N. 4 - Anno 2015 COLLEGIO UNIVERSITARIO “LAMARO POZZANI” - FEDERAZIONE NAZIONALE DEI CAVALIERI DEL LAVORO PANORAMA PER I GIOVANI 13 | 2016 01-07-16 PANORAMA PER I GIOVANI EDIZIONE D I G I TA L E Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro Direttore responsabile Mario Sarcinelli Direttore editoriale Stefano Semplici Grafica David D’Hallewin Direzione Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” Via Giuseppe Saredo N. 84 - 00173 Roma, tel. 06 72.971.322 - fax 06 72.971.326 Internet: www.collegiocavalieri.it E-mail: [email protected] Autorizzazione edizione on-line panoramaperigiovani.it Tribunale di Roma n. 361 del 13/10/2008 ECONOMIA CULTURA FORMAZIONE POLIS SCIENZA ECONOMIA N. N. 13 4 - Anno 2016 2015 BREXIT the day after, il giorno più lungo All’indomani del referendum britannico, lo spettro dell’incertezza si aggira per l’Europa di Fabrizio Core Splende un insolito sole estivo il 24 giugno alle otto e mezza di mattina, mentre percorro in bicicletta il ponte di Blackfriars per raggiungere l’università. In un angolo dell’orizzonte sono ammassate dense nubi nerastre, come tipicamente avviene nel volubile cielo inglese. Ho da poco sentito in diretta il Primo Ministro David Cameron dimettersi alla BBC, è la mattina della Brexit. L’aria che si respira il giorno dopo lo storico referendum è strana: la maggior parte delle persone che affollano i marciapiedi della capitale sono silenziose, per lo più intente a consultare gli schermi dei loro cellulari. Il sentimento predominante sembra essere l’incredulità, come un vago senso di stordimento. Quasi nessuno sa bene cosa aspettarsi oggi, i trader della City sono gli unici che sanno come andrà la loro giornata: male. Nelle negoziazioni pre-apertura del London Stock Exchange i titoli bancari inglesi fanno già segnare cifre record, ribassi che superano i trenta punti percentuali. A fine giornata Londra non sarà la piazza peggiore, maglia nera che spetterà a Milano, ma nessun finanziere avrà un buon ricordo di questo giorno. I mercati avevano scommesso fino all’ultimo sul “Remain”, con la sterlina che ha fatto registrare un massimo storico nella giornata di giovedì e oggi si ritrovano col cerino in mano. La situazione dei banchieri ricorda la parabola di Cameron, il quale, giocatosi tutto su un referendum che sarebbe dovuto essere un plebiscito, ha finito per rimetterci la testa. Il vero vincitore politico sembra essere Nigel Farage, che è riuscito addirittura ad oscurare l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, il principale campione del “Leave”. Per Johnson ora si apre una sfida simile a quella persa da Cameron, il quale ha indetto il referendum proprio nella speranza di arginare lo UKIP (il partito di Farage). L’ex “Mayor” dovrà essere più bravo dell’ex “Prime Minister” se vuole assicurarsi la poltrona di traghettatore del Regno Unito fuori dalla UE. All’indomani del referendum è difficilissimo fare previsioni su quali saranno le conseguenze economiche del voto e quale futuro si prospetti per l’economia britannica. Molto dipenderà dalle negoziazioni tra il Paese e l’UE, da chi sarà il primo ministro, da che aspetto avrà la procedura di uscita e dal- 2 la congiuntura economica del prossimo futuro. È forse più facile, ma solo marginalmente, cercare di dire qualcosa su cosa succederà ai mercati finanziari nel breve periodo. Anche in quest’ambito la parola d’ordine è incertezza. I mercati prima del voto hanno scommesso fortemente sul “Remain” e oggi pagano il prezzo del loro errore. C’è da aspettarsi che la loro reazione nei prossimi giorni non sarà molto migliore di quella di venerdì, forse meno emotiva ma è difficile aspettarsi un rimbalzo già a così stretto giro di posta. La palla passa dunque nelle mani della Bank of England, tutti si aspettano che la banca centrale faccia una mossa e le alternative sono sostanzialmente due: alzare o abbassare i tassi. La prima, “hike” in gergo tecnico, si renderà necessaria nel caso in cui il deprezzamento della sterlina, in caduta libera per tutto venerdì, continui, causando un aumento dei prezzi dei beni di provenienza estera tale da determinare una fiammata dell’inflazione. La seconda opzione, corrispondente a una politica monetaria di tipo espansivo, aiuterebbe l’economia britannica nel caso in cui le ripercussioni fossero così dure da frenarne la crescita. Alcuni cronisti della City parlano di tassi che probabilmente arriveranno a toccare lo zero, ma la BOE potrebbe trovarsi in guai seri nel caso si trovasse a fronteggiare una situazione di alta inflazione e crisi economica allo stesso tempo, simile a quella sotto alcuni aspetti a quella vissuta dal Paese nel 1992. Se le acque in cui naviga il Regno Unito sono agitate, mosse all’indomani del voto da venti indipendentisti che soffiano dalle Highlands scozzesi e dall’Ulster, l’Unione Europea non può dormire sonni tranquilli. La finanza contemporanea è molto simile a un unico mercato con diverse succursali, piuttosto che una collezione di mercati separati. Ciò che succede a Londra non può lasciare indifferenti le altre piazze del continente, tanto più dato il ruolo di capitale finanziaria europea che la City ha conquistato nel tempo e che anche all’indomani del voto il neo sindaco labourista Sadiq Khan ha rivendicato con orgoglio. Ma lo spettro dell’incertezza si aggira per l’Europa, si traduce in volatilità di titoli e indici e permea il sistema finanziario ed economico, rendendo, ci si può scommettere, il clima tutt’altro che favorevole per gli affari. Cosa fare dunque oggi, all’indomani del venerdì più nero per l’Europa e la sua Unione, in cui l’incredulità ha ceduto il passo ad una strana tristezza, un assordante senso di vuoto? Il consiglio che mi sento dare a me stesso è lo stesso che ho dato ai miei alunni venerdì mattina: cercare di superare l’emotività del risultato e guardarsi intorno per capire. Gli europei che vivono a Londra oggi hanno la grandissima opportunità di poter avere una prospettiva privilegiata su questo pezzo di storia contemporanea. Dobbiamo cercare di non sprecare questa opportunità e impegnarci a capire, non solo cosa sia successo, ma soprattutto perché. Oggi più che mai è necessario smettere di chiederci cosa ci sia nel futuro e prenderci un minuto per interrogarci seriamente su cosa sia stato il passato. PANORAMA PER I GIOVANI Fabrizio Core è PhD candidate presso The London School of Economics and political sciences CULTURA N. N. 13 4 - Anno 2016 2015 In tempi di luce declinante “Saša è all’Ovest”. […] “In America?” ” No” disse Kurt “Non in America, all’Ovest. In Germania Ovest” “Lo so” disse Nadežna Ivanovna. “Germania Ovest, è in America”. di Desirée Scanniello Sono questi i confini che delinea Eugen Ruge nella visione del mondo dei suoi affascinanti personaggi, mediante i quali, in un avvincente romanzo, si propone di raccontare i cardini della storia dagli anni sessanta al 1989, e poi oltre, fino all’11 settembre 2001. Un testo narrativo costituito da “cartoline”, immagini fossilizzate in un momento definito, in cui compare la storia descritta da una serie di percezioni più o meno corrette, estremamente soggettive. La trama ruota intorno al compleanno del novantenne Wilhelm, il 1 ottobre 1989, quando il muro di Berlino è ancora in piedi, ma la Deutsche Demokratische Republik ha già iniziato a dare segni di cedimento. La notizia irrompe proprio nel clima della festa: suo nipote Alexander detto Saša è fuggito ad Ovest. Significa dunque che non potrà più rivedere la sua famiglia, ma soprattutto che, per quieto vivere della stessa, concettualmente non ne fa più parte. Questo avvenimento fa da perno al racconto delle vicende dell’intera famiglia Umenitzer: l’arrivo in Germania dal Messico di Charlotte e Wilhelm nel ‘52, in veste di comunisti pronti a servire la patria, la vita del loro figlio Kurt che sposa la sempliciotta russa Irina, e a sua volta del loro figlio Alexander, nato già nel clima sovversivo degli ultimi anni della DDR. Un susseguirsi di vicende personali che discendono tutt’altro che casualmente dagli avvenimenti di quegli anni, portandone alla luce contraddizioni e risvolti singolari. Il messaggio del romanzo è magnificamente riassunto nel titolo. Il “tempo di luce declinante” è la stagione autunnale, ripresa nelle scenografie del testo a identificare il tempo del ricordo e della consapevolezza. È luce declinante quella di ciascuna vita raccontata nel testo, secondo una tradizione consolidata tra gli autori postmoderni che hanno trattato il tema del muro e delle verità sconcertanti sulla Germania Est, per i quali il fallimento della Repubblica Democratica può essere raccontato in primo luogo nel fallimento personale di ciascuna esistenza vissuta da Ossis. Non meno importante il riferimento al declinare del sole comunista, simbolo di un’aggressiva propaganda ignara del fatto che l’alba splendente e rossa, presente su ogni volantino o manifesto, può allo stesso modo rappresentare profeticamente un tramonto. La chiave del romanzo è la prospettiva. Molti episodi sono ripresi più volte dal punto di vista di ciascun personaggio, producendo un effetto narrativo che confonde il lettore ma che risulta essenziale nel descrivere quel gap generazionale che si evince dalle mentalità dei personaggi, frutto di un periodo storico così singolare. Nessun avvenimento viene concretamente raccontato, eccetto la fuga di Saša. Tutto quello che accade va letto tra le righe di discorsi diretti pungenti e veloci, che spesso rispecchiano perfettamente il duplice linguaggio vigente nella DDR: un codice cosiddetto pubblico, impregnato di una fittizia fiducia nel socialismo reale, e il sottocodice del privato, nel quale emergono la delusione, la sfiducia nel futuro e la necessità di poter andare oltre le innumerevoli barriere, fisiche e non, in cui la Germania dell’Est si era rinchiusa. Un libro complesso, che presenta più piani di lettura e racchiude più di una riflessione a riguardo di un periodo storico sul quale, considerate le recenti produzioni alle quali questo testo si affianca, non si è ancora pronti a dare un giudizio univoco e conclusivo. Piuttosto, emerge una ricerca di confronti e corrispondenze con quella che è oggi la Germania riunificata. PANORAMA PER I GIOVANI 3 FORMAZIONE N. N. 13 4 - Anno 2016 2015 Sull’(ab)uso delle slide a lezione Sembra che docenti e studenti universitari non possano più farne a meno. Eppure, l’impatto delle diapositive sulla didattica è controverso. di Giulio Tanzarella Non saprei dire in quale misura l’insegnamento universitario abbia subito trasformazioni rispetto alla generazione dei nostri genitori. È plausibile che l’evoluzione tecnica abbia determinato cambiamenti di rilievo nell’area scientifico-sanitaria e ingegneristica, con riferimento alle strumentazioni di laboratorio; in tal senso si potrebbe pensare che settori disciplinari legati a un impianto didattico più teorico, come l’area umanistica e quella delle scienze sociali, siano potenzialmente immuni al trascorrere degli anni, fatto salvo il fisiologico adeguamento dei programmi. Questo è vero solo in parte. Provate a risolvere un problema di matematica finanziaria con carta e penna. La lunghezza e ripetitività dei calcoli sarebbe esasperante. Per determinare il tasso interno di rendimento di un investimento non vi sarebbe altro modo che procedere a tentativi, affastellando conti su conti nell’attesa di raggiungere un risultato accettabile. Oggi, con Excel, l’immediatezza dei calcoli consente di risparmiare tempo per sviluppare un procedimento analitico più elaborato, stimolando la capacità di ragionamento anziché affliggere lo studente con una revisione manuale di virgole e decimali. Pensate alla facilità con cui i database informatici consentono di reperire fonti bibliografiche per uno studente di lettere o filosofia, o alla semplicità con cui uno studente di lingue orientali può risolvere un dubbio sulla pronuncia o sull’uso di un lemma mediante una digitazione su un motore di ricerca. La tecnologia può essere uno strumento formidabile per il supporto allo studio. Ma, entrando nel merito del rapporto docente-discente, provoca a mio avviso effetti controversi. E veniamo al tema centrale della nostra discussione, cioè l’(ab) uso delle slides a lezione. La proiezione di diapositive Power Point sembra essere diventata una necessità irrinunciabile per i docenti universitari, in modo forse meno pronunciato nelle facoltà umanistiche e giuridiche, ma pur sempre trasversale ai più disparati ambiti disciplinari. È possibile che i questionari di valutazione Anvur abbiano esercitato una certa influenza, poiché i professori sono valutati dagli studenti (anche) con riferimento alla qualità dei materiali didattici. Sta di fatto che il ricorso alle slides rappresenta a mio modo di vedere una delle più tangi- 4 bili differenze nel passaggio intergenerazionale dei metodi di insegnamento. Le slides sono senz’altro utili quando non esistono testi di riferimento adeguati: penso ai principi contabili internazionali, in cui la continua evoluzione della disciplina rende impossibile la redazione di un manuale e in cui il rilievo applicativo assume una dimensione preponderante, una volta chiariti gli assunti di base. Sono preziose quando il docente vuole commentare dati, serie storiche e grafici, fornendo un riferimento puntuale e di impatto visivo. Aiutano lo studente a focalizzarsi su alcuni aspetti e non altri; inoltre, discostandosi dal libro di testo, consentono al professore di dare un’impronta più personale al corso. Al contrario, le slides sono inutili quando forniscono una pedissequa duplicazione del libro di testo, ricalcandone fedelmente i tratti salienti. Peggio, sono dannose quando “smontano” la complessità di una costruzione analitica e somministrano allo studente un sapere già “digerito”, al costo di semplificazioni che impoveriscono la trattazione e limitano la capacità di spaziare fra le diverse sfaccettature di un problema.Come sempre vi sono pro e contro, che dipendono dall’uso che delle slides viene fatto, da parte di insegnanti e allievi. Indubbiamente esse costituiscono uno strumento in più per lo studio, e questo è un grande vantaggio. Tra gli svantaggi, considererei una modalità di apprendimento a lezione prevalentemente caratterizzata da ricezione passiva, che trova sbocco naturale nella noia. Se la lezione si riduce ad una mera lettura delle diapositive proiettate, senza apporti aggiuntivi del docente, non vi sono più incentivi alla frequenza ed è la bravura stessa del docente ad essere messa in discussione. Dalla mia esperienza personale, posso affermare che i docenti che ho apprezzato di più sono stati quelli che facevano lezione con in mano il gessetto o il pennarello, anziché il telecomando. Questo non significa che sia riprovevole un uso sistematico delle slides: se ricche e dettagliate, esse possono anche sostituirsi del tutto al libro di testo, con risparmio di carta e denaro. L’importante è che il professore non ne diventi dipendente. PANORAMA PER I GIOVANI POLIS N. N. 13 4 - Anno 2016 2015 Ibadismo e Oman: la terza via dell’islam e il ruolo di mediatore Interpretare le guerre in Medioriente in chiave religiosa risulterebbe eccessivamente superficiale. Tuttavia, la moderazione della fede ibadita del 75% della popolazione dell’Oman è sicuramente rilevante per il ruolo di mediatore che il Sultanato spesso assume. di Edoardo Giardina Sebbene interpretare le varie guerre in Medioriente come una semplice lotta fratricida tra sunniti e sciiti possa risultare eccessivamente banale e superficiale[1], resta comunque indubbio che negli scontri in corso in Yemen, Iraq e Siria siano sempre coinvolti (più o meno direttamente) l’Arabia Saudita sunnita, custode delle città sante dell’islam, e l’Iran, Paese sciita per antonomasia. In mezzo a questi due potenti attori regionali si inserisce, sia dottrinalmente che diplomaticamente, il Sultanato dell’Oman. Il 75% dei cittadini dell’Oman è ibadita[2], pertanto essi non possono essere considerati né sunniti né sciiti; piuttosto, la loro origine va ricercata agli albori dello scontro tra le altre due correnti e per questo motivo rappresenterebbero la terza via dell’islam. Nel primo secolo dell’egira, non senza un’accezione lievemente peggiorativa che andava a sottolineare le loro tendenze scismatiche, essi venivano chiamati kharigiti (dall’arabo khārij, plurale: khawārij), letteralmente “coloro che escono[3]”. Nonostante la comunità ibadita venga generalmente rappresentata come pacifica e moderata, i primi kharigiti risultavano molto più radicali. Inizialmente sostenitori delle pretese di Alì al califfato[4], ne presero le distanze quando egli decise di non combattere ma di scendere a compromessi con la controparte sunnita – anche se all’epoca non si doveva ancora avere la consapevolezza di una distinzione così marcata tra le due principali correnti islamiche. A questa predilezione per la lotta armata accompagnarono una concezione dell’autorità molto particolare: in una sorta di democrazia ante litteram – almeno per quanto riguarda la tradizione araba – la guida della comunità veniva eletta in base alle sue qualità di buon musulmano e non acquisiva legittimità solo grazie alla sua ascendenza dinastica. Venendo sconfitti più volte sul campo di battaglia, i kharigiti furono costretti a disperdersi e si frammentarono in numerose sette, delle quali l’unica sopravvissuta fino ad oggi è per l’appunto quella ibadita, chiamata così dal nome del fondatore Abdallah ibn Ibad. Quest’ultima rappresentava probabilmente la corrente più moderata del kharigismo, in quanto (tra le sue altre peculiarità) rinuncia all’assassinio politico e ad ogni forma di terrorismo, accetta i matrimoni misti con gli altri musulmani e afferma la natura creata del Corano – permettendone così un’interpretazione allegorica e non letterale. L’Oman è l’unico paese dove gli ibaditi si trovano in maggioranza rispetto alle altre confessioni, ma ne esistono alcune piccole comunità anche in Algeria, in Libia, sull’isola di Gerba in Tunisia e a Zanzibar[5]. Quanto sarebbe riduttivo considerare la “competizione” tra Iran e Arabia Saudita come un atavico scontro tra sciiti e sunniti, tanto sarebbe superficiale analizzare la politica estera dell’Oman solamente in chiave della confessione professata da tre quarti della sua popolazione. Fatto sta, tuttavia, che il Sultanato ha finora dimostrato un’estrema elasticità diplomatica, la quale lo ha portato sia a ricoprire un ruolo centrale nel riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran in vista dell’accordo sul nucleare firmato a Losanna il 2 aprile 2015, che a prendere una posizione eterodossa all’interno del Consiglio di cooperazione del golfo, non seguendo l’Arabia Saudita nella sua linea intransigente nei confronti dell’Iran[6]. [1] Molto più lucida, per esempio, l’analisi del prof. Nicola Pedde fatta per l’Huffington Post in Lo scontro tra Arabia Saudita e Iran non è tra sciiti e sunniti: http://www.huffingtonpost.it/ nicola-pedde/lo-scontro-tra-arabia-saudita-e-iran-non-e-tra-sciiti-e-sunniti_b_8924814.html . [2] (ndr) Dati statistici tratti dal Cia World Factbook. [3] A. Ventura, Confessioni scismatiche, eterodossie e nuove religioni sorte nell’islām, in G. Filoramo (ed.), Islām, 3° ed., Roma-Bari, Laterza, 2012, p. 318. [4] Per un’estrema sintesi dei fattori che hanno portato alla formazione della corrente sciita cfr. il nostro articolo Minoranze e neologismi del Siraq: https://panoramaperigiovani.it/it/ politica-nazioni/minoranze-e-neologismi-del-siraq.html [5] A. Ventura, op. cit., pp. 319-323. PANORAMA PER I GIOVANI 5 SCIENZA N. N. 13 4- -Anno Anno2016 2015 Uno sguardo alla tiroidite di Hashimoto Una patologia oggi molto comune, ma che lascia ancora ampio spazio alla ricerca. di Davide Masi e Laura Zanandrea Le tiroiditi sono processi infiammatori a carico della ghiandola tiroidea, con decorso ed eziologia variabili. La ghiandola infiammata può produrre ormoni in eccesso, portando in tal caso ad una condizione di ipertiroidismo, o al contrario possedere un numero inferiore di cellule follicolari con un conseguente ipotiroidismo. Si conoscono tiroiditi a carattere acuto causate da infezioni batteriche, a carattere subacuto di origine virale e a decorso cronico. Tre queste ultime, si individuano le tiroiditi autoimmuni, in cui la disfunzione tiroidea è la conseguenza di un errore del sistema immunitario. La tiroidite di Hashimoto (TA), anche nota come tiroidite autoimmune o tiroidite cronica linfocitaria, rappresenta negli adulti la variante più frequente di tiroidite cronica autoimmune e la causa più diffusa di ipotiroidismo, con insorgenza tra i 45 e i 65 anni, mentre in età pediatrica è la più comune di tutte le varie forme di tiroiditi. Questa patologia fu descritta per la prima volta dal medico giapponese Hashimoto nel 1912, in riferimento ad individui adulti, e poi riconosciuta quale malattia dell’infanzia nel 1954, quando venne osservata per la prima volta in sei bambine. La prevalenza della TA è di circa 0,3-3,3% nei bambini sopra i 3 anni e negli adolescenti, mentre nella popolazione adulta è del 5-20% nelle donne e 1-5% negli uomini[1]. Nella tiroidite di Hashimoto si assiste alla distruzione del parenchima della ghiandola con un meccanismo autoimmune, cioè da parte di anticorpi prodotti dallo stesso organismo e attivi contro antigeni tiroidei: in circolo ci sono anticorpi anti-Tg contro la tireoglobulina (precursore degli ormoni tiroidei) e anti-TPO, ossia contro l’enzima tireoperossidasi, coinvolto nella sintesi di ormoni tiroidei a partire dalla tireoglobulina. Frequente è la comparsa del gozzo, che avviene solitamente in modo graduale, in genere accompagnato da una lenta progressione verso l’ipotiroidismo. Tuttavia, in alcuni casi si manifestano fasi transitorie di ipertiroidismo (Hashitossicosi), data la presenza di anticorpi tireostimolanti. Inoltre si può associare ad oftalmopatia esoftalmica. È stata documentata anche la frequente associazione tra TA e altre patologie autoimmuni, quali il diabete mellito di tipo 1 e la malattia celiaca, mentre più raramente si trova una correlazione con il linfoma maligno primitivo della tiroide. La TA è una malattia multifattoriale dovuta ad un’interazione tra fattori genetici ed ambientali, ma ancora non c’è chiarezza circa i motivi scatenanti. La componente genetica spiegherebbe circa il 70% del rischio di sviluppare tale patologia, mentre i fattori ambientali agirebbero come ‘triggers’ in soggetti geneticamente predisposti. I geni chiamati in causa possono essere distinti in due grandi gruppi: gli immuno-modulatori e i tiroidospecifici, tra cui quelli codificanti la tireoglobulina e il recettore del TSH (ormone ipofisario che stimola l’attività della ghiandola). Per quanto riguarda i fattori ambientali, un eccesso di iodio, un deficit di selenio, il fumo, i farmaci sono considerati come potenziali fattori di rischio. Nello specifico, riguardo al selenio, esso svolge un ruolo fondamentale a livello tiroideo, in quanto vari enzimi ampiamente rappresentati nella ghiandola tiroidea sono selenoproteine e quindi un suo deficit può contribuire alla patogenesi di alterazioni tiroidee. È stato anche ipotizzato un ruolo importante da parte di virus, quali il virus dell’epatite C e l’herpesvirus, ma l’associazione tra infezioni virali e TA risulta difficile da stabilire. La diagnosi si basa sull’esame ecografico e sulla presenza di elevati valori di anticorpi anti-Tg e anti TPO nel sangue, associati ad una funzionalità tiroidea che può essere estremamente variabile in base allo stadio della malattia. In relazione a quest’ultima è la terapia, che in genere consiste nella somministrazione di levotiroxina (LT4), in modo da compensare la scarsa produzione di ormoni tiroidei. È importante diagnosticare tempestivamente la TA o un’altra eventuale disfunzione della tiroide. Infatti questa ghiandola svolge un ruolo fondamentale nell’arco di tutta la vita, dal periodo prenatale alla terza età, poiché i suoi ormoni regolano importanti processi, quali lo sviluppo neuropsichico e l’accrescimento somatico, la funzione cardiovascolare, il metabolismo basale, lipidico, glucidico e osseo. Per questo dal 23 al 27 maggio si è svolta la Settimana Mondiale della Tiroide, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e il mondo scientifico sui crescenti problemi legati alle malattie di questa ghiandola. [1] CORE CURRICULUM endocrinologia e metabolismo - Faglia G. 6 PANORAMA PER I GIOVANI RUBRICA SU ROMA N. N. 13 4 - Anno 2016 2015 Balla mia Esmeralda, canta mia Esmeralda Amore, religione, passione e gelosia, tutto condensato in uno spettacolo superbo. di Benedetta Muccioli Per tutto il mese di giugno, al Foro Italico, va in scena il musical Notre Dame de Paris, musicato da Riccardo Cocciante, con il cast originale. La forza della storia raccontata da Victor Hugo si esprime nelle voci potenti ed emozionanti degli artisti: apre lo spettacolo Matteo Setti, nei panni del poeta Gringoire, che canta Il tempo delle cattedrali, canzone che manifesta l’esaurirsi della superstizione medievale racchiusa nelle cattedrali e il lanciarsi nel mondo laico e autonomo delle città. Gli risponde Vittorio Matteucci che interpreta Frollo, arcidiacono di Notre Dame, reazionario e follemente innamorato della bella Esmeralda, impersonata da Lola Ponce, che si presenta sulla scena intonando Zingara. Soltanto dopo altre canzoni compare sul palco Quasimodo, meravigliosamente incarnato da Giò di Tonno, che conosciamo durante la Festa dei folli, della quale viene proclamato re a causa della sua bruttezza. E che dire di Febo, rappresentato da Graziano Galatone: capitano audace e senza moralità, promesso sposo di Fiordaliso, dà appuntamento ad Esmeralda al Val d’amore, una casa di tolleranza frequentata da svariati cittadini parigini. La storia prosegue e si esaurisce in un finale tragico: la bella gitana è condannata all’impiccagione e il campanaro, l’unico veramente innamorato di lei, dopo aver gridato al cielo Balla mia Esmeralda! decide di lasciarsi morire attaccato al corpo di lei. Vorrei soffermarmi su due aspetti: le voci e il corpo di ballo. Le prime sono qualcosa di stupefacente ed esprimono me- ravigliosamente il dramma esterno e interiore che ognuno di questi personaggi si trova ad affrontare: dalla voce limpida e perfetta del poeta Gringoire ai toni ruggenti di Quasimodo, nel momento in cui canta Dio, quanto è ingiusto il mondo!, al canto di Esmeralda che chiede alla notte il suo diritto alla vita e all’amore, Vivere. I ballerini regalano invece uno spettacolo che appaga l’occhio dello spettatore: la scena è sempre piena, gli artisti si muovono con naturalezza e compiono delle acrobazie strabilianti, come nel momento in cui si vedono scendere delle campane dall’alto e, attaccati sotto, ci sono dei trapezisti, o come quando, durante l’assedio a Notre Dame, altri acrobati si arrampicano sul muro della cattedrale. Oltre questo, mi ha colpito il tema amoroso, ma ritengo che nello spettacolo siano state affrontate con efficacia delle problematiche estremamente attuali, come l’accoglienza degli stranieri nel nostro mondo e il continuo interferire della chiesa nella vita personale dei cittadini: ho ben presente il dialogo lirico tra Frollo e Gringoire in Parlami di Firenze. Il primo chiede al secondo di parlargli del Rinascimento italiano: si mostra preoccupato perché il mondo ecclesiastico sta andando in frantumi a favore di quella che è l’epoca dell’intelletto umano. Quello che Frollo non riesce a comprendere è proprio l’inno di Esmeralda di cui si accennava prima: vivere per amare, anche senza patria, anche senza Dio! PANORAMA PER I GIOVANI 7