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Corso Biblico III
I.
L'importanza della Bibbia d'Israele per l'identità cristiana
Osservazione previa: l'«Antico Testamento» esiste soltanto da quando c'è l'entità «Nuovo Testamento», ossia a
partire dalla metà del II secolo d.C. Prima esiste solo una collezione - ancora imprecisata nella sua estensione e
in parte delimitata in modi diversi dai vari gruppi giudaici - di 'scritti sacri' che anche i cristiani del I secolo
consideravano come loro 'scritti sacri'. A motivo della loro funzione normativa, è possibile considerare questi
scritti come un'entità specifica e attribuire ad essi la designazione complessiva di 'Bibbia d'Israele', come si fa
nelle pagine che seguono. L'espressione non è del tutto adeguata, giacché presuppone un accordo comune sulla
struttura e l'ampiezza di questa 'Bibbia' in quanto unità, un accordo che ha incominciato a verificarsi solo nel II
secolo d.C.
1. Fondamento del cristianesimo
«L'essere umano non può afferrare il semplice mistero della misericordia di Dio prima che abbia appreso e
vissuto tutte le parole delle sacre Scritture» (Erich Zenger). Senza Sacra Scrittura non c'è Cristianesimo. Sin
dall'inizio in ambito cultuale le comunità cristiane hanno proclamato e spiegato i testi biblici come parola di
Dio. I testi biblici sono stati normativi e formativi per l'esistenza cristiana vissuta nella sequela di Gesù. Il
linguaggio e le immagini della Bibbia hanno costituito la matrice culturale per le prime discepole e i primi
discepoli di Gesù. Fino al II secolo inoltrato questa Bibbia dei cristiani era costituita dalla Bibbia d'Israele. Per
il cristianesimo delle origini la Bibbia non era l'«Antico Testamento» nel senso di una rivelazione di secondo
grado o addirittura antiquata. Anche allorquando, nel II secolo, fu riconosciuto il rango di 'Scrittura sacra' ai
vangeli e alle lettere apostoliche (sorti in successione a partire dalla metà del I secolo), i nuovi libri sacri
specificamente cristiani non subentrarono al posto della Bibbia d'Israele. In effetti si registrano in questo
periodo tentativi isolati, promossi con vigore e insistenza, di rifiutare la Bibbia d'Israele perché ritenuta non
(più) rilevante per l'identità cristiana o addirittura perché considerata contraria al messaggio di Gesù. A questa
'de-ebraizzazione' della sua Bibbia, tuttavia, la Chiesa ha opposto resistenza, ben sapendo che la Bibbia
d'Israele è il fondamento del messaggio di Gesù e della professione di fede in Gesù come il Cristo.
La lotta, nella Chiesa, contro la Bibbia d'Israele fu condotta nel Il secolo soprattutto da Marcione, un armatore
originario dell'Asia Minore. Marcione fu molto influente nella chiesa di Roma, non da ultimo come 'mecenate'
facoltoso, prima che si arrivasse alla frattura, attorno al 144. Dopo questa rottura Marcione organizzò una
'chiesa' propria che contò numerosi seguaci e sopravvisse fino al VI secolo. Marcione era uno gnostico
cristiano, che non voleva né poteva conciliare il peccato e il male presenti nel mondo reale con il Dio-redentore
perfetto che Gesù aveva annunciato. Per lui la creazione era l'opera di quel Dio-creatore cattivo, il Demiurgo,
del quale soprattutto tratterebbe la Bibbia d'Israele. Secondo Marcione il Padre di Gesù Cristo non ha nulla da
spartire con il Dio ebraico del giudizio e della guerra. Che Marcione non si fermasse al rifiuto della Bibbia
d'Israele come 'sacra Scrittura' era logico: nella sua lotta per il messaggio cristiano 'puro' egli non poté accettare
nemmeno quegli scritti 'neotestamentari' nei quali la tradizione ebraica dominava apertamente. Il risultato fu un
canone ristretto in due parti, consistente in dieci lettere di Paolo (da lui ovviamente 'de-ebraizzate') - Gal, 1-2
Cor, Rm, 1-2 Ts, Ef, Col, Fil, Fm - e nel Vangelo di Luca (considerato l'unico vangelo valido). Con riferimento
a Marcione, nell’ indagine scientifica tutte le tendenze a rifiutare o indebolire la validità dell'Antico Testamento
definito 'ebraico' vengono designate come marcionismo. Là dove ciò accade in maniera implicita o irriflessa, si
parla di marcionismo latente o sottile.
Proprio per il fatto che il processo di canonizzazione di scritti specificamente cristiani in quanto 'sacra Scrittura'
nel II secolo era ancora corso d’opera, l'iniziativa di Marcione nei confronti dei vangeli e delle lettere
apostoliche fu meno spettacolare di quanto possa apparire oggi; tuttavia, senza volerlo, egli ha accelerato il
processo di canonizzazione neotestamentaria. Soprattutto col suo rifiuto dell'Antico Testamento 'ebraico'
Marcione ha colto il problema teologico di un approccio cristiano adeguato allo stesso «Antico Testamento» che è anzitutto la Bibbia d'Israele, oltre che la sacra Scrittura degli ebrei - in termini più chiari di alcuni dei
teologi a lui contemporanei, i quali per poter mantenere la Bibbia d'Israele dentro la chiesa l'hanno 'deebraizzata' con un marcionismo sottile, leggendola cioè in senso tipologico ( →Týpos) o allegorico (→
Allegoria). Di fatto ciò accadde (quasi) sempre ai danni dell'ebraismo (cfr. per esempio l'Omelia pasquale di
Melitone di Sardi).
1
Ampliando la sua sacra Scrittura la chiesa prese due decisioni importanti:
a) Conservò tutti gli scritti della Bibbia d'Israele e collocò i 'nuovi' scritti non prima, ma dopo di essa; nacque in
tal modo l'unica Bibbia cristiana suddivisa in due parti.
b) Non intervenne nel testo ebraico della prima parte per cristianizzarlo rielaborandolo, nemmeno là dove in un
testo neotestamentario si riscontrava una rilettura cristologico-cristiana di un testo anticotestamentario.
Il fatto che la chiesa abbia conservato in questo modo la Bibbia d'Israele nella propria Bibbia corrispondeva alla
convinzione - che trova espressione negli stessi scritti neotestamentari e nelle più importanti confessioni di fede
della chiesa antica - che la Bibbia d'Israele è il fondamento irrinunciabile del cristianesimo. Nonostante ogni
polemica che il giovane cristianesimo in via di formazione sviluppò contro la maggioranza ebraica che non
volle condividere il suo percorso, gli autori neotestamentari, anche dopo la distruzione del tempio (70 d.C.) - e a
questo punto, si direbbe, in termini ancora più decisi di prima -, s'attennero saldamente alla convinzione che
non c'è identità cristiana, anche per i cristiani provenienti dal paganesimo, se non in un legame permanente con
l'ebraismo come propria radice (cfr. le tradizioni liturgiche) e in particolare con la Bibbia d'Israele. Anche
allorché di fatto, per molteplici motivi, i ponti tra la chiesa e la sinagoga saltarono, la chiesa restò dell'idea - per
quanto ciò le riuscisse palesemente difficile - che «non sei tu che sostieni la radice, ma è la radice che sostiene
te» (Rm 11,18).
2. Orizzonte interpretativo del Nuovo Testamento
Che il cristianesimo abbia bisogno della Bibbia d'Israele come del suo fondamento è una convinzione che si
può cogliere quasi in ogni pagina del Nuovo Testamento. Per comunicare in modo convincente il messaggio
sull'azione svolta da Dio in Gesù Cristo e tramite lui, si cita alla lettera «la Scrittura» (ossia la Bibbia d'Israele),
oppure ci si richiama a qualche sua tematica. «La Legge e i Profeti» sono l'orizzonte che spiega e legittima la
testimonianza neotestamentaria sul Cristo.
Quello che è in grado di fare la Bibbia d'Israele per la fede cristiana - e d'altro canto quello che essa da sola non
è in grado di fare - è bene esemplificato dall'episodio dei due discepoli di Emmaus, che leggiamo alla fine del
Vangelo di Luca (cfr. 24,13-35):
a) Ai due discepoli 'ciechi' il Gesù risorto dai morti non ricapitola semplicemente la sua predicazione e i suoi
miracoli, e tanto meno sostiene che si tratta di un operare di Dio completamente diverso, che si porrebbe in
contrasto con l'azione da lui svolta in precedenza per Israele e in Israele. Al contrario, il Risorto sottolinea il
nesso profondo (la continuità) tra «la Legge e i Profeti» e lui stesso. Per dirla in termini accentuati: Gesù risorto
non fa un'esegesi1 letterale della Legge e dei Profeti, ma interpreta2 se stesso a partire dalla Scrittura d'Israele.
b) Perché i due discepoli trovino la fede in Cristo occorre l'incontro vivo con il Risorto. Nemmeno la sua
esegesi, da sola, può ottenere questo risultato. Nel momento in cui il Risorto recita con i due discepoli la
berākhâ ebraica (vale a dire, pronuncia la benedizione eucaristica), i loro occhi si aprono. Con il loro esplicito
ricorso alla Scrittura ed evocando dalla Bibbia d'Israele sottili intrecci di idee ed eventi affini tra loro, gli autori
neotestamentari non intendono interpretare la Scrittura. A loro interessa una comprensione e una più intensa
penetrazione dell'evento Cristo inteso come colui che, secondo il loro modo di vedere, è la proposta salvifica
ultima e decisiva di Dio «a partire dalla Scrittura», vale a dire a partire dalla Bibbia d'Israele presupposta come
nota e riconosciuta nella sua autorità. Gli autori neotestamentari non mettono in bocca a Cristo testi
anticotestamentari, né li citano essi stessi, per interpretarli in termini cristianamente vincolanti, come se fosse
questo l'unico significato che essi hanno. Il problema della giovane chiesa, proprio di fronte all'ebraismo ancora
in vita, non era come rapportarsi alla Bibbia d'Israele. «Non si può dire che per i primi cristiani l'Antico
Testamento non avesse alcuna autorità in se stesso e che l'abbia acquisita perché ci si rese conto che esso
'portava il Cristo' o sospingeva al Cristo. Le cose stanno piuttosto esattamente alla rovescia: è vero che Cristo
dinanzi ai non credenti è giustificato dalla Scrittura, ma l'esigenza contraria, di giustificare la Scrittura a partire
da Cristo, non è ancora sorta da nessuna parte».
Che la chiesa abbia fatto della Bibbia d'Israele la prima parte della sua Bibbia è una scelta di importanza
programmatica. Gli scritti della Bibbia d'Israele vantavano una incontrastata pretesa di rivelazione.
Per questo i discepoli di Gesù si riagganciarono ad essi, onde conferire al loro messaggio su Gesù
comunicabilità categoriale (una comunicazione che abbia delle specificità), forza di convinzione e validità. Dal
fatto che gli scritti neotestamentari sono stati stilati a partire dalla Bibbia d'Israele deriva l'approccio
1
Significa spiegare/trarre fuori. Di un testo è lo studio critico finalizzato alla comprensione del significato.
Dal verbo interpretare, significa offrire una spiegazione a ciò che sia o appaia oscura. Indica capire, comprendere, intendere,
spiegare, commentare, chiarire, definire, esprimere, esporre, decifrare, decodificare.
2
2
ermeneutico3 adeguato per una lettura cristiana della Bibbia: il Nuovo Testamento vuole essere letto alla luce
dell'Antico Testamento. E allo stesso tempo: Il Nuovo Testamento riflette la sua luce sull'Antico Testamento.
Modificando la frase così spesso citata di quell'antico studioso e traduttore della Bibbia che fu Girolamo
(«Ignorare la Scrittura vuol dire ignorare Cristo stesso»), si può dire che «non conoscere l'Antico Testamento e
non capirlo vuol dire non capire né Cristo né il cristianesimo».
3. Antico Testamento o Primo Testamento?
Possiamo a buon diritto chiederci se chiamare - come si fa tradizionalmente - «Antico Testamento» la prima
parte della Bibbia cristiana non voglia dire misconoscerne la funzione di fondamento. Già lo stesso Nuovo
Testamento non conosce la categoria di scritti 'antichi' come espressione per indicare la Bibbia d'Israele nella
sua totalità. Soltanto il distacco intenzionale della chiesa dall'ebraismo ha fatto nascere tale formulazione. La
quale, da allora fino ai nostri giorni, viene associata - spesso con un certo deprezzamento - a quella parte della
Bibbia cristiana che si presume essere 'antiquata' e a quella svalutazione dell'ebraismo rimasto ancorato a tali
Scritture, davvero sorpassate e pertanto divenute 'antiche' ad opera del Nuovo Testamento. È questa l'ipoteca
che pesa su tale definizione, fino ad oggi. Il presupposto per questa designazione era che i due Testamenti
fossero considerati due entità, delle quali si trattava di precisare il rapporto reciproco. Ma inizialmente non
esistevano nemmeno le condizioni esterne per farlo: nella prassi del cristianesimo originario la Bibbia cristiana
era frammentata in numerosi rotoli o codici, come attesta anche l'impiego del termine biblía, che vuol dire '(più)
libri'. Quanto fosse predominante l'idea dell'unità degli scritti biblici e come essi sin dall'inizio siano stati
pensati in quanto unità, lo attesta la designazione di lex (Legge/Tôrah), usata nella chiesa africana antica per
indicare tutta la Bibbia. D'altronde la designazione di «Antico Testamento» non deve necessariamente avere
connotazioni negative, così come anche il predicato 'nuovo' può comportare una qualificazione negativa (per
esempio: secondo la moda, inesperto), o quantomeno può significare una diminuzione in senso qualitativo
rispetto ad 'antico' (per esempio: vino vecchio, vino nuovo). Nella misura in cui 'antico', 'vecchio', nel senso di
antichità o anzianità (ciò che è venerabile, prezioso, garantito), conserva le proprie connotazioni positive,
certamente la designazione può restare accettabile, tanto più che è essa stessa 'antica'. E se ci si rende
consapevoli del fatto che si tratta di una designazione specificamente cristiana, la quale ricorda che non c'è il
Nuovo Testamento senza l'Antico, la si può assumere come appello legittimo alla verità fondamentale secondo
cui la Bibbia cristiana consta di due parti sorte in contesti differenti, delle quali occorre salvaguardare allo
stesso tempo sia la comunanza sia la differenza (la continuità e la discontinuità). La coppia 'antico-nuovo' va
vista quindi non in termini di opposizione, bensì in termini di correlazione.
Ovviamente va ricordato che si tratta di una designazione inadeguata a esprimere tanto la comprensione che
l'Antico Testamento ha di sé quanto la comprensione che l'ebraismo ha di questi scritti. In quanto tale essa è
anacronistica ed è capace di scatenare continui fraintendimenti e fatali antigiudaismi, come mostra la storia
della sua ricezione all'interno del cristianesimo. Per questo dovrebbe essere sempre usata tra virgolette, oppure
sostituita - o quanto meno integrata - da un'altra designazione. Questa funzione correttiva potrebbe essere svolta
dalla designazione di «Primo Testamento».
Tale dicitura ha numerose implicazioni positive: a) evita il deprezzamento tradizionale che per associazione e di
fatto è connesso con la designazione di «Antico Testamento»; b) riflette anzitutto il dato di fatto storico: in
effetti, rispetto al «Nuovo/Secondo Testamento», la Bibbia d'Israele è sorta come «Primo» Testamento, ed era
la prima Bibbia della giovane chiesa che andava formandosi; c) sul piano teologico è un'espressione
assolutamente corretta: attesta quel patto 'eterno' che Dio ha stipulato con Israele suo «figlio primogenito» (cfr.
Es 4,22; Os 11,1), come 'inizio' di quella grande 'dinamica del patto' entro la quale il Dio d'Israele intende
coinvolgere anche i popoli del mondo; d) in quanto «Primo» Testamento rimanda al «Secondo» Testamento.
Come non ci può essere un secondo senza un primo, così anche la designazione cristiana di «Primo
Testamento» ricorda che questo «Secondo Testamento» da solo non costituisce una Bibbia completa.
Nemmeno questa dicitura peraltro è esente da fraintendimenti. Alcuni studiosi contestano o rifiutano la
designazione di «Primo Testamento» perché relativizzerebbe il «Nuovo/Secondo Testamento» e perché la
coppia di termini primo/secondo (riferita a Testamento) insinuerebbe una successione fondamentalmente
aperta, che metterebbe in questione la definitività dell'evento Cristo. Non s'intende qui nessuna delle due cose:
questi studiosi ignorano che l'aggettivo è scritto con la lettera maiuscola. Si parla di «Primo Testamento» e non
di «primo Testamento». E soprattutto la designazione intende esprimere il rapporto non di una qualsiasi unica
Bibbia, ma della duplice-e-unica Bibbia cristiana.
3
Da ermeneutica, che significa interpretazione dei testi e dei documenti.
3
La discussione sulla designazione «Antico Testamento» non è una pura disquisizione linguistica. Porta invece
con sé un grave problema, cioè se con essa si veicoli e si confermi una secolare svalutazione cristiana di questa
parte della Bibbia cristiana o, ancor peggio, se il fatto di mantenerla in vigore in maniera 'irriflessa' o
'aggressiva' non si colleghi anche a un giudizio teologico sull'ebraismo, che non corrisponde più alla nuova
concezione cristiana dell'ebraismo. Non vi è alcun dubbio: alcuni critici della 'nuova' designazione di «Primo
Testamento» hanno reagito così aspramente perché hanno visto in essa una convinta rivalutazione
dell'ebraismo. Per costoro, l'Antico Testamento può dire soltanto quello che secondo loro gli è concesso di dire
dal Nuovo Testamento.
E soprattutto: essi non possono accettare che questa parte della nostra Bibbia - in quanto è innanzitutto Bibbia
ebraica e di conseguenza sacra Scrittura dei cristiani - includa due distinti modi di lettura voluti da Dio. Se si
vuole caratterizzare l'«Antico Testamento» come Scrittura sacra dell'ebraismo, la designazione più ovvia è
quella di Bibbia ebraica, o l'acronimo4 ricorrente nello stesso ebraismo di Tanakh, le cui tre consonanti TNK
rappresentano le tre lettere iniziali delle tre parti della Bibbia ebraica disposte nel loro ordine programmatico
: T = Tôrah /Legge; N = Nebhî’îm/Profeti; K = Kethûbhîm/Scritti.
Anche il termine miqrâ (quello che dev'essere letto o proclamato soprattutto nella sinagoga) designa
inequivocabilmente la Bibbia ebraica come sacra Scrittura degli Ebrei.
4. Modalità problematiche di lettura e comprensione nel cristianesimo
Quando la chiesa, nel II secolo, si oppose al rifiuto dell'Antico Testamento 'ebraico' da parte di Marcione, lo
fece perché si rese conto che se avesse rinnegato l'Antico Testamento avrebbe rifiutato il fondamento sul quale
essa stessa poggiava. Ma a quel tempo la chiesa non seppe riflettere più in profondità su che cosa significasse
per lei conservare questo libro nato in ebraico come prima parte della sua Bibbia. Questa carenza condusse
presto non pochi teologi della chiesa antica all'idea sbagliata che la chiesa si proclamasse la vera e propria
destinataria di questo libro, prevista come tale da Dio fin dall'inizio. Essi definirono la chiesa «il vero Israele»,
in cui la storia di Dio con Israele è arrivata all'unica meta da sempre prevista. Quello che Dio nella Scrittura
intendeva 'veramente' rivelare, lo sa e lo capisce soltanto la chiesa come popolo di Dio del nuovo patto. È
diventato questo il convincimento della teologia cristiana fino ai nostri giorni, un convincimento che noi oggi
dobbiamo riconoscere come marcionismo latente e dobbiamo superare. Un marcionismo ancor più latente e
sottile è all'opera là dove l'Antico Testamento è letto e proclamato in linea di principio con gli occhi del
'compimento' e del 'superamento' neotestamentari. Là dove la portata e la validità teologica dell' Antico
Testamento sono ridotte a preparazione e promessa di quella realtà che 'propriamente' è rivelata 'soltanto' in
Gesù Cristo e solo in lui è 'presente', l'Antico Testamento in quanto «parola di Dio» ovviamente non è reso
superfluo; in tal caso, però, tutto quello che non è risolto o in senso cristologico o in senso ecclesiologico viene
per lo più marginalizzato, reinterpretato in prospettiva teologica cristiana o discriminato in senso antiebraico.
Che in questa situazione gli Ebrei - di fronte alla saccenteria cristiana - abbiano dovuto soffrire fino ad oggi, in
quanto e perché insistevano nella fedeltà a questi testi che secondo il modo di vedere dei cristiani erano soltanto
'provvisori' e in quanto e perché essi fondavano la loro esistenza ebraica su tali parole dell'Antico Testamento
'abrogate' dal rivelatore definitivo Gesù Cristo, è una dimensione particolarmente dolorosa di questo
marcionismo cristiano latente.
Le modalità di lettura e di comprensione dell'Antico Testamento, estremamente diverse tra loro, possono essere
ridotte a tre modelli fondamentali.
4.1 IL MODELLO DELLA SOSTITUZIONE
Questo modello colloca la chiesa semplicemente al posto di Israele, cosicché il rapporto dell'ebraismo postbiblico con i testi del Tanakh non ha alcuna rilevanza teologica, poiché esso è determinato dal velo
dell'incomprensione o del rifiuto di Cristo. Spesso si afferma inoltre che il significato teologico, inteso da Dio,
dei testi dell'Antico Testamento riguardava fin dall'inizio la chiesa come vera destinataria di questi testi.
Dipendenti da un'ermeneutica della sostituzione sono anche quelle posizioni che interpretano o giudicano
l'Antico Testamento o ampie sezioni dello stesso come sfondo di contrasto del nuovo e 'totalmente altro'
messaggio del Nuovo Testamento.
4.2 IL MODELLO DELLA RELATIVIZZAZIONE
4
Parola formata con una o più lettere iniziali di altre parole.
4
Secondo il concetto di relativizzazione, l'Antico Testamento è solo 'ancella' del Nuovo Testamento. La sua
funzione è stata ed è di preparare alla rivelazione definitiva di Gesù Cristo. Esso è la promessa, il cui
compimento è costituito dal Nuovo Testamento. È rappresentazione anticipata, prefigurazione (→Týpos) di
quella realtà che, nella sua compiutezza e forma piena (→ Antítýpos), è giunta con Gesù. Dal punto di vista
ermeneutico, il metodo tipologico non va escluso in linea di principio; lo si riscontra già entro lo stesso Antico
Testamento ed esso si sviluppa ampiamente nel giudaismo ellenistico. Si tratta perciò di una spiegazione
storico-teologica della fedeltà di JHWH, il quale realizza il suo 'piano salvifico' in quanto attualizza in forme
sempre nuove le gesta un tempo rivelate. Così, con il teologumeno5 del nuovo/secondo esodo, la liberazione
d'Israele dall'esilio/→diaspora (dispersione) babilonese è proclamata e celebrata come attualizzazione
rinnovata e nuova del primo esodo dall'Egitto. I due si ricollegano come tipo e antitipo; l'antitipo però non
annulla affatto il tipo, piuttosto 'vive' del suo riferimento al tipo. Diverso è quanto purtroppo avviene nella
tipologia cristiana: questa svaluta per lo più il tipo anticotestamentario/ebraico oppure di fatto vi contrappone
l'antitipo neotestamentario/cristiano.
4.3 IL MODELLO DELLA SELEZIONE
Stando al concetto di selezione, ciò su cui l'unità della rivelazione insiste con forza è che l'Antico Testamento è
il seme che per necessità interiore spinge verso la fioritura neotestamentaria come unico obiettivo dello
sviluppo inteso e voluto da Dio sin dall'inizio. Il Nuovo Testamento è la misura esclusiva per quello che,
all'interno della molteplicità sconcertante dell'Antico Testamento, deve valere come rivelazione. Ciò che, per
esempio, tra la molteplicità delle promesse anticotestamentarie di salvezza non è stato assunto dalla cristologia
neotestamentaria, rigorosamente parlando non è nemmeno 'verità' rivelata, bensì dipende dal fatto che la
rivelazione è storicamente condizionata. Su questo punto i cristiani rimproverano agli Ebrei il fatto che la
Bibbia ebraica - la loro Bibbia - non solo di fatto viene fraintesa, ma addirittura che a loro in quanto ebrei viene
alla fine preclusa la possibilità in linea di principio di leggere e comprendere la Bibbia ebraica in quanto essi
sono privi degli occhiali cristologici.
In questa sede non è possibile una critica differenziata dei tre modelli. Tutti e tre i modelli lamentano, ciascuno
alla sua maniera, i seguenti punti deboli: a) non corrispondono in alcun modo all'autocomprensione dei testi del
Primo Testamento/Antico Testamento; b) non danno ragione della complessità dello stesso Antico Testamento;
c) respirano, volenti o nolenti, l'aria di quella 'dottrina del disprezzo', che costituisce un aspetto della fatale
inimicizia teologica verso gli Ebrei, la quale è stata una delle cause scatenanti l' antisemitismo razzista; d) non
lasciano spazi di sorta per poter attribuire all' Antico Testamento un'importanza sua propria o anche solo una
sua permanente eccedenza di significato proprio nel suo rapporto con il Nuovo Testamento; e) di una dignità
teologica da riconoscere anche a una lettura ebraica della Bibbia d'Israele qui non si può parlare nemmeno in
termini iniziali. La consapevolezza maturata lentamente (fin troppo lentamente), per quanto concerne la Šô’â6,
degli intrecci fra l'avversione agli Ebrei motivata teologicamente e l'antisemitismo, esige anche un nuovo
approccio cristiano al Primo Testamento, visto come quella parte della tradizione comune ad ebrei e cristiani,
guardando alla quale dopo la Šô’â7 deve compiersi positivamente il necessario rinnovamento del rapporto fra i
due gruppi. Allo stesso tempo è questa una riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo che sono
costitutive per la vita ecclesiale, come ha affermato il concilio Vaticano II nel 1965 nella Nostra aetate (la
Dichiarazione sul rapporto della chiesa con-le religioni non cristiane):
Scrutando il mistero della chiesa, il sacro concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è
spiritualmente legato con la stirpe di Abramo [...]. Per questo la chiesa non può dimenticare che ha ricevuto la
rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è
degnato di stringere l'antica alleanza, e che essa si nutre della radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i
rami dell'ulivo selvatico (Nostra aetate n.4).
Nella sua storica visita alla Grande Sinagoga di Roma, nel 1986, papa Giovanni Paolo II ha commentato questo
paragrafo nei seguenti termini: L'odierna visita vuole recare un deciso contributo al consolidamento dei buoni
rapporti tra le nostre due comunità, sulla scia degli esempi offerti da tanti uomini e donne che si sono impegnati
e si impegnano tuttora, dall'una e dall'altra parte, perché siano superati i vecchi pregiudizi e si faccia spazio al
5
Il teologùmeno è un'ipotesi teologica riportata come fatto storico. Anche sorta d'immagine, o simbolo, destinata a far capire,
un'affermazione di fede.
6
Sterminio del popolo ebraico durante il secondo conflitto mondiale.
7
Sterminio del popolo ebraico durante il secondo conflitto mondiale.
5
riconoscimento sempre più pieno di quel 'vincolo' e di quel 'comune patrimonio spirituale' che esistono tra ebrei
e cristiani. [...] La religione ebraica non ci è 'estrinseca', ma in un certo qual modo è 'intrinseca' alla nostra
religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun'altra religione. Siete i nostri
fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori.
A partire da questo approccio negli ultimi tre decenni le chiese cristiane, soprattutto quelle dell'Europa e
dell'America del Nord, hanno continuamente ribadito e teologicamente 'riscritto' - in un grandioso consenso
ecumenico - che i tre modelli menzionati non rendono ragione del rapporto particolare che sussiste tra gli ebrei
e i cristiani nel loro approccio con la Bibbia ebraica/ il Primo Testamento, soprattutto allorché non vedono o
non vogliono riconoscere la dimensione ebraica della Bibbia d'Israele, che resta perennemente valida anche per
essi, nonché il mistero di questa Bibbia come fonte di vita per l'ebraismo post-biblico. Questa carenza e il fatto
che il Primo Testamento vuole e deve costituire la radice ebraica del cristianesimo sono i punti di partenza del
'modello dialogico', ovvero del modello discorsivo, che presentiamo ora a grandi linee.
5. Ermeneutica biblica ebraico-cristiana
Riconoscendo il rapporto da secoli problematico dei cristiani con l'Antico Testamento e alla luce della
riscoperta del valore teologico dell'ebraismo post-biblico e contemporaneo, riteniamo imprescindibili le
seguenti caratteristiche di un'ermeneutica biblica ebraico-cristiana:
a) Pur essendo una parte della Bibbia cristiana, l'Antico Testamento presenta proprie voci specifiche,
indipendentemente dal Nuovo Testamento. I testi dell'Antico Testamento possiedono un loro peculiare
messaggio. L'Antico Testamento contiene una sua parola con un valore proprio.
b) Se ci si chiede se dietro alle molteplici voci dell'Antico Testamento sia percepibile una melodia unificante o
se ai testi biblici di entrambi i Testamenti sia sotteso un movimento complessivo, questo non è però la
cristologia, bensì la teologia quale discorso su Dio e a Dio nella sua dedizione, sperimentata o ricercata, al suo
popolo Israele e al mondo come sua creazione. Così ha espresso il problema O.H. Steck: «Qual è l'oggetto
dell'esegesi biblica, e come ne parla la Bibbia? Qual è il nucleo e l'oggetto specifico delle affermazioni bibliche,
in cui sempre - nonostante la divergenza tra i suoi metodi e i suoi risultati - si imbatte l'esegesi, quando le
interroga riguardo a questo? [...] Che cosa è propriamente tramandato nell' intero processo della tradizione, e
che la Bibbia già in se stessa rappresenta? A noi sembra [...] adeguata soprattutto la scelta di chi vede nelle
affermazioni dirette o indirette della tradizione biblica emergere senza eccezioni lo stesso discorso che tiene
uniti entrambi i Testamenti. "Ciò che conduce a Cristo" sarebbe per la concezione e la conoscenza attuali una
scelta a dire il vero unilaterale, col rischio di rivelarsi alquanto restrittiva. La risposta alla domanda su qual è il
contenuto del discorso biblico deve abbracciare un più ampio orientamento: risposta è il Dio vicino, che la già
accennata risposta cristologica include, abbraccia e naturalmente riferisce a sé, perciò nient'altro che la
proclamazione di Dio attuata in un'epoca determinata, rivolta al tempo e alla vita, quale è tramandata [...] nelle
tradizioni bibliche. Dio e il suo agire propizio è il fondamentale, complessivo contenuto della tradizione
biblica». A partire da questa prospettiva teocentrica si può guardare la Bibbia nel suo complesso e nei suoi
singoli passi come contestualizzazione della parola «Dio». Ciò vale sia per la Bibbia ebraica sia per quella
cristiana.
c) Compito e scopo della lettura della Bibbia è dunque quello di non livellare queste diverse contestualizzazioni
e di metterle invece in dialogo tra loro, in modo da far emergere sia la prospettiva teocentrica che tutte le
accomuna, sia i loro specifici contesti storici, sociali e antropologici. La lettura ebraica si attua - e di necessità in modo diverso da quella cristiana, da un lato perché il contesto è ogni volta diverso, ma dall'altro anche
perché gli stessi singoli testi, quali testimoni della vitalità del dono di Dio, presentano molteplici prospettive e
sono aperti a diverse interpretazioni. L'insistenza degli ultimi anni nell'ammettere che le Scritture sacre d'Israele
hanno un duplice esito o una duplice prosecuzione storica - nell' ebraismo e nel cristianesimo - rappresenta una
opzione ermeneutica che rende possibile non solo tollerare, ma anche sollecitare una modalità di lettura ebraica
e una cristiana della Bibbia d'Israele come Tanakh o come Antico/Primo Testamento. Infine, si tratta di
riconoscere ai singoli testi e, nell'ambito della Bibbia cristiana, a entrambe le parti dell'Antico Testamento e del
Nuovo Testamento il loro valore specifico e il loro significato proprio e di introdurre nel discorso canonico
insieme le loro voci distinte. Di conseguenza si può definire questa ermeneutica anche ermeneutica del discorso
canonico.
Metodologicamente o dialogicamente il discorso si realizza allo stesso livello prospettico, per il fatto che le
rispettive concezioni e idee su Dio devono essere ponderate, correlate e valutate. In concreto, questo
programma significa che non vi è alcuna pretesa priorità di significato o di importanza del Nuovo Testamento
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rispetto all'Antico e di conseguenza nessuna superiorità del cristianesimo rispetto all'ebraismo, come invece ha
decretato per secoli la teologia cristiana. Soprattutto si tratta di condurre le voci anticotestamentarie e
neotestamentarie in una reciproca discussione, affinché si illuminino reciprocamente. Ciò può essere chiarito
ricorrendo ad un esempio semplice.
Chi rimprovera al libro del Qoèlet, a motivo della sua insistenza sulla morte come fine della vita, la sua
incompiutezza teologica rispetto al messaggio neotestamentario della risurrezione e di conseguenza vi vede un
tipico limite anticotestamentario, che doveva essere superato dal Nuovo Testamento, non scorge nel Qoèlet un
contributo al messaggio cristiano ed esclude in tal modo dalla teologia neotestamentaria della risurrezione una
dimensione importante, che trova la sua espressione precisamente in questo libro sapienziale.
Provocatoriamente Qoèlet conclude che la morte pone fine alla vita umana e che neppure Dio la elimina, ma
nello stesso tempo per lui la vita umana non è priva di significato. Al contrario: di fronte al potere della morte il
libro del Qoèlet invita alla gioia, la quale è un dono (3,13)8 e nella quale Dio stesso si comunica agli esseri
umani (5,19)9. Così la gioia diventa un'esperienza nella quale l'essere umano trascende la consapevolezza della
propria mortalità e può comprendere la propria vita come vita alla presenza di Dio. Il Dio del Qoèlet è un Dio
del presente, che opera nella vita presente e vuole preservare dalla fuga in un mondo fantastico o in un futuro
immaginario. Proprio una tale fuga esclude Qoèlet: «Perché non ci saranno più né attività né risultati, né
conoscenza né sapienza, nell'aldilà, laggiù dove tu stai andando» (9,10)10. Nel momento in cui Qoèlet deride la
prospettiva di una «vita dopo la morte», egli presenta pure una valorizzazione della «vita prima della morte»,
come tempo della possibile presenza di Dio. Anche dal punto di vista cristiano tale affermazione conserva
intatto il suo valore, giacché non solo non contraddice il Nuovo Testamento, ma al contrario conferisce alla
fede nella «vita dopo la morte», che si pone in una fondamentale continuità con la «vita prima della morte», una
non insignificante dimensione profonda.

SPIEGAZIONE DEI TERMINI TECNICI DELLA SCIENZA BIBLICA
Týpos, tipo (greco: immagine, prefigurazione) Personaggi e avvenimenti biblici intesi o interpretati
come prefigurazione (ombra) di un avvenimento nella sua piena realtà più tardi (→ Antítypos).
 Antítypos (greco: ‘contro-immagine’) È il contrario di týpos, tipo; una figura o un accadimento che si
‘contrappone’ a una figura e a un accadimento precedente, superandolo o interpretandolo (per esempio,
il primo e il secondo esodo; Adamo – Cristo).
 Allegoria (greco: ‘discorsi in immagini, simbolo’) Discorso in immagini o metaforico, fatto per chiarire
o interpretare un dato di fatto o un avvenimento.
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AVVISI: Giovedì prossimo 29 Ottobre 2015 non ci sarà il corso biblico in parrocchia perché impegnati in
seminario per un riflessione sull’enciclica di Papa Francesco LAUDATO SII.
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È il riferimento al capitolo e al versetto di Qoèlet
È il riferimento al capitolo e al versetto di Qoèlet
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È il riferimento al capitolo e al versetto di Qoèlet
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