Tempo Libero e consumi Lucia Scarnecchia E’ fuori luogo, o addirittura cinico, parlare di leisure in questo preciso momento storico nel nostro paese, considerando gli effetti che la crisi ha prodotto in ogni dimensione della vita quotidiana degli individui? La pressione esercitata dal senso di incertezza che invade la società contemporanea apparentemente non permette all’individuo di considerare il tempo libero come una dimensione prioritaria del vivere, che merita adeguati investimenti di tempo, di saperi ed energia al pari della dimensione professionale o di quella familiare. No, non è né cinico né fuori luogo rivendicare la dimensione strategica che le attività del tempo libero assumono, o potrebbero assumere, nel vivere quotidiano e della loro potenziale forza nel contribuire ad innescare processi culturali finalizzati a dotare l’individuo, e la società, di strumenti cognitivi necessari per affrontare e reagire alla complessità, alternativi ai modelli che le logiche di consumo cercano continuamente di imporre. Obiettivo di questo lavoro non è certo quello di chiarire la confusione emergente dall’innumerevole quantità di definizioni ed approcci esistenti, sviluppatisi nel tempo, che hanno generato una complessa progressione di rivalità teoriche, di eccesso di metafore, di molteplicità di significati, quanto piuttosto quello di dimostrare come il leisure possa assurgere ad essere un cluster temporale durante il quale svolgere attività di arricchimento personale e collettivo, attività attraverso le quali rimettere al centro della struttura valoriale della società concetti e valori che tra un passaggio e l’altro della storia, tra un trasferimento intergenerazionale di saperi e l’altro sembrano aver subìto un’alterazione del significato originario o, peggio, essere stati dimenticati. In questa sede, dunque, si intende legittimare il leisure come un cluster temporale pluricomprensivo, e ricco di opportunità, ben lontano dalla considerazione di un tempo di mero consumo, come sostenuto da Gershuny e dagli studiosi riconducibili al filone di studi del time-budget. Del resto, molte discipline accademiche tradizionali - sociologia, psicologia, economia - negli ultimi decenni, hanno sentito la necessità di flettere la propria attenzione verso fenomeni sociali in evoluzione, dando vita a nuovi campi del sapere connessi con le scienze del turismo, dello sport, della comunicazione. Ciò che è inspiegabile è che ciascuno di questi fenomeni venga considerato a se stante, sottovalutandone la riconducibilità al ben più ampio sistema di attività e relazioni del leisure. L’assenza di un termine specifico nell’idioma italiano costringe ad utilizzare i termini leisure e tempo libero come sinonimi, pur in presenza di una più ampia dimensione di significato ascrivibile al termine inglese rispetto a quello del nostro idioma, spesso costretto a ricorrere ad espressioni specifiche che ne sottolineano le diverse dimensioni concettuali, come “tempo libero” o liberato (dal lavoro), “tempo di non lavoro”, “tempo scelto”, “tempo per sé”, al fine di ovviare alle carenze linguistiche. Ciò è senz’altro imputabile all’inspiegabile mancato sviluppo, nel nostro paese, di un vero e proprio filone di studi connesso con le tematiche riguardanti il leisure. L’analisi sociale negli ambiti accademici, nel periodo post-fascismo, risulta maggiormente concentrata sulle dinamiche sociali prodotte dall’industrializzazione e sembra trascurare una serie di importanti modifiche allora in atto nella dimensione culturale della società quali, ad esempio, le nuove modalità di acquisto e fruizione dei beni e i comportamenti assunti nel tempo extra-lavorativo. Le indagini svolte in Italia, soprattutto da parte dell’Istat a partire dalla fine degli anni ‘80, in maniera piuttosto incostante rispetto a quanto avvenuto in altri paesi, risultano per lo più orientate alla descrizione della dimensione di un tempo di non lavoro - chi usa il tempo libero e come - inteso come cluster temporale dedicato al consumo ma molto lontano dal permettere analisi sul fenomeno in una prospettiva di motivazione individuale, aspettative, relazioni, e sentimenti che connotano l’animo umano e sono alla base delle scelte individuali. Ci sono, tuttavia, delle eccezioni all’incostanza dei lavori scientifici elaborati nel nostro paese e sono rappresentate dal contributo di alcuni studiosi tra i quali, ad esempio, la definizione del concetto di leisure, letto in chiave di “ozio creativo”, proposto da De Masi, secondo il quale è necessario che in ogni attività del quotidiano ci sia la compresenza di elementi riconducibili al lavoro (creazione di valore), di fattori ludici (divertimento) e di occasioni di apprendimento (formazione); il significativo lavoro prodotto da Minardi al quale si deve l’attenzione posta a diversi contesti del loisir, dai parchi di divertimento alle discoteche, dagli stadi alle sale da gioco; l’interesse di alcuni studiosi ai consumi culturali e alle pratiche di leisure svolte attraverso i media, tra i quali menzioniamo Livolsi, Mingo, Morcellini e Martini; l’interessante evoluzione teorica di Lo Verde, iniziata qualche anno fa con un testo-raccolta delle prospettive dei maggiori studiosi del leisure, culminata in una più recente pubblicazione che valorizza la stimolante visione di un tempo di leisure il cui consumo possa essere spendibile non in senso di spreco ma in termini di investimento. Lo stesso Lo Verde sostiene che in Italia, nel tempo, sembra essere cresciuta l’attenzione nei confronti di singoli aspetti del leisure ma che si sia persa la visione complessiva del fenomeno; il focus è stato catalizzato sulle attività sperimentate durante il tempo libero perdendo di vista ciò che fornisce a queste pratiche una ‘coerenza di senso’ nella biografia degli individui e consente di comprenderne il significato sociale. Ciò sembra suggerire che la scelta che ogni individuo compie in materia di leisure dovrebbe essere analizzata non tanto in termini di tipologia di attività quanto piuttosto in termini di ragione della scelta, della motivazione che lo induce ad optare per una determinata attività all’interno della vasta gamma di alternative possibili. Come sostiene Loredana Sciolla, è attraverso le proprie scelte cruciali che l’individuo manifesta la propria identità ed il proprio senso di appartenenza ad una determinata collettività; egli desidera essere riconoscibile in quanto attore sociale e la scelta delle attività di leisure è uno degli strumenti dei quali egli può dotarsi per nutrire costantemente la sfera della sua autonomia rispetto ai vincoli e alle costrizioni esterni, pur nella consapevolezza di essere parte integrante di una collettività. In campo internazionale, nonostante l’importante lavoro di studiosi riconducibili ai leisure studies (Ken Roberts, T.J. Haworth, A.J. Veal solo per citarne alcuni) o ai cultural studies (John Clarke e Chas Critcher) e soprattutto l’incessante attività di studio condotta da Chris Rojek e Tony Blackshaw lo studio del leisure è soggetto a fasi di attenzione alquanto alterne al punto che, oggi, esso stenti ad affermarsi all’interno delle progettazioni universitarie. Ciò perché nell’immaginario collettivo l’idea di leisure rimanda ad un’esperienza astratta del quotidiano laddove le persone parlano di attività concrete - fare shopping, andare al ristorante o ad un concerto ecc. La percezione che si ha del tempo libero sembra riguardare solo singole attività e, dunque, l’idea di leisure nel suo complesso non viene percepita come un’esperienza omnicomprensiva in grado di competere con altre sfere temporali del quotidiano. Il pensiero moderno, attraverso la definizione di Kaplan (1975) afferma il leisure come “un’attività/esperienza relativamente autodeterminata che rientra economicamente nelle funzioni del tempo libero di un individuo [e non di quelle relative al lavoro professionale], è considerata ‘leisure’ dai partecipanti, è psicologicamente gratificante nella sua attesa e nel suo ricordo, potenzialmente copre l’intera varietà di attività impegnate e intense, implica norme e obblighi particolari e fornisce opportunità ricreative, crescita personale e servizio agli altri”. Tuttavia, l’idea di leisure come scelta individuale, libera e autodeterminata è rintracciabile anche all’interno dei più antichi e fondamentali concetti della storia. Per i Greci il leisure è la vera base della cultura; Aristotele sostiene che esso costituisca il principio cardine di ogni azione poiché procura piacere, felicità e godimento della vita, in quanto esperienza non dell’uomo impegnato - che mira a fini ancora da ottenere - ma di coloro che mirano al raggiungimento della felicità attraverso percorsi di piacere e non di ansia o dolore. Egli ammonisce dal rischio di confondere il leisure con l’ozio e il lavoro con la creatività asserendo che il lavoro può certamente essere creativo ma costituisce solo un mezzo della vita laddove il leisure ne costituisce il fine. Da un punto di vista etimologico, le tre distinte fonti alle quali possiamo fare riferimento evidenziano quanto l’idea di leisure abbondi di ambivalenza: il termine francese “loisir”, derivante dalla radice latina licere la quale rimanda, da una parte, all’idea di libertà ma, dall’altra, è un termine, come la sua radice suggerisce, che implica un permesso, una licenza appunto; il termine otiosus, che significa “sfaccendato”, il quale costituisce la trasfigurazione dell’antico termine latino otium che, insieme ai suoi derivati, diventa sinonimo di tempo libero che può, o meno, essere utilizzato per il miglioramento di se stessi, dal momento che si tratta di un tempo del quale si dispone liberamente ed è un tempo per fare qualcosa e non sottratto da qualcosa; infine, il termine greco skholē il quale, al suo livello minimo di comprensione, significa semplicemente essere liberi dagli obblighi. L’idea di skholē può essere intesa, in chiave moderna, come il momento in cui l’individuo, una volta assolte le necessità del quotidiano, può, attraverso l’immaginazione, produrre idee originali e senza freni che gli permettano di avere una prospettiva della realtà altrimenti irraggiungibile. In tal senso, l’idea di skholē rimanda ad un’attività che non allena solo la mente ma impatta anche sull’intero sviluppo sociale e morale dell’individuo. Joffre Dumazedier, considerato il pioniere della sociologia del loisir, non condivide la tesi secondo la quale l’origine del loisir possa essere ricondotta alla Grecia classica. Egli sostiene che un tempo di lavoro e un tempo di non lavoro siano sempre esistiti ma il loisir, come è inteso oggi, denoti delle peculiarità distintive delle società nate a seguito dei processi di industrializzazione. Le classi privilegiate della Grecia classica godono del privilegio dell’otium in virtù del fatto che possono sopperire al tempo di lavoro attraverso l’attività degli schiavi e, dunque, si tratta di una “forma di ozio che non si definisce in rapporto con il lavoro” mentre il loisir è concepibile esclusivamente in virtù di una controparte; esso è connesso con il lavoro, in quanto ne costituisce un distacco più o meno temporaneo - tempo libero a fine giornata; tempo libero del week-end; tempo libero delle ferie annuali; tempo libero a seguito del pensionamento - e la sua conquista, da parte della maggioranza dei lavoratori, è avvenuta grazie a due pre-condizioni sociali necessarie: la prima riguarda il fatto che le attività sociali non sono più dettate dalla routine imposta dalla comunità e la scelta, soprattutto delle attività da svolgere nel tempo libero, è connessa con la sfera di autonomia individuale, nonostante l’ineluttabile condizionamento che essa subisce dal contesto sociale di riferimento; la seconda pre-condizione è data dal fatto che molte attività professionali sono state organizzate in maniera specifica da un punto di vista temporale, permettendo con maggior chiarezza di distinguere i confini temporali tra le attività di lavoro e le attività di loisir. Dumazedier individua quattro possibili accezioni di loisir rintracciabili negli studi sociologici. Una prima accezione considera il loisir non come un cluster di attività definito ma come uno stile di comportamento che può attingere da categorie di attività anche diverse, un modus vivendi dell’individuo trasversale nella sua quotidianità; in questo senso, dunque, qualsiasi attività può divenire loisir. La seconda accezione proposta da Dumazedier concepisce il loisir come tempo liberato dal lavoro, come una dimensione temporale antitetica rispetto al tempo di lavoro retribuito e, dunque, in chiave fortemente economicistica. La terza accezione inquadra il loisir come una serie di attività dalla quale sono escluse sia le attività lavorative professionali, sia quelle svolte in funzione di obblighi domestico-familiari. Il vantaggio di tale definizione è di far emergere che la riduzione dei tempi totali di lavoro, retribuito e non retribuito, costituisce la reale fonte di creazione di loisir per l’individuo. In questo caso, tuttavia, Dumazedier obietta che tale accezione esclude una serie di attività comunque percepite come “obbligatorie” dall’individuo, quali la partecipazione alla vita socio-spirituale e socio-politica, che spesso avviene in tempi diversi da quelli del lavoro, alle quali non si può in alcun modo attribuire un significato di evasione. La quarta ed ultima accezione, proposta dallo stesso Dumazedier definisce il loisir come “tempo impiegato per la realizzazione della persona come fine ultimo”; un insieme di attività, il cui svolgimento è assolutamente discrezionale, atte a garantire riposo, divertimento, crescita personale attraverso la formazione e/o la partecipazione volontaria alla vita sociale o anche attraverso l’espressione della propria creatività; un tempo concesso dalla società all’individuo mediante la riduzione progressiva sia dell’orario di lavoro, sia degli obblighi sociali, politici e religiosi. Fabio Massimo Lo Verde individua, nella letteratura storico-sociale, sociologica ed economica, alcune accezioni di leisure che, da una parte, confermano quanto individuato da Dumazedier e, dall’altra, ne ampliano l’ottica storica. Uno degli aspetti più interessanti dell’analisi di Lo Verde consiste nell’individuare all’interno della coincidenza del leisure con il tempo libero o l’otium e la relativa peculiarità di condizione non-obbligatoria, una parziale analogia con l’analisi di Veblen della leisure class americana, consistente nel sostituire, alla minoranza di “agiati” che non necessitano di lavorare e alla quale la società concede un tempo “contemplativo”, un’aristocrazia economica che della “agiatezza vistosa” fa il proprio strumento di imposizione di mode, regole e stili di consumo di loisir sulla società e, volendo prendere le distanze dalle classi inferiori, determina i confini delle attività di queste ultime. In questo caso, dunque, il concetto di ozio è lontano dalla dimensione contemplativa classica e rimanda piuttosto ad un cluster temporale concesso a pochi agiati che esprimono, attraverso la scelta delle attività di consumo di leisure, la propria condizione elitaria. Lo Verde, inoltre, amplia il concetto di tempo libero come tempo liberato dal lavoro, risalente alla fine dell’800 e i primi del ‘900 e attribuibile alle prime conquiste dei lavoratori, soprattutto in merito al riconoscimento di periodi non lavorativi retribuiti. Tuttavia, Lo Verde evidenzia come, se da una parte tale accezione rimandi ad un tempo concesso ai lavoratori per rigenerarsi dalla fatica e assecondare gli aneliti alla libertà, dall’altra la sua conquista nasconda una valenza politica in quanto si tratta di un tempo sottratto alla produzione al quale, in un modello socio-economico cristallizzato sulla dicotomia produzione/consumo, deve necessariamente corrispondere un tempo di consumo. Ai fini di una interpretazione contemporanea del leisure si dovrebbe rompere con la convinzione di vedere il leisure come una mera categoria residuale del lavoro e ri-pensarlo in ogni altra considerazione dal momento che le questioni riguardanti il leisure (e la libertà) non ruotano solo intorno all’individualizzazione, al consumismo e alla ricerca del piacere ma riguardano anche un gran numero di altre problematiche che dominano la vita odierna: la produzione culturale, che così tanto influisce sul senso di identità, di comunità, di responsabilità, di capacità di prestazione ma anche i sentimenti, l’insicurezza, la ricerca di significati, l’autenticità e altro ancora. E’ per questo che Rojek sostiene che, nel definire il leisure, molti studiosi seguano la facile strada del senso comune ed associno il termine a concetti come libertà, scelta e life-satisfaction. Tale approccio risulta tuttavia inadeguato dal momento che la libertà e la scelta sono contestuali e dipendono dal luogo, dal tempo e, soprattutto, dalle azioni degli altri. Il suo appello al “decentramento” del leisure, va inteso in due diversi modi: in primo luogo, per suggerire che, al fine di comprendere a fondo il leisure, occorra partire non dall’oggetto centrale di studio - il leisure in sé – quanto piuttosto dal contesto in cui esso diventa un oggetto di studio, una questione da indagare; il leisure, infatti, assume sfaccettature diverse a seconda delle caratteristiche della formazione sociale in cui esso viene analizzato e, dunque, l’idea moderna di un leisure come una categoria limitata di pratiche ed esperienze deve necessariamente essere inserita all’interno del soggetto cultura dal momento che più ci si addentra nella questione di cosa sia il leisure, più ci si rende conto di quanto, nello stabilire i parametri delle riflessioni, incidano i codici culturali, le distinzioni, i conflitti e le conseguenti modifiche nei tempi e negli spazi del leisure. In secondo luogo, il termine decentring serve ad attirare l’attenzione sul fatto che specifiche culture hanno concentrato sul leisure specifici significati. Così, ad esempio, come la pressione esercitata dai capitani dell’industria capitalista orienta ad una costante identificazione del leisure nel desiderio di un’esperienza autentica, di decompressione, di evasione e di libertà, l’epoca postmoderna associa il leisure anche al rischio, all’avventura e a termini maggiormente connessi con aspetti devianti del quotidiano. E’ innegabile che l’evoluzione del concetto di leisure derivi dai profondi cambiamenti sociali, culturali, economici e politici avvenuti all’interno della società nel passaggio tra due epoche distinte, che hanno fortemente impattato sulla dimensione identitaria individuale e collettiva e, di conseguenza, sul modo di vedere le cose, sui processi di socializzazione, sul significato ascrivibile al lavoro e al tempo libero. Dalla fine del secolo breve di Hobsbawn (il periodo compreso tra il 1914 ed il 1991) ad oggi si è stati testimoni di una rivoluzione economica che ha trasformato il mondo in una socialità all’interno della quale la classe sociale è definita dal credito e il consumismo ha sostituito l’etica del lavoro nel suo ruolo di spina dorsale del sistema remunerativo in una società dominata dal disordine piuttosto che dall’organizzazione e dall’ordine. La velocità delle trasformazioni avvenute all’interno della società e della cultura negli ultimi decenni ha riguardato, e riguarda ancora, ogni dimensione del vivere quotidiano: gli spazi di vita depauperati di quei confini che, in altre epoche, dotavano di una forma e, dunque, di un senso i territori e che rendevano ben riconoscibile una città o un paese; un’economia globalizzata che pretende di strutturare e manipolare la società della conoscenza a sua immagine e somiglianza; le facilitazioni avvenute nella mobilità di persone, merci ed informazioni che, una volta abbattute le frontiere, generano il continuo aumento della domanda la quale si disperde in territori spazialmente sempre più vasti e si fonda temporalmente sempre più sul “qui e subito” in ogni momento della vita, dando origine a luoghi e modalità di consumo sempre nuovi, sostenuti e incoraggiati sempre più massicciamente dal mercato telematico; il radicale affermarsi di un nuovo concetto di uso del tempo, basato su norme temporali flessibili rispetto alla staticità che aveva caratterizzato le regole dell’epoca industriale; l’importanza crescente assegnata all’allocazione temporale delle varie attività ai fini di un progetto sociale che ha generato nuovi ritmi e nuove modalità di utilizzo di spazi e beni comuni che, superando i confini nazionali, permettono la nascita di reti relazionali sempre nuove; la definitiva rottura delle barriere tra “alta” e “bassa” cultura”. La pervasività della logica di consumo è complice di tali trasformazioni poiché essa è responsabile di aver “mercificato” persino la relazione tra individuo e tempi di lavoro, tempo libero, commercio, comportamenti di acquisto e consumo e organizzazione degli spazi, nell’ottica di un processo sociale destinato a plasmare nuovi status socio-economici e nuovi orizzonti mentali che fanno leva sui desideri di evasione emozionale e di consumo esperienziale dell’individuo-clienteconsumatore. L’ideale postmoderno sembra consistere nella ricerca dell’instabilità e della diversità e alla grande capacità di identificazione identitaria che aveva contraddistinto gli attori della modernità l’individuo, il partito, la nazione- la postmodernità oppone un carattere altamente frammentario e diversificato ravvisabile nei vari modelli di associazione, gruppo, movimento. Tale frammentazione è ravvisabile persino nelle dinamiche di guerra che da totalizzanti e mondiali si sono fatte frammentate e locali; nella sfera politico-istituzionale, nella cessione di sfere di potere da parte del governo centrale a vantaggio degli organi locali, nella necessità di trovare modalità transnazionali di gestione dei fenomeni di integrazione e, parallelamente, nell’accettazione di una posizione di “sudditanza” rispetto ai dictat comunitari e globali; la frammentazione postmoderna, infine, lascia le sue tracce anche in un sistema-lavoro connotato ormai da un’estrema parcellizzazione spaziotemporale in grado di garantire quasi esclusivamente contratti a termine e a progetto, esacerbando quel processo di trasformazione della flessibilità in precarietà, socialmente traducibile in calo delle nascite, dei consumi, del benessere generale. Tutti questi cambiamenti avviatisi nel secondo dopoguerra, come effetto del boom economico degli anni ’60, e l’accelerazione da essi subita nell’ultimo trentennio del secolo scorso come effetto della globalizzazione hanno provocato profonde trasformazioni negli assetti familiari, nella distribuzione e negli orari di lavoro, nella morale, nelle pratiche di consumo, nelle modalità di comunicazione e nella mobilità degli individui ed hanno facilitato l’introduzione di norme, valori, credenze e simboli del tutto nuovi all’interno della sfera culturale della società o, quantomeno, hanno fortemente contribuito a ridefinire quelli pre-esistenti. Una chiave di lettura trasversale degli impatti che tali cambiamenti hanno determinato sulla vita degli individui è rappresentata dalla “questione identitaria”, nella prospettiva magistralmente proposta dallo sforzo intellettuale di Loredana Sciolla. La studiosa evidenzia come sia improprio riferirsi all’identità come ad un’essenza stabile dell’individuo, alla quale egli accede attraverso momenti di isolamento o di ripiegamento sul sé, che gli permettono di auto-descriversi come persona, con caratteristiche fisiche, psicologiche e morali uniche nelle quale egli si riconosce e che sembrano costituire la garanzia di permanenza nel tempo di tale possibilità di riconoscimento. In questa ottica, l’identità assume i tratti di una sostanza composta da contenuti specifici, fortemente soggettivi, attraverso i quali l’individuo riesce benissimo a distinguere tra un’identità formale, data dalla sua collocazione all’interno di uno specifico spazio sociale (ad esempio il riconoscersi nello specifico soggetto presente sulla propria carta di identità) e un’identità personale attraverso la quale egli può descrivere un profilo di sé di natura psicologica, oppure di tipo narrativo attraverso il quale egli ricostruisce la propria biografia in modo auto-referenziale, sulla base di una sequenza di scelte ed esperienze sperimentate. Qualunque sia la tipologia descrittiva che l’individuo sceglie, l’identità utilizzata nel senso comune sembra rappresentare una sfera indipendente rispetto all’identità attribuita all’individuo dagli altri, dalle istituzioni e dai gruppi sociali di riferimento con i quali egli interagisce costantemente, migrando tra le varie sfere della realtà che costituiscono il suo quotidiano. Eppure, l’identità che viene attribuita all’individuo dai soggetti e dai differenti contesti con il quale egli interagisce forgia il suo senso soggettivo e può essere causa di profonda frustrazione laddove l’immagine che l’individuo ha di sé si riveli incoerente rispetto a quella che “l’altro” rimanda. In considerazione della pluralità di dimensioni e di relazioni all’interno del quale l’individuo si trova ad agire nel quotidiano, è presumibile che ciascuna componente della sua alterità di riferimento gli restituisca un’immagine del sé diversa dalle altre e, dunque, che l’individuo non si trovi di fronte né ad una serie di identità distinte sulla base dei vari contesti con i quali interagisce, né di fronte ad un’identità unidimensionale, data una volta per tutte; egli ha piuttosto a che fare con un’unica identità, articolata in dimensioni plurime che è soggetta a continui processi di eteroidentificazione. In questo senso, ciò a cui il linguaggio comune fa riferimento come “identità sociale” è in realtà ciò che rende possibile la definizione dell’identità personale e collettiva dal momento che qualsiasi identità non potrebbe essere determinata senza le adeguate verifiche, il sostegno e la legittimazione provenienti dalla sfera sociale. A questo punto occorre fare un’ulteriore considerazione: se la costruzione delle identità individuali e collettive necessita di un processo di interazione sociale, allora l’abituale distinzione tra tre diverse tipologie identitarie (sociale, personale e collettiva) appare superflua; il concetto di identità applicabile ai singoli individui e ai gruppi è il medesimo e il processo della sua costruzione è, in entrambi i casi, di tipo sociale dal momento che richiede un’interazione (che talvolta può implicare elementi conflittuali) con altri soggetti di varia natura (individui, istituzioni, organizzazioni) gli effetti della quale dipendono dal contesto all’interno del quale tale interazione si sviluppa. Di conseguenza, Sciolla osserva che se l’eteroidentificazione è, dunque, fondamentale per la costruzione del sé nell’individuo -in quanto egli riesce a definire la propria struttura identitaria attraverso i riconoscimenti plurimi che la molteplicità di affiliazioni di riferimento gli rimanda – occorre precisare che laddove tali affiliazioni risultino essere sfere concentriche, attorno all’individuo, che non si intersecano e che prevedono le medesime variabili di integrazione, la loro molteplicità non genera traumi per il soggetto in quanto egli riesce a migrare tra una sfera e l’altra (ad esempio da quella familiare a quella lavorativa) senza particolari problemi; laddove, al contrario, le diverse affiliazioni richiedono lealtà differenti (ad esempio alla famiglia, alla religione, al luogo di lavoro), l’individuo può subire un effetto di spiazzamento nel momento della scelta, poiché egli si sente costretto ad attribuire un carattere prioritario ad una sola delle categorie tra quelle che per lui hanno un’identica rilevanza. Un esempio di tale situazione può essere ben rappresentato dal dilemma che si pone frequentemente alle donne nella scelta tra carriera professionale e ruolo genitoriale. Nell’agire, inoltre, l’individuo è spinto anche da preferenze ed aspettative di carattere discrezionale; ciò rende ipotizzabile che le scelte motivate dall’utilità e dalla convenienza convivano sia con l’agire “automatico” con il quale si vive una buona parte della routine, sia con varie classi di scelte, e di azioni conseguenti, maggiormente connesse con la struttura valoriale del soggetto. Si tratta di quelle che Sciolla definisce come scelte cruciali, azioni, cioè, nelle quali l’identità del soggetto si attiva, contrariamente a quanto accade nelle scelte routinarie nelle quali, generalmente, l’individuo agisce sulla base del calcolo o dell’abitudine. Scelte che contrappongono diverse visioni del bene, dell’etica, della cultura e diventano cruciali nel momento in cui un individuo o un gruppo arrivano a percepirle come decisive. Le scelte cruciali sono azioni che non hanno a che fare con la sfera delle preferenze, con il cosa si vuole, quanto piuttosto con il tipo di persona che si è sulla base della coerenza rispetto sia all’autoriconoscimento sia al riconoscimento determinato da un’alterità che per l’individuo risulti significativa; al centro, dunque, non si pone un’identità fondata sulla mera intenzionalità dell’azione quanto piuttosto sulle sue caratteristiche culturali e temporali connesse, cioè, con l’esperienza e con la continuità dell’insieme di scelte del passato e la moltitudine di esperienze del presente. Nell’attuale società, la richiesta del riconoscimento di un’identità da parte di singoli soggetti e/o di gruppi non sorprende, così come è piuttosto familiare l’idea che, laddove tale riconoscimento non venga garantito, l’individuo viva tale condizione non solo nei termini di un dramma personale ma anche in quelli di una vera e propria ingiustizia sociale contro la quale lottare. L’identità è una “scoperta” dell’epoca moderna, nonostante sia sempre esistita, che ha cominciato a richiedere attenzione nel momento in cui le trasformazioni socio-economiche l’hanno resa problematica. In epoche pre-moderne, l’individuo era identificato sulla base di un unico criterio di riconoscimento, dato per scontato: il suo status sociale. Ciò rendeva la sua identità stabile e statica e costituiva un aspetto oggettivo “unidimensionale”, che egli condivideva con sé e con gli altri. Egli poteva essere schiavo, o cavaliere, o contadino ma la sua identificazione avveniva solo sulla base di tale posizione, pur egli muovendosi tra sfere diverse del quotidiano: l’essere anche padre, marito o attento alla natura non costituivano dimensioni identitarie rilevanti, né per se stesso né per gli altri, ai fini del suo riconoscimento. Nella società attuale, al contrario, l’individuo si attiva per ottenere una serie di riconoscimenti - nessuno dei quali sembra essere dato per scontato - e vuole certamente essere riconosciuto come membro di questo o quel gruppo ma vuole anche essere identificato in una precisa persona, con le proprie specificità e le proprie diversità. L’identità, in tal senso, non può né essere ridotta all’oggettività di coordinate sociali né alla soggettività di un’essenza interiore che matura in totale isolamento. Le conclusioni alle quali Sciolla ci conduce possono essere meglio comprese se si analizza brevemente, anche storicamente, il rapporto tra i processi di modernizzazione e le trasformazioni dell’identità. La prima fase di tale processo, la fase “moderna”, inizia nel 1700 e culmina nell’affermazione della società industriale; la seconda fase, ancora in corso, comprende, invece, le trasformazioni sociali avvenute in seguito alle dinamiche dei fenomeni della globalizzazione e della conseguente affermazione della società post-industriale. Il passaggio dalla società pre-moderna alla società industriale comporta una profonda trasformazione nel rapporto tra individuo e società. I fattori principali alla base dell’individualizzazione, nei rapporti sociali dell’era moderna, possono essere rinvenuti nel progressivo intensificarsi della divisione sociale del lavoro; nell’emersione di maggiori fragilità nei legami tradizionali all’interno della comunità e delle parentele; nell’aumento graduale della possibilità di fruire di nuovi mezzi di comunicazione e di trasporto; nella nascita di nuovi gruppi sociali, l’affiliazione ai quali non richiede alcun carattere di ereditarietà; nella formazione di Stati nazionali che definiscono i confini socio-culturali delle popolazioni. Si tratta di fattori che contribuiscono ad accentuare “l’identità-Io” e che svincolano l’individuo dalle tradizionali unità sociali – quali i clan o le tribù – che rappresentano, agli occhi del soggetto, “le identità-Noi”, legami che, pur garantendogli protezione, lo avevano tenuto prigioniero, per via ereditaria, in maniera pressoché definitiva. La differenziazione sociale rappresenta la nascita e l’affermarsi di nuovi gruppi e categorie all’interno della società che, tuttavia, non sono più gerarchicamente ordinati, come nelle società premoderne, ma si intersecano tra loro rendendo meno automatiche le dinamiche di migrazione di tipo ereditario da una sfera all’altra del quotidiano (l’eredità di un posto di lavoro tra padre e figlio ad esempio). E’ così che l’individuo riesce a diversificare il proprio agire, a muoversi tra vari e differenti gruppi ai quali chiede riconoscimento, senza temere eventuali ritorsioni qualora decida di abbandonarne uno per affiliarsi ad un altro. E l’unicità dell’individuo moderno va letta proprio nell’ottica di un soggetto la cui molteplicità di cerchie di riferimento e di riconoscimento, di varia natura e dimensione, costituisce la sua univocità, l’essere quella determinata persona e nessun altro. Inoltre, al di sopra di tutte le possibili cerchie di riconoscimento dell’individuo, si colloca la sua ben più ampia dimensione statuale della cittadinanza che non solo compensa la perdita del senso di appartenenza ad unità territoriali pre-moderne ma garantisce spazi decisionali più ampi e maggiore libertà personale. Con la nascita dello Stato, infatti, si impone una struttura di regole identiche per tutti e si considera ogni individuo in quanto tale e non in relazione ad eventuali eredità; così facendo, la nascita dello Stato facilita il progressivo affermarsi dell’individualizzazione di massa. L’identità è, dunque, una “scoperta” moderna nel senso che è la modernità ad offrire all’individuo rilevanza sociale sulla base di proprie caratteristiche di unicità che l’individuo rafforza attraverso l’interazione con gli altri e che sono alla base del concetto di identità per come lo intendiamo oggi. Un ulteriore depotenziamento dei legami tradizionali e la crescente possibilità di accesso ad un numero sempre maggiore di gruppi e cerchie sociali segnano anche l’avvio della seconda fase del processo di individualizzazione con l’affermazione della società post-industriale e delle dinamiche della globalizzazione. Intorno alla fine degli ’70, tuttavia, nel momento in cui la fede e la militanza politica e l’identificazione nei partiti cominciano a venir meno, la partecipazione attiva alla società civile si attua anche attraverso impegni informali e legami deboli che spesso si trovano a convivere, nello stesso individuo, con l’adesione ad organizzazioni formali di varia natura quali, ad esempio, associazioni di volontariato e di non profit. La presenza di individualismi emergenti in forma de-istituzionalizzata rivela che esiste una società viva e pulsante, anche se non si tratta più di una mera comunità territorialmente circoscritta coincidente con lo Stato nazionale. I fenomeni globalizzanti ne hanno ampliato i confini impattando sui sistemi locali che ora si confrontano continuamente con dimensioni più ampie; la glocalizzazione, quel rapporto incessante e imprescindibile tra globale e locale, scatena dinamiche relazionali sempre nuove che generano spesso forme di ibridazione socio-culturale per le quali una società non rimane mai la stessa ma cambia volto e carattere alla velocità dei mezzi di comunicazione e di trasporto. In tale contesto, se da un lato la globalizzazione sembra disintegrare i legami tradizionali, dall’altro essa facilita la formazione di identità collettive in grado di diffondere istanze, valori e principi che sembrano trascurati istituzionalmente. In considerazione dei cambiamenti intervenuti nella società, ai quali si è fatto cenno nei paragrafi precedenti, è facilmente intuibile come tali cambiamenti abbiano prodotto un progressivo modificarsi delle regole, dei valori e dei rapporti tra i vari attori protagonisti dei processi di socializzazione, costringendo l’individuo a trovare meccanismi di adattamento alla complessità che gli permettano di continuare a destreggiarsi tra le diverse dimensioni della sua identità. In questa sede, appare di ampia rilevanza analizzare i cambiamenti avvenuti nella sfera del lavoro dal momento che l’identità professionale non solo sembra essere l’elemento principale per delineare le coordinate personali e sociali di un individuo ma anche perché la dimensione del lavoro è spesso posta in termini più o meno oppositivi rispetto alla dimensione del tempo libero e, con essa, costituisce una sorta di distico concettuale negli studi del leisure. In considerazione dei grandi cambiamenti avvenuti durante il secolo del lavoro è facilmente intuibile come il passaggio dalla società moderna alla postmodernità, da una società solidamente fondata sull’industria ad una società “liquidamente” strutturata sul terziario, abbia prodotto significative trasformazioni nel rapporto individuo-lavoro. “Alla fine del ‘900, l’Italia delle fabbriche non esisteva più” e, con essa, a fasi alterne, scompare e riappare la glorificazione del lavoro come sorgente di qualsiasi valore in quanto espressione dell’essenza dell’uomo, fattore determinante e insostituibile ai fini del percorso di socializzazione dell’identità individuale e collettiva e fonte di autonomia economica. Scompare la realtà di un mondo ordinato e rigidamente controllato, all’interno del quale libertà individuale e felicità vengono sacrificate in favore della sicurezza e relegate al ruolo di apparente e mera convenienza da parte di individui che si lasciano addomesticare, che obbediscono e che seguono routine prestabilite creando i presupposti della definitiva cesura tra controllori e controllati e alimentando l’estrema regolarità, la monotonia, la prevedibilità. All’interno di questo mondo tutto è funzionale alla preservazione di una società ordinata e organizzata sulla base di pianificazioni dettate dalle classi dominanti che a lungo detengono nelle proprie mani il destino del mondo e, con esso, il potere di delineare e circoscrivere la gamma di alternative entro cui confinare le traiettorie della vita umana. Il modello che legittima una siffatta impalcatura sociale è il mondo taylor-fordista, paradigma industriale che fa’ dell’organizzazione scientifica delle attività il perno dell’intero sistema di produzione di stampo capitalistico, basato sulla divisione sociale del lavoro, sull’alienante ritmo delle macchine (che determina la scansione temporale di ciascuna attività ma priva il lavoratore di qualsiasi istinto creativo), sulla concentrazione di una sterminata forza-lavoro all’interno delle uniche strutture deputate alla produzione: le fabbriche. La disumanizzazione del lavoro è proporzionale alla costante introduzione di nuove macchine e il lavoratore, privato di quella dignità e di quella autonomia che aveva caratterizzato i mestieri delle società precapitalistiche e non cogliendo più il senso delle proprie mansioni, arriva ad assumere un atteggiamento di profonda indifferenza nei confronti del lavoro, attività concepita non più come fine ma funzionale al soddisfacimento dei bisogni, anche quelli più elementari, attraverso il salario. La fabbrica fordista, così meticolosamente centrata sulla separazione tra pianificazione e produzione, tra autorità decisionale ed esecuzione degli ordini, tra autonomia e sudditanza, costituisce un esempio di ingegneria sociale senza precedenti, emblema di una solidità e di un ordine che per alcuni, gli imprenditori, equivale al consolidamento del rapporto tra capitale, management e lavoro mentre per altri, i lavoratori, equivale alla scissione nel rapporto personalavoro-vita. E’ a partire dal momento in cui il lavoro viene regolamentato, attraverso la contrattazione collettiva, che esso assume i connotati di diritto del secolo e la fabbrica diventa matrigna e madre: all’alienazione prodotta da una quotidianità routinaria fanno da contraltare la sicurezza di un salario e di una pensione di vecchiaia; la certezza di un percorso lavorativo che, nella maggior parte dei casi, dura una vita intera; la garanzia di occupare un legittimo posto nella società e, soprattutto, i primi tentativi di agire sulla riduzione dell’orario di lavoro per concedere al lavoratore spazi di libertà extralavorativi necessari all’individuo per rendersi autonomo e per conseguire l’apparente conquista di un tempo liberato dalle fatiche del lavoro, sotto l’impulso di organizzazioni dopolavoriste. Rojek evidenzia come il sistema di tutele possa essere interpretato come un meccanismo riproduttivo della forza lavoro, nel senso che i benefici offerti dal welfare non costituiscono necessariamente la prova di un’innata lealtà del sistema capitalistico; al contrario, dal momento che l’intero sistema necessita di una continua rigenerazione della forza lavoro, esso è, in qualche modo, obbligato ad offrire servizi pubblici affinché i lavoratori siano nutriti, alloggiati, educati e persino intrattenuti. Esso deve anche assicurarsi che i lavoratori restino in vita durante i periodi di recessione, in modo tale che essi possano essere re-impiegati nei momenti in cui l’economia riparte. In questa prospettiva, i servizi del welfare diventano un espediente per garantire la disponibilità di una forza lavoro sana e utile e di consumatori disciplinati. Le attività ricreative che nascono all’interno di questo persistente sistema di controllo della vita pubblica e privata dei lavoratori vanno dalla costruzione di gallerie d’arte nei quartieri di residenza dei lavoratori, dove i meno abbienti sono stimolati a recarsi per allargare i propri orizzonti morali, all’istituzione di corsi ginnici e di attività sportive, dal momento che ai lavoratori si insegna che un corpo sano produce una mente sana; dalla creazione di parchi veri polmoni delle città dove i lavoratori sono incitati a passeggiare il sabato, all’istituzione dello scoutismo e di altre organizzazioni giovanili per domare la sregolatezza degli adolescenti delle città operaie. In termini di identità individuale e collettiva, la standardizzazione delle esperienze lavorative e di tempo libero delinea ciò che Marcuse definisce in seguito società ad una dimensione, all’interno della quale l’industria culturale inserisce le più svariate, ma irrigimentate, forme di espressione artistica e dove il piacere è messo sullo stesso piano della cultura del divertimento, delle attività a pagamento e della distrazione, con lo scopo di illudere i lavoratori di vivere attimi di libertà, mentre consumano forme di intrattenimento tacitamente codificate, sulla base di messaggi subliminali di carattere fortemente patriottico e conservatore Il lavoro, in ogni caso, viene caricato di un’area positiva: il lavoratore, a fronte dei benefici ottenuti dalla propria attività, “giura” fedeltà all’azienda, si sente parte del processo produttivo; il profondo senso di appartenenza all’impresa che egli matura sembra dare significato alla sua intera esistenza poiché stimola di continuo la creazione di legami di fiducia e di lealtà nei confronti degli altri che legittimano il suo status di essere sociale. Ma il mondo sta nuovamente cambiando e, con esso, stanno per cambiare i valori e i codici di comportamento da tutti condivisi: i movimenti di protesta giovanile del ’68 prima, e la crisi economica degli anni ’70 poi, contribuiscono ad affermare la centralità dell’individuo che, in quanto essere sociale, ha diritto ad una maggiore libertà di scelta, di espressione e di azione. Si rivendicano la flessibilità oraria dell’attività lavorativa al posto del rigido modello taylorista, l’originalità del prodotto rispetto all’omologazione produttiva di stampo fordista, la possibilità di lavorare per sé e di soddisfare i bisogni e i piaceri individuali in sostituzione del lavorare per gli altri, mentre compaiono i primi effetti di una globalizzazione economica che spinge le grandi aziende a delocalizzare la produzione, depauperando interi territori della loro originaria capacità produttiva e depotenziando l’identità dei distretti industriali. La nuova parola d’ordine è flessibilità, in ogni sua accezione: è flessibile il grado di libertà con il quale l’imprenditore, sulla base dell’andamento produttivo, decide di variare le retribuzioni o di sfruttare abilmente il ricorso a forme atipiche di contrattazione che escludono posizioni lavorative stabili; flessibile è anche l’autorità esercitata sul lavoratore nel momento in cui gli viene imposto di cambiare postazione, non necessariamente formandolo adeguatamente, mortificando le competenze già acquisite; flessibile diviene il lavoratore stesso, che diventa polivalente nel tentativo di colmare le incertezze della sua condizione lavorativa. La flessibilità richiesta ai lavoratori attualmente consiste nell’accettare la variabilità e di concepirla come normale; normalità che passa attraverso l’acquisizione e la gestione costante delle più disparate informazioni, attraverso la capacità di risoluzione immediata dei problemi e di lavorare in team, anche da postazioni remote, mobili o fisse che esse siano, con la consapevolezza che, parafrasando Guy Aznar, il lavoro per tutti a tempo pieno e per tutta la vita non esiste più. Il passaggio dalla modernità alla postmodernità può essere decritto anche attraverso alcune metafore di consumo che vedono nella postmodernità l’apice di un processo di standardizzazione estrema della società e che risultano particolarmente utili per delineare il quadro di modalità di consumo del tempo libero contemporaneo: alla già nota teoria della McDonaldizzazione proposta da Ritzer nel 1993, si affiancano la metafora dell’IKEAizzazione del leisure di Blackshaw (2010) e la più recente Appleizzazione proposta da Lo Verde, nel 2012. La teoria della McDonaldizzazione intende evidenziare il processo attraverso il quale i principi dell’organizzazione razionale del lavoro si riflettono nell’organizzazione razionale dei consumi, sulla base di un patto che l’azienda stabilisce con il cliente e fondato su alcune dimensioni essenziali costituite da; efficienza economica e temporale nel raggiungimento degli obiettivi; calcolabilità di qualsiasi tipo di quantità (dagli ingredienti da inserire nel prodotto, al tempo necessario per produrlo, al tempo di permanenza concesso alla clientela); prevedibilità del prodotto che risulta pressoché identico in qualsiasi parte del mondo; controllo sia dell’operato dei dipendenti attraverso timer operativi, sia del cliente al quale non è permesso esigere varianti del prodotto; irrazionalità del razionale consistente in una sorta di tradimento del patto attraverso l’eliminazione di qualsiasi elemento che possa gratificare il dipendente o il cliente stesso. La metafora della McDonaldizzazione è, secondo Blackshaw, applicabile a molte attività di consumo di leisure, ad elevata standardizzazione, tra le quali l’attività di shopping nei centri commerciali asserendo che l’esperienza di acquisto in essi fornita, basata sulla prevedibilità, sull’uniformità e sulla standardizzazione, sia paragonabile alla “catena di montaggio” fordista; i meccanismi che regolano l’organizzazione all’interno dei parchi tematici fondati sul controllo e sul monitoraggio dei consumi di spazi e tempi dedicati al leisure, attraverso l’impiego di sistemi di attesa in fila - che non differiscono dal meccanicismo del nastro trasportatore – l’efficienza dei quali consiste nello scongiurare eventuali vagabondaggi solitari da parte dei visitatori; le modalità di programmazione dei palinsesti televisivi, sempre più dettate da esigenze di audience, che evidenziano la predominanza dei criteri di calcolabilità e quantità su quelli qualitativi. Blackshaw evidenzia alcune criticità specifiche della teoria sostenendo che Ritzer non abbia indagato in profondità le connessioni esistenti tra i cambiamenti avvenuti nelle condizioni di vita dell’individuo postmoderno e la sua necessità di evasione da tutto ciò che è incerto. Dalla metafora, l’individuo sembra uscire privato della capacità di cercare e trovare valide alternative ai disumanizzanti effetti, irrazionali quanto anti-sociali, generati dal processo di standardizzazione alla McDonald’s. Ai fini del presente lavoro va sottolineato il fatto che tale capacità, al contrario, emerge in svariati modi e attraverso le più differenti pratiche di fruizione del leisure che sempre più spesso generano la nascita di identità collettive che, seppur nate all’esterno della sfera del tempo libero e da motivazioni non necessariamente di leisure (es. “orti urbani”), arrivano a coinvolgere il tempo extra-lavorativo di coloro i quali si identificano in esse. Come afferma Blackshaw, ciò che diventa significativo nelle tendenze di questo tipo, è il modo in cui i soggetti coinvolti creano, attraverso i propri interessi di leisure, nuove sinergie che portano sia il peso e sia il significato di cultura e che appaiono assai distanti dai processi di razionalizzazione imposti dai giganti del mercato globale. In opposizione alla McDonaldizzazione, Blackshaw stesso propone una propria metafora di consumo di leisure che ruota attorno al celebre brand IKEA e che, secondo l’autore, riflette la reale esperienza di consumo dell’individuo postmoderno. La politica di IKEA ruota attorno al significato di home, nel tentativo di garantire al consumatore quella continuità, quel calore, quel comfort e quella sicurezza che la modernità liquida sembra non essere in grado di garantire. Il principio è quello di comunicare l’idea del sentirsi a casa nel mondo dal momento che la casa resta il luogo più importante e il “fare del mondo una casa” di IKEA, in questo senso, contribuisce alla vita sociale poiché, in esso, gli individui possono trovare una soluzione già pronta al problema posto dalla distruttiva percezione di essere soli. L’azienda sembra ben sapere che nel mondo liquido non esiste nulla di permanente e che persino la concretezza di una casa non ha nulla di duraturo. Questo, secondo Blackshaw, spiega perché i sogni ikeaizzati – proprio come molti degli arredi basici di IKEA – diventano automaticamente obsoleti e non vengano mai progettati in una prospettiva di longevità: la loro forza sta nel trasmettere magia per un breve momento. Il processo di IKEAizzazione del leisure permetterebbe all’individuo di “sentirsi ovunque a casa”, anche nei luoghi dove trascorre le proprie vacanze o svolge esercizio fisico; i contesti del leisure diventano tutti, simbolicamente parlando, rappresentazione di infinite partite a carte con gli amici, espressione di una socialità espressa attraverso la creazione di una comunità intorno a specifici simboli (la squadra di calcio, il villaggio-vacanza, l’associazione culturale): i processi di individualizzazione hanno reso l’individuo talmente indipendente da poter vivere ovunque e, inoltre, qualsiasi contesto che gli permetta di soddisfare le proprie esigenze di leisure diventa potenzialmente home. Tutto ciò, in un’azienda neat capitalist, avviene sulla base del principio di alta democraticità: chiunque può arredare la propria casa grazie a IKEA anche se, in realtà, si tratta di una particolare declinazione dell’idea di democrazia, tipicamente postmoderna, fondata sulla logica populista del gusto che cela l’assai poco democratica possibilità di selezionare e legittimare criteri del gusto diversi da quelli imposti socialmente. Così come IKEA apre “democraticamente” le porte delle sue filiali a tutti, allo stesso modo le varie tipologie di leisure contemporaneo (ciascuna delle quali una volta risultava ad esclusivo appannaggio di categorie specifiche di fruitori) si rendono accessibili ad utenze sempre più numerose e diversificate: il posizionamento dello status sociale individuale non sembra più essere determinato in funzione di una gerarchia di classi, quanto piuttosto di un atteggiamento più o meno “cool” adottato nelle scelte di leisure. Alla standardizzazione prevedibile e calcolabile del capitalismo alla McDonald’s, l’IKEAizzazione di Blackshaw oppone incalcolabilità e imprevedibilità dell’offerta. L’azienda offre soluzioni di arredo modulabili a seconda delle esigenze dell’acquirente, dando origine ad innumerevoli combinazioni connotate da qualità, diversità ed innovazione dello stile ad un prezzo decisamente competitivo. Nel leisure contemporaneo, tali connotazioni sono ravvisabili in tipologie di offerta sempre meno standardizzate e sempre più componibili evidenziando come i sistemi produttivi di neat capitalism del leisure siano fortemente interessati a “individualizzare” il servizio erogato. Un punto di forza della politica aziendale è che IKEA riesce a mantenere una “allure” provinciale nonostante si tratti di un fenomeno di livello globale; se, apparentemente, potrebbe essere considerato un valido esempio per spiegare il concetto di “glocalizzazione”, in realtà, l’IKEAizzazione strumentalizza l’assenza di qualsiasi tipo di interferenza statunitense per rendere la sua immagine maggiormente appealing. Al contrario di quanto accade in McDonald’s clienti e dipendenti sono considerati parte integrante della “famiglia IKEA” generando un forte senso di appartenenza continuamente alimentato anche attraverso l’antropomorfizzazione dei prodotti, ai quali viene attribuito un nome in lingua svedese che carica l’articolo di un fascino particolare poiché crea un distinguo rispetto “all’americanità”. Agli occhi del cliente, la soddisfazione ottenuta da un re-styling della propria casa grazie ad IKEA non è qualcosa che si possa comprare; essa merita fatica e va guadagnata. Egli sa che il successo dell’azienda è in gran parte dovuto alla competitiva politica dei prezzi e, in questo senso, egli è consapevole della strategicità del suo ruolo di acquirente nel permettere al sistema di funzionare; si crea così, tra consumatore e casa madre, un patto differente, rispetto a quello esistente tra utenza e McDonald’s, che si fonda sul reciproco sostegno: a fronte dell’ospitalità familiare e di un vantaggiosissimo rapporto qualità/prezzo, il cliente garantisce l’impegno di imparare diligentemente a selezionare gli articoli, provvedere al loro trasporto e montarli in maniera autonoma. La strategia di IKEA, infatti, è pensata anche in maniera tale da provvedere a soddisfare, “crucialmente”, le esigenze dei consumatori che cercano stimoli più forti rispetto al “già confezionato”; il cliente sa che deve fare i conti con un auto-montaggio talvolta un po’ complicato ma il messaggio che la “famiglia” trasmette è chiaro e rassicurante: “con un piccolo sforzo, tu ce la puoi fare!”. Seguendo le riflessioni di Blackshaw, è attraverso modalità di questo tipo che il processo di IKEAizzazione enfatizza l’idea dell’essere “cool”, di quel particolare modo - tanto tranquillo quanto irritante - di stare al mondo in una indefinita posizione intermedia tra due estremi, talvolta più vicina ad un polo, talaltra più orientata verso l’altro; un “comodo” atteggiamento, quella della coolness, che permette di prendere le cose né troppo sul serio né troppo alla leggera. La coolness, in questi termini, trova terreno fertile in una società, fondata sul concetto di performance, all’interno della quale il rispetto per se stessi deve essere espresso attraverso modalità accuratamente bilanciate tra apparenza e contegno. Il culto dell’apparenza cool, come lo definisce Blackshaw, caratterizza anche le pratiche di leisure postmoderno sperimentate da consumatori alla continua ricerca di “manuali di vita” che indichino loro quale siano le destinazioni, il modo di vita, gli atteggiamenti, la musica, i negozi, i ristoranti ecc. maggiormente cool. Il cool leisure così, pur nella difficoltà di poterne delineare una definizione sufficientemente esaustiva, assume i tratti di un’esperienza temporanea e irripetibile, che oggi è cool ma domani potrebbe già non esserlo più data la sua essenza effimera e ciò suggerisce che parlare di cool leisure non significa riferirsi ad una tipologia di leisure particolare, quanto piuttosto ad una “vision”, ad una modalità di fruizione del tempo libero basate su criteri di scelta di attività in cerca di legittimazione sociale e in grado di rendere riconoscibile il soggetto cool che le sperimenta. E’ così che l’introduzione di aspetti anche molto contrastanti tra loro nel leisure postmoderno non sorprende più, né sorprende la graduale opacizzazione dei confini tra ciò che è leisure e ciò che non lo è. Ciò spiega, secondo Blackshaw e Lo Verde, la costante diffusione dell’edgework nelle pratiche di leisure, ossia di attività che permettano di giocare con il limite, dispiegando la propria creatività fino al limite massimo tra lecito e illecito, tra vita e morte, tra lucidità e incoscienza e che sembrano maggiormente richiamare le esperienze di flusso analizzate da Csikszentmihalyi e le forme devianti del leisure studiate da Rojek. Fabio Massimo Lo Verde, pur riconoscendo una potente efficacia descrittiva alla metafora dell’IKEAizzazione, sostiene che l’analisi di Blackshaw trascura lo spazio di scelta individuale all’interno del quale un soggetto compie le proprie “scelte cruciali”. E’ per questo che egli propone una terza metafora che chiama direttamente in causa le nuove tecnologie di comunicazione, descrivendo l’appleizzazione del leisure time. Il posizionamento su un mercato di nicchia di Apple confermerebbe, secondo Lo Verde, la coolness del brand Apple, tesa a ribadire una condizione di non accessibilità a tutti ma esclusivamente ad un’utenza connotata da un livello culturale mediamente più alto. Si tratta di un’utenza capace di muoversi con disinvoltura all’interno dell’innovazione, stabilendo con le strumentazioni tecnologiche una relazione di interazione; un’utenza per la quale la flessibilità è uno strumento di self-empowerment. Con l’acquisto di un prodotto Apple, il consumatore legittima la propria appartenenza ad una comunità esclusiva, continuamente alimentata da una vision aziendale che, al contrario di quanto accade in IKEA, trasmette ai suoi adepti l’idea di potersi distinguere dagli altri sulla base delle proprie competenze e della personale capacità di selezionare i frames più efficaci per una corretta interpretazione della realtà. Traslando tali considerazioni al leisure, Lo Verde sembra suggerire che l’accesso - o meno – a specifiche pratiche di leisure non avvenga sulla base di variabili di tipo economico, quanto piuttosto della presenza - o meno – di barriere e vincoli di carattere sociale, culturale e cognitivo. In assenza di tali vincoli, la decisione di accedere ad una pratica sembrerebbe costituire una “scelta cruciale”. Il leisure, in questo senso, ben lungi dal rappresentare il mero derivato di una scelta routinaria basata sul calcolo, sulle preferenze o sull’abitudine, diventa un’ennesima dimensione dell’identità, un’ulteriore funzione che non esclude le altre e che diventa significativa nel momento in cui assurge a costituire una vision, una nuova modalità di osservazione, registrazione, interpretazione della realtà che deve essere potenziata, cioè nutrita costantemente grazie alla selezione delle informazioni utili da condividere all’interno della “comunità” prescelta. La presenza di un linguaggio codificato all’interno della Apple Community permette ai suoi membri di riconoscersi tra loro e di condividere una stessa vision di esclusività optando per attività conosciute solo da pochi e che richiedono una grande capacità di selezione delle fonti, delle informazioni e dei frames. Lo Verde sottolinea che anche nel cool leisure tale capacità è necessaria a selezionare luoghi, pratiche e contesti ed è prerogativa solo di chi condivide la vision del cool leisure, cioè chi lo pratica. Secondo l’autore, occorre tener presente che così come l’utente Apple è gratificato più dalla personale capacità “combinatoria” dei diversi strumenti tecnologici che ha a disposizione che non dalla riproduzione in sé dei files di cui la sua “libreria multimediale”, allo stesso modo un individuo seleziona ed organizza la propria unica e personale libreria di pratiche di leisure non sulla base dell’emotività del ricordo che esse suscitano, quanto piuttosto sulla base della coerenza con le quali le ha selezionate e combinate ai fini del proprio progetto di vita. La strategia delle aziende riconducibili al neat capitalism, soprattutto se operanti nel settore dell’innovazione tecnologica, fa leva sul continuo “stupore” attraverso l’introduzione sul mercato di dispositivi, applicazioni e aggiornamenti di versioni precedenti sempre nuovi; uno stupore, tuttavia, di tipo “regolabile” in quanto tali dispositivi coniugano egregiamente funzionalità e facilità d’uso. L’utente appleizzato, così, si lascia accompagnare dall’azienda in un “processo di socializzazione informatica” alla fine del quale, l’utente ha la percezione che, in cambio della sua fedeltà, l’azienda gli offre qualcosa di cui egli non sapeva neanche di aver bisogno. All’iniziale smarrimento, provocato dalla sensazione di non avere abbastanza conoscenze rispetto al nuovo strumento tecnologico, subentra l’eccitazione data dalla possibilità di apportare un up-grade alla propria dotazione di competenze che, una volta acquisite, generano una forte emozione di stupore di fronte a tutte le possibilità che il nuove dispositivo gli offre. Nella scelta del leisure, l’individuo postmoderno carica le pratiche in grado di stupirlo di un elevato grado di significatività: è infatti da questo tipo di esperienze che egli si sente maggiormente gratificato emotivamente anche se, al pari del consumatore appleizzato, egli deve essere inizialmente sostenuto nel processo di socializzazione allo stupore al termine del quale egli è, a tutti gli effetti, un cliente fidelizzato. Nella società postmoderna, la sfera emozionale è fondamentale sia per quanto riguarda i comportamenti di acquisto sia la predisposizione dell’offerta. Il valore che un acquirente attribuisce alle singole esperienze di consumo sono strettamente connesse con la capacità di coinvolgimento emotivo che ciascuna esperienza è in grado di stimolare. E’ per questo che sul mercato compaiono, sempre più di frequente, prodotti che coinvolgono contemporaneamente quanti più sensi è possibile, così come l’offerta di leisure è sempre più orientata verso esperienze ad alto grado di sollecitazione sensoriale multipla (odori, colori, suoni). Un’altra caratteristica della postmodernità è quella di concepire il tempo in maniera policronica e più attività possono essere svolte contemporaneamente, senza necessariamente attribuire a ciascuna di esse una qualche priorità. L’utente Apple, ad esempio, può attivare tutte le funzioni del suo desk nello stesso momento mentre le sue competenze di multitasking gli permettono di completarle senza interruzioni. Applicando tale considerazione al tempo libero, Lo Verde intende sottolineare non solo che le pratiche e le modalità di leisure esperibili in uno stesso momento si siano moltiplicate ma anche che tale fenomeno ha riguardato i contesti della loro fruizione; un individuo, infatti, oggi è nelle condizioni di poter praticare un’attività di leisure anche prima o dopo o persino durante il suo tempo di lavoro; le variabili alla base delle diverse possibilità non sono più connesse con un rigido sistema monocronico del tempo per il quale si può svolgere un’attività solo dopo averne conclusa un’altra. Nel corso di questo lavoro si è avuto modo di dimostrare quanto il significato attribuito al leisure sia cambiato con l’avvento della modernità liquida e come la sua funzione, un tempo sussidiaria e compensatoria, si sia trasformata in una potenziale facoltà dell’individuo per interpretare la realtà. Un effetto interessante di questo cambiamento è dato dal fatto che, a fronte di processi di frammentazione e individualizzazione, si assiste, in maniera crescente, a diffusi e diversi fenomeni di aggregazione che costituiscono un nuovo scenario di processi culturali che si stanno dimostrando in grado di modificare atteggiamenti, abitudini e valori. In tali contesti, infatti, si attivano dinamiche di aggregazione spontanea, tra soggetti che non sono solo portatori di bisogni ma anche di competenze, capacità, saperi ed emozioni che essi sono disposti a mettere in circolo, al servizio di se stessi e della comunità. Si tratta, in definitiva, di gruppi di individui che decidono di tornare al centro della scena, ciascuno con il proprio bagaglio culturale, ma attraverso modalità collettive, con un elevato desiderio di condivisione; ciascuno con la voglia di riappropriarsi di spazi e tempi di cui non si sente più titolare e che trova negli altri un valido sostegno per cercare modalità di sviluppo più sane, moralmente più gratificanti e meno dipendenti dalle logiche di consumo, con uno sguardo attento al contributo che insieme possono apportare, alla collettività, in termini di solidarietà, di sostenibilità e di responsabilità. Un modello utile a rappresentare questa transizione - che non solo conferma l’ipotesi che esistono modalità di fruizione del tempo libero che non richiedono esborsi in denaro ma anche che il valore del tempo ad esse dedicato costituisce un indubbio veicolo di potenziamento dell’identità – è quello della Banca del Tempo (BdT) e delle molteplici implicazioni socio-culturali ad esso sottese dal momento che, in esso, i concetti di dono, reciprocità, scambio, fiducia, tempo e assenza di denaro si interconnettono creando una convivenza costruttiva tra elementi non sempre associabili nella vita quotidiana. Gli individui non scambiano tra loro solo merci, beni, servizi o saperi; essi possono scambiarsi anche tempo. La novità consiste nel fatto che, alla base di tali scambi, all’interno di una BdT, non vi sia alcuna operazione in denaro. Una Banca del Tempo, dunque, costituisce un luogo di interazione sociale dove lo scambio di tempo, in realtà, mira a qualificare le relazioni umane, a livellare le disparità tra individui e a stimolare la comunicazione intergenerazionale, oltre a produrre la risoluzione di un problema quale beneficio per entrambe le parti. Si tratta di una comunità auto-organizzata, i cui membri condividono il medesimo valore della reciprocità; in essa, si valorizzano le competenze, le abilità, l’esperienza e i saperi di ciascun membro al fine di promuovere il principio della partecipazione attiva all’andamento della comunità. La Banca del Tempo si basa, in definitiva, su nuove modalità di valorizzazione dell’individuo che implicano lo spostamento della centralità dalla dimensione identitaria del lavoro – peraltro, per molti soggetti, attualmente fonte di drammi a causa dell’elevato tasso di disoccupazione – a dimensioni dell’identità maggiormente connesse con tutte le capacità di cui un individuo è titolare, a prescindere dalla sua condizione professionale, e che possono essere messe al servizio della collettività. E’ facilmente intuibile come le dinamiche presenti in una siffatta organizzazione tendano a favorire il potenziamento dell’autostima, dal momento che l’individuo sviluppa un forte senso di appartenenza al gruppo; egli è sollecitato al massimo ad esprimere la propria creatività, poiché non teme il giudizio di soggetti che sono di pari livello. Inoltre, l’adesione ad una BdT fornisce l’opportunità di un miglioramento complessivo della qualità della vita, generato non solo dalla riscoperta di rapporti di buon vicinato, ma anche dalla gratificante percezione di non sprecare tempo e di riuscire piuttosto ad utilizzarlo investendo su di esso. Aderire ad una BdT costituisce l’opportunità di ritagliarsi degli spazi di tempo di vita per investire su una dimensione basata sulla mutualità insieme a soggetti che condividono, tra le altre, la medesima progettualità di azzerare le differenze di qualsiasi tipo. La modalità operativa di una BdT è lo scambio di tempo; il fondamento di tale modalità si basa sul presupposto che, ad esempio, un’ora di tempo scambiato valga un’ora di tempo per qualsiasi tipologia di scambio. Si tratta di una relazione a doppio senso di marcia - e non unidirezionale come nel caso del volontariato – all’interno della quale il criterio di valutazione della prestazione è il tempo erogato. Ciò, dunque, significa che ogni prestazione ha un uguale valore unitario: un’ora vale un’ora sia se si fa assistenza ad una persona anziana, sia se si prepara una torta. Questo determina che i soggetti coinvolti nello scambio, siano perfettamente alla pari, non essendo prevista la crudele discriminante del denaro, al di là della professione che essi svolgono, dell’età, del reddito, dal titolo di studio posseduto ecc. Mettere a disposizione il proprio tempo e la propria esperienza, in cambio di tempo ed esperienza di altri, non è semplicemente un mutuo sostegno ma costituisce un atteggiamento mentale che dà vita ad una nuova accezione di ricchezza. La rete di scambi che si innesca, fondata sul principio dell’interazione, alimenta il coinvolgimento spontaneo dei membri nelle varie fasi della progettazione delle attività; l’insieme di questi momenti di partecipazione è, di fatto, un processo di socializzazione che permette all’individuo di cambiare, di apprendere, di acquisire nuove competenze e di ridefinire alcuni tratti della propria identità. La dimensione morale di una BdT la rende un eccellente contesto di leisure contemporaneo. Il concetto di tempo assume all’interno della BdT un’importanza strategica poiché esso costituisce la principale risorsa disponibile per i membri della BdT la quale, a sua volta, lo legittima come bene strategico nel momento stesso in cui lo sceglie come unità di misura dello scambio. Il tempo messo a disposizione degli scambi è inteso come parte del tempo per sé e per la crescita individuale e non invade le altre sfere temporali del quotidiano: è il soggetto che decide quando e quanto investire. Decidere di aderire ad una BdT significa implicitamente accettare di fare dono di una parte del proprio tempo, delle propria esperienza, dei propri saperi, della propria fiducia. Il dono, nella concezione della BdT, ha la caratteristica di non poter essere soggetto all’incertezza di non essere ricambiato perché, in tal caso si rivelerebbe incoerente rispetto al principio dello “scambio”, destabilizzando l’intero impianto della BdT. Si tratta, dunque, di un dono per il quale il donatore dovrà necessariamente essere ricambiato. Considerata in questi termini, l’ipotesi di un dono inteso come atto gratuito e disinteressato, assai più vicina al senso comune, non è affatto contemplata. Un altro aspetto da considerare è la differenza tra dono effettuato in uno scambio che avviene all’interno di una BdT e il dono che avviene in un’associazione di volontariato. Nel primo caso, il dono ha un effetto duplice: mette in una condizione di credito il donatore ed in una situazione di debito il ricevente, che comunque sarà tenuto a ricambiare; ciò perché scopo della BdT, tra gli altri, è quello di livellare le diseguaglianze ponendo tutti i membri in una condizione paritaria. Nel volontariato, al contrario, il volontario dona a chi non può rendere, né il volontario si aspetta che ciò accada, evidenziando una persistente condizione di superiorità tra chi può dare e chi non può che ricevere. Mentre il dono si basa sul dare, ricevere e rendere, non esiste alcuna regola che definisca i tempi e la consistenza di tale resa e, affinché l’atto del dono si completi, occorre che il circolo sia chiuso. Di conseguenza, se si desidera che i propri rapporti interpersonali continuino ad esistere, pur in presenza di una certa indeterminatezza del rendere, il trasferimento di beni e servizi deve poggiare sulla fiducia. La fiducia è un’aspettativa rassicurante maturata in un clima di incertezza supportata da un bagaglio cognitivo ed emozionale tale da renderla qualcosa di più della mera speranza, una percezione a metà strada tra la mancanza di rassicurazioni emotive e la fede cieca: la totale assenza di rassicurazioni emotive non permette di attivare un atto di fiducia e, in presenza di una fede cieca, ci si troverebbe di fronte ad un contesto così carico di certezze da non richiedere alcun atto di fiducia. La relazione di scambio all’interno delle BdT è assai particolare dal momento che nel corso del processo, che inizia con la donazione e termina con la restituzione, i protagonisti dello scambio possono variare ed è possibile che subentri un terzo soggetto, laddove i protagonisti originari non siano più in condizione di adempiervi. Tale meccanismo prende il nome di sistema di reciprocità indiretta dal momento che la reciprocità non vincola direttamente un partecipante ad un altro ma, indirettamente, ognuno di essi è legato a tutti i membri del sistema. Ciò significa che, nel caso un soggetto esca dalla comunità senza aver “saldato” il suo conto - e, dunque, senza rispettare il patto iniziale – è l’intera comunità che prevede un meccanismo di pareggio affinché il debito lasciato dall’uscente sia distribuito all’interno dell’intero gruppo e non ricada su uno solo dei membri. Ciò che spinge un individuo ad associarsi ad un altro è l’aspettativa che tale tipo di relazione possa gratificarlo. La relazione si instaura, in questo caso, non per costrizione ma per l’aspettativa dei benefici che essa può recare. In tal senso, lo scambio sociale può essere definito come un meccanismo per innescare processi relazionali. In ogni società molti individui tendono, infatti, ad associarsi volontariamente, dando vita a varie tipologie aggregative, sulla base del fatto che la propria gratificazione possa derivare da un costante rapporto con gli altri. La forza della condizione di scambio sociale, presente nella BdT, sta nel fatto che ogni membro della comunità offre liberamente il proprio tempo e le proprie competenze a qualsiasi altro membro, senza aspettarsi di essere da lui ricambiato, in quanto sa che riceverà a sua volta tempo e competenze liberamente offerti da altri soggetti della comunità, verso i quali non si sentirà obbligato a restituire il dono. Ciò suggerisce che la libera offerta di favori tra i membri della comunità sia un comportamento socialmente atteso e, in quanto tale, sia da considerare, a tutti gli effetti, come una norma sociale. Un ultimo aspetto da prendere in considerazione in merito alla logica sottesa alla BdT riguarda la totale assenza del denaro nei rapporti di scambio tra i membri. La BdT non costituisce affatto un sistema alternativo al mercato; essa è altro, nel senso che si tratta di una innovazione sociale, dal momento che il valore di un oggetto o di una specifica prestazione non necessariamente trova una corrispondenza nell’economia quotidiana. Anche il valore d’uso di un oggetto o di una prestazione, all’interno della comunità, è estremamente rilevante dal momento che un oggetto può avere un basso valore per il donatore che ne è proprietario ma acquisire, un valore ben più alto, agli occhi di un ricevente che non lo ha mai posseduto. Nel corso del lavoro, si è arrivati a constatare che il leisure non è un tempo di mero consumo e che le trasformazioni che il concetto ha subìto, nel corso del tempo, sembrano andare di pari passo con lo sfocarsi della centralità del lavoro, un processo ampio e complesso che non riguarda esclusivamente la sfera economica ma anche la dimensione simbolica e la costruzione di identità individuali e collettive. In tal senso, il leisure rappresenta un’ulteriore dimensione dell’identità che, come tutte le altre, viene legittimata socialmente ed è in grado di tracciare confini, di creare connessioni tra presente, passato e futuro e di scegliere quali azioni intraprendere per adattarsi flessibilmente alla realtà. Inteso come dimensione identitaria, ecco che il leisure assume i caratteri di un tempo da investire nel definire obiettivi di vita, nel trasformare eventuali obblighi e vincoli in opportunità di crescita, nell’assumersi le proprie responsabilità nei confronti di se stessi e del mondo, nel cercare di perseguire desideri apparentemente irraggiungibili, nel diventare cittadini attivi. Tutto questo non esclude nessuna delle varie accezioni considerate in precedenza: la postmodernità ha dissolto i confini tra contesti, modalità, forme e contenuti non solo del leisure ma anche del flusso di vita quotidiano, che all’individuo giunge sotto forma di molteplici ambiti di attività tra i quali spostarsi con abilità, in nome di una flessibilità che spesso sembra degenerare in incoerenza ma i cui paradossi, tuttavia, sono tollerati da una benevola “identità a più dimensioni”. Ciò ha disintegrato i confini tra le diverse sfere del quotidiano, permettendo all’individuo di poter scegliere, talvolta persino sovrapporre, significati, tempi e modalità di fruizione del proprio leisure; per taluni, la scelta che egli compie è imposta dal sistema di offerta mentre, per altri, la scelta avviene liberamente. Pensare ad una totale dissociazione tra condizionamenti perpetuati dalle dinamiche di commercializzazione e pratiche di tempo libero è sicuramente ingenuo. Certamente molti aspetti del leisure rimarranno connessi con la dimensione di mercificazione; tuttavia le logiche economiche ad essa sottese difficilmente riusciranno ad ostacolare i fenomeni di economia alternativa provenienti dal basso e in crescente rapida diffusione. In realtà, è l’atteggiamento mentale – in larga misura basato sul corredo valoriale ed esperienziale personale - con il quale l’individuo sceglie ad essere determinante, dal momento che da esso possono dipendere la legittimazione o la delegittimazione di nuove pratiche, nuove opportunità e nuovi significati del tempo libero. Anche il tempo libero sembra soggiacere alle regole temporali del vivere quotidiano; all’interno dei cluster di attività di vita, esso sembra costituire solo l’ennesimo spazio da riempire. Tuttavia, per essere davvero libero, esso dovrebbe “liberarsi del tempo”, di quel senso di durata obbligata che ostacola la riflessione, il giudizio, che tende a mettere in pausa la capacità dell’individuo di guardare oltre. Eppure il leisure ha le potenzialità di svincolarsi da logiche meramente cronometriche e persino usare il tempo come merce di scambio. Oltre a tante altre iniziative, l’esperienza della Banca del Tempo dimostra inequivocabilmente che una nuova cultura del leisure, alternativa all’uso mercificato del tempo libero, è davvero possibile.