica della natura, oltre a denunciare l’illusione di un’idea antropomorfica della divinità. Alla base dello Spaccio agisce l’istanza di un riesame della funzione delle scienze e delle arti a partire da una nuova antropologia. Nell’opera, la riflessione etica prende le mosse dai concetti di anima – ‘sostanza incorporea’ eterna, unica forma sostanziale in cui niente «si forma o si difforma» – e di individuo, le «nature particolari infinite et innumerabili» soggette al fato della mutazione, cioè al «principio della dissoluzione» come incessante dinamica di trasformazione e «vicissitudinale circolazione». Per B., che rifiuta la concezione aristotelica e tomistica della sostanzialità del sinolo, l’individuo umano, la persona come ‘composto’, non è sostanza, la quale è «ente impartibile». L’immortalità dell’uomo non può realizzarsi sul piano della conservazione di una coscienza individuale dopo la morte, come concepito dal cristianesimo; per contrasto, l’A. fa riferimento alla dottrina pitagorica della metempsicosi interpretata metaforicamente (è da notare che nella successiva Cabala del cavallo pegaseo B. usa il termine ‘metamfisicosi’). D’altra parte, pur essendo la materia il principium individuationis, è l’anima, che come anima mundi è deus in rebus, a ‘fabbricare’ le nature particolari, in quanto la stessa materia è animata; tuttavia, tale anima non entra nel composto: lo ‘governa’ senza esserne parte. Da queste premesse, il destino dell’individuo, con una sua possibile immortalità, viene considerato nella prospettiva della costruzione della civiltà. Vero e proprio motivo conduttore dello Spaccio, assieme alla riflessione sull’ingenium come capacità di far interagire intelletto e mano, è l’idea delle opere dell’uomo come «effetti eroici» e «onorati e gloriosi frutti», l’apprezzamento del lavoro e della sollecitudine che nascono da necessità e da ‘virtuosa’ emulazione. In tal senso, l’A. critica aspramente i capisaldi teologici della Riforma, l’elezione di grazia e la salvezza per sola fede. Se l’uomo, come interior homo, è anima, la sua essenza si identifica con una 8 «studiosa contemplazione» e con il suo agire, con la sua capacità di edificare ‘nuovi mondi’: umanità, civiltà e moralità per B. vengono a coincidere. Alcuni motivi polemici nei confronti del cristianesimo, presenti nello Spaccio, saranno dall’A. ripresi e portati all’estremo nella Cabala del cavallo pegaseo, con l’aggiunta dell’Asino cillenico, pubblicata a Londra nei primi mesi del 1585: tra lo Spaccio e la Cabala corre un rapporto stretto e vari sono i riferimenti incrociati tra i due testi; tra l’altro, in entrambi i dialoghi riecheggia il tono satirico della commedia Candelaio. Sviluppando in modo originale tematiche già affrontate da Erasmo e da Agrippa di Nettesheim – il ribaltamento tra verità e apparenza che si esprime sia nella metafora dei Sileni di Alcibiade che nell’elogio della follia, il doppio livello dell’encomio dell’asino e della ‘pia asinità’ ecc. – B. dà un giudizio estremamente negativo su tutto un sistema di valori che il cristianesimo avrebbe storicamente incarnato, anche nei suoi rapporti con la tradizione giudaica. Per B. quella che viene ritenuta la promessa più allettante della religione cristiana – la grazia-salvezza come dono divino –, pur essendo illusoria, sarebbe perfettamente adeguata a un modello di virtù a rovescio. ◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. III; ed. in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia, Firenze 1958, pp. 547-831; testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1999; ed. a c. di E. Canone, Milano 2001. Eugenio Canone *** De gli eroici furori di Giordano Bruno (Nola [Napoli] 1548 - Roma 1600). ◊ Dialogo filosofico; il testo è trasmesso dall’ed. pr.: De gl’heroici furori. Parigi, appresso Antonio Baio [in realtà: Londra, J. Charlewood], l’anno 1585 (i Furori furono pubblicati probabilmente nell’estate di quell’anno). L’opera chiude il ciclo dei sei dialoghi da B. redatti in volgare. Nel testo, che ha una struttura più complessa rispetto a quella dei precedenti dialoghi londinesi di B. – con una continua e suggestiva alternanza tra versi e prosa già sperimentata nella letteratura italiana, a partire da Dante – dovettero forse confluire spunti e materiali, in particolare poetici, risalenti a un periodo precedente. ◊ I Furori, come lo Spaccio de la bestia trionfante, sono dedicati a Philip Sidney, poeta e personaggio di spicco della corte di Elisabetta I d’Inghilterra. L’opera, che è introdotta da un dettagliato Argomento e da un sonetto, è suddivisa in due parti, ognuna delle quali si articola in cinque dialoghi, in cui si avvicendano dieci interlocutori. Nei Furori, escludendo 9 quattro sonetti di Luigi Tansillo e oltre al sonetto preliminare, sono inseriti sessantasette sonetti di B., dei quali uno già pubblicato, con varianti, nel De la causa, principio et uno. Assieme allo Spaccio e alla Cabala del cavallo pegaseo, i Furori sono, tra i dialoghi italiani di B., l’opera con maggiori implicazioni teologiche, con frequenti richiami biblici, in particolare al Cantico dei Cantici, interpretati all’interno di un «naturale e fisico discorso»; in questa prospettiva va considerata anche la presenza nei Furori di motivi e di una terminologia di ascendenza neoplatonica. Il testo sviluppa il tema di quella ‘riformazione’ interiore «de gli affetti naturali» che nello Spaccio è considerata il fondamento di una vera e radicale ‘riformazione’ del mondo esterno; in tal senso, l’orizzonte etico dei Furori si salda intimamente con quello gnoseologico. Tra lo Spaccio e i Furori c’è un legame più profondo di quanto viene solitamente riconosciuto, rinviando entrambi i testi a un medesimo oggetto – il «teatro e campo de le virtudi e vitii» – esaminato da due diverse angolazioni. È da segnalare che già nell’Epistola esplicatoria dello Spaccio l’A., riferendosi ai Furori e al ruolo decisivo dell’opera nel sistema della ‘nolana filosofia’, cioè la radicale filosofia della natura propugnata da B., parla di «altri particulari dialogi, ne li quali l’universal architettura di cotal filosofia verrà pienamente compita, e dove raggionaremo più per modo definitivo». Al centro della riflessione etica dei Furori si colloca, come nello Spaccio, il concetto di anima, nella duplice considerazione di anima mundi e di anima hominis. Mentre la prima, che coincide con la fonte di vita e ‘intelligenza’ presente in ogni astro, si muove «in circolo», le anime particolari sarebbero dotate invece di un movimento rettilineo, «secondo diversi gradi d’ascenso e descenso» rispetto agli estremi di un’elevata vita spirituale (come vita contemplativa, speculativa, che si apre alla arti e alle scienze, nonché come vita attiva, specificamente morale) e di una vita bestiale, «ociosa e voluptaria». Estremi che segnano l’itinerario dell’anima e ai quali corrispondono un «eroico amore», che dalla bellezza della forma corporea si innalza alla considerazione di quella spirituale e divina, e un amore «cupidinesco volgare e animale», che rimane vincolato alla «concupiscenza del toccare». In merito all’elevazione spirituale, è da sottolineare che per B. non esiste alcun luogo celeste/sopraceleste, e comunque separato, come concepito dal platonismo o dalla teologia cristiana, essendo per lui patria dell’anima la natura, quale ‘simulacro’ dell’essenza divina – universo spazio-tempo infinito –, nonché teatro della civiltà come domus sapientiae. Tra le possibili vie che si aprono all’umanità, l’A., che discute l’idea aristotelica di virtù come temperanza degli affetti, introduce la figura dell’eroico furioso, che rappresenta un nuovo concetto di uomo proteso nella venatio veritatis e con cui si prospetta il superamento dell’idea tradizionale di ‘sapiente’. Se, come sottolineato dagli averroisti, la suprema 10 felicità per l’uomo consisterebbe «nella perfezione per le scienze speculative», B. sottolinea che quella perfezione non può essere intesa tale rispetto all’«altissimo oggetto», cioè al Sommo Bene e supremo intelligibile, ma rispetto al nostro intelletto, in quanto quell’oggetto è infinito; e, in quanto infinito, esso potrà essere «infinitamente perseguitato», essendo la mente umana potenzialmente infinita, ma mai totalmente compreso. ◊ Rist. anast. dell’ed. pr. in G. B., Opere italiane, a c. di E. Canone, Firenze 1999, t. IV; ed. in G. B., Dialoghi italiani, rist. con note da G. Gentile, 3a ed. a c. di G. Aquilecchia, Firenze 1958, pp. 925-1178; ed. a c. di P.-H. Michel, Paris 1954; testo critico a c. di G. Aquilecchia, Paris 1999; ed. a c. di E. Canone, Milano 2011. Eugenio Canone 11