UNITA` DIDATTICA L`infinito nella cultura greca GANDOLFI ILARIA

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UNITA’ DIDATTICA L’infinito nella cultura greca
GANDOLFI ILARIA
TIPOLOGIA Lavoro interdisciplinare(filosofia- matematica)
DESTINATARIO Liceo scientifico (classe III); liceo classico (classe I)
FINALITA’ Acquisizione del concetto di infinito che mostra le diverse sfumature della filosofia greca
garantendone una visione trasversale e diacronica
PREREQUISITI Conoscenze circa il continuo riferito allo spazio, al tempo e alle grandezze in
generale
Conoscenze di alcuni termini filosofici fondamentali per operare un confronto fra i vari filosofi:
metafisica, essere, monismo, pluralismo ecc.
Capacità di operare un confronto tra i filosofi registrandone le uguaglianze e le differenze
OBIETTIVI Padronanza del pensiero dei filosofi esaminati
Sviluppo della capacità di sintesi attraverso l’analisi della tematica dell’infinito all’interno di un ben
definito modello culturale.
Sviluppo dell’interdisciplinarità, intesa come capacità di elaborare un pensiero che non si rivolga
solo ad una disciplina, ma a più discipline
Sviluppo della capacità matematica di astrazione a partire dalla contestualizzazione storica degli
enunciati matematici
CONTENUTI L’infinito nella cultura greca
METODI Lezione frontale con domande retoriche rivolte agli alunni per tener viva la loro attenzione
Dopo l’esposizione schematica dei concetti principali si suddivide la classe in gruppi che devono
approfondire un autore analizzato attraverso la lettura di documenti.
Esposizione alla classe del materiale letto da parte dei gruppi
Discussione ragionata in classe
STRUMENTI Appunti presi dagli alunni in classe durante la lezione frontale dell’insegnante
Manuale
Letture tratte da testi originali
TEMPI Due ore di lezione frontale
VERIFICHE Commento di alcuni brani tratti dall’opere originali dei filosofi esaminati da parte degli
alunni
Test a risposta multipla
Nel caso di insufficienze si procederà ad un’interrogazione orale
L’INFINITO NELLA CULTURA GRECA
Il concetto di infinito produce semplificando due tipi di concezioni: l’infinito come ciò che essendo senza
limiti, assomma in sé ogni perfezione oppure l’infinito come ciò che proprio perché privo di limiti, è impreciso
e quindi indefinito. L’ultima determinazione dell’infinito è tipica delle filosofia greca. Per essa la perfezione è
sinonimo di ordine e di misurabilità finita. L’infinito come perfezione è invece proprio delle filosofie che lo
assimilano all’assoluto. Queste filosofie attribuiscono all’infinito: la necessità (l’infinito è l’essere necessario
in cui sono comprese tutte le possibilità) e la trascendenza rispetto al finito (con trascendenza voglio indicare
la perfezione trascendente cioè una perfezione che supera ogni grado di perfezione praticamente ottenibile
nella nostra esperienza). E’ chiaro, tuttavia, che anche in questo caso l’infinito non annulla il finito che viene
mantenuto nella sua realtà, pur limitata e imperfetta nei confronti della perfezione dell’assoluto.
I primi pensatori greci vengono considerati filosofi - scienziati in quanto il loro obiettivo è individuare una
spiegazione circa i problemi della natura: è possibile ricondurre tutte le cose esistenti, compresi gli esseri
organici, ad un’unica materia generatrice?
Anassimandro (Mileto 610- ca545 a. C.) nel tentativo di rispondere a questa domanda introdusse il concetto
di infinito: l’apeiron. Al principio della storia dell’universo sta una sostanza primaria indeterminata (l’apeiron),
a partire dalla quale si sono sviluppati, con un processo di determinazione sempre crescente, gli elementi
(aria, acqua, terra, fuoco) e le cose di cui è composto il mondo della nostra esperienza. Il processo di
sviluppo e di crescita di elementi e cose dal principio, come Anassimandro lo concepiva, non c’è noto nei
dettagli, ma appare chiaro che il modello seguito dovesse essere di tipo embriologico (l’universo cresce
determinandosi man mano come un embrione che si sviluppa da una massa indifferenziata).
Benché gli elementi del mondo della nostra esperienza nascono, periscono e si trasformano l’uno nell’altro,
l’esistenza, alla periferia del nostro mondo ormai determinatosi, di una massa illimitata della sostanza
primaria, permette, con la sua inesauribile capacità generativa, il mantenimento finale degli equilibri nei
processi di trasformazione. L’apeiron viene così presentato come l’alimento necessario ad impedire la
consumazione del mondo in quanto garantisce la rigenerazione di nuovi universi a partire da se stesso.
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Infatti, nell’apeiron gli esseri hanno origine e sempre nell’apeiron hanno la loro distruzione: essi pagano l’uno
all’altro la pena e l’espiazione secondo l’ordine del tempo. Ogni cosa singola che emerge come esistenza
individuale staccandosi dall’indistinzione originaria ha commesso una colpa e per questo è condannata
all’instabilità e alla trasformazione perpetua. Quali sono le caratteristiche dell’infinito di Anassimandro?
L’infinito è il principio ingenerato e indistruttibile da cui tutte le cose hanno origine. Dall’infinito nasce il finito e
all’infinito ritorna il finito: le cose nascono dall’infinito per un movimento vorticoso, che le differenzia le une
dalle altre, ed esse acquisiscono il carattere di limite (carattere della finitezza). Queste stesse cose si
dissolvono nell’infinito pagando il fio della differenziazione. Aristotele ha visto nell’apeiron di Anassimandro
la materia infinita e potenziale.
In Anassimene(Mileto- ca525a.C.) l’aria occupa lo stesso ruolo dell’apeiron di Anassimandro. L’aria diventa
archè ossia sostanza prima e indeterminata del cosmo. Il principio generatore di tutte le cose aveva,
dunque, la qualità di materia definita, ma nello stesso tempo doveva essere infinito. In Anassimene si
verifica una coesistenza di caratteri attribuiti alle cose finite e di infinità all’interno dell’aria, concepita come
archè. Tuttavia, a differenza della derivazione embriologica degli elementi di Anassimandro, Anassimene
utilizza il modello meccanico: la derivazione dell’aria ha luogo secondo i processi di condensazione e di
rarefazione. Le differenze qualitative fra gli oggetti divengono differenze quantitative. L’infinita varietà dei
fenomeni, infatti, viene ridotta a una scala continua di gradi di densità della sostanza elementare.
Sono i Pitagorici i primi ad indicare l’infinito come qualcosa di incompiuto, di imperfetto e di mancante di
forma. Come pervengono a tale riflessione? I Pitagorici indicarono l'archè nel numero. In realtà i Pitagorici
hanno scoperto che in tutte le cose esiste una regolarità matematica ossia numerica. Mentre per il pensiero
contemporaneo il numero è un’astrazione mentale e perciò ente di ragione, per i Pitagorici, è la realtà: tutto e
numero e tutto numeralizzabile. Tutte le cose derivano dai numeri; tuttavia i numeri derivano da ulteriori
elementi. Infatti i numeri risultano essere una quantità indeterminata che via via si determina o delimita
all’infinito. Per esempio il numero 4 appartiene alla catena infinita dei numeri naturali, ma nello stesso tempo
possiede delle qualità finite dipendenti dal suo essere numero 4. Due elementi costituiscono il numero: uno
indeterminato o illimitato e uno determinato o limitante. Il numero è dunque l’accordo di elementi limitanti e di
elementi illimitati. Mentre i numeri pari sono numeri non perfetti in quanto in essi prevale l’elemento
indeterminato, i numeri dispari sono perfetti perché in essi prevale l’elemento limitante. I Pitagorici così
raffiguravano questo concetto:
O
------2
O
O
---------O 3
O
Mentre il numero 2 (numero pari) lascia campo vuoto alle lineette, mostrando in questo modo la sua
indeterminatezza, nel numero 3 (numero dispari) rimane un’unità a cui le lineette si rivolgono. Il numero 3 è,
dunque, delimitato e determinato.
Se non ci fossero i numeri nulla si potrebbe comprendere né le cose in sé, né le loro relazioni. Il numero è la
garanzia dell’ordine, dell’unità, dell’armonia del mondo della nostra esperienza; la menzogna partecipa,
invece, della natura dell’illimitato, dell’inintelligibile e dell’irrazionale (con questi tre termini si definisce ciò che
non è numeralizzabile). Inoltre l’antitesi illimitato e limitante è presente nel pitagorismo anche a livello
cosmologico. L’illimitato è fatto coincidere con il vuoto circondante il tutto per cui il mondo nasce da una
inspirazione di questo vuoto da parte di un Uno che non ha una genesi specificata. L’Uno, inspirando il
vuoto, conferisce determinazione al vuoto dando origine alle varie cose e ai vari numeri. E’ forte qui il
richiamo ad Anassimandro e ad Anassimene.
Lo sviluppo dottrinario della scuola venne però interrotto dalla scoperta delle grandezze incommensurabili
(ad esempio dell’incommensurabilità tra la diagonale e il lato del quadrato). Secondo la tradizione Ippaso di
Metaponto rivelò tale segreto, tenuto a lungo nascosto, provocando contese in seno alla scuola.
L’aritmogeometria pitagorica si rivelò inadeguata ad affrontare i paradossi dell’infinito e del continuo, esposti
per esempio da Zenone di Elea. Matematica e geometria presero direzioni diverse e indipendenti.
Procediamo nell’analisi del concetto di infinito attraverso la riflessione di Eraclito. Secondo Eraclito di
Efeso(ca 540- ca480 a. C.) il mondo è soggetto ad un infinito divenire. Phanta rhei, in greco, significa tutto
scorre ed è la formula riassuntiva del pensiero di Eraclito: tutto viene e tutto va incessantemente. La realtà è
quindi un processo di mutamento prodotto dal conflitto di elementi contrari. Secondo Eraclito è la guerra
madre di tutte le cose. Inoltre in ogni cosa si nasconde una lotta di contrari. Tuttavia alla base della
riflessione di Eraclito c’è la teoria dell’unità dei contrari, secondo la critica moderna. Infatti il divenire è solo
l’apparenza delle cose dietro le quali si nasconde una più profonda armonia. La trasformazione incessante di
tutto nel tutto è sostenibile solo a un esame superficiale (quando si analizzano le cose singolarmente)
perdendo di vista la visione d’insieme. Per definire questa segreta legge dell’armonia, Eraclito usò per primo
il termine logos.
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Parmenide, invece, respinse la teoria del divenire per sostenere che solo l’essere esiste ed è reale. L’archè
viene identificato con l’essere: l’essere uno, ingenerato, immutabile, eterno, concepito dal pensiero. L’unicità
dell’essere portava alla formulazione di quell’horror infiniti che si manifesta nei paradossi di Zenone di Elea
nei confronti di grandezze infinite come quelle prodotte dall’infinita suddivisione di un segmento. Alcuni
aspetti dell’essere parmenideo e del divenire eracliteo si trovano nel pensiero di Empedocle e di
Anassagora. Le loro teorie rappresentano un tentativo di superare le visioni unilaterali della realtà le quali
consideravano quest’ultima o come essere immutabile o come perenne trasformazione.
Empedocle ed Anassagora si allontanano dalla visione monistica della realtà (o l’essere o il divenire, o l’unità
o la molteplicità) per elaborare una visione pluralista: la realtà è determinata dall’aggregarsi e disgregarsi di
più elementi originari, eterni e immutabili nella loro essenza, ma che, con il loro vario combinarsi giustificano
il divenire.
Mentre le radici degli ionici si trasformano qualitativamente nel dare origine al mondo le radice di Empedocle
(acqua, terra, aria e fuoco) sono immutabili e qualitativamente inalterabili. Il divenire dipende poi dall’azione
di due forze cosmiche e contrarie: Amore e Odio. L’Amore è ciò che tende ad unire i quattro elementi l’Odio
è ciò che tende a separarli. Amore e Odio non hanno nessuna connotazione morale in quanto sono forze
naturali fisiche e oggettive. E’ proprio l’azione dell’Amore e dell’Odio a rimandare alla concezione di infinito in
Empedocle. Infatti Empedocle fa riferimento all’infinito ripetersi della storia universale, attraverso fasi
contrapposte, lo Sfero (regno dell’Amore) e il Caos (trionfo dell’Odio) e due fasi intermedie di equilibrio tra le
due forze (fasi del Comos in cui è possibile la vita). E’ il ciclo cosmico del mondo, che si sviluppa e muore
secondo un principio di eterno ritorno, che si articola nel susseguirsi di queste quattro fasi. Nella prima c’è il
dominio incontrastato dell’Amore che produce la più perfetta unità: la vita non è ancora possibile poiché tutti
gli elementi sono unificati, legati fra loro nella più completa armonia (che è anche impossibilità di
movimento). In questa fase il mondo è uno Sfero parmenideo, compatto, omogeneo, uniforme e
necessariamente sferico, poiché la sfera è fra i volumi quello che gode della massima compattezza. La vita
non è possibile neppure nella condizione contraria, in cui il predominio dell’Odio produce una
frammentazione generale: nel caos più totale gli elementi non riescono compattarsi in cose specifiche. La
vita è invece possibile nei due stati intermedi in cui si contrappongono equilibrandosi i due principi
contrapposti. Si celebra in questo modo l’agonismo.
Anassagora sostiene, invece, che la realtà delle cose è data da un’infinità di minuscole particelle dette
“semi” o “omeomerie” secondo la dizione aristotelica. Queste particelle, simili tra loro strutturalmente, ma
distinte per qualità, con il loro vario combinarsi, determinano la realtà nel suo divenire. Queste particelle
sono mosse da una forza esterna: il “Nous”, supremo principio ordinatore che è infinito, autonomo e
separato dalla materia di cui è composto il mondo. L’infinità è dunque attribuita ad un fattore intelligente. Al
Nous sono state date diverse interpretazioni: c’è chi lo ritiene una sorta di intelletto universale o chi lo
considera un principio divino. Comunque venga interpretato il Nous è una forza ordinatrice che disciplina e
armonizza il tutto, regolando il movimento della materia.
Ritengo opportuno analizzare come tutte queste teorie sull’infinito incisero sui successori di questi grandi
filosofi. Filolao, pitagorico, considera l’infinito unitamente al finito come il primo dei dieci principi costitutivi
delle cose ossia la prima delle dieci coppie di contrari. Tuttavia Filolao mantiene la svalutazione dell’infinito
di Pitagora perché nella coppia péras- àpeiron il secondo termine designa appunto il non essere e
l’imperfezione.
Melisso di Samo, parmenideo, dall’unicità dell’essere ricava l’infinità dell’essere. Se l’essere fosse, infatti,
finito sarebbe limitato o meglio delimitato dal vuoto cioè dal non essere, ma ciò è decisamente impossibile
perché darebbe consistenza a ciò che non è , al nulla. L’unità dell’essere si fonda sul presupposto
dell’infinità dell’essere: questo è il contributo di Melisso al concetto di infinito. Anche i primi scienziati greci,
sotto lo stimolo della riflessione parmenidea, si occuparono dell’infinito.
Eudosso di Cnido (408- 355 a. C.) formulò un primo postulato relativo alla continuità non solo del tempo e
dello spazio, ma delle “grandezze” in generale ( queste ultime valutabili in senso quantitativo come per
esempio i pesi): “Se A, B sono due grandezze omogenee (o come anche si dice, della stessa specie, per
esempio due segmenti o due intervalli di tempo) e se A è più piccola di B, è sempre possibile trovare un
multiplo nA di A, che sia più grande di B”. Da tale postulato che ne precisa un altro precedentemente dato da
Anassagora(“Non esiste la più piccola fra le grandezze piccole, né la più grande fra le grandi, ma ne esiste
sempre una più piccola e una più grande”), si deduce immediatamente, nelle stesse ipotesi per le due
grandezze A e B, che, se da B si toglie almeno la sua metà, se dalla residua si toglie almeno la metà di
questa, e così via, si deve necessariamente, dopo un numero finito di siffatte operazioni, giungere ad una
parte residua più piccola di A. Questo postulato cominciò subito a essere applicato per dimostrare numerosi
teoremi di geometria del più alto interesse. Il metodo di ragionamento per assurdo che caratterizza il
postulato viene detto metodo d’esaustione. Infatti Eudosso di Cnido diede un contributo all’evoluzione della
geometria attraverso la teoria delle proporzioni, presentata anche da Euclide nel V libro degli “Elementi”,
rifacendosi ad un modello assiomatico- deduttivo di razionalità platonica.
Con questo metodo, per esempio, si trovano dimostrate negli “Elementi” di Euclide: la proposizione 2 del
libro X (“I cerchi stanno tra loro come i quadrati dei diametri”), la proposizione 5 (“Piramidi aventi la stessa
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altezza e basi triangolari stanno tra loro come le basi”), la proposizione 10 (“Ogni cono è la terza parte di un
cilindro avente la stessa base ed uguale altezza) e la proposizione 18 (“Le sfere stanno tra loro in ragione
tripla dei rispettivi raggi”).
Con lo stesso metodo, Archimede (287- 212 a. C.) dimostrò che se AB è un qualunque arco di parabola,
detto C il punto dell’arco in cui la tangente si dispone parallelamente alla corda AB (dunque C è il punto
dell’arco più distante da detta corda), l’area del triangolo ABC è ¾ dell’area del segmento ACB di parabola.
Archimede suggerì anche un algoritmo infinito atto a calcolare il rapporto fra la lunghezza della circonferenza
e quella del suo diametro; l’algoritmo in questione si fonda sulla considerazione della lunghezza della
circonferenza come limite comune a cui tendono sia i perimetri dei poligoni regolari circoscritti, sia quelli dei
poligoni regolari inscritti, al crescere indefinito dei numeri dei lati.
Queste riflessioni ci permettono di capire che nell’analisi infinitesimale dei Greci si distinguono due fasi: una
prima fase democritea, caratterizzata da un uso disinvolto dell’infinito e una fase eudossiana, caratterizzata
da un grande rigore.
Vorrei analizzare inoltre la concezione dell’infinito in Democrito e in Aristotele.
Democrito risolve il problema dell’infinitamente divisibile posto da Zenone: bisogna distinguere, secondo
Democrito, il suddividere matematico dal suddividere fisico, in quanto il primo può realmente procedere
all’infinito, mentre il secondo deve necessariamente fermarsi a qualcosa che resta indivisibile. Così
Democrito introducendo l’atomo come elemento che resta indivisibile spiega l’impossibilità della suddivisione
all’infinito di un’entità fisica. C’è di più: gli atomi sono particelle piccolissime, indivisibili, ingenerate,
immutabili, eterne ed infinite.
Anche Aristotele, come Democrito, nega l’esistenza nel mondo della nostra esperienza, dell’infinito. L’infinito
non può mai esistere come realtà in atto. All’infinito viene riconosciuta solo un’esistenza potenziale. Come
Aristotele definisce l’infinito potenziale? L’infinito è potenziale nel senso che può venire diviso ed accresciuto
illimitatamente. L’infinito potenziale attraverso la divisione o la composizione risulta inesauribile e
interminabile.
L’infinito non è un ente reale, ma un processo che non si esaurisce perché lascia sempre qualcosa fuori di
sé. Infatti c’è sempre una parte che non arriva mai ad essere un tutto- compiuto. Aristotele così caratterizza
l’infinito potenziale: “Non quello al di là del quale non c’è più nulla (infinito attuale), ma quello al di fuori del
quale c’è sempre qualcosa”. L’infinito potenziale della matematica può essere considerato analogo alla
materia potenziale in quanto quest’ultima non possiede, come l’infinito potenziale, una determinatezza
formale e risulta quasi un “non essere” o comunque qualcosa di inconoscibile. Aristotele scrive, inoltre, che i
matematici non hanno bisogno dell’infinito attuale: “Questo ragionamento (contro l’infinito attuale) non
distrugge le investigazioni dei matematici…giacché essi ora dell’infinito (attuale) non hanno bisogno e non
se ne servono, ma soltanto postulano che il segmento finito possa diventare tanto lungo quanto vogliono
(infinito potenziale)”.
Aristotele negava, dunque, che l’infinito potesse essere attuale cioè reale sia come realtà a sé (sostanza) sia
come attributo di una realtà. Per questo l’infinito esiste soltanto in modo accidentale come disposizione delle
grandezze. Aristotele dà due definizioni di in finito. L’infinito è “ciò che per natura non può essere percorso”
nel senso in cui la voce non può essere vista. L’infinito è anche ciò che si può percorrere, ma non tutto. In
questa ultima accezione si parla di infinito per composizione o per divisione o per entrambe le cose. L’infinito
è anche definito come ciò di cui si può sempre prendere qualcosa di nuovo e ciò che si prende è sempre
finito, ma sempre diverso. Per Aristotele l’infinito non è mai ciò al di fuori di cui non c’è nulla, ma ciò al di
fuori di cui c’è sempre qualcosa. Il concetto di infinito, elaborato da Aristotele, è negativo, consiste in un
processo non esauribile riferito a grandezze sottoposte alle operazioni di composizione (ossia l’operazione
che aggiunge una parte sempre nuova) e di divisione in parti sempre nuove. La prima operazione tende
all’infinitamente grande, la seconda all’infinitamente piccolo.
Aristotele delinea l’infinito come parte perché l’infinito non può mai essere compiuto e quindi non può mai
essere tutto. Aristotele nega la posizione di Melisso, che aveva chiamato l’infinito il tutto ed aderisce alla
posizione di Parmenide, che si era mantenuto nella dimensione del finito. Le determinazioni, attribuite da
Aristotele all’infinito, erano state già elaborate da Platone che definisce così l’infinito: l’infinito è ciò che è
privo di numero o di misura, ciò che è suscettibile del più e del meno (intesi come infinitamente grande e
infinitamente piccolo) perciò esclude l’ordine e la determinazione.
Il concetto di infinito è considerato negativamente dai Greci in quanto per sua natura esclude l’ideale morale
dell’ordine e della misura. Tuttavia nell’ultimo periodo della filosofia greca con Filone e Plotino si afferma
l’infinità dell’Uno come l’illimitatezza della potenza dell’Uno, da distinguersi tuttavia dalla infinità del numero
concepita come inesauribilità.
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