A proposito di «Quando a cantar con organi si stea»
(‘Purg’. IX, 144): una proposta di correzione interpretativa
MATTIA ROSSI
Istituto Liturgico-Musicale-Asti
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RIASSUNTO:
Il presente articolo torna ad esaminare un passo particolarmente critico dal
punto di vista dell’analisi musicologica presente nel Purgatorio (IX, 144-5). Le
interpretazione finora offerte dei versi in questione – riassumibili in due gruppi
– parrebbero, in realtà, alquanto dubbie: Dante non si riferirebbe, polemicamente,
alla polifonia (Organum o Ars nova), ma, bensì, ad un’altra pratica liturgica largamente in uso tra Medioevo e Rinascimento. Questa nuova interpretazione, che
correggerebbe, così, i commenti precedenti, verrebbe avallata da alcuni commentatori antichi e dalle testimonianze storiche e organarie dell’epoca.
PAROLE CHIAVE: Purgatorio, organi, polifonia, organum, Ars nova, canto gregoriano, alternatim.
ABSTRACT:
The present article is an additional contribution to the analysis of lines IX,
144-5 of Dante's Purgatory, whose musicological analysis has proven to be particularly difficult. Two kinds of interpretations have been given until now–none
of which are completely convincing, and leave several doubts open. It appears
that Dante did not, polemically, refer to polyphony (Organum or Ars Nova) but
to a different liturgical practice which was frequent during the Middle Age and
Rinascimento. This new interpretation corrects the previous commentaries, it is
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confirmed by several ancient annotators, and in line with some historical and
organ building texts of that period.
KEY WORDS: Purgatorio, organi, polyphony, organum, Ars nova, Gregorian
chant, alternatim.
In un articolo di Chiara Cappuccio, pubblicato qualche anno fa su queste pagine (Cappuccio 2007), dopo un preciso ed ottimo excursus sui dibattiti medievali intorno alla neonata tecnica polifonica, l’autrice, nel
tentativo di dimostrare come Dante non fosse affatto polemico con le
nuove forme vocali, offre l’interpretazione di alcuni versi del Purgatorio.
Se per forza di cose, come si vedrà, mi trovo d’accordo sul fatto che Dante
non abbia in alcun modo occhi pregiudizievoli sulla polifonia, sono portato a dissentire con l’autrice – e, in questo breve contributo, mi premuro
di dimostrarne il motivo – sull’esegesi di quel passo del poema dantesco
addotto come prova.
Il celebre brano in questione si trova in Purgatorio IX, 139-145:
Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e Te Deum Laudamus mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prender si sole
quando a cantar con organi si stea,
ch’or sì, or no s’intendon le parole.
Secondo Cappuccio, «la critica si divide in due blocchi: chi ritiene che
qui Dante si riferisca ad una esecuzione vocale accompagnata dal suono
dell’organo […] e chi, invece, propende per assegnare al termine organi
quello tecnico di canto polifonico» (2007: 49); e, ancora, l’interpretazione
del verso «quando a cantar con organi si stea» oscilla «tra due interpretazioni concrete: o Dante si riferisce alla tecnica polifonica o allo strumento
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musicale» (2007: 52). In realtà, a mio parere, sono falsate e fuorvianti entrambe le ipotesi.
Non essendo questa la sede per spingersi ad appurare se nel Medioevo
l’organo accompagnasse già il canto – spinosa questione! –, qualora volessimo interpretare «cantar con organi» come canto accompagnato dallo
strumento musicale, ne deriverebbe una lettura piuttosto stravagante del
verso successivo «ch’or sì, or no s’intendon le parole»: l’organo a tratti
copre il canto e a tratti no. Attribuire all’organo la causa di un aumento e
rilascio improvviso del suono mi sembra (e parlo anche da organista) piuttosto fuorviante.
Veniamo alla seconda ipotesi, quella secondo la quale il termine «organi» non indicherebbe lo strumento musicale, quanto, piuttosto, la tecnica vocale dell’organum. Mi pare di notare che tra gli studi, anche
specialistici, in materia vi sia qualche confusione in merito alla nascita
della polifonia, almeno quella sacra.
L’organum, nella sua forma primitiva, consisteva nel sovrapporre alla
melodia gregoriana una seconda voce, solitamente in un intervallo di
quarta o di quinta giusta: le voci, dunque, procedevano con gli stessi movimenti, isoritmicamente. Semplificando, ad ogni nota, tutte le voci cantavano la stessa sillaba: una polifonia ancora in forma embrionale. A tal
proposito occorre ricordare che l’esperienza polifonica italiana fu ben diversa da quella francese di San Marziale di Limoges o di Notre-Dame,
scuole che raffinarono e svilupparono tecniche più avanzate (del resto è
da Avignone che Giovanni XXII si scaglia contro un certo tipo di polifonia
con la bolla Docta Sanctorum).1 L’Ars nova francese fu ‘esportata’ certamente anche in Italia e a Firenze nel Trecento, ma riguardò in gran parte
i repertori profani. I procedimenti compositivi polifonici liturgici italiani,
a quest’altezza cronologica, sono ben diversi dall’idea di fitta polifonia
vocale contrappuntata che abbiamo noi oggi: fino al Quattrocento avanzato la nostra polifonia proseguì largamente su modelli piuttosto stereotipati simili a quell’intervallare di quarta o di quinta dell’organum con le
parti nota contro nota (Gallo 1966). Si trattava, se vogliamo, non di poli157
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fonia vera e propria tale da non più permettere la comprensione del testo,
ma di una sorta di ‘ispessimento’ della monodia liturgica (Gozzi-Milanese
2004).
Non vi sono dubbi che anche un tale repertorio potesse esistere nella
Cattedrale di Firenze (Cattin 1998), ma ritenere d’ufficio che «cantare
“cum organo” significasse eseguire una melodia a due (o più) voci» (Cattin 1998: 31) non mi sembra così esente da dubbi. Per indicare il canto polifonico (organum), la rubrica più frequente era canere organice, mentre
le varie indicazioni ad organo, sub organo, in organo e, frequentissimo,
cum organo (il «con organi» utilizzato da Dante, appunto)2 indicavano
quasi sempre la pratica dell’alternatim. Essa consisteva nell’alternare il
coro e l’organo nel canto degli inni e dell’Ordinario della messa: all’organo spettavano i versetti dispari, esso si sostituiva letteralmente al coro
improvvisando variazioni sul tema gregoriano. Questa mi pare la soluzione più sensata del passo dantesco: «ch’or sì, or no s’intendon le parole»
significherebbe, dunque, che le parole s’intendono quando il coro canta i
propri versetti, mentre non si intendono i versi suonati dall’organo.
Questa prassi liturgico-musicale ha, inoltre, una forte simbologia teologica.3 L’armonia ‘terrena’, infatti, è solamente un raggio proveniente
da quella celeste: da qui deriva l’ovvio primato della musica sacra in
quanto diretta emanazione di Dio. Questa armonia si manifesta attraverso
i cori angelici e tramite il movimento dei cerchi concentrici del Paradiso.
I cori angelici, nella simbologia sacro-musicale medievale, dovevano
esser rappresentati dai cori dei chierici e di pueri cantores. La risonanza
terrena dell’armonia delle sfere era, invece, affidata al suono dell’organo.
Nel Medioevo il ripieno dell’organo, cioè il suono prodotto dalla sovrapposizione simultanea di suoni sempre più acuti, era sempre un unico
blocco e all’organista non era dato di separare le varie file di registri. Questo perché esso doveva simboleggiare l’harmonia mundi e, nella sua unità,
totalità e completezza, l’organo era l’immagine del cosmo cristiano. L’organo e il coro, che nel canto gregoriano non venivano mai a sovrapporsi
rimanendo così due entità distinte, identificavano espressioni dirette e separate della musica divina: l’alternatim rappresentava, così, l’alternanza
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tra i cori degli angeli (schola cantorum) e l’armonia delle sfere (organo).
L’organo è, quindi, il correlativo del coro e intervenendo con i suoi versetti egli canta e prega nello stesso modo in cui canta e prega la schola.
Ha dimostrato la stessa Chiara Cappuccio come un’attenta analisi dei
fenomeni sonori all’interno della Commedia porti alla luce il modo diverso con cui Dante tratta la musica lungo lo svilupparsi del poema: il
Purgatorio è totalmente pervaso dal canto gregoriano, una musica terrena
legata alla pratica liturgica che ben si addice alla condizione di espiazione
della peregrinatio purgatoriale, mentre nel Paradiso, dove si compie la
beatitudine delle anime, le melodie diventano simbolo dell’irraggiungibilità e della perfezione tradotte in musica dalla polifonia (Cappuccio 2005:
36-38). Vi è, quindi, una notevole verisimiglianza nell’affermare che,
nella psicologia dantesca, l’inserimento di un canto polifonico, la cui intelligibilità era simbolo del mistero divino, nel Purgatorio (anzi, alle soglie) rappresenta una anormalità. Tanto più che, come si è detto in
apertura, i versi della Commedia in questione sono, quantunque carichi di
immensi dubbi musicologici, interpretati come polemici accenni di Dante
contro una pratica polifonica. In realtà è interessante notare come se da un
lato è, se non falso, quantomeno discutibile applicare tale interpretazione
a tali versi, dall’altro, un cenno dantesco su questo problema si può ricercare, ma laddove il canto polifonico fa da colonna sonora: il Paradiso:
E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinnio
a tal da cui la nota non è intesa,
così da’ lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva senza intender l’inno.
Ben m’accors’io ch’elli era d’alte lode,
però ch’a me venìa «Resurgi» e «Vinci»
come a colui che non intende e ode.
(Paradiso XIV, 118-126).
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La similitudine e il lessico, in questi versi, mi sembrano sufficientemente inequivocabili e precisi: come in un accordo strumentale (di giga
o arpa) non è possibile riconoscere le singole note che lo compongono,
così è quel canto che si ascolta senza capirne parola per parola. Verrebbe,
dunque, da chiedersi: come mai Dante avrebbe dovuto forzare, attraverso
l’inserimento di un riferimento polifonico nel Purgatorio, il proprio disegno di psicologizzazione musicale della Commedia e inserire due versi
con intento polemico e un po’ denigratorio, con un linguaggio tutt’altro
che chiaro, nei confronti della polifonia quando tutto ciò sarà presente
qualche canto dopo? Questo, a mio personale giudizio, non depone a favore dell’interpretazione polifonica e anche quest’ultimo quesito si risolverebbe interpretando quell’esecuzione del Te Deum come gregoriana in
alternatim.
Occorre, inoltre, ricordare che la mia proposta verrebbe avallata da una
illustre testimonianza antica. Mi riferisco al commento dell’umanista e
commentatore dantesco Cristoforo Landino: «Preterea pone, che tale
himno si cantassi l’un verso con la voce, l’altro co gl’organi» (2001:
1196). Egli era pronipote dell’organista fiorentino Francesco Landino,
vissuto tra il 1325 e il 1397, il maggior organista del Trecento: si presume,
dunque, che Cristoforo, oltre che dantista, fosse tutt’altro che digiuno di
prassi liturgica e musicale.
Anche l’organaria ci può venire in aiuto. Nel 1383 veniva costruito il
nuovo organo della cattedrale di Firenze: non vi sono quindi dubbi sulla
presenza di organi all’epoca di Dante. Vi è, però, ancor di più: Filippo
Villani (1325-1407), umanista che scrisse gli annali del comune di Firenze, scrive, a proposito dell’organista Bartolo (ante 1364), che, cantandosi il Credo parte con l’organo e parte in canto, il popolo avesse
continuato a cantarlo senza più lasciare spazio ai versetti dell’organo e
sopprimendo, così, l’«antiquam consuetudinem»:
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Quorum primus [Giovanni da Cascia, nda], cum partim organo,
partim modulatis per concentum vocibus in nostra maiori ecclesia
symbolum caneretur tam suavi dulcique sono artisque diligentia
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eumdem intonuit, ut relicta consueta interpositione organi, cum
magno concursu populi, naturalem seguentis harmoniam, deinceps
vivis vocibus caneretur, primusque omnium antiquam consuetudinem chori virilis et organi aboleri coegit.4
Sembra, dunque, certo e provato che a Firenze, poco prima di Dante,
ci fosse non solo una tradizione organaria e organistica, ma che l’alternatim fosse già da tempo radicato e praticato.
In conclusione, se lo scopo di questo contributo voleva essere quello di
correggere, alla luce di una lettura musicologica, l’interpretazione data a
due versi della Commedia dantesca, è emerso, altresì, come sia possibile
attestare la pratica dell’alternatim precedentemente al Codice di Faenza5
e come tale prassi sia possibile farla risalire sicuramente agli inizi del XIV
secolo riconoscendo in Dante il suo primo testimone.
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NOTE
Non si trattò di una condanna in toto: nella quarta parte del documento, Giovanni XXII ammette che il canto gregoriano possa venire raddoppiato con intervalli di ottava, di quinta e di quarta per moto parallelo (Klaper 2010).
1
Riguardo al fatto che Dante impieghi il plurale («organi»), ricordo che lo
strumento musicale era sovente denominato al plurale per indicarne la pluralità
delle canne.
2
3
4
Su questo cfr. Ruggeri 2002.
Villani 1847: 34.
Il Cod. 117 della Biblioteca Comunale di Faenza (detto anche Bonadies dal
nome latinizzato del suo antico proprietario Johannes Godendach) è quella che,
solitamente, si suole portare come prima attestazione dell’alternatim. Si tratta di
un codice risalente all’inizio del secolo XV. Esso riporta i primi esempi scritti di
tale pratica: alcuni versetti al Kyrie e al Gloria della Messa IV Cunctipotens genitor Deus, ma proprio la maturità artistica di tali versetti dovrebbe far pensare
a una salda tradizione pregressa.
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