CHIMICA E VITA La ricerca scientifica appare lontana dalla ricerca

CHIMICA E VITA
La ricerca scientifica appare lontana dalla ricerca di senso che nella cultura umana si è sempre
manifestata e a cui la filosofia e la teologia hanno dato voce. La cultura scientifica, forse per essersi
sviluppata originariamente in contrapposizione a culture contemporanee fortemente intrise di
carattere religioso, ha teso quasi sempre a rinchiudersi entro uno steccato rigorosamente tecnologico
(“la scienza non si interessa di stabilire il senso di quello che scopre”), oppure negando l'esistenza
del problema stesso (“le scoperte scientifiche hanno senso soltanto in relazione al più o meno
ristretto ambito in cui agiscono”).
Questo atteggiamento emerge prepotentemente dall'esame della letteratura riguardante il
problema dell'origine della vita, alla cui soluzione hanno dato il loro contributo molte discipline
quali la chimica, la biochimica, la genetica ed altre. La domanda di fondo, in questo campo,
riguarda le modalità attraverso le quali composti chimici di natura organica, cioè, contenenti
carbonio, ed inorganica possano essersi organizzati in modo da costituire unità strutturali capaci di
riprodursi e di alimentarsi. L'uomo ha fronteggiato la questione fin da tempi remoti, proponendo
soluzioni molto fantasiose. Tuttavia, anche dopo la nascita del metodo scientifico, evento associato
al contrasto tra Galileo e la Chiesa cattolica all'inizio del XVII secolo, questo problema fu poco
frequentato perché le conoscenze sul fenomeno vitale furono a lungo così scarse da non permettere
di affrontarlo. Soltanto nel secolo scorso l'enorme sviluppo della biochimica e della genetica e la
conseguente scoperta del meccanismo fondamentale che sta alla base dei processi vitali hanno
permesso di formulare ipotesi ragionevoli sul drammatico passaggio dalla materia inerte alla vita
che ha avuto luogo sul nostro pianeta circa quattro miliardi di anni fa.
La nascita della vita non è evidentemente un fenomeno direttamente osservabile. Pertanto, per
la interpretazione del fenomeno ci si deve servire di un modello, cioè di un insieme di ipotesi
coerenti costruite sulla base delle conoscenze di cui disponiamo.
Un modello è una
rappresentazione che ci facciamo di una realtà non direttamente osservabile e nelle scienze
empiriche si fa un uso piuttosto ampio di modelli. Si pensi, come esempio, alla struttura degli
atomi, che, come è noto, sono entità non direttamente osservabili. A partire dalla conoscenza delle
proprietà delle particelle costituenti, gli atomi sono stati dapprima rappresentati come un sistema
planetario, Questa ipotesi avrebbe permesso di trasferire all'atomo tutto il complesso di conoscenze
acquisite nello studio del movimento dei pianeti, direttamente osservabile. Poi, sotto l'incalzare di
osservazioni e misure fisiche di certe proprietà della materia, il modello planetario è risultato
inadeguato ed è stato sostituito da quello quantistico, prima, ed infine da quello ondulatorio. Questo
esempio serve a dimostrare l'utilità dell'uso dei modelli nella ricerca scientifica, ma sottolinea anche
l'importanza che ha la possibilità di “dialogo” con il modello, cioè, la capacità di sottoporre a
sollecitazioni controllate il modello stesso, registrando le sue reazioni. Da questo punto di vista, il
modello planetario, proprio per l'impossibilità di osservare direttamente le particelle atomiche come
facciamo con astri e pianeti, non è in grado di suggerire alcun esperimento di controllo, mentre la
capacità della materia di interagire con la radiazione elettromagnetica, fenomeno direttamente
osservabile, ha suggerito una quantità di osservazioni che hanno portato prima a trovare inadeguata
l'analogia tra il moto dei pianeti e quello degli elettroni, poi a proporre una nuova rappresentazione
dell'invisibile ed a controllare la bontà di quest'ultima attraverso una serie di ulteriori osservazioni:
l'esperimento convalida il modello.
Anche le ipotesi sulla nascita della vita, a causa della distanza temporale dell'evento, devono
basarsi su modelli. In questo caso, l'esperimento capace di avvalorare una ipotesi rispetto ad un'altra
consisterebbe nella produzione di un organismo vivente a partire da materiale inorganico. Tuttavia,
anche se possiamo attualmente disporre di informazioni affidabili sulle condizioni in cui la vita si è
sviluppata e queste condizioni sono riproducibili in laboratorio, nessuno dei ricercatori in quest'area
è mai riuscito a realizzare l'esperimento conclusivo. Solo in alcuni dei processi parziali ipotizzati
volta per volta si sono ottenuti risultati convincenti.
L'ipotesi condivisa da tutti i modelli proposti è che le prime forme di vita dovettero essere
semplici sia dal punto di vista morfologico che funzionale, quindi organismi unicellulari. In effetti,
numerosi studi di micropaleontologia hanno accertato testimonianze fossili di procarioti risalenti a
3.6-3.4 miliardi di anni fa. Gli eucarioti, organismi unicellulari morfologicamente e funzionalmente
più affini alle cellule presenti negli organismi pluricellulari, comparvero molto più tardi (fossili
risalenti a 1.8 miliardi di anni fa). Per questo motivo, la discussione sull'origine della vita si è
ristretta fin dall'inizio intorno alla origine dei procarioti, organismi che, fortunatamente, sono
sopravvissuti fino ad oggi, permettendoci di osservare direttamente il fenomeno vitale relativamente
vicino alla sua origine. Tuttavia, da Darwin in poi, si ipotizza l'esistenza di un progenitore comune,
la cellula ancestrale, di struttura e funzioni ancora più semplici rispetto a quelle degli stessi
procarioti.
Come detto sopra, è stato il grande sviluppo delle scienze molecolari applicate alla vita
(biochimica e genetica molecolare) che ha permesso di descrivere i meccanismi di funzionamento
degli organismi viventi e, come conseguenza, di formulare ipotesi ragionevoli sull'origine della vita.
Come risultato del grande numero di studi eseguiti con tecniche proprie di queste scienze sulle
cellule attuali, l'indagine sull'origine della vita può basarsi su due pilastri fondamentali. Il primo,
che prende il nome di “dogma centrale della biologia molecolare” (F. Crick, 1957), è rappresentato
dalla successione dei processi rappresentati nello schema seguente:
DNA
RNA
TRASCRIZIONE
PROTEINE
TRADUZIONE
Questa serie di processi, affiancata alla replicazione del DNA, rappresenta il meccanismo che sta
alla base della vita di tutte le cellule, indipendentemente dalla loro morfologia e metabolismo. Il
significato del dogma è che l'informazione, contenuta nel DNA, viene unidirezionalmente trascritta
sotto forma di RNA e tradotta in proteine. Il secondo pilastro è rappresentato dal concetto di
mutazione, così come viene interpretato su basi genetiche. Quindi, tutto il patrimonio di
conoscenze di tipo morfologico, chimico, biochimico e genetico ottenuto con lo studio sulle cellule
degli organismi attuali è ragionevolmente trasferibile alla cellula ancestrale e viene, in effetti,
impiegato per delinearne il profilo. A questo medesimo scopo, la sopravvivenza di procarioti di
vario tipo ci permette di studiare direttamente, con tutti gli strumenti di indagine sopra elencati,
struttura e funzioni di cellule più strettamente apparentate con il progenitore ancestrale.
Il processo complessivo di produzione di proteine descritto sopra viene assistito in
maniera determinante dall'azione di particolari enzimi, cioè proteine con attività catalitica. In altri
termini, il meccanismo unidirezionale, per funzionare, ha bisogno della presenza di almeno alcuni
dei prodotti finali. Né le molecole informazionali (DNA e RNA), in assenza di altre proteine, sono
capaci di tradursi in proteine, né le proteine sono capaci di produrre acidi nucleici o altre proteine.
Da questo, si può ragionevolmente ipotizzare che la vita ha potuto svilupparsi solo quando questi
due tipi di molecole poterono coesistere nello stesso ambiente. Tuttavia, la probabilità che proteine
ed acidi nucleici, prodotti in condizioni differenti da reazioni chimiche indipendenti, entrassero in
contatto, appare molto bassa. E' più probabile che l'una o l'altra di queste classi di composti si sia
formata per prima ed abbia dato luogo a forme rudimentali di vita. La necessità logica di ipotizzare
per la cellula ancestrale una funzionalità il più possibile semplice ha dato luogo a due scuole di
pensiero circa l'origine della vita, denominate “ipotesi della vita a proteine” e “ipotesi del mondo a
RNA” ( il termine fu coniato da W. Gilbert, 1986, ma l'ipotesi fu formulata precedentemente, da C.
Woese, 1968). La prima sposa la tesi che siano state le proteine a determinare per prime la
formazione di organismi, la seconda che si siano formate per prime cellule a base di soli acidi
nucleici ad un solo filamento. Gli esperimenti più significativi a sostegno delle due ipotesi
riguardano la capacità delle proteine di replicarsi (esperimenti che sostengono la visione della “vita
a proteine”) e la capacità catalitica di alcune molecole di RNA (T. R. Cech e S. Altman, 1983), i
cosiddetti ribozimi (esperimenti che sosterrebbero il modello del “mondo a RNA”). Nel modello “a
proteine” (F. Dyson, 1987) si formano dapprima sistemi metabolici, da cui si formano nucleotidi
che, in presenza di enzimi, si concatenano in sistemi genetici.
La dimostrazione sperimentale della formazione di RNA da nucleotidi sotto l'azione di
enzimi e la capacità di replicarsi di questo RNA ha suggerito l'ipotesi della cooperazione tra
popolazioni di molecole di RNA e proteine (L.E. Orgel, 1994), ipotesi che costituisce una forma
di conciliazione tra i due modelli sopra esposti. Quindi, la vita sarebbe nata dall'integrazione tra
un sistema metabolico, controllato dalle proteine, ed un sistema genetico, controllato da RNA.
Infine, la scoperta che il materiale genetico può essere trasmesso oltre che verticalmente (per
replicazione) anche orizzontalmente e che questo fenomeno è molto diffuso nei procarioti, ha
indotto C. Woese (1992 e 2004) a formulare l'ipotesi che il comune progenitore universale
dovesse essere non una cellula pre-procariotica ben definita, la cellula ancestrale, ma materiale
vivente primordiale in cui il trasferimento genetico orizzontale dovesse costituire il meccanismo
essenziale di autoconservazione. Nel suggestivo lavoro in cui presenta questa ipotesi, C. Woese
(1998) afferma: “Il progenitore universale non è una entità ben distinta. Esso è, piuttosto, una
variegata comunità di cellule che sopravvive e si evolve come una unità biologica”. Da questa
ipotesi discendono una conseguenza ed una suggestione. La conseguenza, ricavata
esplicitamente dallo stesso Woese, è che, dal momento che l'identità biologica è individuata dal
materiale genetico cellulare, il progenitore universale non ha identità. La suggestione è che la
forza guida primordiale del fenomeno vitale è stata la cooperazione, diretta verso
l'autoconservazione e non la competizione, diretta verso la conservazione della specie. In altri
termini, il citato paradigma della biologia, che descrive la cellula come un sistema nel quale
materiale genetico e proteine collaborano, e numerose osservazioni sul trasferimento orizzontale
di materiale genetico come l'ipotesi endosimbiontica di L. Margulis (1981), suggeriscono un
modello nel quale la forza che porta allo sviluppo del processo vitale è la cooperazione piuttosto
che la competizione, ovvero la tendenza alla conservazione della vita in sé piuttosto che la
conservazione della specie. La conclusione che si può ricavare dalla rassegna delle ipotesi
sull'origine della vita può essere significativamente riassunta in quanto ha scritto F. Crick
(1982): “Un uomo onesto, munito di tutte le conoscenze attuali, può solo affermare che per ora, in
un certo senso, l’origine della vita appare quasi un miracolo, tante sono le condizioni che hanno
dovuto essere soddisfatte perché si realizzasse”.
Limitando la nostra attenzione ai meccanismi di funzionamento delle cellule, piuttosto che
al più complesso problema dell'origine della vita, riflettiamo che l'osservazione del mondo induce
frequentemente in noi una sensazione di meraviglia nel constatare l'armonia e la bellezza delle
cose che contempliamo. Il colore e i movimenti del mare, la luce di un tramonto o la maestosità
di un paesaggio alpino fanno talvolta trascolorare la semplice osservazione in contemplazione
estatica, una sensazione nella quale l'osservatore esce in qualche modo da sé, per sentirsi
inserito armoniosamente nel mondo che lo circonda. Succede raramente. Uno scienziato,
abituato ad osservare il mondo con sguardo criticamente severo, dovrebbe provare ancora meno
di frequente tali sensazioni. Eppure, il biochimico non può non soffermarsi a contemplare con
meraviglia l'insieme delle conoscenze acquisite. E' lo stesso metodo scientifico, impiegato per
mettere insieme il quadro che ha davanti agli occhi, a suggerirgli le domande finali: perché tutti
questi processi si coniugano e si organizzano dando luogo al fenomeno vitale?
Il biochimico, col suo lavoro di ricerca, ha frantumato il problema complessivo della vita
cellulare in una serie di processi più semplici, nei quali riconosce reazioni chimiche che egli è in
grado di riprodurre in laboratorio. In questa riproducibilità lo scienziato constata ogni volta che i
singoli processi che avvengono in una cellula seguono le stesse leggi alle quali obbedisce ogni
reazione chimica. Specularmente, in questo modo il singolo processo cellulare in esame viene
validato. In questo modo, le singole reazioni ed i processi fisici che avvengono in una cellula
sono come tessere di un mosaico. Alcuni anni fa, A.L. Lehninger (1970) rappresentava
sinteticamente questa posizione, affermando: “Biology is chemistry”, il cui significato è che la
vita consiste in una serie di processi chimico – fisici. Ma, è la stessa ragione a suggerirci che
l'insieme dei processi biochimici singolarmente accertati non basta a spiegare la direzione che
ciascuno di essi prende nella cellula vivente. Lo stesso Lehninger, nella stessa introduzione al
libro citato, ha dovuto ipotizzare l'esistenza di una “logica molecolare dello stato vivente” i cui
principi, però, sono rimasti fino ad oggi ignoti.
Il comportamento delle molecole che prendono parte ai processi biochimici può essere
paragonato a quello degli animali sociali. Nei formicai, ogni individuo assolve ad una funzione
specifica, è consapevole di avere quella funzione e, nelle difficoltà, è in grado di operare le sue
scelte nell'interesse individuale e di gruppo. In altri termini, possiede su di sé un centro
decisionale perfettamente orientato. In maniera analoga, nella cellula vivente ogni molecola ha
una sua funzione, ma le regole che segue in ogni suo atto reattivo, cioè le leggi della chimica,
non possono discendere da una sua capacità decisionale, che le molecole mai manifestano nella
comune pratica di laboratorio. In contrasto con questa considerazione, le reazioni chimiche
all'interno della cellula marciano sempre in una direzione, quella dell'autoconservazione, come
nel caso delle formiche.
La ricerca scientifica, nel suo cammino, severo e rigoroso, ottiene comunque una visione
parcellizzata dell'origine e dell'esistenza della vita. Nonostante la grande mole di risultati scientifici
accumulati, sotto diversi punti di vista, la vita continua ad essere un fenomeno paradossale. Nello
studio di questo fenomeno, la chimica ha fornito la sua chiave interpretativa, la molecola, cioè
l'entità materiale che permette di decrittare una enorme quantità di fenomeni naturali. Con questo
strumento in mano l'uomo ha potuto attraversare la fitta ed ardua foresta della conoscenza,
trovandosi, alla fine del cammino, davanti ad una porta chiusa. Non può non vederla questa porta,
se continua coerentemente ad applicare la severa disciplina che ha impiegato per seguire quella
strada. In ogni modo, quella porta resta chiusa e lo strumento che ha impiegato per arrivare fin qui
non basta ad aprirla. Forse, la strada da seguire è un'altra.
BIBLIOGRAFIA
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