Studio tramite fotocorrelazione di sistemi - Roma

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA LA SAPIENZA
Facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali
TESI DI LAUREA IN FISICA
A.A. 2002/2003
Studio tramite fotocorrelazione di
sistemi colloidali in stati stazionari
di non equilibrio
Relatori:
Dott. Roberto Di Leonardo, Prof. Giancarlo Ruocco
Candidata:
Francesca Ianni
Indice
I
Il problema scientifico
9
1 Sistemi vetrosi e stati stazionari fuori equilibrio
1.1 Misure e proprietà reologiche dei fluidi complessi . . . . . .
1.1.1 Fluidi complessi sotto shear . . . . . . . . . . . . . .
1.1.2 Alcune caratteristiche del flusso . . . . . . . . . . . .
1.2 Caratterizzazione dei sistemi vetrosi . . . . . . . . . . . . .
1.2.1 Liquidi sottoraffreddati . . . . . . . . . . . . . . . .
1.2.2 La transizione vetrosa . . . . . . . . . . . . . . . . .
1.2.3 Il caso dei sistemi colloidali . . . . . . . . . . . . . .
1.2.4 L’invecchiamento e la violazione del teorema di
fluttuazione-dissipazione . . . . . . . . . . . . . . . .
1.3 Stati stazionari di non equilibrio . . . . . . . . . . . . . . .
1.3.1 Sopra alla temperatura di transizione: T > Tc . . . .
1.3.2 Sotto alla temperatura di transizione: T < Tc . . . .
1.3.3 Il diagramma di fase e l’estensione del campo medio
2 Diffusione della luce
2.1 Funzioni di correlazione . . . . . . . . . . . . .
2.2 Teoria classica della diffusione della luce . . . .
2.3 Esperimenti di diffusione della luce . . . . . . .
2.3.1 Metodo omodino . . . . . . . . . . . . .
2.3.2 Metodo eterodino . . . . . . . . . . . . .
2.3.3 Area di coerenza . . . . . . . . . . . . .
2.4 Soluzioni molto diluite . . . . . . . . . . . . . .
2.4.1 Funzione di correlazione eterodina . . .
2.4.2 Funzione di correlazione omodina . . . .
2.5 Luce diffusa da un sistema sotto shear . . . . .
2.5.1 Effetto Doppler e velocimetria . . . . .
2.5.2 Profilo di velocità tra due piatti rotanti
2
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65
69
2.6
II
2.5.3 Effetti di taglio della funzione di correlazione . . . . .
COMPLEMENTI:
Statistica dei fotoconteggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2.6.1 Luce termica polarizzata . . . . . . . . . . . . . . . . .
Apparato sperimentale e sua caratterizzazione
3 Apparato sperimentale
3.1 Gli strumenti utilizzati . . . . . . . . . . . .
3.2 Progetto e sviluppo di un correlatore . . . .
3.2.1 Tecniche di autocorrelazione digitale
3.2.2 Algoritmo in numero di fotoconteggi
3.2.3 Algoritmo in tempo . . . . . . . . .
3.2.4 Algoritmo multi-τ . . . . . . . . . .
3.2.5 Il correlatore realizzato . . . . . . .
3.3 Fasci gaussiani . . . . . . . . . . . . . . . .
3.4 Fibre ottiche a singolo modo . . . . . . . .
3.5 Il campione utilizzato . . . . . . . . . . . .
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111
4 Misure preliminari per la caratterizzazione dell’apparato sperimentale
112
4.1 Dipendenza della funzione di correlazione dei fotoconteggi
dalla lunghezza degli impulsi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
4.2 Forma della funzione di correlazione . . . . . . . . . . . . . . 114
4.3 Intercetta della funzione di correlazione in funzione del numero delle aree di coerenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116
4.4 Distribuzione dei fotoconteggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117
III
Risultati sperimentali
124
5 Misura del profilo di velocità di un fluido complesso sotto
shear tramite fotocorrelazione eterodina
125
5.1 Misure di fotocorrelazione con tecnica eterodina . . . . . . . . 126
5.1.1 Costruzione di un interferometro . . . . . . . . . . . . 128
5.1.2 Misure in eterodina su di un campione all’equilibrio . 132
5.2 Misura del periodo delle oscillazioni della funzione di correlazione in un campione sotto shear . . . . . . . . . . . . . . . 134
5.3 Misura del profilo di velocità . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137
3
A Calcolo del campo elettrico diffuso
152
B Funzione di distribuzione Poissoniana
155
Bibliografia
161
4
Introduzione
Il lavoro di questa tesi costituisce l’inizio di un complesso programma di
ricerca, il cui obiettivo è la caratterizzazione degli stati stazionari fuori dall’equilibrio nei sistemi in cui sono presenti tempi di rilassamento molto lunghi
rispetto alla scala microscopica, come i liquidi sottoraffreddati e i vetri, sistemi che tendono a formare, sotto una certa temperatura, una struttura
topologicamente disordinata invece di un cristallo. Per questo studio è stata
implementata una tecnica sperimentale di diffusione della luce, la fotocorrelazione, che permette di indagare le caratteristiche dinamiche di questi
sistemi.
La loro dinamica presenta generalmente una scala di tempo “veloce”,
associata alle oscillazioni delle particelle intorno ad una posizione di equilibrio locale della struttura, e una scala di tempo “lenta” associata alle
modificazioni della struttura, causate da processi cooperativi che coinvolgono gruppi di particelle. La dinamica “veloce” avviene sulle scale di tempo
tipiche delle vibrazioni fononiche, per cui le frequenze caratteristiche sono
dell’ordine di 1013 Hz; mentre la dinamica “lenta” avviene su una scala di
tempo molto piú lunga. La funzione di correlazione temporale di una qualche
variabile rilevante del sistema, ad esempio, delle fluttuazioni di densità, è
allora caratterizzata da un doppio decadimento: il primo è associato alla dinamica vibrazionale, il secondo avviene sulle scale di tempo caratteristiche
della diffusione delle particelle, il cui movimento modifica la struttura del
sistema. In alcuni sistemi vetrosi la scala di tempo associata alla dinamica lenta dipende fortemente dalla temperatura: abbassando bruscamente la
temperatura del sistema all’equilibrio e mantenendola poi costante, i gradi di libertà vibrazionali si portano subito in un nuovo stato di equilibrio,
mentre la struttura si viene a trovare in una configurazione molto diversa da quella di equilibrio alla nuova temperatura, per cui inizia a rilassare
verso il nuovo stato di equilibrio. Questo processo ha un tempo caratteristico dell’ordine del tempo di rilassamento strutturale alla nuova temperatura
e, nella cosiddetta fase vetrosa, aumenta al crescere del tempo di attesa
5
dal momento in cui è stata abbassata la temperatura: questo fenomeno è
chiamato ”invecchiamento”. In altri tipi di sistemi vetrosi, i cosiddetti materiali soffici, si presenta una fenomenologia analoga, ma è la concentrazione
del soluto a controllare il tempo di rilassamento strutturale. In generale,
il tempo affinché il sistema raggiunga l’equilibrio é tipicamente piú lungo
rispetto ai tempi caratteristici di un esperimento, per questo, dal punto di
vista sperimentale, un vetro è sempre lontano dall’equilibrio.
I materiali soffici sono dei fluidi molto sensibili a perturbazioni esterne
e, se sottoposti ad uno sforzo di taglio che genera un gradiente di velocità
(detto ”tasso di shear”) costante nel flusso, possono raggiungere uno stato
stazionario. Quello che avviene è che il sistema, pur non avendo raggiunto
l’equilibrio, è caratterizzato da un tempo di rilassamento non più dipendente
dal tempo di attesa, ma determinato dal tasso di shear, che diventa il nuovo
parametro rilevante del sistema. Questi stati stazionari di non equilibrio
sono collegabili con gli stati che il sistema attraverserebbe durante l’invecchiamento nel processo di rilassamento verso l’equilibrio e permettono di
compiere misure altrimenti difficili.
Nell’ambito della fisica dei sistemi disordinati, si é infatti sviluppato un
forte interesse verso lo studio dei sistemi stazionari fuori equilibrio: sia dal
punto di vista teorico, che numerico, alcuni dei modelli teorici utilizzati per
lo studio dei sistemi disordinati (la teoria di mode coupling [29], o il modello
del paesaggio di energia potenziale []) sono stati estesi allo studio di questi
sistemi. Ció che si vuole analizzare é la dinamica del sistema in funzione
del tasso di shear, a tale scopo, la grandezza microscopica introdotta per
avere delle informazioni quantitative sulla dinamica del sistema é la funzione
di correlazione delle fluttuazioni di densitá e si cerca una relazione tra il
tempo di rilassamento strutturale e il tasso di shear. I lavori sperimentali
finora realizzati [10] nell’ambito dello studio dei sistemi disordinati in stati
stazionari di non equilibrio sono ancora pochi, inoltre non sono ancora stati
realizzati esperimenti che permettano di ricavare la funzione di correlazione
delle fluttuazioni di densitá.
La tecnica sperimentale da noi implementata per lo studio dei sistemi
stazionari fuori equilibrio è la fotocorrelazione, infatti, tramite la diffusione
della luce è possibile ricavare la funzione di correlazione delle fluttuazioni
di densità del sistema: il campo elettrico diffuso dal campione e raccolto
da un rivelatore risulta essere legato alle fluttuazioni di densità nel sistema,
correlando nel tempo il segnale rivelato si può allora misurare il tempo di
rilassamento strutturale del campione.
La variabile rilevante per lo studio dei sistemi stazionari fuori equilibrio è
il tasso di shear: la cella a nostra disposizione per sottoporre il campione ad
6
uno sforzo di taglio è costituita da un disco rotante ed uno fermo e il valore
del tasso di shear deve essere misurato, poichè nel fluido si istaura un profilo
di velocità non direttamente predicibile dalle caratteristiche della cella. Il
fluido avrà velocità massima nella regione adiacente al disco in rotazione e
minima dalla parte opposta, tuttavia il profilo di velocità non sarà lineare
da un piatto all’altro; inoltre, a causa di effetti inerziali, il fluido si muove
verso l’esterno, rispetto all’asse di rotazione, dalla parte del disco rotante ed
in verso opposto dalla parte del piatto fermo. Lo studio del flusso di sistemi
complessi costituisce un tema di ricerca di forte interesse, come dimostrano
recenti lavori sperimentali [14] in questo senso. La possibilitá di studiare
il profilo di velocitá in una geometria nota –tra due piatti rotanti– su cui
non erano ancora state realizzate delle misure tramite fotocorrelazione, ci ha
spinto a implementare una tecnica di diffusione della luce che permettesse di
misurare la velocitá delle particelle di fluido: la tecnica di fotocorrelazione
eterodina, utilizzata a tale scopo, consiste nel far interferire il fascio diffuso
dal campione con una parte del fascio incidente: a causa dell’effetto Doppler
le particelle del fluido in moto diffondono luce ad una frequenza diversa da
quella dell’onda incidente e l’interferenza dei due fasci provoca delle oscillazioni nella funzione di correlazione misurata, da cui è possibile ricavare la
velocità con cui si muovono le particelle del fluido sotto shear. Con questa
tecnica siamo riusciti ad ottenere delle soddisfacenti misure del profilo di
velocità tra i due piatti, consistenti con alcuni risultati numerici [27] di velocimetria sul flusso tra due piatti rotanti. Gli obiettivi raggiunti potrebbero
rappresentare un punto di partenza per un’ulteriore approfondimento degli
studi di velocimetria su sistemi complessi tramite fotocorrelazione eterodina.
Tornando invece allo studio dei sistemi stazionari, i risultati sperimentali ottenuti permettono di ricavare il tasso di shear nelle varie posizioni
all’interno della cella. Mentre, per quanto riguarda la misura del tempo
di rilassamento strutturale tramite fotocorrelazione, si dovranno affrontare
delle difficoltà sperimentali dovute ad un taglio della funzione di correlazione
a causa di effetti spuri provocati dallo shear: il fatto che le particelle del
fluido si muovano ad una certa velocità provoca un decadimento della funzione di correlazione nel tempo impiegato dalle particelle per attraversare il
volume illuminato; inoltre, il moto lungo una direzione privilegiata rompe
l’invarianza per traslazioni spaziali e ciò provoca un’ulteriore decorrelazione.
Bisognerà evitare che la funzione di correlazione decada, a causa di questi
effetti, su tempi inferiori al tempo di rilassamento strutturale che si vuole
misurare. Il profilo di velocità misurato è utile anche per lo studio e il
controllo di tali effetti.
Il lavoro che presenteremo si divide in tre parti:
7
1. La prima, suddivisa in due capitoli, ha lo scopo di chiarire i concetti fondamentali necessari ad inquadrare il problema scientifico, e
di fornire gli strumenti per comprendere la tecnica sperimentale utilizzata nella nostra analisi. Nel primo capitolo passeremo in rassegna
la fenomenologia dei sistemi vetrosi, soffermandoci in particolare sui
materiali soffici e sui recenti studi relativi agli stati stazionari di non
equilibrio. Nel secondo capitolo presenteremo invece la tecnica sperimentale della fotocorrelazione, sviluppandone la teoria e sottolineandone i problemi connessi con la sua implementazione, con particolare
riferimento al suo utilizzo per lo studio dei sistemi sotto shear. Un approfondimento è dedicato allo studio della statistica dei fotoconteggi,
prodotti dal rivelatore investito dalla radiazione luminosa.
2. La seconda parte, che si compone di due capitoli, è dedicata alla
caratterizzazione dell’apparato sperimentale che è stato implementato
per il nostro studio: il primo capitolo presenta gli strumenti di cui
si compone, sottolineando in particolare il funzionamento del correlatore, realizzato ad hoc per l’esperimento; il secondo mostra alcuni risultati preliminari che abbiamo ottenuto nell’intento di testare l’apparato
sperimentale e approfondirne alcuni aspetti.
3. L’ultima parte è dedicata all’esposizione dei risultati sperimentali, consistenti nella misura del profilo di velocità del flusso all’interno della
cella per misure sotto shear. Inizialmente viene descritta l’implementazione della tecnica eterodina, discutendo i problemi che si sono presentati e mostrando le scelte che ci hanno permesso di sormontarli,
in un passo successivo illustriamo come la tecnica è stata applicata
a sistemi sotto shear per visualizzare le oscillazioni della funzione di
correlazione, da cui è possibile ricavare la velocità delle particelle del
fluido. Infine è presentato il metodo ideato per misurare le tre componenti del vettore velocità lungo la distanza tra i due piatti della cella
e sono esposti e discussi i risultati delle misure realizzate.
8
Parte I
Il problema scientifico
9
Capitolo 1
Sistemi vetrosi e stati
stazionari fuori equilibrio
Le tre tipiche fasi della materia – solida, liquida e gassosa – non sono in
realtà sufficienti a descrivere tutti i possibili stati di aggregazione presenti
in natura. Ci sono una gran varietà di sostanze le cui caratteristiche sono intermedie tra quelle dei solidi (sistemi che mantengono la propria dimensione
e forma) e quelle dei liquidi (sistemi che mantengono la propria dimensione,
ma prendono la forma del recipiente che li contiene); esempi di questo tipo
di sistemi, che ci interessano nel nostro lavoro, si trovano nei cibi, come il
gelato o il formaggio, nei biofluidi, come il sangue; nei prodotti per l’igiene
personale come lo shampo o il dentifricio, o nei materiali elettronici, come
i cristalli liquidi. Sostanze di questo tipo sono dette fluidi complessi [26] e
ciò che le accomuna è la proprietà di fluire se sottoposte a sforzi di taglio di
modesta entità; inoltre, a differenza dei liquidi semplici o dei solidi cristallini,
hanno scale di lunghezza molecolari o strutturali solitamente molto maggiori
di quelle atomiche. Molti fluidi complessi posseggono proprietà meccaniche
intermedie tra quelle tipiche dei liquidi o dei solidi ordinari.
Quando un liquido viene raffreddato le molecole che lo costituiscono si
avvicinano tra loro per massimizzare le interazioni attrattive. Se la forma
delle molecole è compatibile con una disposizione regolare, allora il liquido
cristallizzerà in un solido ordinato tramite una transizione del primo ordine
liquido-solido nel punto di congelamento Tm . Tuttavia, se le molecole hanno
forma o dimensioni che non permettono una disposizione ordinata, o se
il liquido è raffreddato troppo rapidamente sotto Tm per permettere alla
struttura cristallina di formarsi, il sistema diventa un liquido sottoraffreddato
e transisce (transizione vetrosa), a basse temperature, verso una fase rigida
10
che mantiene la disposizione disordinata tipica del liquido. Questo stato
rigido ma disordinato è detto vetro e si manifesta in quella classe di fluidi
complessi chiamati sistemi vetrosi. I vetri sono dei liquidi in cui le molecole
sono cosı̀ saldamente stipate tra loro e quindi talmente lente che rilassano
all’equilibrio in tempi lunghissimi (fino a migliaia di anni) rispetto ai tempi
tipici di una misura, dunque i vetri sono per noi sistemi fuori dall’equilibrio.
In questo capitolo ci occuperemo di presentare quegli aspetti dei sistemi vetrosi che permettono di inquadrare il problema scientifico su cui si è
sviluppato questo lavoro di tesi. Presenteremo prima le proprietà dinamiche,
cosiddette reologiche (paragrafo 1.1), che caratterizzano in generale i fluidi
complessi e ci saranno utili in tutta la trattazione successiva. Poi (paragrafo
1.2) ci concentreremo sugli argomenti tipici dello studio dei sistemi vetrosi:
la transizione vetrosa e il fenomeno dell’invecchiamento. Infine presenteremo
lo studio (paragrafo 1.3), affrontato solo di recente nell’ambito della fisica
sperimentale dei sistemi disordinati, della dinamica nei sistemi stazionari
fuori dall’equilibrio, che è lo scopo di questo lavoro di tesi.
1.1
Misure e proprietà reologiche dei fluidi complessi
Le misure reologiche [26] danno un’idea di quanto una sostanza sia dura,
cioè “di tipo solido”, o soffice, cioè “di tipo liquido”; poichè i fluidi complessi presentano un comportamento intermedio tra un sistema di tipo solido
e uno di tipo liquido, la reologia si adatta particolarmente allo studio di
questi materiali dal punto di vista macroscopico. Lo strumento per realizzare queste misure su liquidi complessi è il reometro, che studia le proprietà
reologiche in funzione del tasso di deformazione del materiale; il metodo più
semplice per farlo è imporre un flusso al sistema tramite uno sforzo di taglio,
cioè mettere il campione sotto shear.
Nel seguito introdurremo le variabili necessarie per lo studio di un fluido
sotto shear, che ci permetteranno di quantificare quanto un fluido complesso
è vicino ad un comportamento di tipo solido o di tipo liquido e mostreremo
che tali caratteristiche dipendono dalla scala di tempo su cui si indaga il
sistema. Nel paragrafo 1.1.2 presenteremo alcuni fenomeni di cui bisogna
tener conto in reologia: lo scivolamento sulle pareti e lo yield.
11
1.1.1
Fluidi complessi sotto shear
Vogliamo ora introdurre alcune variabili che caratterizzano un fluido in movimento: il tasso di shear, lo sforzo di taglio, la viscosità e i moduli viscoelastici
e vedremo che andamento hanno nei fluidi complessi; presenteremo inoltre
alcune delle geometrie usate per imporre un flusso al sistema e studiarne la
reologia.
Cerchiamo di quantificare il tasso di deformazione di un fluido in base
al tipo di geometria usata per esercitare uno sforzo di taglio sul campione.
Il gradiente della velocità del fluido descrive quanto varia la velocità se mi
muovo da un punto ad un altro in qualunque direzione nel fluido a un dato
istante di tempo; considerando le tre coordinate spaziali (x1 , x2 , x3 ) e le tre
componenti del vettore velocità (v1 , v2 , v3 ), il gradiente sarà descritto da una
matrice 3 × 3. Per mettere un campione sotto shear si scelgono solitamente
delle geometrie in cui (con opportuni cambiamenti locali della base delle
coordinate spaziali), in un dato punto dello spazio, solo un elemento della
matrice è non nullo: sarà l’elemento dv1 /dx2 dove v1 è la componente della
velocità lungo la direzione del flusso e x2 è la coordinata nella direzione in
cui il flusso cambia velocità, contenuta nel piano ortogonale alla direzione
del flusso. Si definisce il tasso di shear del fluido γ̇ ≡ dv1 /dx2 .
Mostriamo ora alcune delle possibili configurazioni per sottoporre un liquido ad uno shear. Quella più semplice da immaginare è costituita da due
piatti paralleli che scorrono l’uno rispetto all’altro. Nel nostro esperimento
utilizzeremo invece due dischi paralleli, uno dei quali ruoterà per creare un
flusso di torsione nel liquido contenuto tra i due piatti. In altri esperimenti
su sistemi vetrosi sotto shear [10], [14] si è utilizzata una cella di Couette
costituita da due cilindri concentrici, la rotazione di uno dei due genera un
flusso cosiddetto di Couette. Infine nei reometri si usa di solito un piatto
sovrastato da un cono rotante con cui forma un angolo molto piccolo. In
tutte queste configurazioni, finchè non si innesca la turbolenza, il fluido è
detto ”viscometrico”, cioè ogni elemento del fluido è soggetto ad un tasso
di shear costante nel tempo e il suo flusso è stazionario. Purtroppo nella
geometria del nostro esperimento, scelta per compatibilità con le misure ottiche, come vedremo nel seguito, il profilo di velocità del fluido non è lineare
tra i due piatti; questo ci costringerà a realizzare delle misure preliminari
di velocimetria per conoscere il tasso di shear nel volume illuminato (entro
cui potremo trascurare la non linearità del profilo di velocità), a tal fine
abbiamo dovuto cambiare la tecnica di misurazione.
Una volta scelta la geometria da utilizzare, il valore del tasso di shear γ̇
dipende dalle dimensioni di tale geometria e dalla velocità della parete che
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esercita lo sforzo di taglio. Nella configurazione con i due piatti paralleli,
se V è la velocità del piatto in movimento (mentre l’altro rimane fermo)
e H è la distanza tra i due piatti, si avrà γ̇ = V /H; analogamente nella
geometria della nostra cella per misure sotto shear, se trascuriamo gli effetti
di non linearità del profilo di velocità e le componenti non azimutali della
velocità (par. 2.5.2), chiamando Ω la velocità angolare del disco rotante,
H la distanza tra i due dischi ed r la distanza dall’asse di rotazione, sarà
γ̇(r) = Ωr/H.
Introduciamo ora la viscosità di un fluido sottoposto ad uno shear in uno
stato stazionario. Definiamo prima lo sforzo di taglio σ come la forza che
un liquido in movimento esercita su una superficie, per unità di area della
superficie, nella direzione parallela al flusso. La viscosità η è definita come
η=
σ
γ̇
La viscosità quantifica la resistenza di un fluido al movimento, quando questo
comporta delle deformazioni interne. Nei cosiddetti ”fluidi non Newtoniani”,
se il sistema viene sottoposto ad uno shear, dopo un transiente lo sforzo di
taglio raggiunge un valore stazionario che dipende da γ̇, dunque la viscosità
dipende da γ̇: η = η(γ̇); i ”fluidi Newtoniani” sono invece quelli in cui la
viscosità è indipendente dal tasso di shear.
Un altro modo per indagare il tasso di riarrangiamento della struttura
del sistema consiste nell’imporre uno shear oscillante, di piccola ampiezza per non deformare in modo significativo la struttura microscopica del
fluido. Nell’esempio della geometria a due piatti paralleli questo tipo di
deformazione è ottenibile facendo oscillare il piatto in movimento con una
frequenza w e un’ampiezza X0 : x(t) = X0 cos wt. Il tasso di shear diventerà una funzione sinusoidale del tempo: γ̇ = V (t)/h = −X0 w/h sin wt.
L’integrale nel tempo di γ̇(t), γ(t), è detto strain: γ = X0 /h cos wt ed è
in controfase con il tasso di shear. Se l’ampiezza dello strain γ0 = X0 /h
è abbastanza piccola perchè la struttura del fluido non sia disturbata dalla deformazione oscillante, ci troviamo in un regime cosiddetto viscoelastico
lineare. In tal caso lo sforzo di taglio misurato è controllato dal rilassamento
presente nel fluido allo stato di equilibrio; l’ampiezza dello sforzo di taglio
sarà la stessa dello strain, ma non oscillerà in fase con lo strain; in generale
si avrà:
σ(t) = γ0 [G (w) sin(wt) + G (w) cos(wt)]
Il termine proporzionale a G (w) è il termine cosiddetto elastico e rappresenta un accumulo di energia elastica; mentre il termine contenente G (w) è
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detto viscoso e rappresenta la dissipazione di tale energia a causa dell’attrito viscoso. Il rapporto G /G è grande ( 1) per materiali di tipo liquido,
piccolo ( 1) per materiali di tipo solido.
Le differenze tra fluidi complessi di tipo solido o liquido sono rilevabili
sia dalla viscosità, sia dai moduli viscoelastici lineari appena introdotti. Per
fluidi complessi di tipo liquido lo sforzo di taglio cresce linermente con il
tasso di shear, dunque la viscosità risulterà costante nel tasso di shear. Al
contrario per fluidi di tipo solido lo sforzo di taglio è indipendente dal tasso
di shear e l’andamento della viscosità sarà: η ∝ γ̇ −1 . In generale si potranno
avere dei fluidi complessi con un andamento del tipo η ∝ γ̇ −α con α > 0:
il fenomeno per cui la viscosità diminuisce al crescere del tasso di shear è
detto shear-thinning.
I fluidi complessi reali hanno spesso un comportamento intermedio tra
i prototipi di tipo solido e quelli di tipo liquido a cui abbiamo fatto riferimento. Ad esempio molti materiali, come anche i colloidi, presentano una
viscosità con un andamento costante per bassi tassi di shear: in un diagramma (η − γ̇) avremo un plateau che determina la cosiddetta viscosità
a shear nullo η0 ; sopra ad un certo valore critico γ̇c invece η comincia a
decrescere al crescere del tasso di shear, ma con un andamento più lento
rispetto al prototipo solido in cui era η ∝ γ̇ −1 . Contemporaneamente, se si
misurano i moduli viscoelastici G (w) e G (w) in funzione della frequenza di
oscillazione w, si trova che il fluido è di tipo liquido a basse frequenze, con
G G , mentre un comportamento tendenzialmente di tipo solido si trova
a frequenze più alte, in cui G > G . Il valore critico della frequenza wc in
cui G = G risulta essere dello stesso ordine di γ̇, che segna il passaggio da
un regime costante per la viscosità ad un regime di shear-thinning. Effettivamente i due parametri risultano essere dell’ordine dell’ inverso del tempo
di rilassamento caratteristico del fluido τ che rappresenta il tempo richiesto
perchè le strutture elastiche rilassino all’equilibrio: τ ∼ γ̇c ∼ wc−1 . Se definiamo un modulo caratteristico G pari al modulo G (wc ) = G (wc ), possiamo
introdurre una regola approssimativa risalente a Maxwell, secondo il quale
un fluido viscoso di viscosità η0 può essere considerato come un “solido” di
modulo G che rilassa in un periodo di tempo τ :
η0 ∼ Gτ
(1.1)
Questa formula ci sarà molto utile in seguito, quando passeremo ad un approccio microscopico in cui il parametro rilevante sarà il tempo di rilassamento del sistema: tramite la (1.1) potremo avere informazioni sull’andamento
della viscosità del campione.
14
1.1.2
Alcune caratteristiche del flusso
Daremo ora un accenno di alcuni effetti che si presentano nella reologia di
sistemi con un comportamento di tipo solido: lo scivolamento sulle pareti
della cella e lo yield.
I reometri e le celle dentro cui un sistema è sottoposto ad uno shear hanno delle superfici a cui il fluido dovrebbe aderire, per questo il materiale che
costituisce le pareti della cella non dovrebbe essere completamente liscio.
Se consideriamo invece un solido ci aspettiamo che almeno uno dei piatti
della cella scivoli sulla superficie del campione. Poichè solitamente un fluido
complesso si comporta come un liquido o come un solido a secondo del tasso
di shear, ci aspettiamo che ad alti tassi di shear, in cui il comportamento
di tipo solido prevale, il fluido possa scivolare sulle pareti. Ad esempio si
potrebbero creare in prossimità delle pareti degli strati, che scivolano e viaggiano ad una velocità inferiore a quella della superficie della cella, o in
cui il gradiente della velocità è molto più alto che all’interno del campione,
tali strati assorbono cosı̀ la maggior parte della dissipazione per effetti viscosi, mentre il tasso di shear all’interno diventa più piccolo di quanto ci si
aspetterebbe. Ad un alto tasso di shear bisognerà quindi considerare questa
eventualità: noi abbiamo osservato effetti di scivolamento in un campione di
palline di latex (particelle di forma sferica) in acqua, a causa della bassa viscosità del campione e per il materiale particolarmente liscio (è uno specchio)
di cui è costituito il disco rotante.
Accenniamo ora ad un altro fenomeno che si manifesta nei fluidi complessi vicini ad un comportamento di tipo solido: lo yield, un fenomeno
importante nei sistemi vetrosi solidi o nei liquidi sottoraffreddati vicino alla
transizione vetrosa. Sotto un certo valore critico dello sforzo di taglio σy
(detto yield stress), che dipende dalla temperatura e dal tasso di shear, il
materiale si deforma in modo reversibile, sopra a questo valore il materiale
si deforma in modo irreversibile: togliendo lo sforzo di taglio non recupera
più la forma originaria. Per far fluire un tale campione si dovrà applicare
uno sforzo di taglio superiore a σy in modo da fornire al sistema abbastanza energia per fargli superare le barriere di potenziale che impediscono la
diffusione delle molecole tramite cui può fluire; lo yield stress risulta essere
decrescente al crescere della temperatura e crescente al crescere del tasso di
shear. Per un’analisi più approfondita si veda [26].
15
1.2
Caratterizzazione dei sistemi vetrosi
Vogliamo introdurre i concetti fondamentali per uno studio dei sistemi vetrosi. Cominceremo dalla caratterizzazione dei liquidi sottoraffreddati, poi
affronteremo il problema della transizione vetrosa presentando le due interpretazioni che la vedono come una transizione di tipo termodinamica o di
tipo dinamica, in seguito ci soffermeremo in particolare su quella classe di
sistemi, detti colloidi, che rappresenteranno i campioni del nostro esperimento, infine caratterizzeremo lo stato vetroso fuori equilibrio introducendo
il concetto di invecchiamento.
1.2.1
Liquidi sottoraffreddati
Cerchiamo ora di capire come un liquido può essere sottoraffreddato evitando
la cristallizzazione.
Durante la cristallizzazione [28], alla temperatura di transizione Tm , si
formano nel liquido, solitamente intorno alle impurezze, delle zone di cristallo, ognuna con un diverso orientamento iniziale, che crescono fino a ricoprire,
dopo un certo tempo τ , tutto il campione assumendo lo stesso orientamento
(come avviene per i domini ferromagnetici in una transizione paramagneteferromagnete). Se si raffredda il sistema cosı̀ rapidamente da passare attraverso la temperatura critica in un tempo inferiore a τ , le zone di cristallo
non hanno il tempo di crescere e si crea uno stato metastabile caratterizzato
da una dinamica vibrazionale intorno ad una struttura priva di ordine a lungo raggio (stato vetroso). Tale configurazione, pur essendo energeticamente
sconveniente, è altamente più probabile della fase cristallina; nel paesaggio
di energia libera il sistema si troverà intrappolato in dei minimi che difficilmente riesce a lasciare perchè le barriere sono troppo alte per la temperatura
a cui si trova e gli impediscono la formazione di una struttura cristallina, corrispondente invece al minimo assoluto dell’energia potenziale. Un esempio
nel quotidiano si ha con l’acqua distillata che, essendo priva di impurezze,
ancora è liquida alla temperatura tipica di un freezer (-25o C circa); non appena ne si tocca il contenitore l’acqua cristallizza istantaneamente perchè le
si fornisce l’energia di attivazione necessaria a superare le barriere di energia
libera. In alcuni materiali non si ha comunque la transizione a Tm perchè il
tempo τ tende a infinito e il sistema non riesce a raggiungere la zona dello
spazio delle fasi corrispondente al cristallo, in altri casi, aspettando un tempo sufficientemente lungo, il liquido sottoraffreddato diventa cristallo a una
temperatura inferiore a Tm . E’ importante, per l’osservazione della transizione vetrosa, che la cristallizzazione sia altamente improbabile anche per
16
Figura 1.1: L’andamento tipico della F (q; t) di un liquido sottoraffreddato.
La temperatura diminuisce da sinistra verso destra. Si osserva un rapido aumento del tempo di rilassamento strutturale mentre il rilassamento
vibrazionale non dipende molto dalla temperatura.
velocità di raffreddamento basse. Nel seguito trascureremo l’esistenza dello
stato cristallino e faremo riferimento allo stato di liquido sottoraffreddato
come stato di equilibrio.
1.2.2
La transizione vetrosa
Nello studio dei liquidi sottoraffreddati ancora non si ha una visione chiara
e completa del fenomeno della transizione vetrosa, anche perchè, essendo i
tempi della misura inferiori ai tempi caratteristici del rilassamento all’equilibrio del sistema, è difficile ottenere dei risultati sperimentali. La transizione
di un liquido sottoraffreddato verso un vetro avviene ad una temperatura che
non è ben definita. Se chiamiamo τα il tempo tipico del rilassamento verso
l’equilibrio del fluido, che, vedremo, dipende dalla temperatura, la temperatura di transizione vetrosa Tg è definita convenzionalmente da τα (Tg ) = 100
s, tuttavia Tg dipende dalla velocità con cui si raffredda il sistema. Tra le
varie interpretazioni date al fenomeno, accenneremo alla teoria che sostiene
una transizione di tipo termodinamico e alla teoria di mode-coupling che
prevede una transizione puramente dinamica.
Per descrivere la dinamica del sistema utilizziamo la funzione di autocorrelazione di una qualche variabile rilevante, ad esempio delle fluttuazioni di
17
densità (il paragrafo 2.1 nel capitolo sulla diffusione della luce spiega il concetto di funzione di correlazione di una variabile e introduce in particolare
quella delle fluttuazioni di densità):
F (q; t, t ) = ρq (t)ρ−q (t )
Quando il sistema si trova nello stato di liquido sottoraffreddato, sebbene sia
ancora nella fase liquida, inizia a rallentare notevolmente la sua dinamica
“strutturale”. Infatti, se si riporta la funzione di correlazione F (q; t − t )
in funzione di (t − t ), si osserva che la perdita di correlazione avviene in
due scale di tempo abbastanza separate ( fig. 1.1): la dinamica del sistema
è dunque separabile in una parte veloce, associata al primo decadimento
di F (q; t − t ); ed una lenta, associata al secondo decadimento. La prima
è legata ai gradi di libertà vibrazionali caratteristici delle oscillazioni delle
molecole intorno ad una posizione di equilibrio, cioè alle vibrazioni fononiche; la dinamica lenta riguarda invece il riarrangiamento della struttura del
sistema tramite la diffusione delle molecole. Si trova che il rilassamento vibrazionale non dipende fortemente dalla temperatura, mentre il rilassamento
strutturale subisce un forte rallentamento abbassando la temperatura al disotto di un certo valore Tc . Il parametro rilevante del sistema è allora il tempo
di rilassamento strutturale τα che caratterizza la dinamica lenta e dipende
dalla temperatura.
Poichè il modulo ad alta frequenza G∞ del sistema (introdotto nel paragrafo 1.1.1) è tipicamente indipendente dalla temperatura, la dipendenza
dalla temperatura della viscosità sarà analoga a quella del tempo di rilassamento strutturale, infatti, dalla (1.1), si trova che η ≈ G∞ τα . In questa
ottica la temperatura di transizione vetrosa Tg definita convenzionalmente
diventa quella a cui la viscosità supera il valore di 1013 poise entrando nel
range caratteristico di un solido, tuttavia il fattore G∞ varia anche di un fattore 100 da sistema a sistema, è dunque più corretto usare il tempo di rilassamento τα . Nel seguito faremo sempre riferimento al tempo di rilassamento ma bisogna ricordare che tutta la trattazione si potrebbe analogamente
riferire, da un punto di vista macroscopico, alla viscosità del sistema.
Una transizione termodinamica?
In genere l’andamento del tempo di rilassamento strutturale in funzione della
temperatura, riportato in figura 1.2, è ben descritto da una legge di potenza
τα ∼ (T − Tc )−ν per valori di temperatura più bassi di Tm e abbastanza
più alti di Tc . Intorno a Tc si ha una transizione dolce a un regime in cui il
18
Figura 1.2: Andamento in temperatura del tempo di rilassamento strutturale. Per T > Tc la teoria di mode-coupling prevede correttamente un
andamento a potenza; intorno a Tc però non si ha una divergenza. La dinamica del sistema diventa dominata da processi attivati, trascurati dalla
MCT. Il tempo di rilassamento cresce esponenzialmente e sembra divergere
a una certa temperatura T0 < Tc . La temperatura di transizione vetrosa Tg
è definita convenzionalmente da τα (Tg ) = 100 s.
tempo di rilassamento inizia ad aumentare esponenzialmente con una legge
del tipo
∆E
(1.2)
τα ∼ τ0 exp
T − T0
valida per T > T0 e dove T0 < Tc . La temperatura T0 a cui τα diverge può
essere estrapolata dai dati sperimentali con scarsa precisione: infatti, abbassando la temperatura, il tempo di rilassamento aumenta molto velocemente
ed alla temperatura Tg diventa dell’ordine delle scale di tempo tipiche di un
esperimento. A quel punto il sistema non è più all’equilibrio e il suo tempo
di rilassamento non è misurabile sperimentalmente. In ogni caso si trova
dall’estrapolazione che esistono sistemi in cui T0 = 0, ciò accade per i liquidi
cosiddetti fragili (il glicerolo e la cera ne sono un esempio tratto dalla vita
di tutti i giorni), e sistemi in cui T0 = 0 per cui il tempo di rilassamento
rimane finito per tutte le temperature sopra lo zero e il fluido rimarrà nello
stato di liquido sottoraffreddato, tali sistemi sono classificati come liquidi
duri (come ad esempio il ”vetro delle finestre”).
Da un punto di vista microscopico, il tempo di rilassamento può essere
19
interpretato come il tempo impiegato dal sistema per passare ad una diversa configurazione microscopica nello spazio delle fasi. In questa ottica il
parametro ∆E della (1.2) si può definire, nel caso in cui T0 = 0, come l’energia di attivazione necessaria per spostarsi in un altro punto dello spazio
delle fasi. A causa del raffreddamento il sistema rimane intrappolato in regioni dello spazio delle fasi separate da barriere che, nel caso dei vetri fragili,
dipendono dalla temperatura e divergono alla temperatura T0 :
∆f = ∆E
T
T − T0
mentre per i vetri duri le barriere sono indipendenti dalla temperatura:
∆d = ∆E.
Nel limite di velocità di raffreddamento infinitesima l’esistenza di una
temperatura a cui il tempo di rilassamento diverge comporterebbe l’esistenza
di una transizione termodinamica. L’idea dell’esistenza di una transizione
termodinamica a una certa temperatura TK nel liquido sottoraffreddato è
stata formulata per la prima volta da Kauzmann [30], il cui argomento si
basa sull’andamento dell’“entropia configurazionale” Σ(T ), definita come la
differenza tra l’entropia del cristallo e l’entropia del liquido sottoraffreddato
[31],
Σ(T ) = S l (T ) − S c (T )
Mentre il liquido può trovarsi ad “oscillare” intorno a diversi stati configurazionali, il cristallo ha un unico stato di equilibrio intorno al quale le
particelle oscillano, quindi sottrarre l’entropia del cristallo corrisponde a
sottrarre il contributo delle oscillazioni lasciando nell’entropia del liquido
sottoraffreddato solo il contributo della parte configurazionale. Se si osserva
l’andamento dell’entropia configurazionale nella regione tra Tc e Tg , cioè fino
a quando è possibile equilibrare sperimentalmente il sistema, si trova una
legge del tipo [31]
Σ(T ) ∼ Σ∞ 1 −
TK
T
Tg < T < Tc
che viene estrapolata a zero (con una velocità di raffreddamento infinitamente piccola) definendo cosı̀ TK (fig. 1.3). Si trova sperimentalmente che
tale temperatura è vicina alla temperatura a cui il tempo di rilassamento
diverge: TK ≈ T0 . La pendenza di Σ(T ) in TK è diversa da zero e a tale
temperatura, quando l’entropia del liquido sottoraffreddato diventa uguale
a quella del cristallo, si ha una discontinuità nella derivata prima dell’entropia totale corrispondente ad un salto nel calore specifico; da un punto
20
Figura 1.3: Entropia del cristallo e del liquido sottoraffreddato in funzione
della temperatura. Al disotto di Tg il liquido non è all’equilibrio e quindi
l’entropia deve essere estrapolata. L’entropia configurazionale è la differenza
tra l’entropia del liquido e quella del cristallo.
di vista termodinamico ci si aspetterebbe [32] una transizione del secondo
ordine secondo la classificazione di Ehrenfest (nel senso che le derivate prime
dell’energia libera sono continue, e le seconde discontinue). Si avrebbe allora una transizione di fase termodinamica alla temperatura TK ≈ T0 a cui
corrisponderebbe la divergenza del tempo di rilassamento e della viscosità
ad esso proporzionale. Tuttavia si osserva che il tempo di rilassamento (si
veda il fenomeno dell’invecchiamento in 1.2.4) e la temperatura TK dipendono dal tempo tw passato dal momento in cui il sistema è stato portato
fuori equilibrio, per cui non ci troviamo in uno stato stazionario. Già questa
semplice osservazione evidenzia i limiti di un’interpretazione termodinamica
della transizione di fase vetrosa. Il problema è ancora aperto e discusso,
anche a causa della scarsa precisione dei dati sperimentali disponibili.
Una transizione dinamica?
Una teoria che ha avuto un certo successo nel descrivere la dinamica dei
liquidi sottoraffreddati è la teoria di mode-coupling (MCT) [29], che vede
la transizione vetrosa come la manifestazione di singolarità puramente dinamiche. La transizione dinamica avverrebbe nelle vicinanze di T0 e comporterebbe una rottura di ergodicità mentre tutte le variabili termodinamiche
21
rimarrebbero continue, escludendo cosı̀ una transizione termodinamica. Sotto la temperatura critica il sistema si troverebbe a non poter visitare tutte
le regioni nello spazio delle fasi permesse termodinamicamente e rimarrebbe
intrappolato in un numero ridotto di configurazioni microscopiche. In particolare le fluttuazioni di densità nella struttura del fluido si arresterebbero
e non rilasserebbero all’equilibrio.
La MCT si basa su delle equazioni che vengono ricavate con alcune approssimazioni a partire dalle equazioni dinamiche per la funzione di correlazione della densità. Queste approssimazioni consistono essenzialmente nel
trascurare i processi attivati, cioè le transizioni fra stati metastabili separati
da barriere di energia libera, responsabili della dinamica a bassa temperatura. Per cui le equazioni di mode-coupling possono essere intese come
delle equazioni di campo medio. Esse prevedono correttamente l’andamento
della funzione di correlazione per T > Tc , ma prevedono una divergenza a
potenza del tempo di rilassamento per T → Tc che non si osserva sperimentalmente (la (1.2) fornisce una migliore rappresentazione dei dati sperimentali). Ricordiamo che il modello di campo medio, nonostante fornisca delle
predizioni molto precise, non è esatto in sistemi tridimensionali. In realtà la
temperatura Tc , che diventa il punto della transizione dinamica, corrisponderebbe, come abbiamo visto, alla transizione da un andamento a potenza
a un andamento esponenziale del tempo di rilassamento, che divergerebbe
ad una temperatura T0 < Tc . Questo significa che per T ∼ Tc i processi
attivati diventano rilevanti e permettono al sistema di continuare ad avere
una dinamica strutturale anche per T < Tc .
Per capire meglio cosa cambia dinamicamente nella struttura del fluido
alla transizione, torniamo alla descrizione delle molecole racchiuse nelle gabbie formate dalle vicine. Ad alte temperature le gabbie sono poco serrate
e le molecole le devono colpire poche volte prima di riuscire a sfuggirne. A
temperature più basse il liquido diventa più denso e l’effetto di confinamento
delle gabbie si intensifica cosı̀ che le molecole dovranno avere numerose collisioni con le vicine prima di trovare uno spazio abbastanza ampio da poter
uscire. Secondo la MCT alla temperatura di transizione dinamica il tempo
richiesto per uscire dalle gabbie divergerebbe.
Vediamo cosa accade alla funzione di correlazione delle fluttuazioni di
densità F (q; t, t ). Supponiamo di portare abbastanza velocemente il nostro sistema da Ti > Tg a Tf < Tg e osserviamo il regime tw << τα (Tf )
(con tw tempo trascorso dal momento in cui il sistema è stato portato fuori
equilibrio). Osserveremo le vibrazioni delle particelle adattarsi rapidamente
alla nuova situazione, il loro tempo di rilassamento è infatti dell’ordine dei
tempi vibrazionali (circa 10−14 s). Invece la struttura manterrà memoria
22
della situazione di partenza e inizierà lentamente a portarsi verso la configurazione di equilibrio che pertiene allo stato finale e che eventualmente non
raggiungerà mai. Ciò si traduce in un doppio decadimento della funzione
di correlazione: il primo corrisponde alla dinamica veloce e arriva fino ad
un plateau, che caratterizza la dinamica strutturale. Questo diventa sempre
più lungo al diminuire della temperatura, fino a che il decadimento a zero
esce dalla finestra di osservazione dei tempi sperimentali e il sistema non
ci appare rilassare mai in una diversa struttura. E’ questa la cosiddetta
dinamica non ergodica prevista anche dalla MCT: considerando il sistema
in un paesaggio di energia libera, il moto vibrazionale corrisponderà ad una
dinamica all’interno di un minimo, mentre per modificare la sua struttura
disordinata il sistema deve riuscire a superare le barriere per portarsi in un
altro minimo. Secondo la MCT questo passaggio non si potrà realizzare a
temperature inferiori alla temperatura di transizione dinamica, che separa
il regime ergodico da quello non ergodico:
lim F (q, t − t ) = fq = 0
t−t →∞
se T ≤ Tc
dove fq è detto parametro di non ergodicità.
La MCT non è in grado di spiegare quantitativamente i processi di rilassamento strutturale che avvengono sotto Tc nella maggior parte dei sistemi
vetrosi. In particolare, per un sistema con interazioni a corto raggio (vetri
molecolari), la temperatura Tc derivante dalla MCT non si può identificare
con la temperatura della transizione vetrosa fenomenologica che risulta più
bassa. Presenteremo nel prossimo paragrafo quei sistemi in cui la MCT ha
mostrato maggior successo.
1.2.3
Il caso dei sistemi colloidali
Siamo ora in grado di caratterizzare i campioni che utilizzeremo nel nostro
lavoro sperimentale, che fanno parte di quella classe di sistemi denominati
colloidi, un termine derivante dalla parola greca κoλλα (colla). Un colloide è
un fluido contenente un gran numero di piccole particelle solide: l’inchiostro,
il sangue (contenente diversi tipi di cellule) e la vernice (contenente particelle solide disciolte in un solvente, che aderiscono alla superficie quando
questo evapora) sono solo alcuni esempi di sistemi colloidali. Tipicamente le
dimensioni delle particelle variano da 1 nm a 1000 nm circa e sono costituite
da aggregati di molecole, oppure da macromolecole. A volte le particelle colloidali si dispongono in modo regolare formando delle strutture cristalline,
in altri casi si dispongono in modo disordinato e formano un vetro colloidale.
23
Mentre i solidi atomici si formano raffreddando il sistema, i cristalli o vetri
colloidali si formano stipando tra loro le particelle, cioè aumentandone la
densità. Dallo studio del comportamento di un sistema vetroso collidale è
possibile capire delle caratteristiche generali di tutti i vetri. Le grandi dimensioni delle particelle colloidali, rispetto agli atomi dei normali vetri, le
rendono visibili al microscopio e fanno sı̀ che il loro movimento sia molto
più lento; per questo le tecniche di diffusione della luce risolta in tempo,
utilizzate per lo studio di processi dalla dinamica lenta, sono quelle di cui ci
serviremo nel nostro lavoro.
Dallo studio al microscopio di un sistema vetroso colloidale si trova che
le particelle possono muoversi solo cooperando con le altre: se una particella
si muove di poco allora una delle sue particelle vicine potrà muoversi nello
spazio lasciato dalla prima, di conseguenza una terza particella potrà seguire
la seconda e cosı̀ via. Più il campione ha un comportamento di tipo vetroso,
più le particelle dovranno cooperare tra loro e più questi moti cooperativi
saranno lenti. Quando tutte le particelle dovranno cooperare affinchè se ne
muova una e quando il tempo di questi moti cooperartivi divergerà, allora
il sistema si dovrà trovare nello stato vetroso. Lo stesso accade per un
sistema vetroso di sfere dure. Non possiamo avere delle prove sperimentali
di quanto appena detto, ma i dati di cui disponiamo ci portano a supporre
questa ipotesi.
Nei vetri molecolari, nella fase di liquido sottoraffreddato il volume del
sistema si contrae in seguito ad una diminuzione di temperatura, probabilmente per la contrazione contemporanea del volume occupato dalle particelle, v0 , e del volume libero tra le molecole, vf ; dove v0 include il volume entro il raggio d’azione delle interazioni attrattive a corto raggio tra le molecole
e il contributo delle vibrazioni atomiche. Nella fase vetrosa la configurazione
molecolare del campione non rilassa più in risposta ad un cambio di temperatura, cosı̀ il volume libero è congelato e le variazioni del volume al variare
della tempe ratura riguardano solo il volume occupato. Alcune teorie sui
vetri prendono come parametro rilevante il tempo di rilassamento τv legato
al rilassamento volumetrico che segue un piccolo salto in temperatura. Chiamiamo vg il volume specifico, cioè il volume per unità di massa; secondo
queste teorie, che si basano sullo studio fenomenologico della viscosità in
funzione del volume libero, si trova che τv ∝ eBvg /vf . Assumendo che le
molecole diffondano saltando in un posto vuoto le cui dimensioni devono
superare un certo valore critico (che non sarà più raggiunto raffreddando il
sistema fino alla temperatura di transizione T0 ), sarà ragionevole pensare
che (vf /vg ) ∝ (T − T0 ). Si ottiene allora che τv diverge a T0 proprio come
il tempo di rilassamento strutturale τα secondo la (1.2). Dunque nella fase
24
vetrosa il volume libero si annulla insieme alla diffusione delle molecole. Nei
sistemi vetrosi colloidali se, invece di abbassare la temperatura, aumento la
concentrazione delle particelle nel fluido, ottengo lo stesso effetto perchè in
entrambi i casi diminuisco il volume libero e aumento il tempo di rilassamento, quindi un altro modo per avvicinarmi alla fase vetrosa è aumentare
la concentrazione.
Dagli studi al microscopio di campioni colloidali risulta che in un liquido
sottoraffreddato vicino alla transizione ci sono estesi gruppi di particelle che
si muovono con moti cooperativi piuttosto rapidi. Passando alla fase vetrosa,
ottenibile aumentando la concentrazione di particelle, non si notano più moti
cooperativi su vasta scala, ci sono soltanto piccoli gruppi in cui le particelle
si muovono una a fianco all’altra molto lentamente. Ciò è coerente con la
supposta divergenza del tempo di rilassamento.
Avevamo detto che la MCT non fornisce delle buone previsioni per la
maggior parte dei sistemi vetrosi. Invece per le sospensioni colloidali (caratterizzate da una dinamica su scale di tempo molto lente) la MCT ha mostrato maggior successo, probabilmente perchè i processi attivati, che a bassa
temperatura regolano l’uscita delle molecole dalle gabbie formate dalle altre,
sono meno influenti: le particelle del soluto, che hanno acquistato velocità
dall’energia termica, non potranno spendere tutta la loro energia per uscire dalle gabbie formate dalle altre particelle perchè ne perderanno molta
nell’attraversare il solvente viscoso in cui sono immerse.
1.2.4
L’invecchiamento e la violazione del teorema di
fluttuazione-dissipazione
Nel precedente paragrafo abbiamo osservato come il tempo di rilassamento strutturale dipenda dalla temperatura. Se raffreddiamo velocemente il
sistema fino a sotto la temperatura di transizione Tg , le vibrazioni delle particelle si adattano rapidamente alla nuova situazione, mentre la struttura,
non potendo stare dietro ad un tasso di raffreddamento troppo veloce, manterrà memoria della situazione di partenza e inizierà lentamente a portarsi
verso una nuova situazione di equilibrio, che raggiungerà in tempi troppo
lunghi per poterla osservare sperimentalmente.
Se misuriamo la funzione di autocorrelazione della densità a diversi tempi tw , troviamo che il tempo di rilassamento strutturale τα cresce con tw e
lo stesso potremo dire per la viscosità, il sistema non è dunque stazionario.
Questo significa che la funzione di correlazione diventa dipendente esplicitamente da due tempi: F = F (t, t ) (che nel seguito verrà chiamata C(t, t )),
in particolare, se porto il sistema ad una temperatura Tf inferiore alla tem25
peratura T0 a cui eventualmente il tempo di rilassamento diverge, allora tale
dipendenza rimarrà per sempre. Il fenomeno per cui alcune variabili dipendono per lungo tempo (magari infinito) dal tempo di attesa tw τα (Tf ),
è chiamato invecchiamento [1]. Tale situazione verrà sempre incontrata durante il raffreddamento del campione, perchè arriverà un momento in cui il
tempo di raffreddamento da una temperatura alla successiva diventa troppo
piccolo rispetto al tempo di rilassamento di equilibrio τα (T ).
Ci proponiamo di capire il regime in cui tw τα (T ), la sua fenomenologia dovrebbe essere la stessa nel caso di τα (T ) finito o infinito. Cercheremo di
interpretare il fenomeno ricorrendo al teorema di fluttuazione-dissipazione,
che ricorderemo qui di seguito e introdurremo il concetto di temperatura
effettiva per caratterizzare termodinamicamente la dinamica strutturale del
sistema.
Il teorema di fluttuazione-dissipazione
Ci accontenteremo della semplice enunciazione del cosiddetto teorema di
fluttuazione-dissipazione (FDT), la sua dimostrazione esula infatti dagli interessi di questa trattazione. Prendiamo per ora un sistema stazionario, di
Hamiltoniana H = H0 + V (t), dove V (t) = −a(t)A(t) è una perturbazione
esterna coniugata alla variabile A del sistema. Si definisce la funzione di
risposta della variabile B associata alla perturbazione V (t), come:
RBA (t − t ) =
dB(t)a
|a=0
da(t )
Se la funzione di correlazione tra le variabili A e B è
CBA (t − t ) = B(t)A(t )
Il teorema ci indica che la relazione tra la funzione di correlazione e la
funzione di risposta è:
1 dCBA (τ )
(1.3)
T
dτ
Un altro modo per esprimere la tesi del teorema si ottiene introducendo la
funzione di risposta integrata
RBA (τ ) = −
χBA (t − t ) =
t
dτ RBA (τ )
t
la (1.3) diventa allora:
1
χBA (τ ) = − (CBA (τ ) − CBA (0))
T
26
(1.4)
La generalizzazione al caso non stazionario della (1.4) comporta semplicemente una dipendenza esplicita dai due tempi t e t nelle variabili χ ed
R. Nella versione della (1.3) inoltre la derivata al secondo membro sarebbe
rispetto a (−t ). Il teorema fornisce un’interessante interpretazione della
temperatura come parametro che lega le fluttuazioni spontanee delle osservabili del sistema alle risposte delle stesse osservabili a perturbazioni
esterne.
La temperatura effettiva
Un modo alternativo per descrivere il fenomeno dell’invechiamento si ha considerando la funzione di risposta del sistema χ(t, t ) coniugata alla funzione
di correlazione C(t, t ), rispetto ad un campo acceso continuamente da t a
t . All’equilibrio, in virtù del teorema di fluttuazione-dissipazione, si avrà
1
χ(t, t ) = − (C(t, t ) − C(t , t ))
T
Dunque un sistema all’equilibrio alla temperatura Ti ed uno all’equilibrio
alla temperatura Tf , darebbero, in un diagramma (χ-C) in cui i tempi t e
t vengono parametrizzati, due rette di pendenza rispettivamente (−1/Ti )
e (−1/Tf ). Sappiamo che un sistema inizialmente all’equilibrio alla temperatura Ti e poi raffreddato alla temperatura Tf < Tg si trova in una
situazione di non equilibrio nelle scale di tempo tipiche di un esperimento e la sua dinamica strutturale ha memoria della situazione di partenza;
nel diagramma (χ-C) ci aspettiamo quindi un andamento intermedio tra
quelli appena descritti. In particolare, ad un tempo di attesa tw dal momento in cui si è raffreddato il sistema, si ottiene (fig. 1.4) che la curva
si sovrappone con quella del sistema in equilibrio a Tf nel range C > q,
χ < χ0 ; in effetti in tale regione sto considerando la dinamica vibrazionale,
che termalizza istantaneamente alla nuova temperatura. Nella zona corrispondente alla dinamica lenta (C < q, χ > χ0 ) la curva si porta su di
una linea di pendenza (−1/Tef f ) manifestando una violazione del teorema
di fluttuazione-dissipazione. A tempi tw superiori la pendenza della curva
nella zona della dinamica lenta si avvicina alla linea di pendenza (−1/Tf ), a
cui eventualmente si sovrapporrà quando il sistema avrà raggiunto l’equilibrio e l’invecchiamento sarà cessato. La violazione di FDT, a cui corrisponde
una linea spezzata nel diagramma (χ-C), si ha quindi quando il sistema si
trova fuori equilibrio; viceversa all’equilibrio vale FDT.
Possiamo allora formulare una generalizzazione del teorema di fluttuazionedissipazione al caso fuori equilibrio. Posso dividere la funzione di correlazione e la funzione di risposta integrata in due parti associate alle due
27
Figura 1.4: Fluttuazione-dissipazione all’equilibrio e fuori equilibrio.
La pendenza della curva relativa allo stato fuori equilibrio nella zona
corrispondente alla dinamica lenta determina la temperatura effettiva.
scale di tempo, quella veloce (denominata da v) caratteristica della dinamica
vibrazionale e quella lenta (l) caratteristica della dinamica strutturale:
C(t, t ) = Cl (t, t ) + Cv (t, t )
χ(t, t ) = χl (t, t ) + χv (t, t )
La relazione del teorema di fluttuazione-dissipazione diventa allora
χv (t, t ) = −
1
(Cv (t, t ) − Cv (t , t ))
Tf
χl (t, t ) = −
1
(Cl (t, t ) − Cl (t , t ))
Tef f
(1.5)
Viene quindi naturale pensare alla temperatura effettiva Tef f cosı̀ definita come la temperatura a cui termalizzano i gradi di libertà strutturali,
cosı̀ come i gradi di libertà vibrazionali termalizzano a Tf . Infatti è stato
mostrato [2] che:
1. qualsiasi termometro accoppiato ad una variabile del sistema e in grado di rispondere su una scala di tempo del rilassamento strutturale,
28
misura esattamente la Tef f ricavabile dalle fluttuazioni e dalla risposta
della variabile stessa;
2. un sistema oscillante sulla scala di tempo di τα (T ) accoppiato ad
un’osservabile nel sistema e ad un bagno termico di temperatura T ∗
trasferisce energia dal sistema al bagno termico se Tef f > T ∗ , viceversa se Tef f < T ∗ ;
3. ad un dato tempo tw ogni coppia di variabili del sistema [5], scelte per
verificare la relazione del teorema di fluttuazione-dissipazione, dà la
stessa Tef f .
Risulta dunque che la temperatura effettiva, ottenuta dalla relazione del
teorema di fluttuazione-dissipazione, è una temperatura che ben caratterizza
la dinamica lenta: all’inizio del processo di invecchiamneto Tef f sarà uguale
alla temperatura Ti a cui il sistema si trovava prima del raffreddamento, poi,
mentre la struttura rilassa verso l’equilibrio, Tef f (tw ) decrescerà tendendo
alla temperatura vibrazionale Tf .
1.3
Stati stazionari di non equilibrio
L’introduzione di uno shear in sistemi vetrosi in cui i tempi di rilassamento sono molto lunghi sembra portare a una fenomenologia molto interessante, il cui studio ha cominciato a svilupparsi solo negli ultimi anni. Il
primo effetto che si osserva è che il sistema, che per γ̇ = 0 invecchia su
scale di tempo molto lunghe e non raggiunge mai l’equilibrio sui tempi tipici di un esperimento, si porta, in un tempo dell’ordine di 1/γ̇, in uno stato
stazionario fuori equilibrio. Tramite la relazione del teorema di fluttuazionedissipazione generalizzato riusciremo a quantificare la distanza del sistema
dall’equilibrio. Vedremo ora cosa comporta la presenza dello shear per sistemi di campo medio, proveremo poi a estendere al caso reale il modello
studiato e accenneremo ai risultati numerici e sperimentali finora ottenuti.
In [3] viene esteso il modello di campo medio della MCT al caso di un
sistema sotto shear, introducendo una forza esterna costante e non conservativa, di ampiezza pari al parametro ε. Non abbiamo gli strumenti per entrare
nel merito della trattazione teorica sviluppata, ci accontenteremo quindi di
presentare i risultati ottenuti, integrando con alcune figure tratte dal lavoro
originale. Se Tc è la temperatura di transizione dinamica per il modello con
ε = 0, analizzeremo separatamente i due casi in cui il sistema è sopra o sotto
alla temperatura di transizione. Intanto vediamo qual è una caratteristica
comune a tutte le temperature. Sappiamo che la funzione di correlazione
29
Figura 1.5: Funzioni di correlazione sotto shear in campo medio, per T > Tc
(da [3]). Da sinistra a destra ε = 5, 0.333, 0.143, 0.05, 0.0158, 0.00447 e 0.
delle fluttuazioni di densità F (t, t ) di un sistema non sottoposto a shear
(ε = 0), presenta un rilassamento a due tempi. Si trova che accendendo
lo shear il tempo di rilassamento “vibrazionale”
non cambia mentre quello
∞
strutturale (definito nel modello come τα = 0 dtF (t) ) si accorcia tanto più
ε cresce, finche’ per shear sufficientemente intensi i due tempi risultano dello
stesso ordine di grandezza e non sono più distinguibili (fig. 1.5). Il fatto
che al crescere dello shear il tempo di rilassamento strutturale diminuisca
significa che i moti diffusivi delle molecole, che caratterizzano la dinamica
lenta del sistema, diventano più rapidi. Corrispondentemente si avrà che
la viscosità (proporzionale a τα ), che rappresenta la resistenza del fluido al
movimento, tende a diminuire al crescere della velocità delle particelle del
fluido.
1.3.1
Sopra alla temperatura di transizione: T > Tc
La figura 1.6 mostra l’andamento del tempo di rilassamento τα in funzione
di ε a varie temperature. A T > Tc per ε sufficientemente piccolo τα ha un
valore costante pari a t0 (T ), che, nelle vicinanze di Tc , ha un andamento a
potenza del tipo t0 (T ) = (T − Tc )−δ con δ > 1. Alla temperatura critica t0
diverge seguendo un andamento, in funzione di ε, pari a ε−β , con β = 2 da
risultati numerici.
Le curve del diagramma sono analoghe alle curve di flusso che in reolo30
Figura 1.6: Tempo di rilassamento τα in funzione di ε per temperature (dal basso in alto) T = 0.9, 0.8, 0.7, 0.64, 0.613, Tc 0.612, 0.611, 0.58, 0.45, 0.3, 0.01. Le linee continue sono per temperature sopra a Tc , la linea tratteggiata è T = Tc , e le altre sono per T < Tc (da
[3]).
gia descrivono l’andamento della viscosità (si ricordi la (1.1)) in funzione
del tasso di shear γ̇ che, in questo modello, è γ̇ = ε/τα . Siamo cosı̀ in grado di passare dalle osservabili dinamiche microscopiche ε e τα alle variabili
reologiche macroscopiche γ̇ e η. I plateau trovati per il tempo di rilassamento a shear poco intenso corrispondono in reologia ad un regime cosiddetto
Newtoniano (o lineare), in cui cioè la dinamica del sistema non è alterata
dallo shear essendone la viscosità indipendente. Osserviamo che porre un
fluido complesso sotto shear rende possibile previsioni reologiche sul comportamento non Newtoniano del sistema, altrimenti difficile da predire a causa
delle interazioni idrodinamiche a lungo raggio (nelle sospensioni sono le interazioni dovute al moto relativo delle particelle del solvente che disturbano
il campo di velocità delle stesse). Passando ad un modello in cui seguo la
dinamica dei gradi di libertà lenti del sistema, sottoponendolo ad una forza
esterna, si è in grado invece di calcolare la viscosità nel regime non lineare.
Per shear più intensi si entra in un regime non Newtoniano, in cui il
tempo di rilassamento decresce all’aumentare dello shear: si tratta dell’effetto di shear-thinning. In particolare, per tassi di shear γ̇ alti, si trova che
2
τα ∼ γ̇ − 3 , dove il valore dell’esponente è stato ottenuto numericamente.
Infine, per shear molto intensi, il tempo di rilassamento diventa dell’or31
Figura 1.7: Funzione di risposta integrata in funzione della funzione di correlazione per T = 0.613 > Tc . Linea continua: caso limite ε = 0; linee
tratteggiate (dal basso verso l’alto) ε = 0.333, 0.143, 0.05, 0. Nel riquadro
andamento del fattore di violazione in funzione di ε per T = 0.613 (da [3]).
dine del tempo di rilassamento vibrazionale e il sistema torna in un regime
Newtoniano.
Studiamo ora i risultati ottenuti alla luce del teorema di fluttuazionedissipazione generalizzato. Sopra alla temperatura di transizione, in assenza
di shear, il sistema si trova in equilibrio e vale FDT. Accendendo lo shear
il sistema si porta invece in uno stato fuori equilibrio a cui corrisponde una
violazione di FDT, quantificabile definendo il fattore di violazione
X≡−
T χ(t, t )
C(t, t )
T
varia con continuità dal valore X = 1 al valore
Al crescere di ε, X = Tef
f
X = 0 (figura 1.7). Per ε → 0 si recupera FDT, che rimane valido in tutta
una regione in cui ε è molto piccolo, proprio in corrispondenza con il regime
lineare prima definito, viceversa per ε superiori ad un certo valore critico si
entra in uno stato di non equilibrio in cui FDT è violato. Ciò suggerisce un
legame diretto tra un regime non lineare secondo misure macroscopiche di
reologia ed un regime microscopico di non equilibrio dal punto di vista della
meccanica statistica.
32
Figura 1.8: Funzione di correlazione per T = 0.3 < Tc a diversi valori del
tasso di shear γ = 10−4 , 3 × 10−4 , 10−3 , 3 × 10−3 , 10−2 , 3 × 10−2 , 10−1 (da
sinistra a destra a F = 0.9). La linea tratteggiata è un fit con un esponenziale
stretched di esponente β = 0.95 (da [5]).
1.3.2
Sotto alla temperatura di transizione: T < Tc
Sappiamo che sotto alla temperatura critica il sistema non equilibra mai
per ε = 0, ma invecchia e presenta una violazione di FDT, potremo dire
invece che un sistema sottoposto ad uno shear ringiovanisce. Si trova che
raffreddando il sistema da sopra Tc ad ε = 0 si ottiene uno stato stazionario
con τα finito; ciò significa che si recupera l’invarianza per traslazioni temporali e la funzione di correlazione diventerà dipendente da un tempo solo: C(t, t ) = C(t − t ). Da risultati numerici [5] si trova (fig. 1.8) una
legge di scala del tipo C(t) f (t/τα ), dove in questo caso τα è definito dalla relazione C(τα ) ≡ e−1 e f scala come un esponenziale stretched:
β
f (x) ∼ e−x (T ) con β crescente al decrescere della temperatura, fino a β = 1
per T → 0. Mandando poi ε a zero τα diverge e il sistema finisce nuovamente
fuori equilibrio. Per cui sotto Tc il sistema non ha un regime Newtoniano,
nel senso che per ε → 0 la viscosità continua ad aumentare all’infinito invece
di raggiungere un valore finito. In particolare, per ε piccolo e temperature
appena sotto Tc , τα diverge come ε−2 , come succedeva per T = Tc ; mentre
per ε molto piccolo si passa ad una divergenza più rapida; numericamente
[5] si trova τα (ε 1) ∼ ε−α(T ) con α leggermente dipendente dalla temperatura. Si continua invece ad avere violazione di FDT per qualsiasi valore
33
di ε, ciò mostra la differenza tra un vetro portato in uno stato stazionario
tramite uno shear e un sistema all’equilibrio. Per ε → 0 la temperatura
effettiva coincide con quella del sistema non sottoposto a shear.
1.3.3
Il diagramma di fase e l’estensione del campo medio
E’ possibile riassumere il comportamento del sistema in un “diagramma di
fase” (ε, T ) rappresentato in figura 1.9. I punti del diagramma corrispondono
a stati stazionari che possono essere caratterizzati dal tempo di rilassamento
τα e dal fattore di violazione X. Le due famiglie di curve riportate in figura
corrispondono infatti a valori costanti di τα (curve iso-τα ) e a valori costanti
di X (curve iso-X). Nel limite di ε grandi, quando il tempo di rilassamento
diventa dell’ordine del tempo microscopico (tipico delle vibrazioni), la Tef f e
quindi X non sono più ben definiti. Dal diagramma risulta che, considerando
lo shear, l’influenza della fase vetrosa si estende oltre a Tc , nel senso che il
sistema presenta valori di X caratteristici della fase vetrosa a temperature
superiori a Tc , l’effetto dello shear sembrerebbe quello di rendere un vetro più
vicino ad un liquido (perchè ne diminuisce la viscosità), mentre un liquido
sottoraffreddato sotto shear, che starebbe altrimenti all’equilibrio, prende
delle caratteristiche tipiche di un vetro (presenza di due temperature: T e
Tef f ).
In [3] si cerca poi di estendere qualitativamente questo scenario a un sistema non di campo medio. La differenza è che ora, sopra alla temperatura
di Kauzmann TK (con TK < Tc ) e ad ε nullo, i processi attivati permettono
al sistema di “saltare” fra stati metastabili e quindi di rilassare all’equilibrio
in un tempo finito. Allora anche a temperature inferiori a Tc ma superiori
a TK , ci sarà sempre un ε sufficientemente basso sotto cui vale FDT. Ci si
può aspettare di ottenere uno stato stazionario fuori equilibrio solo quando 1/γ̇, che è la scala di tempo introdotta dallo shear, diventa dell’ordine
del tempo di rilassamento τα o inferiore. Altrimenti il sistema sarà solo
debolmente influenzato dallo shear e continuerà la sua dinamica di invecchiamento aumentando il suo τα fino a renderlo confrontabile con 1/γ̇, il che
però potrebbe richiedere tempi molto più lunghi di quelli tipici di un esperimento. Quindi per un sistema realistico lo shear dovrebbe produrre qualche
effetto osservabile solamente qualora la scala di tempo da esso introdotta
(1/γ̇) sia minore o uguale al tempo di rilassamento τα . Per questo ad alte
temperature (τα piccolo) e shear poco intensi (1/γ̇ grande) il sistema si trova
in un regime Newtoniano di quasi equilibrio, come risulta nel diagramma di
fase riportato in figura 1.10. La regione “vicino all’equilibrio” può essere
definita convenzionalmente da X > 0.99, ed è quella in cui il sistema di
34
Figura 1.9: Il “diagramma di fase” di campo medio nel piano (ε,T ) (da [3]).
Le curve che piegano a sinistra sono le iso-τα , quelle che piegano a destra
sono le iso-X. Tc è indicata dalla freccia. Le curve sono τα =5, 10, 25, 50,
..., 5000 (dall’alto in basso), e X=0.4, 0.5, 0.6, 0.7, 0.8, 0.9, 0.99 (da sinistra
a destra).
fatto non risente dello shear trovandosi in un regime Newtoniano in cui vale
FDT. Avvicinandosi alla transizione tale regione si restringe a shear di intensità sempre più debole, mentre comincia a manifestarsi il comportamento
a due temperature tipico della fase vetrosa. Mentre nel caso ideale di campo
medio (fig. 1.9) la regione vicino all’equilibrio si estende solo fino a Tc , nel
caso realistico arriverà fino a TK . Esisterà però un τα “critico” al di sotto
del quale il sistema non è più equilibrabile sulle scale di tempo tipiche dell’esperimento. Ad esso corrisponde la curva iso-τα evidenziata in grassetto
nella figura 1.10, essa termina giustamente a Tg per ε = 0. Osserviamo che
in questo quadro l’effetto macroscopico di shear-thinning è dovuto al fatto
che, per shear di intensità inferiori ad un certo valore critico, il sistema si
trova nella regione di “quasi equilibrio” per cui la viscosità non dipende da
γ̇; superando invece il valore critico (a T costante) la viscosità decresce con
γ̇.
Le previsioni principali ottenute in [3] sono state verificate numericamente in due lavori successivi degli stessi autori [4, 5].
Il modello teorico elaborato in [3], si adatta particolarmente ai sistemi
vetrosi cosiddetti “soffici”, che sono cioè in grado di fluire se sottoposti ad
uno shear e hanno quindi una viscosità che consente lo studio del sistema
35
Figura 1.10: Il “diagramma di fase” schematico per un sistema realistico
(da [3]).
tramite misure reologiche. Al contrario, nei vetri molecolari, si possono
creare fratture o altre deformazioni irreversibili nel materiale che non permettono di sperimentare i risultati ottenuti dal modello. Per questo negli
esperimenti realizzati [10] in questo senso si utilizzano campioni di laponite,
un sistema colloidale che si è manifestato particolarmente adatto allo studio
dei sistemi vetrosi sotto shear. Ricordiamo infatti che i colloidi (par. 1.2.3)
verificano meglio di altri le previsioni della MCT, su cui si è basato lo studio
appena riportato, perchè i processi attivati risultano meno influenti. In [10]
viene descritto l’apparato sperimentale con cui è stata studiata la stazionarietà di un sistema sotto shear e si sono realizzate misure di shear thinning in
buon accordo con le previsioni teoriche e numeriche. Si tratta di una cella di
Couette, in cui il fluido è posto sotto shear tramite la rotazione del cilindro
esterno, tuttavia le misure sono prese bloccando la rotazione del cilindro
per qualche secondo, per evitare che la velocità delle particelle provochi un
taglio della funzione di autocorrelazione delle fluttuazioni di densità. La
novità nel nostro esperimento vuole essere nel modo di acquisire le misure:
ci proponiamo di non interrompere lo shear a cui il sistema è sottoposto
per essere nelle condizioni di studiare sicuramente uno stato stazionario del
sistema.
Per concludere osserviamo che lo stato stazionario in cui si porta il sistema sottosto ad uno shear costante dà il vantaggio di poter studiare il
campione avendo come parametro di controllo γ̇ invece del tempo di attesa
tw , che nel caso fuori equilibrio determinava la dinamica lenta del sistema.
E’ come se il sistema, nel suo rilassamento verso l’equilibrio, venisse bloc36
cato in uno stato prima ancora di raggiungere l’equilibrio e ci rimanesse in
modo stazionario: è molto più semplice studiare lo stato di un sistema che
non evolve più nel tempo, ad esempio la temperatura effettiva può essere
misurata più facilmente in uno stato stazionario fuori equilibrio rispetto allo
stato in cui il sistema invecchia.
37
Capitolo 2
Diffusione della luce
L’uso dello diffusione della luce [36, 42] è particolarmente adatto allo studio
della dipendenza dal tempo delle fluttuazioni spontanee nei sistemi fluidi:
la radiazione elettromagnetica può indagare la struttura e la dinamica della materia in quanto i fotoni che colpiscono le molecole cedono o guadagnano energia dai gradi di libertà elettronici o traslazionali, rotazionali o vibrazionali e lo spettro di frequenza sarà risonante alla frequenza di tali transizioni. Classicamente il fenomeno è interpretabile considerando l’induzione,
da parte del campo elettrico incidente, di una polarizzazione oscillante delle
cariche, che essendo cosı̀ soggette ad un’accelerazione irradiano luce. La
forma, le dimensioni e le interazioni delle molecole del campione determinano le caratteristiche della luce diffusa (la sua intensità, polarizzazzione, e
distribuzione angolare e in frequenza).
In un esperimento di diffusione della luce, un’onda elettromagnetica
emessa da un laser costituisce il fascio incidente sul campione, la luce diffusa
viene analizzata da un rivelatore da cui si calcola la funzione di correlazione
del campo o dell’intensità del fascio diffuso. Questa tecnica sperimentale è
anche detta fotocorrelazione.
In questo capitolo presenteremo un’introduzione ai principi che governano il fenomeno della diffusione della luce. Le variabili misurate in un
esperimento di fotocorrelazione sono le funzioni di correlazione del campo
elettrico diffuso o della sua intensità; dato il ruolo centrale che ricoprono
dedicheremo allora il paragrafo 2.1 allo studio delle funzioni di correlazione
dipendenti dal tempo. Nel paragrafo 2.2 mostreremo invece come le caratteristiche della luce diffusa dipendano dal moto che caratterizza i centri
diffusori del campione. Presenteremo in seguito (paragrafo 2.3) due delle
tecniche sperimentali più diffuse (omodina ed eterodina) e le metteremo in
38
relazione con le funzioni di correlazione introdotte. Poichè il campione studiato in questa tesi è un sistema colloidale ricaveremo nel paragrafo 2.4 il
modello teorico per la funzione di correlazione di una soluzione diluita. In seguito affronteremo (paragrafo 2.5) i problemi, che abbiamo incontrato nello
sviluppo del nostro lavoro sperimentale, connessi agli esperimenti di fotocorrelazione su sistemi fluidi in movimento. Infine dedicheremo il paragrafo
2.6 all’approfondimento di un aspetto della tecnica di fotocorrelazione: ci
soffermeremo sul fenomeno della rivelazione del fascio diffuso dal campione
studiando la distribuzione di probabilità dei fotoconteggi.
2.1
Funzioni di correlazione
L’agitazione termica delle molecole di un sistema colpito da un’onda elettromagnetica provoca delle fluttuazioni nel tempo del campo elettrico diffuso; le funzioni di correlazione temporale, che ora introdurremo, riescono a
descrivere tali fluttuazioni.
Le interazioni termiche del campione ne fanno ruotare, vibrare e traslare
le molecole, che cambiano quindi la loro posizione; il campo diffuso dal
sistema sarà Es = N
n=1 En , con En campo diffuso dall’ennesimo degli N
diffusori contenuti nel volume illuminato (volume ottenuto dall’intersezione
tra il fascio incidente e il fascio diffuso). Poiché i vari En dipendono dalle
posizioni delle molecole, che seguono un moto termico random, il campo Es
sul detector fluttuerà nel tempo in modo random e sarà descrivibile con la
teoria del rumore.
Nel seguito consideremo soltanto eventi ad un fotone non essendo la diffusione multipla di nostro interesse, tratteremo quindi campi incidenti sufficientemente piccoli da poter assumere che il sistema risponda linearmente
al campo incidente: radiazione e materia saranno debolmente accoppiati e
la teoria della risposta lineare sarà applicabile, cioé conoscendo i due sistemi
singolarmente potremo arrivare a descrivere come la materia risponde alla
radiazione. Otterremo ciò usando le funzioni di correlazione dipendenti dal
tempo di variabili dinamiche.
Tali funzioni esprimono quanto sono correlate due grandezze per un periodo di tempo. Consideriamo una variabile A che dipende dalla posizione
e dal momento di tutte le particelle del sistema, per l’agitazione termica
delle molecole l’andamento nel tempo di A(t) sarà quello di un rumore. Per
misurare A(t) dovrò quindi ricorrere ad una media temporale:
1
A(t0 , T ) =
T
39
t0 +T
t0
dt A(t)
se A(t) è una variabile stazionaria, posso porre t0 = 0. Il valore di A ai due
tempi t e t+τ sarà in genere diverso, tuttavia, se τ è piccolo rispetto ai tempi
tipici delle fluttuazioni di A, A(t + τ ) sarà molto vicino a A(t) ; al contrario
se τ cresce, la deviazione tra i due valori di A sarà piu’ probabilmente
diversa da zero. In definitiva A(t + τ ) e A(t) saranno correlati quando τ è
piccolo e perderanno tale correlazione quando τ diventa grande rispetto al
periodo delle fluttuazioni. Una misura di questa correlazione è la funzione
di autocorrelazione di A:
1
A(0)A(τ ) = lim
T →∞ T
T
0
dt A(t)A(t + τ )
(2.1)
Si trova che il valore della funzione di autocorrelazione al tempo zero
è massimo:
A(0)2 ≥ A(0)A(τ )
1
Per τ molto grandi invece A(0) e A(τ ) si decorrelano:
lim A(0)A(τ ) = A(0)A(τ ) = A2
τ →∞
La funzione di autocorrelazione decadrà dunque dal valore iniziale massimo
A2 al valore A2 per tempi lunghi e il decadimento sarà tanto più rapido
quanto più velocemente fluttua la variabile A.
1
Se divido l’asse dei tempi in intervalli ∆t in cui A varia poco e se t = ∆t, τ = n∆t e
T = N ∆t, dalla definizione di integrale (fig. 2) segue che posso approssimare la (2.1) con:
A(0)A(τ ) lim
N→∞
N
1 Aj Aj+n
N
j=1
Consideriamo il caso in cui τ = 0:
A(0)A(0) lim
N→∞
1 2
Aj
N
j
i
termini della somma
sono
tutti positivi, per cui, usando la disuguaglianza di Schwartz
| j Aj Bj |2 ≤ ( j A2j )( j A2j ) e ponendo Bj = Aj+n , troviamo che
N
j=1
da cui segue che
A2j
≥
N
Aj Aj+n
j=1
A(0)2 ≥ A(0)A(τ )
40
In molti casi la funzione di autocorrelazione ha un decadimento a singolo
esponenziale del tipo:
A(0)A(τ ) = A2 + {A2 + A2 } e− Tc
τ
(2.2)
dove Tc è detto tempo di correlazione o di rilassamento. Per semplificare
l’espressione conviene passare alla funzione di correlazione delle fluttuazioni.
Se definiamo la deviazione di A(t) dal suo valor medio:
δA(t) ≡ A(t) − A
sostituendo ad A(t) il suo valore cosı̀ definito e considerando che δA(t) = 0,
si ottiene che
(2.3)
δA(0)δA(τ ) = A(0)A(τ ) − A2
da cui
δA2 = A2 − A2
(2.4)
Combinando le (2.2), (2.3), (2.4), troviamo che le funzioni di autocorrelazione delle fluttuazioni hanno una struttura piu’ semplice nel caso di
decadimento esponenziale:
δA(0)δA(τ ) = δA2 e− Tc
τ
Definiamo ora la densità spettrale di una funzione di correlazione A∗ (0)A(t):
IA (ω) ≡
1
2π
+∞
−∞
dte−iωt A∗ (0)A(t)
Ritrasformando torniamo alla funzione di correlazione temporale:
A∗ (0)A(t) =
+∞
−∞
dte+iωt IA (ω)
Se la variabile A fluttua rapidamente, avrò uno spettro allargato in cui saranno presenti componenti ad alta frequenza, corrispondentemente, come ci si
aspetta dall’antitrasformata di Fourier, la funzione di correlazione decade
infatti in breve tempo. A volte in un esperimento di diffusione della luce ciò
che viene misurato è proprio la densità spettrale del campo elettrico diffuso,
trasformando secondo Fourier si potrà calcolare la funzione di correlazione
temporale.
Le funzioni di correlazione sopra definite sono delle medie temporali e
saranno ottenute sperimentalmente, tuttavia i calcoli teorici danno solitamente delle medie sull’ensemble:
A(0)A(t) ≡
dΓ0 ρ(Γ0 )A(Γ0 )A(Γt )
41
dove Γt ≡ (q1 (t), · · · , qN (t), p1 (t), · · · , pN (t)) rappresenta il punto che il sistema con N gradi di libertà occupa nello spazio delle fasi al tempo t, essendo
qi (t) e pi (t) rispettivamente la posizione e il momento della i-esima particella
del sistema e ρ(Γ0 ) è la densità dei punti nello spazio delle fasi. Se il sistema
è ergodico, possiamo assumere l’uguaglianza tra le due medie.
Una particolare funzione di correlazione che viene spesso studiata è la
funzione di autocorrelazione densità-densità. La densità microscopica di
numero al punto r è ragionevolmente definita come:
ρ(r, t) ≡
N
δ(r − rj (t))
j=1
la sua trasformata di Fourier sarà:
ρq (t) =
N
eiq·rj (t)
(2.5)
j=1
Nello spazio di Fourier la funzione di correlazione cercata sarà quindi:
F (q, t) ≡ ρ−q (0)ρq (t) =
N
1 eiq·(ri (0)−rj (t) N i,j=1
(2.6)
Posso esprimere le fluttuazioni della densità come
δρq (t) = ρq (t) − ρq (2.7)
Se il sistema è omogeneo le particelle sono distribuite in modo random e la
probabilità di trovare una particella in un intorno d3 r è V −1 d3 r dove V è il
volume del campione, per cui
ρq = V
−1
d3 rρ(r)eiq·r ∼ ρ(r)δ(q) = 0 ∀
q = 0
(2.8)
troviamo che, a parte il caso di diffusione in avanti (q = 0), F (q, t) coincide
con la funzione di correlazione delle fluttuazioni di densità.
2.2
Teoria classica della diffusione della luce
In questo paragrafo troveremo una semplice relazione tra le fluttuazioni della
costante dielettrica del campione e il campo elettrico diffuso, che ci permetterà di spiegare il legame tra le eccitazioni del mezzo e la luce da esso
diffusa.
42
La teoria della diffusione della luce può essere sviluppata sulla base della
teoria dei campi, ma i suoi più importanti risultati possono essere ottenuti
anche con un approccio classico, che ora riporteremo. Nella teoria classica,
valida se la lunghezza d’onda della luce incidente è molto maggiore delle
distanze tra gli oggetti responsabili della diffusione, il campione viene polarizzato dal campo elettrico incidente che fa accelerare le cariche del volume
illuminato facendo sı̀ che queste irradino luce. Se divido il mezzo in tante
regioni j di dimensioni inferiori al cubo della lunghezza d’onda λi della luce
incidente, il campo elettrico diffuso sarà dato dalla sovrapposizione dei campi
diffusi da ogni regione j. Se tali regioni sono otticamente identiche (hanno
cioè la stessa costante dielettrica ε), il campo diffuso sarà non nullo solo
nella direzione del campo incidente. Infatti i campi diffusi da ogni regione
saranno identici ad eccezione della fase che dipenderà dalla posizione della
singola regione: la somma dei campi sarà cosı̀ mediata a zero dalla somma
delle fasi indipendenti. Viceversa se le regioni sono otticamente differenti
le ampiezze dei campi diffusi saranno diverse, di conseguenza nelle altre direzioni rispetto a quella incidente non si avrà più l’annullamento dei campi
diffusi. La diffusione della luce è dunque dovuta alle fluttuazioni locali della
costante dielettrica del mezzo che effettivamente si presentano a causa del
continuo movimento di vibrazione, rotazione e traslazione delle molecole.
Un altro modo per visualizzare il fenomeno è considerare le regioni come
elementi di volume (di dimensioni a < λi ) investiti da un’onda coerente,
ognuno diffonderà luce generando, in base al principio di Huygens, un’onda
progressiva. Se il mezzo è completamente omogeneo i centri diffusori interferiranno dando luogo ad un’onda progressiva non deflessa, contrariamente
a quanto avverrà nel caso di disomogeneità locali, come accade anche per
la propagazione delle onde sonore dovute alle fluttuazioni di pressione nel
mezzo.
Prima di entrare nel dettaglio della trattazione vogliamo puntualizzare
che la diffusione della luce che stiamo descrivendo è di tipo dinamico. A
differenza del caso statico in cui si ha diffusione elastica, si tratta di diffusione
inelastica in cui il fotone cambia la sua energia h̄ω dopo aver interagito con
il campione, di conseguenza anche il modulo del vettore d’onda k, oltre
alla sua direzione, cambierà, essendo legato alla frequenza dalla relazione di
dispersione per un’onda elettromagnetica: ω = c|k|. Tuttavia la variazione
di energia sarà sempre abbastanza piccola da poter considerare il modulo
del vettore d’onda del fotone entrante uguale a quello del fotone uscente:
|ki | |ks |
(2.9)
Consideriamo un mezzo non assorbente (cioè con transizioni moleco43
lari non messe in risonanza dalla lunghezza d’onda della luce incidente) di
costante dielettrica media ε, e di permeabilità magnetica µ = 1 (trascuriamo
quindi le proprietà magnetiche). Il campione avrà una costante dielettrica
locale
ε(r, t) = εI + δε(r, t)
dove I è il tensore unità e δε è il tensore delle fluttuazioni della costante
dielettrica. Sia il campo elettrico incidente approssimabile con un’onda piana monocromatica e polarizzata
Ei (r, t) = n̂i E0 ei(ki ·r−ωi t)
(2.10)
di lunghezza d’onda λi , frequenza ωi , polarizzazione n̂i , ampiezza E0 e vettore d’onda ki con |ki | = ωci n dove n è l’indice di rifrazione del mezzo in cui
viaggia il fascio.
Dal calcolo svolto nell’appendice A, si ottiene per il campo elettrico
diffuso la seguente espressione
E0 i(ks ·R−ωi t)
e
ks × [ks ×
Es (R, t) =
4πε|R|
V
d3 reiq·r δε(r, t) · n̂i ]
Assumendo ora che il rivelatore si trovi immerso in un mezzo di costante
dielettrica unitaria, prendendo la componente di Es lungo il versore di polarizzazione n̂f e riconoscendo la trasformata di Fourier di δε(r, t) l’equazione
per il campo diffuso diventa:
Es (R, t) =
E0 i(ks ·R−ωi t)
e
{n̂f · [ks × ks × (δε(q, t) · n̂i )]}
4π|R|
sviluppando il prodotto tra vettori (si usi la regola della mano destra) e chiamando la componente del tensore di fluttuazione della costante dielettrica
lungo le direzioni iniziale e finale della polarizzazione
δεif (q, t) ≡ n̂i · δε(q, t) · n̂f
si avrà
Es (R, t) =
−ks2 E0 i(ks ·R−ωi t)
e
δεif (q, t)
4π|R|
(2.11)
Il potente risultato del calcolo del campo elettrico diffuso è che Es (R, t)
è proporzionale alla componente di Fourier delle fluttuazioni della costante
dielettrica del mezzo che diffonde. Vedremo di seguito come ciò può essere
utile per trovare un’espressione per la funzione di autocorrelazione temporale del campo elettrico e più in generale per interpretare il fenomeno della
diffusione della luce.
44
Apriamo una parentesi per trovare un’espressione per il vettore d’onda
scambiato q che compare anche in quest’ultima equazione. La luce di polarizzazione n̂i e vettore d’onda ki viene diffusa in tutte le direzioni, ma
soltanto la luce diffusa in una certa direzione R̂ arriva al rivelatore e sarà
caratterizzata dalla polarizzazione n̂f e dal vettore d’onda ks . Il vettore
d’onda scambiato q = ki − ks è definito quindi dalla geometria dell’esperimento. Abbiamo detto in precedenza che |ks | |ki |, per cui i tre vettori
ks , ki , q formeranno un triangolo isocele; se chiamiamo θ l’angolo formato
dai vettori ki e ks potremo scrivere
q 2 = |ks − ki |2 = ks2 + ki2 − 2ki · ks = 2ki2 − 2ki2 cos θ = 4ki2 sin2
θ
2
4πn
θ
θ
=
(2.12)
sin
2
λi
2
questa è la condizione di Bragg ed esprime la componente del vettore d’onda
delle fluttuazioni della costante dielettrica che genera diffusione ad un angolo
θ.
E’ possibile calcolare ora la funzione di correlazione temporale del campo
elettrico diffuso sul rivelatore in relazione alla funzione di correlazione delle
fluttuazioni della costante dielettrica:
q = 2ki sin
ks4 |E0 |2
δεif (q, 0)δεif (q, t)e−iωi t
16πR2 ε2
Trasformando secondo Fourier ottengo la densità spettrale
Es∗ (R, 0)Es (R, t) =
Iif (q, ωf , R) =
ks4 |E0 |2 1
16πR2 ε2 2π
+∞
−∞
dtδεif (q, 0)δεif (q, t)ei(ωf −ωi )t
|2 .
dove I ≡ |E0
Notiamo che:
1. Iif ∝ λ−4 che spiega, ad esempio, perchè la luce blu sia diffusa di
più della luce rossa (come confermano il colore del cielo e del mare),
che ha una maggiore lunghezza d’onda; un’altra conseguenza è che gli
esperimenti di diffusione della luce visibile sono molto più efficaci di
quelli con luce infrarossa o con onde radio;
2. Iif ∝ R−2 che è l’attenuazione tipica di un’onda sferica;
3. Iif dipende dalla differenza ωi −ωf = ω e tale differenza è non nulla solo
se δε(q, t) varia nel tempo, se infatti le fluttuazioni sono indipendenti
dal tempo l’integrale della densità spettrale darà una δ(ω), in tal caso
la frequenza dell’onda diffusa coinciderà con quella dell’onda incidente.
45
Se scrivo la densità spettrale delle fluttuazioni della costante dielettrica
ε
(q, ω)
Iif
1
=
2π
+∞
−∞
dte−iωt δε∗if (q, 0)δεif (q, t)
trovo che la densità spettrale della luce diffusa sul rivelatore è proporzionale
alla densità spettrale delle fluttuazioni della costante dielettrica
ε
I(q, ωf , R) ∝ Iif
(q, ω)
(2.13)
essendo la costante di proporzionalità A = ks4 |E0 |2 /(16πR2 ε2 ).
Essendo I(q, ωf ) l’intensità che leggerebbe un rivelatore posto dietro un
filtro di frequenza ωf , dalla (2.13) la probabilità che un fotone incidente
di momento ki e frequenza ωi venga diffuso con momento ks e frequenza
ωf risulta proporzionale a I ε (q, ω). Si capisce allora che proprio le fluttuazioni della costante dielettrica di vettore d’onda q e frequenza ω provocano l’evento di diffusione che produce un cambiamento di vettore d’onda
q e di frequenza ω della luce incidente. Finalmente è possibile dare un’interpretazione fisica al fenomeno della diffusione in termini di conservazione
dell’energia e del momento del sistema. Un fotone subisce una variazione di
energia da h̄ωi a h̄ωf e una variazione di impulso da h̄ki a h̄ks , creando o
distruggendo un’eccitazione nel mezzo (fonone dielettrico) di energia h̄ω e
impulso h̄q, nella teoria quantistica della diffusione della luce si scrive infatti
la conservazione dell’energia e dell’impulso come:
h̄ω = h̄ωi − h̄ωf
h̄q = h̄ki − h̄ks
Per prevedere la funzione di correlazione temporale di un esperimento
di diffusione è dunque necessario avere un modello per il decadimento delle
fluttuazioni della costante dielettrica. Vedremo che nel caso che a noi interessa, cioè per soluzioni molto diluite, bisognerà aspettarsi un decadimento
esponenziale.
Mostreremo ora come è possibile ricavare la funzione di correlazione delle
fluttuazioni di densità espressa dalla (2.6) da misure di fotocorrelazione sulla luce diffusa dal campione. Poiché stiamo lavorando nel limite in cui
la lunghezza d’onda è molto maggiore delle distanze interatomiche, possiamo considerare ε funzione della densità ρ e della temperatura T in ogni
volumetto in equilibrio termodinamico nel materiale, quindi
δε =
∂ε
∂ε
δρ +
δT
∂ρ
∂T
46
La dipendenza della costante dielettrica dalla temperatura è trascurabile
rispetto alla sua dipendenza dalla densità. Si trova quindi
δε(q, t) ∝ δρq (t) ∝ ρq (t)
da cui troviamo una relazione di proporzionalità tra la densità spettrale
della funzione di correlazione del campo elettrico e la trasformata di Fourier
S(q, ω) della funzione di correlazione delle fluttuazioni di densità F (q, t):
I(q; ωf ) ∝ S(q, ω)
2.3
(2.14)
Esperimenti di diffusione della luce
In un esperimento di fotocorrelazione l’onda elettromagnetica emessa da un
laser e polarizzata costituisce il fascio incidente sul campione, la luce diffusa
viene analizzata da un fotomoltiplicatore, la cui posizione determina l’angolo
di diffusione θ (formato dalla direzione del fascio entrante con quella del
fascio diffuso dal sistema in direzione del rivelatore); il segnale uscente dal
fototubo passa poi ad un correlatore che calcola la funzione di correlazione
del campo elettrico o dell’intensità del fascio diffuso. Nel caso in cui si
voglia misurare invece lo spettro della funzione di correlazione, al posto del
correlatore si avrà un analizzatore dello spettro. In particolare, il metodo di
rivelazione del fototubo segue una legge quadratica, essendo il suo segnale
uscente proporzionale al quadrato del campo incidente: i(t) ∝ |E(t)|2 . Il
quadrato del campo elettrico è proporzionale all’intensità della luce, per cui
il correlatore, che calcola la funzione di autocorrelazione del segnale uscente
dal fotomoltiplicatore, ci darà informazioni sulla funzione di correlazione
dell’intensità del campo incidente sulla superficie del rivelatore:
i(t)i(0) ∝ |E(0)|2 |E(t)|2 Come descritto nel paragrafo 2.1 il campo diffuso fluttua in risposta all’agitazione termica dei centri diffusori, nel nostro caso si tratta di processi di
dinamica molecolare lenta, in particolare della diffusione di molecole grandi
in soluzioni diluite, che avviene su scale di tempo inferiori a 10−6 Hz.
In questo paragrafo ci occuperemo di presentare due tecniche di rivelazione molto diffuse, che si utilizzano nel caso di processi di dinamica
lenta nel campione: il metodo omodino, in cui il fascio diffuso dal campione
colpisce direttamente il fototubo, e quello eterodino, in cui sulla superficie
del fotocatodo una parte del fascio incidente è aggiunto al fascio diffuso.
47
Introdurremo inoltre il concetto di area di coerenza e lo metteremo in relazione con l’intercetta della funzione di correlazione. Infine presenteremo
le diverse geometrie di raccolta del fascio, mostrando come siano legate al
numero di aree di coerenza che illuminano la superficie del fotocatodo.
2.3.1
Metodo omodino
Per distinguere tra la tecnica omodina da quella eterodina, definiamo subito
le due funzioni di autocorrelazione: la funzione di correlazione del campo
diffuso
(2.15)
I1 (t) ≡ Es∗ (0)Es (t)
detta funzione di correlazione eterodina, e la funzione di autocorrelazione
dell’intensità diffusa
(2.16)
I2 (t) ≡ |Es (0)|2 |Es (t)|2 anche detta funzione di correlazione omodina. Infatti nel metodo omodino
soltanto il campo diffuso Es (t) colpisce il fotocatodo, quindi i(0)i(t) calcolato dal correlatore sarà proporzionale a I2 (t). Sappiamo che il campo diffuso
Es (t) è proporzionale alle fluttuazioni della costante dielettrica e fluttuerà
quindi allo stesso modo, quindi I2 (t) sarà proporzionale alla funzione di
correlazione delle fluttuazioni della costante dielettrica.
In alcuni casi la funzione I2 (t) è esprimibile in termini della I1 (t). Se
infatti dividiamo il volume illuminato in volumetti di dimensioni piccole
rispetto alla lunghezza d’onda della luce, possiamo considerare il campo diffuso come sovrapposizione dei campi provenienti da ogni volumetto. Il moto
delle particelle in ogni volumetto fa fluttuare i campi diffusi corrispondenti,
se tale moto è indipendente da quello negli altri volumetti (cioè se il volume
illuminato contiene molti volumi di correlazione) Es (t) diventa la somma di
variabili random (approssimazione gaussiana). Nel caso di soluzioni diluite
di macromolecole, ciò avviene se nel volume illuminato c’è un numero grande
di tali molecole, ognuna delle quali diffonde un campo che contribuisce al
campo totale diffuso. Dunque dal teorema del limite centrale Es (t), anch’essa variabile random, avrà una distribuzione gaussiana. Tale distribuzione è
completamente caratterizzata dai suoi primi due momenti, da cui dipendono
i successivi. Si dimostra2 che I2 (t) è il quarto momento della distribuzione
2
Chiamiamo per semplicità A(q, t) la variabile δε(q, t); se divido il volume illuminato
in N elementi di volume i di centro di massa ri (t) le fluttuazioni della costante dielettrica
sono sviluppabili come
A(q, t) =
N
i=1
48
ai eiq·ri (t)
e I1 (t) il secondo momento e che i due sono legati dall’equazione
I2 (t) = |I1 (0)|2 + |I2 (t)|2
(2.17)
Se quindi mi trovo nell’approssimazione gaussiana le misure omodina ed
eterodina danno la stessa informazione.
Vediamo il caso in cui il decadimento della funzione di correlazione si può
assumere di tipo esponenziale, come nel caso di macromolecole in soluzioni
diluite. Scriviamo la funzione di correlazione eterodina come
−τ t
I1 (t) = Ae
ete
troviamo per la I2 (t) un decadimento ancora esponenziale, ma con un tempo
di correlazione dimezzato:
− τ 2t
I2 (t) = A2 (1 + e
2.3.2
ete
)
Metodo eterodino
Nel caso della tecnica eterodina una piccola parte del fascio non diffuso, che
rappresenta un campo elettrico oscillante Eo (t) che varia alla frequenza del
laser (è detto oscillatore locale), è aggiunto al campo del fascio diffuso Es (t)
che colpisce il fotocatodo. I due campi elettrici sono esprimibili come
Es (t) = f (t)E0 e−iω0 t
0 −i(ω0 t−Φl )
Elo (t) = Elo
e
Il moto delle particelle del sistema farà fluttuare A(q, t); se chiamiamo P (A0 , Ai t) la probabilità che A(q, t) abbia un valore tra A0 e A0 + dA0 al tempo zero e tra A e A + dA al
tempo t possiamo determinare le funzioni di correlazione
(1)
Iif (q, t)
(2)
Iif (q, t)
=
=
δε∗if (q, 0)δεif (q, t)
2
=
dA0
2
|δεif (q, 0)| |δεif (q, t)| =
dAA0 P (A0 , Ai t)A
dA0
dA|A0 |2 P (A0 , Ai t)|A|2
Essendo Es (t) ∝ δεif (q, t), I1 (t) e I2 (t) sono proporzionali alle funzioni di correlazione
scritte. Se P (A0 , Ai t) è una distribuzione gaussiana, si dimostra [36] che
(2)
(1)
(1)
Iif (q, t) = |Iif (q, 0)|2 + |Iif (q, t)|2
49
dove f (t) determina le modulazioni temporali di Es (t) dovute al processo di diffusione (ricordando, dal par. 2.2, che Es (t) ∝ δε(q, t) ∝ δq (t),
f (t) sará proporzionale alle fluttuazioni di densitá nel campione) la fase
Φl tiene conto del diverso cammino ottico percorso dall’oscillatore locale
rispetto al fascio diffuso. Il correlatore analizzerà il segnale i(t) in uscita dal
fotomoltiplicatore, la cui funzione di correlazione sarà
i(t0 )i(t0 + t) ∝ |Elo (t0 ) + Es (t0 )|2 |Elo (t0 + t) + Es (t0 + t)|2 (2.18)
Scegliamo l’ampiezza dell’oscillatore in modo che |Elo (t)| |Es (t)| e supponiamo di poter trascurare le fluttuazioni dell’oscillatore e considerare statisticamente indipendenti i due campi, per cui Is Ilo = Is Ilo , con Is = |Es (t)|2
0 |2 . Con tali assunzioni, dei sedici termini provenienti dalla (2.18),
e Ilo = |Elo
dieci sono nulli3 , tre sono costanti e determinati dall’intensità del segnale
2 , I I e I I di cui gli ultimi sono trascuroscillante (sono i termini Ilo
s lo
lo s
abili rispetto al primo), uno è trascurabile (si tratta del termine omodino
|Es (t0 )|2 |Es (t0 + t)|2 ) e i rimanenti due danno
2
2
+2Ilo Re[I1 (t)eiω0 t ] = Ilo
+2Ilo E02 Re[f ∗ (0)f (t)] (2.19)
i(t0 )i(t0 +t) ∝ Ilo
dove I1 (t) è data dalla (2.15) ed è chiamata funzione di correlazione eterodina perchè compare nell’espressione della funzione di correlazione ottenuta
con la tecnica eterodina. La funzione di correlazione normalizzata avrà
un’ampiezza (intesa come la differenza tra il valore dell’intercetta e il valore
asintotico) dell’ordine di E02 /Ilo .
Per la realizzazione di un tale esperimento si potranno usare, per la raccolta del segnale, le fibre ottiche (che tratteremo in 3.4), si possono infatti
sovrapporre il fascio diffuso e quello dell’oscillatore locale tramite un beam
splitter commerciale, con le fibre già allineate su di esso: consiste in due
semicubi di vetro uniti a formare un cubo su di una faccia diagonale (in
realtà le due facce saranno divise da un sottile strato di colla o di aria, il cui
indice di rifrazione sarà diverso da quello del vetro), cosı̀ che il fascio possa
essere rifratto e proseguire nella stessa direzione, o riflesso di un angolo retto; basterà allora raccogliere il fascio da una faccia del cubo, avendo messo
3
I termini nulli sono dovuti all’annullamento dei fattori
Elo (t) = Es (t) = Es (t0 )Es (t0 + t) = Elo (t0 )Elo (t0 + t) = 0
e analogamente si annulleranno i complessi coniugati. Queste medie sono delle medie
temporali sulla variabile t0 e sono nulle perchè
eiω0 t0 = cos ω0 t0 + isin ω0 t0 = 0
50
i due fasci da sommare sulle due altre facce opportune. Una condizione fondamentale per la riuscita di un esperimento in eterodina è che le oscillazioni
meccaniche dei vari strumenti utilizzati per la raccolta della luce siano molto
piccole. Infatti, se ad esempio si hanno delle oscillazioni indipendenti per le
due fibre di raccolta dei due fasci, la differenza di fase Φl tra i due campi,
cioè la differenza di cammino ottico tra i fasci, diventa dipendente dal tempo. Nell’ultimo termine della (2.19), all’interno della parte reale, comparirà
allora il fattore ei(Φl (t)−Φl (0)) , che prima risultava nullo. Se tale differenza
di fase oscilla fino a 2π, il termine eterodino si annullerà (perchè il nuovo
fattore è indipendente dagli altri e la sua media vale zero) e, a parte i termini costanti, rimarrà soltanto il termine omodino dipendente dal tempo, che
avevamo trascurato essendo la sua ampiezza molto piú piccola di quella del
termine eterodino: |E0 |4 |E0 |2 |Elo |2 . Per cambiare la fase di 2π, se per
semplicità pensiamo a delle oscillazioni della fibra nella direzione del fascio che viene raccolto, l’ordine di grandezza dell’ampiezza delle fluttuazioni
dovrà essere di ∆r tale che k · ∆r = 2π, dove k è il vettore d’onda del
fascio, che abbiamo supposto parallelo a ∆r; basterà allora che l’ampiezza
delle fluttuazione sia pari a λ = 2π/k perchè il termine I1 (t) che si vorrebbe
misurare venga mediato a zero.
Poichè Es (t) ∝ δεif (q, t), I1 (t) e I2 (t) saranno rispettivamente proporzionali alle funzioni di correlazione
(1)
Iif (q, t) = δε∗if (q, 0)δεif (q, t)
(2)
Iif (q, t) = |δεif (q, 0)|2 |δεif (q, t)|2 (2.20)
(2.21)
E’ chiaro quindi che le tecniche omodine ed eterodine misurano due diverse
funzioni di correlazione delle fluttuazioni della costante dielettrica. Nel caso in cui sia valida l’approssimazione gaussiana invece, le due funzioni di
correlazione sono legate dall’equazione
(2)
(1)
(1)
Iif (q, t) = |Iif (q, 0)|2 + |Iif (q, t)|2
2.3.3
Area di coerenza
Il grado di coerenza di un’onda luminosa è una misura di quanto sia vicina
ad un’onda monocromatica pura, che ha durata infinita ed è costituita da
una sola componente di Fourier (è cioè un’onda sinusoidale). Le onde non
coerenti, che hanno durata limitata e sono costituite da più componenti di
Fourier, hanno fase e ampiezza che fluttuano in modo random nel tempo
51
e nello spazio. La luce diffusa dal volume illuminato, che rappresenta una
sorgente estesa, crea uno spettro di diffrazione sulla superficie del fotocatodo
posta in lontananza, la distanza tra i massimi e i minimi dello spettro e la
loro intensità dipende, tra le altre cose, dalle dimensioni del volume illuminato. Assumiamo che ogni centro diffusore nel volume illuminato irradi luce
incoerente, cioè con fase random. In un punto A del fotocatodo l’intensità
del campo elettrico sarà data dalla somma dei contributi provenienti da ogni
centro diffusore. Prendiamo ora un punto B: se è molto vicino ad A, il segnale in B sarà quasi identico e quindi “coerente” con quello in A, visto che
se A = B i due segnali coincidono; ad una certa distanza questa coerenza
verrà meno. La lunghezza di coerenza lc è formalmente definita come la distanza oltre a cui la funzione di correlazione spaziale dei campi elettrici in A
e in B E(A)E(B) è decaduta in modo significativo. Si trova [42] un forte
legame tra le proprietà di coerenza spaziale della funzione di correlazione e
la teoria della diffrazione: la zona in cui il campo diffuso rimane correlato
spazialmente ha dimensioni dell’ordine della distanza tra i massimi e i minimi dello spettro di diffrazione del volume illuminato; in particolare il profilo
del campo diffuso può essere espresso come la somma di una serie di campi
diffratti dal volume illuminato, ognuno degli spettri di diffrazione della serie
è centrato in una regione diversa, in cui si ha coerenza spaziale ed ha origine
da una distinta componente di Fourier del campo elettrico diffuso.
Per stimare la lunghezza di coerenza proporremo ora un percorso [41] con
un approccio piuttosto intuitivo, ma poco rigoroso, al problema. Consideriamo inizialmente il caso unidimensionale, assumiamo quindi che il volume
illuminato abbia dimensioni lineari pari a Lv . Concentriamoci ora sul vettore
d’onda q scambiato in un esperimento di diffusione della luce: il suo valore,
in funzione dell’angolo formato dal fascio incidente e da quello diffuso, è
dato dalla (2.12); differenziando rispetto all’angolo θ otteniamo
dq ∼
2π
dθ
λ
(2.22)
dove con λ abbiamo indicato la lunghezza d’onda della luce, potendo assumere, dalla (2.9), che la lunghezza d’onda del fascio incidente sia uguale
a quella del fascio diffuso: λi ∼ λf ∼ λ. Se dunque mi sposto ad osservare il
campo diffuso di un angolo infinitesimo dθ, passo ad un vettore d’onda scambiato che differisce dal precedente di dq: vedremo ora qual è la differenza
∆q tra i vettori d’onda scambiati per cui lo spostamento angolare corrispondente ∆θ comporta l’uscita dalla lunghezza di coerenza sulla superficie del
fotocatodo, chiameremo ∆θ angolo di coerenza.
Sappiamo, dalla (2.11), che la funzione di correlazione del campo elettrico
52
I1 (t) è proporzionale alla funzione di correlazione delle fluttuazioni della
costante dielettrica:
I1 (t) ≡ E ∗ (0)E(t) ∝ δε∗if (q, 0)δεif (q, t)
(2.23)
dove δεif (q, t) proviene dallo sviluppo in serie di Fourier di δεif (r, t) (si veda
la (A.5) nell’appendice A), in cui ogni termine della somma si riferisce ad un
q indipendente. I valori di questi vettori d’onda q scambiati, indipendenti
tra loro, sono ricavabili dai punti del reticolo reciproco: dato il volume
illuminato di dimensioni lineari Lv nello spazio reale, se passiamo allo spazio
unidimensionale del reticolo reciproco, la distanza tra due punti adiacenti
del reticolo sarà
2π
(2.24)
∆q =
Lv
Se adesso sostituiamo la (2.22) nell’ultima equazione, otteniamo la variazione angolare che ci permette di passare ad un vettore d’onda scambiato
indipedente da quello precedente:
∆θ ∼
λ
Lv
Consideriamo allora un punto sulla superficie del fotocatodo a cui corrisponde un certo vettore d’onda scambiato, prendiamo poi un altro punto,
spostandoci di un angolo ∆θ, a cui corrisponde un vettore d’onda scambiato che differisce dal precedente di ∆q e ne è dunque indipendente: dalla
(2.23) la funzione di correlazione del campo elettrico relativa al primo punto
sarà scorrelata da quella relativa al secondo; viceversa se prendo due punti
all’interno dell’angolo ∆θ, mi aspetto che le due funzioni di correlazione corrispondenti siano ancora correlate spazialmente tra loro. Nel caso degenere
di un volume illuminato costituito da un solo scatteratore, avrei soltanto
un grado di libertà ed un unico punto nel reticolo reciproco (∆q → ∞),
per cui in ogni posizione di osservazione vedrei una funzione di correlazione
correlata a quella corrispondente ad una posizione diversa.
Per trovare il valore della lunghezza di coerenza, sia R la distanza tra il
volume illuminato e la superficie del fotocatodo: se R 1, la lunghezza di
coerenza lc corrispondente ad un angolo di coerenza ∆θ sarà
lc ∼ ∆θ R ∼
λ
R
Lv
Se generalizziamo ora il risultato al caso di una sorgente luminosa tridimensionale, come sarà il volume illuminato, di dimensioni L3v , avremo un’area
53
di coerenza Ac sulla superficie del fotocatodo e un angolo solido di coerenza
∆Ω, al posto di lc e ∆θ, e avremo
∆Ω ∼
da cui
λ2
L2v
λ2 R2
(2.25)
L2v
Dal punto di vista sperimentale è importante che la superficie del fotocatodo sia illuminata da non più di un’area di coerenza, vedremo infatti che
in tal caso il valore della funzione di correlazione al tempo zero è massima
e viene minimizzato l’errore relativo, causato dalla non idealità dell’esperimento; tra i vari effetti che contribuiscono al rumore del segnale ricordiamo:
la durata finita dell’esperimento che rende il tempo su cui si sta mediando
la funzione di correlazione non infinito, i fenomeni quantistici che intervengono nel processo di rivelazione, le fluttuazioni della sorgente luminosa e le
impurità presenti nel volume illuminato. Si può calcolare il valore dell’intercetta della funzione di correlazione in funzione del numero N di aree di
coerenza che illuminano la superficie del fotocatodo: nell’articolo [21], di cui
presenteremo alcuni risultati nel prossimo paragrafo, si trova un andamento
decrescente in N . Bisogna puntualizzare che le aree di coerenza non sono
delle regioni ben definite, sono infatti dei cerchi modulati dalla distribuzione
che caratterizza uno spettro di diffrazione, inoltre questi cerchi si sovrapporranno tra loro. Calcoliamo intanto il valore dell’intercetta della funzione di
correlazione quando il rivelatore è illuminato da una sola area di coerenza.
In tal caso ogni centro diffusore dovrebbe illuminare in modo coerente la
superficie del fotocatodo, in realtà l’area di coerenza è solo un valore limite
e il segnale comincia a decorrelarsi già al suo interno: più correttamente, per
avere un segnale correlato spazialmente su tutto il fotocatodo, servirà quindi
che la superficie del rivelatore sia inferiore ad un’area di coerenza. Essendo
i centri diffusori statisticamente indipendenti tra loro, l’intensità del campo
elettrico I(t) avrà un profilo gaussiano in ogni punto della superficie del rivelatore, è quindi valida l’approssimazione gaussiana: se calcolo la (2.17) al
tempo in cui inizio a correlare (t = 0) ottengo che I 2 (0) = 2I(0)2 , ciò significa che il valore dell’intercetta della funzione di correlazione dell’intensità
normalizzata sarà
I 2 =2
(2.26)
I2
Vedremo che questo risultato teorico è ottenibile sperimentalmente solo utilizzando una fibra ottica a singolo modo per il trasporto del segnale dal
Ac ∼
54
Figura 2.1: Geometrie classiche di raccolta del segnale.
volume illuminato alla superficie del fotocatodo; negli apparati sperimentali che fanno uso di diaframmi, l’intercetta della funzione di correlazione
dell’intensità non riesce a raggiungere il valore appena trovato.
Geometrie di raccolta del segnale
Vogliamo ora descrivere le diverse geometrie tipicamente usate per trasmettere il segnale dal volume illuminato alla superficie del fotocatodo e vedremo
quale configurazione permette di ottenere un’intercetta della funzione di correlazione più alta. Storicamente i primi metodi utilizzati si avvalgono di
diaframmi e lenti; recentemente è invece stato introdotto l’uso delle fibre ottiche a singolo modo (trattate nel paragrafo 3.4), che si sono rivelate molto
più adatte [21].
Presentiamo prima le due configurazioni classiche (fig. 2.1) a due diaframmi (tipicamente circolari) che hanno caratterizzato gli esperimenti di
fotocorrelazione fin da quando, dai primi anni quaranta, questa tecnica è
stata introdotta. Una prima geometria possibile prevede la disposizione,
lungo il fascio diffuso, di una lente e, procedendo verso il rivelatore, di due
pine-holes (sono dei diaframmi di piccole dimensioni: da qualche µm ai centinaia di µm): la lente focalizza una regione del campione bagnata dal fascio
incidente sul primo pine-hole, che ne seleziona una parte determinando il
volume illuminato, il secondo pine-hole seleziona l’angolo solido del fascio
prima che colpisca la superficie del fotocatodo e le sue dimensioni saranno
55
scelte in modo da lasciar passare un solo angolo di coerenza. Il primo pinehole, avendo dimensioni confrontabili con la lunghezza d’onda della luce
utilizzata, diffrange il fascio che lo attraversa, la distribuzione dell’intensità
della luce diffratta ha un picco centrale la cui larghezza angolare sarà 2λ/Lv
con Lv diametro del pine-hole (che determina le dimensioni del volume illuminato): troviamo un’espressione analoga a quella per l’angolo di coerenza,
avevamo infatti accennato al fatto che la regione in cui il campo diffuso rimane correlato spazialmente ha dimensioni dell’ordine della distanza tra i
massimi e i minimi dello spettro di diffrazione del volume illuminato.
Veniamo ora all’altra configurazione possibile, in cui la lente viene posta tra i due diaframmi; in tal caso è l’ultimo pine-hole a determinare il
volume illuminato, mentre il primo, di dimensioni superiori, permette di
controllare il numero di aree di coerenza che illuminano la superficie del fotocatodo. In questa geometria il primo diaframma serve a ridurre l’apertura
della lente posta subito dopo, cosı̀ che l’immagine di ogni centro diffusore
al di là della lente sia costituita da una serie di cerchi concentrici [40] –con
una distribuzione che ricorda uno spettro di diffrazione– che andranno ad
illuminare in modo coerente la superficie del rivelatore. Infatti una sorgente
d’onda sferica, come può essere un centro diffusore, ha come immagine un
punto solo se l’apertura della lente è infinita, cosı̀ che tutte le componenti
dell’onda siano mantenute; se invece si limita l’apertura della lente (come
avviene anteponendovi un diaframma), solo alcune componenti dell’onda
passano, soltanto alcune direzioni di propagazione sono infatti selezionate
dall’apertura. Più precisamente la distribuzione della luce nel piano immagine presenta una zona centrale di forma circolare, attorno alla quale si
trovano dei cerchi concentrici meno intensi; il diametro del cerchio più luminoso è proporzionale a λ/φd , con φd diametro dell’apertura della lente e
l’ordine di grandezza dell’area di coerenza è determinato dalle dimensioni
di questo cerchio: al suo interno il campo proveniente dal singolo centro
diffusore è correlato spazialmente. Se mancasse il primo diaframma l’apertura della lente sarebbe abbastanza grande da poter considerare puntiforme
l’immagine dei centri diffusori; a questo punto avrei moltissime aree di coerenza contenute nella superficie del rivelatore e l’ampiezza della funzione
di correlazione sarebbe notevolmente ridotta. Se prima era la diffrazione
a rendere il campo diffuso coerente su tutta una regione, ora è la ridotta
apertura della lente a dare lo stesso effetto.
In entrambe le geometrie, se studiamo la funzione di autocorrelazione
dell’intensità (al posto di quella del campo finora considerata), vorremmo
un’intercetta prossima a due, quindi la superficie del rivelatore Ar dovrà
contenere un numero di aree di coerenza Ac inferiore ad uno, in modo che
56
ci sia coerenza spaziale su tutta la superficie. Tuttavia in [21], in cui viene
calcolata la funzione di autocorrelazione dell’intensità per soluzioni diluite,
si mostra che nella geometria con i diaframmi, in particolare con la prima
delle due configurazioni sopra descritte, non si può arrivare ad un’intercetta
di valore due; l’articolo riporta i notevoli vantaggi forniti dall’impiego delle
fibre ottiche a singolo modo, in cui, mantenendo una buona efficienza del
segnale rilevato, si riesce ad ottenere un’intercetta pari al valore teorico della
(2.26).
Le fibre ottiche a singolo modo, che descriveremo in maggior dettaglio nel
paragrafo 3.4, trasmettono un’onda luminosa con un campo elettrico caratterizzato da una struttura spaziale trasversa ben definita e sempre uguale
a prescindere dal campo elettrico entrante nella fibra; le fluttuazioni dell’intensità della luce proveniente dal volume illuminato, provocate dal moto
dei centri diffusori, fanno fluttuare soltanto la fase e l’ampiezza del campo
propagante nella fibra, la sua sezione trasversa non è modificata, dunque
l’intensità risulta perfettamente correlata trasversalmente; il fascio diffuso
selezionato dalla fibra illumina allora il rivelatore in modo che l’area di coerenza sia molto più grande della superficie del fotocatodo. Per il calcolo
dell’intercetta della funzione di correlazione interviene il profilo del volume
illuminato, determinato dal prodotto del profilo trasverso del campo incidente sul campione con quello del campo diffuso attraverso la fibra; si ottiene
un risultato coerente con la (2.26).
Nella configurazione classica lo stesso risultato è valido solo nel caso limite di una superficie del fotocatodo di dimensioni infinitesimamente piccole,
altrimenti si ottiene un valore inferiore a due. Ciò che cambia nel calcolo è
l’espressione del profilo del volume illuminato, che diventa più complicata:
il primo pine-hole genera infatti uno spettro di diffrazione cosı̀ che non tutta
la luce trasmessa riesce ad attraversare anche il secondo pine-hole, il volume
illuminato non è quindi determinato solo dal profilo trasversale del campo
che ha attraversato il primo diaframma, ma è anche modulato dall’apertura
davanti al rivelatore. Inoltre il moto dei centri diffusori fa variare il profilo trasverso del campo diffuso (non più fissato dalle condizioni al contorno
imposte dalla fibra sul campo elettrico). La decorrelazione spaziale del campo è legata allo spettro di diffrazione generato dal primo diaframma e in
[21] si trova che l’area di coerenza ha le dimensioni della sezione trasversa
del campo diffuso da una singola paricella e poi diffratto: i centri diffusori
nel volume illuminato irradiano un campo elettrico che forma sul rivelatore
uno spettro di diffrazione, i campi di due particelle interferiranno se i picchi
principali nei due spettri si sovrappongono, solo in tal caso il loro contributo
alla funzione di correlazione (che sarà data da una somma su tutti i possibili
57
accoppiamenti dei centri diffusori) sarà non nullo. Nel calcolo della funzione
di autocorrelazione dell’intensità compare allora il parametro N , pari al numero di aree di coerenza sulla superficie del fotocatodo; la differenza tra il
valore dell’intercetta e il valore asintotico della funzione di correlazione, che
nel caso della fibra valeva uno, è ora dato dal cosiddetto fattore di coerenza
f (Ar ), il cui valore risulta essere
f (Ar ) =
I 2 1
1
−1=
=
2
I
1 + Ar /Ac
1+N
(2.27)
Il risultato mostra quindi che l’intercetta della funzione di correlazione dell’intensità nella configurazione classica è sempre inferiore al valore ottenibile dall’utilizzo di una fibra ottica a singolo modo; risulta inoltre che, al
decrescere di N , pur riuscendo ad ottenere un fattore di coerenza che si
avvicina ad uno, si ha lo svantaggio della perdita di intensità del segnale; la
fibra dà invece dei buoni risultati anche per quanto riguarda l’efficienza del
segnale. Le misure da noi realizzate per verificare la (2.27) sono presentate
in 4.3.
2.4
Soluzioni molto diluite
Ci sono dei sistemi classici per i quali è possibile prevedere la forma della funzione di correlazione; in particolare ci soffermeremo sullo studio di
soluzioni molto diluite di macromolecole di forma sferica, in cui le particelle
del soluto siano abbastanza distanti da poter considerare le loro posizioni
statisticamente indipendenti. I colloidi (par. 1.2.3), che costituiscono i campioni del nostro lavoro sperimentale, possono essere considerati dei sistemi
di questo tipo. Nel seguito calcoleremo la funzione di correlazione omodina
ed eterodina delle fluttuazioni di densità per soluzioni diluite.
Dalle (2.5), (2.7), (2.8), nel caso di indipendenza statistica tra le particelle, possiamo esprimere le fluttuazioni della densità δρq (t) come
ψ(q, t) ≡
N
bj (t)eiq·rj (t)
(2.28)
j=1
dove si è aggiunto il termine bj (t) che permette di considerare solo le particelle dentro il volume illuminato V al tempo t, infatti quando una particella
esce dal volume V non contribuisce più alla diffusione: bj (t) = 1 se j ∈ V
e bj (t) = 1 se j ∈ V , con N
j=1 bj (t) = N (t) numero di particelle in V al
58
tempo t. Le funzioni di correlazione che vogliamo ricavare sono:
F2 (q, t) = |ψ ∗ (q, 0)|2 |ψ(q, t)|2 (2.29)
F1 (q, t) = ψ ∗ (q, 0)ψ(q, t)
(2.30)
a cui saranno proporzionali, rispettivamente, la funzione di correlazione
omodina I2 (t) e la funzione di correlazione eterodina I1 (t) definite dalle
(2.15), (2.16).
Tipicamente le macromolecole in soluzione, nonostante il loro ridotto
numero, diffondono molto di più delle molecole del solvente, perchè hanno
una polarizzabilità enormemente più grande; inoltre la loro dinamica è molto
più lenta, posso cosı̀ considerare il loro moto indipendente da quello delle
molecole in soluzione: l’andamento di F1 e F2 a tempi lunghi sarà quindi
dominato dal moto delle macromolecole e la sommatoria nella (2.28) si potrà
estendere alle sole molecole del soluto. Il decadimento della funzione di
correlazione è una misura del tempo necessario affinchè la macromolecola
”dimentichi” la posizione iniziale (al tempo zero).
2.4.1
Funzione di correlazione eterodina
Per soluzioni molto diluite, possiamo considerare le posizioni delle macromolecole statisticamente indipendenti, in tal caso4 si ha:
N
F1 (q, t) = bi (0)bi (t)eiq·(ri (t)−ri (0) i
Per trovare le scale di tempo che caratterizzano il decadimento di questa
funzione bisogna tener conto di tutti i fattori contenuti in F1 (q, t). Considerando la particella i inizialmente in V , per cui bi (0) = 1, il prodotto
4
Se le posizioni delle macromolecole sono statisticamente indipendenti
bi (0)bj (t)eiq·(rj (t)−ri (0) = ij
bi (0)e−iq·ri (0) i
bj (t)eiq·rj (t) j
Se il sistema è omogeneo, le particelle sono distribuite in modo random e la probabilità di
trovare una particella in un intorno d3 r è V −1 d3 r:
eiq·rj (t) = V −1
d3 r eiq·r(t) ∼ δ(q) = 0
∀
q = 0
a parte il caso di diffusione in avanti (q = 0), rimane solo il termine con i = j.
59
bi (0)bi (t) passerà dal valore 1 al valore zero quando la particella i avrà percorso una distanza L pari alle dimensioni tipiche del volume illuminato; il
tempo caratteristico di questo moto diffusivo sarà dell’ordine di τ = L2 /D,
dove D è il coefficiente di diffusione delle particelle, definito dallo spostamento quadratico medio a tempi lunghi: D = limt→∞ |r(t) − r(0)|2 /6t.
Il termine esponenziale in F1 si allontana invece dal valore unitario quando lo spostamento ri (t) − ri (0) diventa confrontabile con la lunghezza q −1 ;
ciò avviene in un tempo dell’ordine di τete = (q 2 D)−1 . Confrontando le
due scale di tempo troviamo che τ /τete = (qL)2 ∼ 10−6 dove si sono considerati i valori di L e q per un tipico esperimento di diffusione della luce.
Abbiamo trovato che il termine bi (0)bi (t) varia molto più lentamente dell’esponenziale, quindi si possono fattorizzare i due termini della funzione di
correlazione eterodina, che diventa
F1 (q, t) = N Fs (q, t)
dove, considerando la media sull’ensemble identica per ogni particella i, si è
posto
Fs (q, t) ≡ eiq·(ri (t)−ri (0)) La variabile appena definita è legata alla distribuzione di probabilità Gs (R, t)
di una particella che compie uno spostamento di R (a meno di un intorno
d3 R) nel tempo t:
Gs (R, t) = δ(R − (ri (t) − ri (0)))
infatti Gs (R, t) è diversa da zero solo quando lo spostamento ri (t) − ri (0) si
trova in un intorno d3 R di R. La sua trasformata di Fourier risulta essere
la funzione Fs (q, t):
3
iq·R
d Re
Gs (R, t) =
d3 R eiq·R δ(R − (ri (t) − ri (0))) = eiq·(ri (t)−ri (0)) = Fs (q, t)
Basterà determinare una delle due funzioni, Fs o Gs , trasformando o antitrasformando secondo Fourier si ricaverà l’altra.
Il modello che ci permetterà di ricavare le funzioni cercate si basa sulla
teoria della diffusione. Al tempo zero le due funzioni saranno rispettivamente: Gs (R, 0) = δ(R) e Fs (q, 0) = 1; possiamo quindi considerare Gs (R, t)
come la probabilità di trovare una particella in un intorno d3 R del punto
R al tempo t, considerando che inizialmente (t = 0) la particella era in
60
un intorno dell’origine. Questo moto di diffusione della particella sarà un
cammino di random walk e l’equazione di diffusione, secondo la teoria del
random walk5 , descriverà questa probabilità:
∂
Gs (R, t) = D∇2 Gs (R, t)
∂t
trasformando secondo Fourier si ottiene
∂
Fs (q, t) = −Dq 2 Fs (q, t)
∂t
considerando le condizioni iniziali, la soluzione dell’ultima equazione è:
Fs (q, t) = e−q
da cui
2 Dt
= e−t/τete
(2.31)
F1 (q, t) = N e−t/τete
Dunque la funzione di correlazione eterodina ha un decadimento esponenziale con costante di tempo τete = (q 2 D)−1 , che rappresentava la scala di
tempo su cui le particelle si spostano di una lunghezza pari a q −1 . Secondo la
teoria del moto Browniano [33] il coefficiente di diffusione per una soluzione
diluita di macromolecole di forma sferica è:
D=
KB T
6πηa
con η viscosità del solvente e a raggio delle macromolecole; la costante
di tempo risulta quindi aumentare proporzionalmente alle dimensioni delle
macromolecole o alla viscosità del solvente. La funzione di correlazione
eterodina delle fluttuazioni di densità appena ricavata sarà proporzionale al
5
Secondo la teoria della diffusione il flusso di particelle J(R, t) risulta essere proporzionale, tramite il coefficiente di diffusione, al gradiente della concentrazione delle
particelle C(R, t):
J(R, t) = −D∇C(R, t)
dall’equazione di continuità, basata sul principio di conservazione della massa
∂C
= −∇ · J(R, t)
∂t
assumendo D indipendente dalla concentrazione, si ottiene l’equazione di diffusione
∂
C(R, t) = D∇2 C(R, t)
∂t
61
termine f ∗ (0)f (t) che compare nella (2.19), infatti f (t), proporzionale alle
fluttuazioni di densità, determina le modulazioni temporali del campo elettrico diffuso dovute alla dinamica delle particelle in soluzione. Si potrà allora
ricavare la funzione di correlazione della (2.19), che ci si aspetta di trovare
in un esperimento in eterodina: dovrà avere un decadimento esponenziale
con un tempo di rilassamneto pari a τete .
Nel caso in cui valesse l’approssimazione Gaussiana, ricordando la (2.17),
possiamo prevedere il comportamento della funzione di correlazione omodina:
F2 (q, t) = N 2 + N 2 e−2q
2 Dt
= N 2 + N 2 e− τomo
t
(2.32)
l’andamento è ancora esponenziale, ma la costante di tempo è esattamente
dimezzata: τete = 2τomo .
2.4.2
Funzione di correlazione omodina
La funzione di correlazione omodina per soluzioni diluite di macromolecole
risulta essere, dalle (2.29), (2.28)
F2 (q, t) = N
bj (0)bk (0)bl (t)bm (t)eiq·[rk (0)−rj (0)+rl (t)−rm (t)] j,k,l,m=1
per soluzioni abbastanza diluite da poter considerare le posizioni delle varie
molecole statisticamente indipendenti, l’espressione si semplifica notevol62
mente6 :
F2 (q, t) = N
b2j (0)b2l (t) + bj (0)bk (0)|Fs (q, t)|2
j=k=1
j,l=1
Poichè b2j (t) = bj (t) e
N
l bl (t)
N
= N (t), si avrà
b2j (0)b2l (t) = N (0)N (t)
j,l=1
Analogamente
N
bj (0)bk (0) = N (N − 1)
j=k=1
per cui ottengo
F2 (q, t) = N (0)N (t) + N (N − 1)|Fs (q, t)|2
Il numero di particelle nel volume illuminato si può esprimere come N (t) =
N + δN (t), poichè δN (t) = 0, allora
N (0)N (t) = N 2 + δN (0)δN (t)
6
Per l’indipendenza statistica delle macromolecole, secondo quanto spiegato nella nota
precedente, si annullano quei termini della somma per cui qualcuno dei quattro indici è
diverso dagli altri. Sopravvivono quindi solo due tipi di termini: quelli per cui j = k e
l = m e quelli in cui j = l, m = k, j = m. Nel primo caso otteniamo il termine della
somma
b2j (0)b2l (t)
nell’ultimo caso otteniamo
[bj (0)bj (t)eiq·∆rj (t) ][bk (0)bk (t)e−iq·∆rk (t) ]
dove j = k (in modo che gli esponenziali non diano uno) e ∆rj (t) ≡ rj (t) − rj (0). Per
l’indipendenza delle particelle posso fattorizzare i due termini dell’ultima espressione; inoltre, poichè eiq·∆rj (t) fluttua molto più velocemente di qualsiasi funzione di correlazione
con bj , posso sostituire la funzione di correlazione di bj con il suo valore iniziale e l’ultimo
termine diventa
b2j (0)eiq·∆rj (t) b2k (0)e−iq·∆rk (t) Infine, essendo b2j (0) = bj (0) e per l’indipendenza statistica di eiq·∆rj (t) da bj (0), l’ultima
espressione diventa
bj (0)bk (0)|Fs (q, t)|2
63
Si trova dall’ensemble grancanonico che la probabilità PN che N particelle
non interagenti siano nel volume illuminato V , ad un istante qualsiasi, ha
una distribuzione Poissoniana
PN =
N N −N e
N!
in questa distribuzione (si veda l’appendice B) N (N − 1) = N 2 . Si
ottiene dunque
F2 (q, t) = N 2 [1 + |Fs (q, t)|2 ] + δN (0)δN (t)
dove il primo termine coincide con l’approssimazione gaussiana trovata dal
calcolo della funzione di correlazione eterodina (si veda la 2.32), mentre il
secondo termine dà la deviazione da tale approssimazione.
Il tempo caratteristico delle fluttuazioni del numero di particelle in V ,
che compaiono nel secondo termine, è dato dal tempo τ che una particella
impiega ad attraversare il volume illuminato, il termine gaussiano invece
decade sulla scala di tempo di τomo = τete /2, che caratterizza il tempo impiegato dalla particella per percorrere una distanza pari a q −1 . Avevamo
mostrato che τete τ , quindi F2 (q, t) decade in due tempi: all’istante iniziale il valore della funzione di correlazione è 2N 2 + N , dopo un tempo
τomo decade il termine gaussiano (dal valore 2N 2 al valore N ) e F2 (q, t)
presenta un plateau all’altezza di N 2 + N , che decade in un tempo τ al
valore finale N 2 a causa del decadimento a zero del secondo termine della
F2 (q, t).
Il termine di correzione dell’approssimazione gaussiana è dell’ordine di
N −1 , può quindi essere trascurato per soluzioni abbastanza concentrate
(non troppo per non invalidare l’indipendenza statistica delle macromolecole).
In tal caso l’approssimazione gaussiana è valida e F1 è ricavabile da F2 o
viceversa, in caso contrario sarà F2 a dare maggiori informazioni di F1 .
In approssimazione diffusiva, dalla (2.31), si trova che la funzione di
correlazione omodina è
F2 (q, t) = N 2 [1 + e− τomo ] + δN (0)δN (t)
t
con τomo = (2q 2 D)−1 . Da un fit della funzione di correlazione, sia nel
metodo eterodino che omodino, sarà quindi possibile ricavare il coefficiente
di diffusione e da questo il raggio delle macromolecole in soluzione.
64
2.5
Luce diffusa da un sistema sotto shear
Il nostro lavoro sperimentale vuole essere uno studio, tramite la tecnica di fotocorrelazione, di sistemi colloidali posti sotto uno shear uniforme, affinchè
raggiungano uno stato stazionario di non equilibrio. Nel corso di questo
studio abbiamo constatato che la cella che avevamo a disposizione per le
misure su di un fluido sotto shear non generava nel campione un profilo di
velocità lineare, lo shear non era dunque uniforme. Effettivamente, gli studi
teorici che riporteremo nel paragrafo 2.5.2 sulla velocimetria di un fluido tra
due piatti rotanti –la geometria usata dalla cella– mostrano che è possibile
avere un profilo di velocità lineare solo a tassi di shear molto bassi, tuttavia
potremo sempre considerare un tasso di shear uniforme entro il volume illuminato, ma il suo valore, nel caso di un profilo di velocità non lineare,
non sarà direttamente calcolabile e dovrà essere misurato. Dato l’interesse
scientifico recentemente rivolto agli studi di velocimetria di fluidi complessi,
abbiamo scelto di realizzare queste misure; quando si procederà allo studio
di sistemi in stati stazionari di non equilibrio conosceremo il valore del tasso
di shear in funzione del quale si vuole misurare il tempo di rilassamento
strutturale del sistema. Nel prossimo paragrafo presenteremo gli effetti del
flusso del campione sulle misure di fotocorrelazione e mostreremo come la
tecnica eterodina può fornire una misura della velocità delle particelle del
flusso, nel paragrafo 2.5.2 tratteremo il profilo di velocità caratteristico di un
fluido posto sotto shear tra due dischi rotanti, che è la geometria della cella
utilizzata nel nostro esperimento. Infine, in 2.5.3, affronteremo il problema
del taglio della funzione di correlazione misurata su sistemi sotto shear a
causa di effetti spuri, dovuti al flusso, che ostacolano la misura del tempo di
rilassamento τalpha del sistema.
2.5.1
Effetto Doppler e velocimetria
Vogliamo ora trovare un’espressione per le funzioni di correlazione omodina ed eterodina di un fluido le cui particelle si muovano ad una velocità
costante. Vedremo che soltanto la seconda viene modificata dal flusso e
dalla sua forma sarà possibile risalire alla velocità del fluido; per questo nel
nostro esperimento, volendo misurare il profilo di velocità del campione posto sotto shear, abbiamo implementato un sistema sperimentale per misure
in eterodina.
Prima di passare alle funzioni di correlazione, cerchiamo di esprimere il
campo elettrico Es (t) diffuso dal sistema in forma esplicita, per poter trovare
un’espressione per la funzione di correlazione I1 (t) (data dalla (2.15)). Sap65
Figura 2.2: La fase del campo elettrico diffuso.
piamo che, in una soluzione diluita di macromolecole, il campo diffuso è dato
dalla sovrapposizione dei campi diffusi dagli N centri diffusori contenuti nel
volume illuminato. Prendiamo ora un piano, rappresentato in figura 2.2
dalla linea AB, in cui il campo elettrico incidente abbia fase costante e assumiamo che i centri diffusori siano illuminati in modo coerente; su di un
piano CD posto molto lontano dal volume illuminato (come sarà la superficie del rivelatore) i campi diffusi dalle diverse particelle interferiranno a
causa della differenza di cammino ottico percorso. Rispetto al raggio che
passa attraverso il punto di riferimento O, la fase del campo Ej , diffuso dalla
particella j, sul piano CD sarà
Φj = ki · rj − ks · rj = q · rj
Il campo totale diffuso è allora esprimibile come
Es =
N
E0 Aj eiq·rj e−iω0 t
j=1
dove ω0 è la frequenza dell’onda incidente (praticamente coincidente con
quella del fascio diffuso) e Aj è un’ampiezza che tiene conto di fattori come
66
la polarizzabilità, la distanza dal rivelatore, etc. L’intensità dell’onda diffusa
è data da
Is = Es Es∗ =
N
E02 Al A∗m eiq·(rl −rm )
l,m=1
Se le particelle sono in moto, ogni rj è dipendente dal tempo e Is fluttua nel
tempo, ne calcoliamo allora la media temporale
Is (t) = E02 [
N
|Aj |2 +
Al A∗m eiq·(rl −rm ) ]
l=m
j=1
per particelle indipendenti e uniformemente
distribuite il secondo addendo
è nullo (ricordiamo che eiq·r ∼ d3 reiq·r ∼ δ(q)), eccetto per la diffusione
in avanti (q = 0) e rimane
Is (t) = N |Aj |2 E02
(2.33)
Caratterizziamo ora la dipendenza dal tempo del campo diffuso con la funzione di correlazione I1 (t), infatti non solo rj dipende dal tempo, ma anche
Aj , che, variando con la rotazione e la traslazione delle molecole, fa fluttuare
Es (anche N varierà, ma in modo trascurabile)
I1 (t) ≡ Es∗ (0)Es (t) =
N
E02 A∗l (0)Am (t)eiq·[rm (t)−rl (0)] e−iω0 t l,m=1
= N E02 A∗l (0)Al (t)eiq·[rl (t)−rl (0)] e−iω0 t
(2.34)
dove abbiamo considerato, analogamente al calcolo precedente, l’indipendenza delle particelle, inoltre abbiamo assunto il moto traslatorio e quello rotatorio delle particelle indipendenti; l’indice l diventa superfluo e può
essere tralasciato. Passiamo finalmente allo studio della funzione di correlazione I1 (t) per un fluido di particelle in moto uniforme, il calcolo è più
semplice del caso di particelle che diffondono (descritto in 2.4), poichè basta
applicare le regole dell’effetto Doppler. Ricordiamo [35] che se la sorgente di
un’onda di velocità v è ferma mentre l’osservatore è in moto con velocità vr ,
l’onda rivelata dall’osservatore ha una frequenza νr diversa da quella dell’onda emessa dalla sorgente νs ; nel caso unidimensionale, con l’osservatore
che si allontana, si ha che
νr = νs (1 −
67
vr
)
v
Figura 2.3: Effetto Doppler in un esperimento di diffusione per particelle a
velocità costante vd .
Se la frequenza angolare della luce laser incidente è ω0 , la frequenza vista da
un centro diffusore in moto con velocità vd è spostata, a causa dell’effetto
Doppler, di ∆ω; dalla figura 2.3 si vede che ∆ω = −nvd · êω0 /c dove ê
è il versore in direzione del fascio incidente, c la velocità della luce ed n
l’indice di rifrazione del mezzo. L’effetto Doppler interviene una seconda
volta considerando che i centri diffusori sono in moto rispetto al rivelatore;
essendo nω0 /c = |ki | |ks | troviamo che la frequenza dell’onda vista dal
rivelatore è
ω0 − ki · vd + ks · vd = ω0 − q · vd
Lo stesso risultato è ricavabile dalla (2.34), considerando che per un moto
uniforme rl (t) − rm (0) = vd t, per cui
I1 (t) = N E02 |Al |2 eiq·vd t e−iω0 t
che equivale a sostituire la frequenza della sorgente (che assumiamo abbia
fase nulla) con ω0 − q · vd .
Se facciamo uso della tecnica omodina per misure di fotocorrelazione
su di un fluido con particelle in moto a velocità vd , non otteniamo nessuna informazione su vd , infatti, assumendo valida l’approssimazione gaussiana, dall’espressione trovata per la I1 (t) possiamo ricavare la funzione di
correlazione omodina tramite la 2.17:
I2 (t) = Is 2 + N 2 ||Al |2 |2 E04 = 2Is 2
68
dove si è usata la (2.33). Effettivamente in un esperimento omodino non
viene misurata la fase dell’onda diffusa e per questo non si può ricavare vd
(anche dall’approssimazione gaussiana solo |I1 (t)| è ottenibile dalla I2 (t) e si
possono perdere dei fattori oscillanti); servirà invece una frequenza fissa di
riferimento, in modo che l’intensità sia alterata da termini di interferenza,
questo è proprio quello che succede in un esperimento eterodino. Con tale
tecnica la funzione di correlazione che viene misurata è data dalle (2.18),
(2.19):
i(t0 )i(t0 + t) ∝ Io2 + 2Io Re(N |Al |2 E02 eiq·vd t ) = Io2 + 2Io N |Al |2 E02 cos q · vd t
= Io2 + 2Io Is cos q · vd t
La funzione di correlazione oscillerà dunque con un periodo pari a T =
2π/q ·vd , mentre I2 (t)1/2 del metodo omodino sarà l’inviluppo della funzione
oscillante eterodina; dal calcolo di q (ottenibile dalla 2.12 conoscendo la
lunghezza d’onda del fascio e l’angolo di diffusione) e di T (ricavabile da
un fit della funzione di correlazione in un esperimento eterodino) è possibile
ottenere, se q e vd non sono ortogonali, la velocità con cui le particelle del
fluido si spostano in moto uniforme.
2.5.2
Profilo di velocità tra due piatti rotanti
Vogliamo ora presentare alcuni risultati dello studio del profilo di velocità
in un flusso provocato da dischi rotanti; nella meccanica dei fluidi questo
problema è infatti stato affrontato con grande interesse, poichè si trova una
soluzione esatta dell’equazione di Navier-Stokes7 , che va tuttavia esplicitata
tramite calcoli numerici. Il primo approccio al problema (Karman, 1921)
studiava il caso di un disco di dimensioni infinite in rotazione uniforme
attorno al proprio asse, immerso in un fluido viscoso illimitato; oltre ad un
moto circolare che segue la rotazione del disco, la soluzione [34] mostra che
il fluido si muove radialmente verso l’esterno a causa della forza centrifuga
(effetti inerziali) e, per avere un flusso continuo, assialmente verso il disco.
7
L’equazione del moto per un fluido viscoso incompressibile [34] è data dalla cosiddetta
equazione di Navier-Stokes:
1−
η
∂v
→
+ (v∇)v = − ∇p + ∇2 v
∂t
ρ
ρ
dove v è la velocità, ρ la densità, p la pressione ed η la viscosità del fluido.
69
(2.35)
Figura 2.4: a) Andamento della funzione h(ξ), a cui è proporzionale la
velocità assiale vz , per diversi valori del parametro di Reynolds Re; b) h (ξ)
a cui è proporzionale la velocità radiale; c) g(ξ) a cui è proporzionale la
70
velocità azimutale.
Un passo successivo (Batchelor, 1951) è stato quello di considerare il
flusso tra due dischi infiniti in rotazione attorno ad un asse comune a velocità diverse [27], il parametro rilevante del problema diventa il numero di
Reynolds Re, che tiene conto della distanza H tra i due piatti, della differenza tra le velocità angolari dei due dischi ∆Ω = Ω2 − Ω1 (sia ∆Ω > 0) e
della viscosità cinematica ν = η/ρ (definita come il rapporto tra la viscosità
del fluido e la sua densità):
Re =
∆ΩH 2
ν
Mettiamoci in un sistema di coordinate cilindriche (z, r, ϕ) con origine nel
punto di intersezione tra l’asse di rotazione e il disco con velocità Ω1 e
introduciamo la variabile ξ = z/H, che cresce da zero a uno se ci avviciniamo al piatto con velocità angolare Ω2 partendo dall’origine; l’equazione di
Navier-Stokes ammette una soluzione esatta e le velocità radiale, azimutale
ed assiale hanno la seguente forma:
vr = ∆Ωrh (ξ)
(2.36)
vϕ = ∆Ωrg(ξ) + Ω1 r
(2.37)
vz = −2∆ΩHh(ξ)
(2.38)
dove le funzioni g ed h soddisfano un sistema di due equazioni differenziali
ordinarie con condizioni al contorno di non scivolamento del fluido sulle
pareti dei piatti. Notiamo che la componente assiale è l’unica ad essere indipendente dalla distanza r dall’asse di rotazione. Le figure 2.4 mostrano
l’andamento delle funzioni h, h , g, ottenute da calcoli numerici, per diversi
valori del parametro Re: si nota che le velocità assiale e radiale sono molto
più piccole della velocità azimutale, in particolare per valori piccoli di Re gli
effetti inerziali risultano trascurabili e il profilo di velocità può essere considerato lineare in z. Inoltre per parametri di Reynolds grandi, la figura 2.4(c)
mostra un alto gradiente della velocità in prossimità del disco con velocità
angolare Ω2 (ricordiamo le condizioni di non scivolamento sulle pareti), ne
risulterà che nello strato di fluido adiacente al disco maggiormente accelerato, spostandoci verso il piatto opposto, il fluido passerà subito ad una
velocità molto più piccola di Ω2 . In definitiva il fluido ruota con una velocità angolare che coincide con quella dei dischi alle due estremità e cresce in
modo monotono da un valore all’altro per 0 < ξ < 1, viene inoltre lanciato
radialmente verso l’esterno in prossimità del disco con velocità maggiore ed
71
è risucchiato verso l’interno nelle vicinanze del disco opposto, infine, come
è intuibile assumendo la continuità del flusso, il fluido si muove assialmente
verso il disco a velocità maggiore, analogamente al caso del singolo disco.
Passiamo ora allo studio [39] del flusso tra due dischi rotanti a distanza
H, di raggio di dimensioni finite pari ad a. In una regione intorno all’asse
di rotazione e lontano dai bordi la soluzione dell’equazione del moto del
fluido si avvicina a quella per i dischi infiniti e questa regione è tanto più
estesa –cioè gli effetti di bordo sono meno rilevanti– tanto più è grande il
rapporto a/H e tanto più è piccolo il numero di Reynolds. Per studiare il
flusso complessivo tra i due dischi bisogna distinguere due casi: quello con
gli estremi chiusi da pareti non viscose (è quindi indifferente se ruotano o
rimangono ferme) e quello con gli estremi aperti in cui possiamo pensare i
dischi immersi in un fluido che si estende tutt’intorno. In particolare, per
valori di Re piccoli e a/H grandi, le due configurazioni daranno dei risultati
diversi soltanto in prossimità dei bordi, mentre nella zona centrale tra i
due dischi possiamo assumere valida la soluzione per i dischi infiniti. Per
questo, nella cella per misure sotto shear che useremo nel nostro esperimento
prenderemo il volume illuminato in una regione centrale; ai bordi abbiamo
invece una configurazione intermedia tra le due, poichè la parete laterale che
chiude i piatti non è adiacente, ma leggermente distaccata da questi (di pochi
millimetri, mentre il diametro dei dischi è di una decina di centimetri e la
distanza tra i due di qualche millimetro), inoltre solo uno dei due piatti è in
rotazione, dunque a noi interesserà il caso in cui Ω1 = 0. Nella configurazione
con gli estremi chiusi, in prossimità dei bordi, si trova una regione in cui il
fluido lanciato verso l’esterno dal disco più veloce risale verso l’altro disco
mantenendo la stessa velocità azimutale e cambiando direzione della velocità
radiale per dirigersi nuovamente verso l’interno. In particolare se uno dei due
dischi ha velocità nulla, si trova che nella regione vicino al bordo la velocità
radiale vr (z) è antisimmetrica rispetto al piano z = H/2, mentre la velocità
azimutale vϕ (z) è simmetrica rispetto allo stesso piano. Il fluido lanciato
verso l’esterno dal disco rotante e quello che rientra verso l’interno dalla parte
dell’altro disco collidono proprio sul piano z = H/2. Nella configurazione
con gli estremi aperti la dinamica ai bordi è sostanzialmente diversa poichè
le linee di flusso8 hanno origine all’esterno dei dischi. Il fluido con velocità
radiale positiva esce dalla zona compresa tra i due dischi e un flusso con
velocità radiale uniforme e velocità angolare nulla rientra dalla parte del
disco a velocità minore. Ad alti numeri di Reynolds si trova una regione
8
Le linee di flusso sono le curve le cui tangenti in ogni punto sono le velocità che le
diverse particelle di fluido hanno in quel punto.
72
di collisione sull’asse di rotazione, dovuta al fatto che la velocità radiale del
fluido rientrante non decade a zero abbastanza rapidamente quando r → 0.
Nel nostro esperimento faremo ruotare un solo disco con velocità angolare
bassa per avere un numero di Reynolds piccolo, cosı̀ che il flusso coincida
con quello tra due dischi infiniti per una vasta zona centrale che esclude la
regione vicino al bordo e si possano inoltre ottenere delle velocità radiale ed
assiale piccole rispetto a quella azimutale.
2.5.3
Effetti di taglio della funzione di correlazione
Vorremmo essere in grado di misurare, tramite fotocorrelazione, il tempo τα
di rilassamento strutturale del sistema, che ha raggiunto uno stato di non
equilibrio a causa dello shear. Tuttavia la funzione di correlazione potrebbe
venire ”tagliata” a tempi piccoli rispetto a τα a causa di altri effetti dovuti
al flusso del sistema. Un taglio della funzione di correlazione potrebbe essere
dovuto all’uscita dal volume illuminato delle particelle del fluido in moto,
che avviene nel tempo di transito τtr dipendente dalle dimensioni del volume
illuminato e dalla velocità con cui le particelle lo attraversano. Un altro
effetto di taglio [14] è dovuto alla variazione nel tempo delle aree di coerenza,
che provoca una decorrelazione ad un tempo caratteristico τa , dipendente
ancora dalle dimensioni del volume illuminato e dal tasso di shear, ma anche
dalla proiezione del vettore d’onda scambiato nella direzione della velocità
delle particelle del fluido. Nel seguito troveremo un’espressione per i tempi
τtr e τa e li confronteremo con τα , in modo da trovare i valori del tasso di
shear e del volume illuminato per cui τα sia il minore dei tre e possa dunque
essere misurato tramite fotocorrelazione. Si potranno studiare questi effetti
di taglio ”spuri” della funzione di correlazione a causa dello shear, prendendo
un campione con bassa diffusività (dunque con alta viscosità), che avrà un
tempo di decadimento all’equilibrio più lungo dei tempi di taglio che si
vogliono misurare.
Se considero il campo diffuso come somma dei campi proveniente dagli
N centri diffusori contenuti nel volume illuminato V , avrò che la funzione
di correlazione I1 (t) risentirà dell’uscita dal volume illuminato di queste
particelle:
I1 (t) = i,j∈V
Ei∗ (0)Ej (t) =
Ei∗ (0)Ei (t) + (N 2 − N )Ei 2
i∈V
dove abbiamo considerato le particelle indipendenti tra loro; il primo termine si annullerà quando la particella i, dopo un tempo τtr , sarà uscita dal
73
volume illuminato a causa del flusso provocato dallo shear; dunque la funzione di correlazione ad un tempo t > τtr sarà già decaduta al suo valore
asintotico. Se l’unico movimento delle particelle del fluido fosse in direzione
azimutale e non fossero presenti moti diffusivi o lungo le direzioni assiale e
radiale, dopo un giro del piatto rotante le particelle tornerebbero nel volume illuminato; cosı̀, se il tempo di rilassamento del sistema fosse più grande
di τtr , la funzione di correlazione oscillerebbe in modo che il suo inviluppo
decada con il tempo di rilassamento del sistema, purtroppo i moti diversi
da quello azimutale non sono tracurabili in questo senso e per osservare il
rilassamento del sistema servirà τtr > τα .
Per calcolare τtr supponiamo che il volume illuminato, tra i due piatti
della cella a distanza H, abbia dimensioni a × d × c (fig. 2.5) e sia centrato
nel punto di coordinate cilindriche (z, r, ϕ); sia Ω la velocità angolare del
disco rotante e sia il parametro di Reynolds abbastanza piccolo da poter
considerare unicamente la velocità azimutale, con un profilo di velocità lineare lungo z. Con queste approssimazioni possiamo esprimere la velocità di
una particella di fluido nel punto (z, r, ϕ) come
v(z, r) =
Ωz
r
H
Risulterà utile calcolare il tasso di shear in queste condizioni:
γ̇(r) =
Ωr
dv(z)
=
dz
H
Non tutte le particelle rimarranno nel volume illuminato lo stesso tempo,
se, ad esempio, il volume illuminato ha forma sferica, le particelle passanti per il centro vi rimarranno più tempo di quelle che passano ai bordi, è
quindi necessario considerare un tempo di transito medio. Potendo approssimare il moto delle particelle di fluido all’interno del volume illuminato come
rettilineo, troviamo, per il tempo medio di transito,
τtr =
a
aH
=
Ωrz
γ̇(r)z
Se non intervengono altri effetti che fanno decadere la correlazione prima di
τtr , la tecnica omodina, non potendo avvalersi dell’effetto Doppler, potrebbe
invece misurare il tasso locale di shear (spostando il volume illuminato nella
cella) tramite il taglio della funzione di correlazione a τtr , dovuta agli effetti
geometrici del volume illuminato.
74
Figura 2.5: Geometria del volume illuminato in un fluido sotto shear. V
indica il volume illuminato ed A la superficie del fotocatodo.
Il recente lavoro di Salmon et al. [14], che descrive l’efficacia della tecnica
eterodina per misurare la velocità locale di un fluido sotto shear, ci ha suggerito l’esistenza di un altro effetto di taglio della funzione di correlazione. Prendiamo la funzione di correlazione delle fluttuazioni della costante dielettrica
nel caso stazionario (si ha quindi invarianza per traslazioni temporali)
I1ε (r, r , t) = δε∗ (r, 0)δε(r , t)
se il fluido è all’equilibrio, si avrà invarianza per traslazioni spaziali: I1ε =
I1ε (r − r , t); vediamo cosa comporta questa legge di invarianza nello spazio
di Fourier:
I˜1ε (q, q , t) = δε∗q (0)δεq (t) =
=
=
d3 r d3 r e−iq·r eiq ·r I1ε (r − r , t)
d3 r d3 r d3 ke−iq·r eiq ·r e−ik·(r−r ) I˜1ε (k, t)
d3 k δ(q − k)δ(q − k)I˜1ε (k, t) = δ(q − q)I˜1ε (q, t)
Dunque all’equilibrio la funzione di correlazione nello spazio di Fourier va
calcolata tra vettori d’onda scambiati uguali. Se invece sottoponiamo il
fluido ad uno shear, le proprietà del volume illuminato non saranno più invarianti per traslazioni spaziali. Sia v la velocità nel centro O del volume
75
illuminato, nella geometria della nostra cella, secondo il sistema di coordinate della figura 2.5, possiamo assumere (per numeri di Reynolds bassi) un
profilo di velocità lineare in z, con γ̇ = dv/dz, per la funzione I1ε si avrà
allora [15] un’invarianza del tipo9
I1ε = I1ε (r − r − (v + γ̇(r ẑ)ŷ)t, t)
(2.39)
Da un calcolo analogo a quello appena svolto per il caso all’equilibrio,
otteniamo, nello spazio di Fourier
I˜1ε (q, q , t) = δ(q − q − γ̇(q · ŷ)ẑt)eiq·v I˜1ε (q, t)
(2.40)
Dunque in un esperimento di fotocorrelazione su di un campione posto sotto shear, si devono correlare vettori d’onda scambiati diversi per avere un
9
In un sistema di riferimento solidale con il laboratorio il profilo di velocità del flusso
sarà v(r) = γ̇z ŷ. Una traslazione lungo z fa variare la velocità del flusso di una costante;
dunque se spostiamo l’origine delle coordinate lungo z di a il campo di velocità nel laboratorio diventa v(r) = γ̇(z + a)ŷ, la trasformazione galileiana v → v − γ̇aŷ dà le velocità
nel nuovo riferimento, che risulta essere identico al vecchio, nel senso che le leggi del moto
assumono la stessa forma. Se calcoliamo la funzione di correlazione delle fluttuazioni della
costante dielettrica nei due riferimenti, poichè i due sistemi sono legati da una traslazione
di a lungo l’asse z, si avrà
ε∗ (r, 0)ε(r , t)a = ε∗ (r + aẑ, 0)ε(r + aẑ, t)
dove l’indice a indica la media nel riferimento traslato di a lungo z. Inoltre i due sistemi
sono legati dalle trasformazioni galileiane:
rj = rj + γ̇atŷ e t = t
dove rj è la posizione della molecola j. Otteniamo allora
ε∗ (r, 0)ε(r , t)a = ε∗ (r − γ̇atŷ, 0)ε(r , t)
Poichè il sistema è stazionario ed a è uno spostamento arbitrario, la media deve essere
indipendente dalla posizione r e dal tempo. Dalle due equazioni scritte per la funzione di
correlazione si ottiene
ε∗ (r, 0)ε(r , t) = ε∗ (r + aẑ + γ̇atŷ, 0)ε(r + aẑ, t)
ponendo a = −z si trova
ε∗ (r, 0)ε(r , t) = ε∗ (r − r − γ̇z tŷ, 0)ε(0, t)
dunque la funzione di correlazione dei due punti r, r dipende da y − y − γ̇tz , x − x , z −
z , mentre la funzione di correlazione a tempi uguali (t = 0) recupera l’invarianza per
traslazioni spaziali. Nel riferimento con l’origine al centro del volume illuminato, in cui la
velocità del flusso rispetto al sistema del laboratorio è v, la dipendenza della funzione di
correlazione diventa quella scritta nella (2.39).
76
contributo non nullo alla funzione di correlazione. Le funzioni delta provenienti dall’integrale sullo spazio risultano vere per un volume illuminato di
dimensioni infinite, in realtà, se le dimensioni sono a × d × c, si avranno delle
funzioni più larghe delle delta e il vettore d’onda scambiato sarà definito con
una precisione data dalla (2.24): ∆qx = 2π/c, ∆qy = 2π/a e ∆qz = 2π/d.
Le dimensioni tipiche delle aree di coerenza che illuminano la superficie del
fotocatodo posta a distanza R sono λ2 R2 /ac. Ricordando la proporzionalità tra campo diffuso e fluttuazioni della costante dielettrica (dalla 2.11),
ci si aspetta che il segnale uscente dal rivelatore, proveniente dal campo raccolto sulla superficie Ar del fotocatodo con la tecnica eterodina, abbia una
funzione di correlazione
I1 (t) ∝
δε∗ (q, 0)δε(q , t)
(2.41)
q,q ∈Ar
dove la somma è su tutte le aree di coerenza raccolte sulla superficie del
rivelatore. Dalla (2.40) si vede che i termini della somma non nulli sono
quelli per cui
q = q + γ̇(q · ŷ)ẑt
(2.42)
dove i vettori q e q sono definiti a meno dell’incertezza ∆q. Se vogliamo
scrivere la relazione corrispondente per i vettori d’onda diffusi, basta sottrarre da entrambi i membri il vettore d’onda10 del fascio incidente ki :
ks = ks − γ̇(q · ŷ)ẑt. Il fascio sarà diffuso entro un angolo solido selezionato
da un diaframma (nella geometria classica di raccolta del segnale) o dato
dalla forma del fascio [21] che uscirebbe dalla fibra ottica di raccolta se fosse
usata per lanciare (cioè dalla forma del modo di fibra); cosı̀ anche i vettori
d’onda scambiati potranno trovarsi entro un angolo solido. Se prendiamo i
due vettori q e q all’interno dello stesso angolo di coerenza, dopo un tempo t,
q si sarà allontanato dall’altro, secondo la (2.42) bisognerà infatti sommare
a q un vettore in direzione z che cresce col tempo, dunque i due vettori si
decorrelano nel tempo. In realtà, a seconda della posizione iniziale, i vettori
q e q potrebbero anche avvicinarsi ed, eventualmente, dopo essersi incrociati, cominciare ad allontanarsi, a noi interessa di capire su quale scala di
tempo le coppie iniziano a decorrelarsi, quindi ci concentreremo su quelle
che si allontanano fin dall’istante iniziale in cui cominciamo a correlare nella
(2.41). Per queste coppie, l’angolo entro cui i due vettori d’onda scambiati si
devono trovare all’istante iniziale per rimanere poi correlati, si restringe nel
tempo, dunque è come se le aree di coerenza si restringessero e aumentassero
10
Essendo il fascio incidente collimato, ki non ha incertezza, mentre kf è definito entro
l’angolo solido che investe la superficie del rivelatore.
77
Figura 2.6: Coppia dei vettori d’onda diffusi ks , ks e corrispondenti vettori
d’onda scambiati q, q . Ar è la superficie del rivelatore, con G abbiamo
indicato il vettore γ̇qy ẑ, infine D è un vettore ortogonale a q , che indica
l’apertura tra i due vettori q, q .
di numero sulla superficie del fotocatodo, fino a far decadere completamente
la funzione di correlazione; come l’intercetta della funzione di correlazione
decresce all’aumentare del numero delle aree di coerenza (secondo la (2.27)),
cosı̀ la funzione di correlazione decrescerà se il numero di aree di coerenza
aumenta nel tempo.
Cercheremo ora un’espressione per il tempo caratteristico di questa decorrelazione: mentre in [14] il campione è contenuto in una cella di Couette e la
geometria del problema risulta più semplice (nella relazione corrispondente
alla (2.42) la differenza tra q e q dà un vettore lungo l’asse x), nel nostro
caso la trattazione risulterà un pò più complicata. Poichè il vettore d’onda
scambiato è definito con una certa incertezza, lungo la direzione z i vettori
d’onda scambiati q e q possono differire al massimo di ∆qz = 2π/d, visto che
il vettore d’onda diffuso punta nella direzione z ed il suo modulo è fissato dalla lunghezza d’onda del fascio; dunque dovrà essere |q −q | = |γ̇qy tẑ| < 2π/d,
da cui si trova un tempo di decorrelazione
t01 =
2π
γ̇qy d
Inoltre, quando i vettori q e q si allontanano più di ∆qx per quanto riguarda
le componenti lungo l’asse x, o più di ∆qy per le componenti y, escono
78
dall’angolo di coerenza diventando scorrelati, cosı̀ che nella (2.41)
δε(q, 0)∗ δε(q , t) = δε(q, 0)∗ δε(q , t)
Dobbiamo allora stimare l’apertura angolare della coppia di vettori q, q , lo
facciamo trovando un’espressione per il vettore D della figura 2.6:
|D|2 = (qy γ̇t)2 − (|q| − |q |)2
Assumendo che il vettore D formi un angolo β con l’asse x, potrò trovare le
sue componenti Dx e Dy , che saranno dipendenti dal tempo; se chiamiamo
t1 il tempo affinchè la componente Dx sia tale da far uscire la coppia q, q dall’angolo di coerenza e t2 lo stesso tempo per la componente Dy , si avrà
che i due tempi sono definiti dalle relazioni
(qy γ̇t2 )2 − (|q| − |q |)2 cos β =
(qy γ̇t3 )2 − (|q| − |q |)2 sin β =
2π
c
2π
a
da cui risulta che
t2 =
1
γ̇qy cos β
t3 =
1
γ̇qy sin β
(
(
2π 2
2π
) + (|q| − |q |)2 >
≡ t02
c
γ̇qy c
2π 2
2π
) + (|q| − |q |)2 >
≡ t03
a
γ̇qy a
Le prime coppie che si decorrelano, lo faranno dopo un tempo t02 o t03 : ci
accontenteremo di trovare solamente un limite inferiore del tempo τa a cui
l’effetto dello shear si comincia a far sentire
τa = min[t01 , t02 , t03 ]
Al tempo τa la funzione di correlazione comincerà a decadere poichè alcuni
termini della somma nella (2.41) si decorrelano, a noi interessa che questo
tempo sia lungo e cercheremo di massimizzare il limite inferiore trovato.
Nel paragrafo 1.3.1 abbiamo riportato l’andamento del tempo di rilassamento τα trovato nello studio teorico su sistemi vetrosi sotto shear [3]; ci si
deve aspettare
B
τα = 2
γ̇ 3
79
dove B è una costante di proporzionalità. Per poter avere un decadimento
della funzione di correlazione dovuto al rilassamento strutturale del sistema
dovrò imporre che τα sia inferiore a τtr ed a τa , dalle espressioni appena
trovate per i due tempi la condizione che si dovrà soddisfare sarà:
γ̇ < min[ (
2π 3
a 3
) ,(
) ]
Bz
Bqy f
dove f = max[a, c, d]. Il valore di B è ottenibile sperimentalmente e bisognerà trovare il modo per soddisfare tale disuguaglianza: in primo luogo si
dovranno scegliere dei tassi di shear bassi. Inoltre, affinchè il tempo di transito sia lungo, ci si potrà mettere vicino al piatto fermo (z piccolo) per avere
la velocità delle particelle del fluido bassa e si cercherà di massimizzare le dimensioni del volume illuminato lungo la direzione della velocità (a grande),
a tale scopo si sono scelte delle fibre ottiche per la raccolta del segnale precedute da un collimatore (come vedremo in 3.4), che rendesse il diametro del
fascio raccolto abbastanza grande (dell’ordine dei mm), anche il diametro
del fascio incidente dovrá essere sufficientemente grande. Tuttavia, per avere
τa grande, bisognerà invece avere la dimensione f del volume illuminato piccola, ma dovrebbe essere sufficiente rendere la proiezione del vettore d’onda
scambiato lungo la direzione della velocità molto piccola, per questo si sceglierà di porre q⊥v, in modo da rendere τa abbastanza grande perché si possa
osservare il decadimento della correlazione sulla scala di tempo di τα .
2.6
COMPLEMENTI:
Statistica dei fotoconteggi
Ci occuperemo, in questa parte, di approfondire il fenomeno della rivelazione
della luce diffusa dal campione, in particolare studieremo la relazione tra la
statistica dei fotoelettroni emessi dal rivelatore, che costituisce il segnale
realmente rilevato, e la statistica dei fotoni che lo raggiungono [38]. La
trattazione rappresenta soltanto un approfondimento e non è propedeutico
alla comprensione del lavoro presentato nel seguito. Consideremo quindi la
distribuzione di probabilità p(n, T ) di emissione di n fotoelettroni e alcune
variabili ad essa associate (media, varianza etc.) in funzione del tempo di
rivelazione T , il tempo di coerenza e altri parametri. Discuteremo poi il caso
particolare in cui la luce proviene da una sorgente termica.
Nel fotomoltiplicatore i fotoni che colpiscono il fotocatodo generano, per
effetto fotoelettrico, l’emissione di elettroni; il processo di rivelazione, essendo basato sulla fotoemissione, è dunque di natura quantistica. Analizze80
remo la probabilità p(n, T ) di contare n fotoni nell’intervallo di tempo T
nel caso di campo elettrico dei fotoni stazionario ed ergodico. Assumiamo che la probabilità di emissione di un elettrone nell’intervallo di tempo (t, t + ∆t) sia proporzionale alla misura classica dell’intensità del campo
elettrico I(t) = E ∗ (t)E(t):
p(1, t)∆t = αI(t)∆t
e supponiamo inizialmente che la variabile I(t) non abbia fluttuazioni. Considerando che ogni evento di fotoemissione è un processo statisticamente
indipendente che accade con una probabilità piccola e costante (data da
p(1, t)), la distribuzione dei fotoconteggi sarà, come mostreremo nell’appendice B, una Poissoniana:
µn −µ
e
p(n, T ) =
n!
dove
T
µ=α
0
I(t )dt = αIT
(2.43)
e α risulta essere l’efficienza quantica del fotocatodo, definita come il rapporto tra il numero di elettroni emessi per effetto fotoelettrico dalla superficie
del fotocatodo e il numero di fotoni incidenti.
Abbiamo per ora assunto che l’intensità I(t) non fluttui, in realtà il
campo E(t) e di conseguenza la sua intensità sono variabili stocastiche random, dunque la (2.6) si riferisce ad una singola realizzazione dell’ensemble
dell’intensità. Per tener conto della natura stocastica di I(t) dobbiamo mediare la distribuzione Poissoniana p(n, t) sulla distribuzione dell’intensità.
Chiamiamo
U≡
T
0
I(t )dt
(2.44)
Anche U , per come è definita, sarà una variabile random che sarà descritta
da una distribuzione P (U ). La distribuzione dei fotoconteggi che tiene conto
delle fluttuazioni della variabile U sarà:
p(n, t) =
∞
(αU )n −αU
e
p(U )dU
0
n!
In definitiva possiamo schematizzare le fluttuazioni dei fotoconteggi come
originate da due tipi di fluttuazioni:
1. fluttuazioni dovute all’emissione random di fotoelettroni anche quando l’intensità della luce che illumina il rivelatore non fluttua, tali fluttuazioni danno una distribuzione dei fotoconteggi Poissoniana e sono
dovute al processo fotoelettrico;
81
2. fluttuazioni dell’intensità della luce che cade sul rivelatore.
Vogliamo ora ricavare un’espressione per la varianza della distribuzione
p(n, t); definiamo i momenti fattoriali:
∞
n!
=
n(n − 1) . . . (n − m + 1)p(n, T )
(n − m)!
n=0
vediamo ora la relazione dell’m-esimo momento fattoriale di n con l’m-esimo
momento di U :
∞
n!
=
(n − m)!
n=0
=
∞
n=0
∞
(αU )n −αU
p(U )
e
0
n!
n!
dU
(n − m)!
∞
(αU )n−m −αU
e
p(U )(αU )m dU = αm U m 0
(n − m)!
per m = 1 si ha
n = αU per m = 2
da cui
(2.45)
n(n − 1) = α2 U 2 n2 = α2 U 2 + αU Possiamo finalmente trovare un’espressione che lega la varianza di n a quella
di U :
(∆n)2 = n2 − n2 = α2 U 2 + αU − α2 U 2
= n + α2 (∆U )2 (2.46)
Come previsto le fluttuazioni consistono di due parti:
1. le fluttuazioni del numero di elettroni emessi per effetto fotoelettrico, che obbediscono ad una statistica di Poisson (si veda l’appendice
(B.3));
2. le fluttuazioni dell’intensita’ del campo elettrico.
La quantità che bisogna conoscere per poter ricavare la distribuzione dei
fotoconteggi p(n, T ) è la densità di probabilità dell’intensità della luce integrata U . Ricaveremo la forma di p(U ) e conseguentemente la p(n, T ) nel
caso tipico in cui il rivelatore è illuminato da una sorgente termica.
82
Intanto vediamo il caso più semplice della luce emessa da un laser ideale:
l’ampiezza del campo elettrico rimane costante, la densità di probabilità
dell’intensità istantanea sarà allora approssimabile da una funzione delta:
p(I) = δ(I − I)
da cui risulta che
nn −n
e
n!
In realtà, la p(I) scritta sopra non è completamente consistente con le osservazioni sperimentali, per approfondire questo scostamento dal caso ideale si
veda [38].
p(n, T ) =
2.6.1
Luce termica polarizzata
Cercheremo ora di dare un’espressione alla distribuzione p(U ) nel caso di
una sorgente termica per ricavarne la distribuzione dei fotoconteggi e la sua
varianza. In particolare troveremo un’espressione approssimata per la p(U )
nei limiti in cui il tempo di correlazione Tc è molto maggiore o molto minore
del tempo T . Daremo poi un’espressione per il caso in cui non vale nessuno
di due limiti e ne mostreremo la validità verificandone la coincidenza con
le distribuzioni trovate nei due casi limite. Infine accenneremo al problema
della decoerenza spaziale trascurato in tutta la trattazione.
Se assumiamo che la luce sia completamente polarizzata, possiamo descrivere il campo elettrico con una variabile scalare random E(t). Se la luce
proviene da una sorgente termica (come sarà nel nostro caso in cui viene
diffusa da un sistema fluido), E(t) ha una distribuzione gaussiana. Di conseguenza, essendo I(t) = E ∗ (t)E(t), la densità di probabilità dell’intensità
sarà una funzione esponenziale, che per essere ben normalizzata è esprimibile
come:
I
1 − I
e
(2.47)
p(I) =
I
dove
1
T →∞ T
I = lim
Dalla (2.44)
U =
T
0
T
0
I(t )dt
I(t )dt = IT
Se chiamo la funzione di correlazione temporale del campo elettrico
Γ (τ ) ≡ E ∗ (t)E(t + τ )
83
trovo che11
2
(∆U ) =
T T
0
0
|Γ (t − t )|2 dt dt
(2.48)
E’ difficile trovare un’espressione esatta per la p(U ) se T è arbitrario, è
facile invece ricavarne espressioni approssimate nei limiti di T molto grande
o molto piccolo rispetto al tempo di correlazione Tc .
T molto piccolo
In questo limite, essendo T Tc , la I(t) può essere considerata costante
nell’intervallo di tempo di durata T , dunque U IT . Dalla (2.47) troviamo
allora un andamento esponenziale per la p(U )
p(U ) =
1 − UU e
U (2.49)
11
2
(∆U ) =
2
(U − U ) = (
T
I(t )dt − IT )2 0
=
T
T
0
T
0
T
=
0
T
I(t )dt 0
[|E ∗ (t)E(t )|2 + ||E(t)|2 |2 ]dt dt + I2 T 2 − 2IT U 0
T
=
0
dt dt I(t)I(t) + I2 T 2 − 2IT
T
|Γ (t − t )|2 dt dt
0
nel penultimo passaggio si è tenuto conto dell’approssimazione Gaussiana:
I(t)I(t ) = |E ∗ (t)E(t )|2 + ||E(t)|2 |2
84
Possiamo cosı̀ trovare un’espressione esplicita12 per la p(n, T ):
p(n, T ) =
nn
(n + 1)n+1
(2.50)
Calcoliamo ora la varianza della distribuzione. Usando l’integrale noto
∞
0
xk e−αx dx =
k!
(2.51)
αk+1
troviamo che per una distribuzione esponenziale vale
U =
m
∞
0
U m p(U )dU = m!U m
sfruttando tale formula per m = 2 e ricordando la (2.46) otteniamo un’espressione per la varianza:
(∆n)2 = n + α2 U 2 − α2 U 2 = n + 2α2 U 2 − n2 = n[1 + n]
T molto grande
Se T Tc posso dividere l’intervallo T in tanti sottointervalli dell’ordine di
Tc . Il contributo a U di ogni sottointervallo è una variabile random statisticamente indipendente; dal teorema del limite centrale possiamo concludere
che U sarà una variabile distribuita Gaussianamente:
2
U −U )
1
− 12 (
(∆U )2 e
p(U ) = 2π(∆U )2 (2.52)
Nel limite in cui T diventa molto
grande, le fluttuazioni nell’intensità si
perderanno nell’integrale U = 0T I(t )dt e U potrà essere considerata
costante, dunque la Gaussiana tenderà a una funzione delta di Dirac:
p(U ) = δ(U − U )
(2.53)
In tal caso la distribuzione dei fotoconteggi risulterà essere una Poissoniana
p(n, T ) =
12
p(n, T ) =
=
∞
0
nn −n
e
n!
U
−
(αU )n −αU 1
e
e U dU
n!
U n!
αn
n!U (α+ 1 )n+1
U =
U n+1
αn
U (αU +1)n+1
(2.54)
∞
=
αn
n!U =
nn
(n+1)n+1
0
U ne
1 )U
−(α+ U
dU
nel secondo passaggio si è usato l’integrale noto della (2.51) e nell’ultimo passaggio si è
posto n = αIT (ottenibile dalla (2.45)).
85
dove n = αU . La varianza della distribuzione, come ricavato nell’appendice B, è
(∆n)2 = n
(2.55)
T arbitrario
Un’espressione approssimata per p(U ) quando T è arbitrario, che si raccordi
bene con le p(U ) trovate nei due limiti precedenti, è data da
p(U ) =
aN U N −1 − a U
e 2
2N (N − 1)!
86
(2.56)
dove a e N sono determinabili dal calcolo13 del valor medio e della varianza
di U :
2N
U a =
N
(2.57)
T T
=
0
0
T2
(2.58)
|γ(t − t )|2 dt dt
13
U ∞
=
U
0
aN U N−1 − a2 U
aN
dU = N
e
N
2 (N − 1)!
2 (N − 1)!
=
N!
a
2
1
( )N
= N
2 (N − 1)! ( a2 )N+1
a
⇒
a=
∞
a
U N e− 2 U dU
0
2N
U Per ottenere la varianza calcoliamo
U 2 =
∞
U2
0
=
(N + 1)!
a
aN U N−1 − 12 aU
1
dU = ( )N
e
2N (N − 1)!
2 (N − 1)! ( a2 )N+2
2
( )2 N (N + 1)
a
dunque
(∆U )2 =
2
2
2
N (N + 1)( )2 − N 2 ( )2 = ( )2 N
a
a
a
=
(
U 2
U 2
) N=
N
N
Ricordando la (2.48) e chiamando la funzone di correlazione normalizzata γ(τ ) =
otteniamo
N
=
I2 T 2
U 2
=
T
T
(∆U )2 |Γ (t − t )|2 dt dt
0
0
=
T T
0
0
T2
|Γ (t−t )|2
|Γ (0)|2
dt dt
87
= T T
0
0
T2
|γ(t − t )|2 dt dt
Γ (τ )
Γ (0)
Calcoliamo ora, con l’approssimazione (2.56), la distribuzione dei fotoconteggi nel caso di T arbitrario14
p(n, T ) =
1
(N + n − 1)!
1
N n
n
N
(N − 1)!n! (1 +
(1 + n
)
N )
(2.59)
Calcoliamo infine la varianza della distribuzione tenendo conto della (2.46)
2
e dell’equazione (∆U )2 = UN trovata nella nota per il calcolo di N
∆n = n + α2
n
U 2
= n(1 +
)
N
N
Casi limite
Cercheremo ora un’espressione per N nei due limiti di T molto grande o
molto piccolo rispetto al tempo di correlazione Tc . In seguito mostreremo
che nei suddetti limiti l’espressione per la densità di probabilità p(U ) nel
caso di T arbitrario ridà le distribuzioni già trovate nei due casi limite. In
tal modo avremo verificato l’accettabilità della (2.56).
Per trovare una forma esplicita per il parametro N dobbiamo calcolare l’integrale a denominatore della (2.61). Poichè in questa tesi ci occuperemo dello studio della fotocorrelazione di soluzioni diluite, la forma più
14
p(n, T )
=
0
=
∞
aN U N−1 − 12 aU (αU )n −αU
e
e
dU
2N (N − 1)!
n!
N N
αn
)
(
U (N − 1)!n!
∞
U N+n−1 e
N +α)U
−( U
dU
0
(N + n − 1)!
N N
αn
)
N
U (N − 1)!n! ( U
+ α)N+n
=
(
=
(N + n − 1)! N N
(
)
(N − 1)!n! U (
=
(N + n − 1)!
1
1
N n
(N − 1)!n! (1 + n )N (1 + n
)
N
1
N N
) (1
U +
n N
)
N
αn
1
αn (1 +
N n
)
n
dove si è tenuto conto delle (2.57), (2.51) e per il penultimo passaggio va ricordato che
n = αU .
88
ragionevole per la funzione di correlazione sarà un decadimento esponenziale:
γ(t − t ) = e−
|t−t |
Tc
(2.60)
Vedremo in seguito che nel caso sperimentale si dovrà inserire un’ampiezza
diversa da uno davanti all’esponenziale, il cui valore dipenderà dal numero
di aree di coerenza contenute sulla superficie del rivelatore.
Dal calcolo dell’integrale cercato15 troviamo per N
N= T T
0
0
T2
|t−t |
−2 T
c
e
1
=
Tc
T
dt dt
+
T
Tc2
(e−2 Tc
2T 2
(2.61)
− 1)
Analizzeremo ora i due casi limite separatamente:
T Tc
In questo limite posso sviluppare in serie l’esponenziale a denominatore:
lim N ( TTc ) =
T
→0
Tc
T2
Tc
+ c2
T
2T
1
=1
2
(1− 2T
+ 4T 2 −1)
T
2Tc
c
in tal caso, dalla (2.56) e tenendo conto della (2.57), si trova facilmente che
la distribuzione della U torna ad essere di tipo esponenziale, come si era
trovato nel caso di T molto piccolo
p(U ) =
15
T T
0
=2
e
0
T
= Tc
0
|t−t |
Tc
dt e
T
0
−2
dt dt =
−2 Tt
N N U N −1 − NU
N →1 1
− U
e U −→
e U N
U (N − 1)!
U c
t
0
T
dt e
0
2 Tt
c
dt
t
0
dt e
= 2 T2c
2
T
0
(t−t )
Tc
dt e
+
T
0
−2 Tt
c
dt
(e
2 Tt
c
t
0
dt e
−2
(t−t )
Tc
− 1)
t
dt (1 − e−2 Tc )
= Tc T +
Tc2
−2 T
(e Tc
2
− 1)
nel primo passaggio si sono considerati, in ordine, i due casi t < t e t > t .
89
T Tc
Il parametro N diventa:
lim N ( TTc ) = lim T
T
Tc
→∞
Tc
→∞
1
T2
Tc
− c2
T
2T
=
T
Tc
in questo limite N risulta essere molto grande e rappresenta il numero di tempi di correlazione contenuti nell’intervallo di tempo T su cui medio l’intensità
della luce diffusa.
Per mostrare che la distribuzione dell’intensità integrata p(U ) per T arbitrario torna ad essere una funzione delta di Dirac come trovato in precedenza per questo caso limite, verificheremo che i momenti16 della distribuzione
(2.56) per T Tc sono gli stessi di una funzione delta.
Vediamo intanto che i momenti di una funzione delta sono:
U n =
∞
0
δ(U − U )U n dU = U n
16
Mostriamo che una funzione di distribuzione di probabilità f (x) è univocamente
determinata dai suoi momenti n-esimi, che esprimiamo come
+∞
M n (x) =
xn f (x)dx
−∞
Definiamo ora la funzione generatrice dei momenti
+∞
ext f (x)dx
G(t) =
(2.62)
−∞
Vediamo che i coefficienti dello sviluppo in serie di Taylor della funzione G(t) sono i
momenti divisi per i corrispondenti fattoriali:
G(t)
+∞
f (x)(1 + xt +
=
−∞
=
+∞
1+t
xf (x)dx +
−∞
=
1 2 2
1
x t + · · · + xk tk )dx
2
k!
1 2
t
2
+∞
x2 f (x)dx + · · ·
−∞
M 0 (x) + M 1 (x)t + M 2 (x)
tk
k!
+∞
xk f (x)dx
−∞
t2
tk
+ · · · + M k (x)
2
k!
dunque i momenti di una distribuzione determinano univocamente la funzione generatrice
che è associata alla funzione di distribuzione tramite la (2.62).
90
I momenti della distribuzione p(U ) per T arbitrario risultano essere
U n =
=
∞
0
Un
(n + N − 1)!
aN U N −1 − a U
aN
2 dU =
e
2N (N − 1)!
( a2 )n+N 2N (N − 1)!
(n + N − 1)!
( a2 )n (N − 1)!
Verifichiamo allora che, se N 1, per i momenti appena calcolati vale
l’uguaglianza:
(n + N − 1)!
= U n
( a2 )n (N − 1)!
ricordando la (2.57) rimane da dimostrare che
(n + N − 1)!
= Nn
(N − 1)!
Applichiamo il logaritmo ad entrambi i membri e avvalendoci della formula
di Stirling valida per N 1: ln N ! N ln N − N , troviamo che l’equazione
da verificare diventa
n ln N
= (n + N − 1) ln(n + N − 1) − (N − 1) ln(N − 1) − (n + N − 1) + (N − 1)
Ci limitiamo ora al caso in cui N n, cioè il numero dei fotoconteggi nell’intervallo T (possiamo per semplicità riferirci alla sua media n in T ) sia molto
più piccolo del numero di tempi di correlazione Tc contenuti nell’intervallo
T . Sperimentalmente è possibile ridurre il numero medio dei fotoconteggi
diminuendo la potenza direttamente nel fascio incidente o semplicemente
in quello diffuso (utilizzando polaroid o filtri); inoltre dei campioni con un
tempo di correlazione Tc più piccolo (quindi con una viscosità del solvente
o un diametro delle particelle del soluto grandi) permettono di studiare tale
limite senza dover porre T cosı̀ grande da costituire un ostacolo per i tempi
di acquisizione della misura di fotocorrelazione (se devo correlare su tempi
troppo lunghi dovrò aspettare troppo tempo per avere una buona statistica
della misura). In questo limite posso sviluppare la funzione
ln(N + n − 1)
=
N n
−→
ln((N − 1)(1 +
ln(N − 1) +
n
n
)) = ln(N − 1) + ln(1 +
)
N −1
N −1
n
N −1
91
Figura 2.7: Andamento della distribuzione dei fotoconteggi espressa dalla
(2.59) per diversi valori del rapporto TTc = q
Verifichiamo cosı̀ l’equazione studiata:
(n + N − 1) ln(n + N − 1) − (N − 1) ln(N − 1) − (n + N − 1) + (N − 1)
N n
−→
=
N 1
N n
−→
(n + N − 1)[ln(N − 1) + N n− 1 ] − (N − 1) ln(N − 1) − n
(n + N − 1) ln(N − 1) − (N − 1) ln(N − 1) +
(N + n − 1)n
−n
N −1
n ln N
è finalmente verificata l’uguaglianza dei momenti della (2.56) nel limite T Tc con i momenti di una funzione delta di Dirac, essendo una funzione di
distribuzione di probabilità univocamente determinata dai suoi momenti,
abbiamo mostrato la validità della (2.56).
Problemi di decoerenza spaziale
In 4.4 forniremo una verifica sperimentale delle relazioni (2.50) e (2.59).
Tuttavia, tutta la trattazione sulla funzione di distribuzione dei fotoconteggi
fatta finora si riferiva al caso ideale in cui la superficie del rivelatore Ar
dove avviene la fotoemissione è di dimensioni trascurabili, in modo da poter
considerare unitario il rapporto tra la superficie del fotocatodo e il numero
92
di aree di coerenza che la illuminano. Utilizzando le fibre ottiche per il
passaggio del segnale dal campione al fotomoltiplicatore, effettivamente ci si
trova nel caso sopra descritto, mentre nel caso di raccolta del segnale tramite
lenti, pine-holes e diaframmi il suddetto rapporto sarà sempre maggiore
di uno e la trattazione dovrebbe essere riadattata al caso in cui gli effetti
di decoerenza spaziale non sono trascurabili. Bisognerà allora ridefinire U
considerando anche la dipendenza spaziale dell’intensità:
T
U=
0
dt
dr I(r , t )
Ar
Essendo ora la U l’integrale spaziale della U precedentemente definita, le
distribuzioni p(U ) che si erano utilizzate non saranno più valide, tuttavia
ridefinendo il parametro N si potrà continuare ad utilizzare la (2.56). In
particolare per T Tc non sarà più N = 1 ma N sarà pari al numero
di aree di coerenza contenute sulla superficie del rivelatore (il che è anche
intuibile se si ricorda che per T Tc N era pari al numero di tempi di
correlazione contenuti nell’intervallo T ). Per una trattazione più completa
si veda [20].
In figura 2.7 è rappresentata la funzione di distribuzione dei fotoconteggi
espressa dalla (2.59) per diversi valori del rapporto TTc , si trova che per valori piccoli di tale rapporto la distribuzione è ben rappresentata dalla (2.50),
viceversa per valori molto grandi del suddetto rapporto la distribuzione
diventa una poissoniana, come previsto dalla (2.54).
93
Parte II
Apparato sperimentale e sua
caratterizzazione
94
Capitolo 3
Apparato sperimentale
Presenteremo ora l’apparato sperimentale utilizzato nel corso del nostro studio, che si propone di ottenere delle misure di fotocorrelazione su di un fluido
complesso posto sotto shear. Alcune delle misure preliminari, che presenteremo nel capitolo 4, sono state realizzate su soluzioni diluite non sottoposte
a shear, per caratterizzare l’apparato sperimentale; solo in seguito abbiamo
usato come campione un fluido complesso posto in una cella per misure sotto
shear, i risultati di questo studio sono presentati nella parte 5.
Descriveremo ora gli strumenti utilizzati, il loro assemblaggio e ci soffermeremo in particolare sul funzionamento del correlatore, che è stato invece progettato nel corso di quest’anno, dedicheremo poi una parte allo studio delle
fibre ottiche e dei fasci gaussiani e, infine, al tipo di campione utilizzato.
3.1
Gli strumenti utilizzati
Per realizzare misure di fotocorrelazione, utilizziamo un fascio di luce monocromatica e polarizzata emessa da un laser e direzionata verso la cella che
contiene il campione, il fascio diffuso ad un certo angolo di diffusione θ (solitamente è stato posto θ π/2) illumina, tramite uno dei sistemi di raccolta
del segnale descritti in 2.3.3, la superficie di un fotomoltiplicatore, il segnale
in uscita da quest’ultimo viene poi elaborato da un correlatore digitale, che
permette di visualizzare la funzione di correlazione del numero di fotoni che
colpiscono la superficie del rivelatore tramite un computer. Presenteremo
ora gli strumenti dell’apparato sperimentale utilizzato.
Non ci soffermeremo sul funzionamento del laser, quello da noi utilizzato
(di Argon), emette un fascio gaussiano la cui lunghezza d’onda si può fissare
a λ = 514 nm (verde) o a λ = 488 nm (blu), e la potenza è regolabile a
95
partire dagli 8 mw fino a sopra i 100 mw. Per le misure di fotocorrelazione
eterodina, a causa delle eccessive oscillazioni meccaniche introdotte dalle
ventole di raffreddamento di questo laser, si é dovuto passare all’utilizzo
di un laser He-Ne di lunghezza d’onda λ = 633 nm (rosso) con potenza
massima di 8 mw. In realtá la luce emessa dal laser non sará un’onda perfettamente monocromatica, ma avrá una larghezza di riga ∆ν nello spettro
delle frequenze. L’onda corrispondente diventa una sinusoide modulata da
un’ampiezza che varia lentamente col tempo e si decorrela spazialmente dopo
un tempo Tc ∼ ∆ν −1 , cioè dopo aver percorso un certo cammino ∆lc = cTc ,
che nel nostro caso, data la larghezzza di riga del laser, corrisponde a qualche
decina di centimetri per entrambi i laser. Nel paragrafo 3.3 presenteremo le
caratteristiche di un fascio gaussiano.
Il campione utilizzato è invece descritto nel paragrafo 3.5. La cella in
cui viene posto sotto shear è costituita da un disco di vetro di diametro
10 cm, messo in rotazione da un motore a velocità angolare regolabile da
1 Hz a 102 Hz, l’altro disco che chiude la cella anteriormente è una finestra
ottica; l’asse di rotazione è in direzione orizzontale e la distanza tra specchio
e finestra può essere variata in modo discreto da un minimo di 1 mm ad un
massimo di 2 cm. La scelta del vetro come materiale del disco rotante serve
ad evitare che il fascio incidente venga diffuso sull’interfaccia campione-disco
e crei una sorgente luminosa incoerente che si aggiungerebbe al fascio diffuso dal campione e ne disturberebbe la funzione di correlazione: il vetro
invece, con un indice di rifrazione vicino a quello del campione, riflette una
piccola parte del fascio e ne rifrange la maggior parte, soltanto dopo aver
attraversato tutto il disco di spessore 2 cm il fascio sarà diffuso sulla seconda interfaccia, attaccata ad uno sfondo nero che assorbe parzialmente il
fascio e ne diffonde una parte, ormai molto lontana dal volume illuminato
e dal fascio diffuso dal campione. Inoltre il fascio riflesso dall’interfaccia
campione-disco viene utilizzato per allineare i due piatti della cella: rendendo paralleli i fasci riflessi dalla finestra ottica e dal disco ci si assicura che i
due piatti siano paralleli, dopo questo accorgimento preliminare si può procedere all’utilizzo della cella per lo studio di un campione sotto shear. Per
evitare effetti di bordo sul flusso (par. 2.5.2) conviene prendere il volume illuminato lontano dai bordi, ma non troppo vicino all’asse di rotazione, dove
si creano delle bolle d’aria che creano turbolenza: solitamente ci siamo posti
ad una distanza dal centro tra 3 ÷ 5 cm. In alcune misure preliminari per
la caratterizzazione dell’apparato sperimentale si sono usati dei campioni
all’equilibrio e non si è resa necessaria la cella descritta.
Se il fascio incidente è polarizzato, quello diffuso dal campione in direzione ortogonale al versore di polarizzazione avrà intensità massima, men96
tre nelle altre direzioni l’intensità sarà inferiore, in quanto si propagherà
soltanto la componente del campo elettrico (che si trova lungo il versore di
polarizzazione) ortogonale alla direzione di propagazione del fascio, poichè
il campo è sempre ortogonale al vettore d’onda. Sarà conveniente allora
scegliere il fascio diffuso sul piano ortogonale al versore di polarizzazione del
laser. Per la raccolta del segnale diffuso abbiamo utilizzato, nelle misure preliminari per la caratterizzazione dell’apparato sperimentale, la geometria a
due pine-holes, dapprima quella con la sequenza: lente - pine-hole - pine-hole
(fig. 2.1) , poi, per eliminare delle oscillazioni nella funzione di correlazione
(che tratteremo in 4.2), quella con la sequenza: pine-hole - lente - pine-hole.
I pine-holes utilizzati hanno un’apertura che va dai 5 µm fino a 200 µm. Per
realizzare le misure del profilo di velocitá del campione sotto shear si é reso
necessario l’utilizzo delle fibre ottiche a singolo modo, a cui dedicheremo il
paragrafo 3.4, e che rappresentano in generale il miglior mezzo di raccolta del segnale in un esperimento di diffusione della luce; come spiegato in
2.3.3, permettono infatti di ottenere una intercetta della funzione di correlazione che si avvicina molto di piú al valore ideale. Per attenuare il fascio
si utilizzano dei filtri, che assorbono la luce e ne rifrangono soltanto una
certa percentuale, oppure un polaroide che può ruotare attorno al proprio
asse in modo da variare l’angolo α formato tra la direzione di polarizzazione
del fascio e la propria direzione di polarizzazione, cosı̀ che il rapporto tra
l’intensità del fascio uscente e quella del fascio entrante sia pari al cos2 α.
Il fotomoltiplicatore
Il fotomoltiplicatore è lo strumento che trasforma in segnale elettrico la luce
che lo illumina, è costituito da una superficie detta fotocatodo, dove, per
effetto fotoelettrico, i fotoni che la colpiscono vengono trasformati in elettroni; il rapporto tra il numero di elettroni emessi e il numero di fotoni
incidenti sul fotocatodo è detto efficienza quantica. I fotoelettroni cosı̀ ottenuti vengono poi accelerati, tramite una differenza di potenziale, verso
l’anodo, ma prima di arrivarvi vengono moltiplicati attraverso una serie di
r dinodi. Questi sono costituiti da una superficie di materiale conduttore
posta ad un potenziale tale da attrarre gli elettroni emessi dal dinodo precedente: quando ne assorbono uno hanno la proprietà di produrne, con un
processo a valanga, un numero k; gli elettroni, nel passaggio da un dinodo
al successivo (che è posto a un potenziale sempre maggiore) vengono cosı̀
moltiplicati fino ad arrivare all’ultimo dinodo, che costituisce l’anodo; per
ogni fotoelettrone accelerato verso il primo dinodo, se ne avranno kl−1 sulla
superficie dell’anodo. Nel fotomoltiplicatore da noi utilizzato, il segnale elet97
trico dei fotoelettroni, consistente in un impulso continuo, passa attraverso
un amplificatore e poi per un discriminatore, per essere trasformato in un
segnale digitale TTL; ogni impulso uscente dal discriminatore corrisponderà,
nel caso ideale di assenza di rumore, ad un fotone incidente su rivelatore.
Per effetto termoionico i dinodi emettono degli elettroni non corrispondenti
a fotoni incidenti sulla superficie del fotocatodo, per ridurre il rumore che
ne deriva i dinodi vengono raffreddati. E’ importante fare attenzione a non
illuminare il fotomoltiplicatore con un fascio troppo intenso (non più di un
milione di fotoni al secondo), poichè potrebbe esserne danneggiato, si genererebbe infatti una nuvola di elettroni intorno ai dinodi che schermerebbe il
potenziale, impededendo agli elettroni in arrivo di essere accelerati verso il
dinodo. Cosı̀, ad esempio, se si volesse misurare direttamente l’intensità del
laser, bisognerebbe attenuare fortemente il fascio per far incidere sul rivelatore una quantità di fotoni non troppo alta, il numero di fotoni al secondo
è calcolabile dal rapporto tra la potenza del fascio e l’energia del singolo
fotone e vale circa 101 5 per ogni mw di potenza. La corrente istantanea in
uscita dal fotomoltiplicatore é proporzionale al modulo quadro del campo
elettrico incidente sul fotocatodo: i(t) ∝ |E(t)|2 , la corrente sará dunque
proporzionale all’intensitá del campo o, in termini quantistici, al numero di
fotoni che colpiscono la superficie del fotocatodo in un secondo.
Un effetto di cui bisogna tener conto nelle misure di fotocorrelazione
della luce rivelata da un fotomoltiplicatore è il cosiddetto after-pulse: il
fotomoltiplicatore fa seguire, con una certa probabilità, un secondo fotoconteggio ad un fotoconteggio generato per effetto fotoelettrico da un fotone
incidente sulla superficie del fotocatodo. Questo secondo fotoconteggio non
corrisponde però ad un fotone della radiazione da rivelare ed è dovuto a due
possibili effetti: alla riflessione dei fotoelettroni da parte del primo dinodo
verso il fotocatodo, che li rimanda al primo dinodo dove sono moltiplicati
per la seconda volta, fotoconteggi cosı̀ generati hanno un ritardo dell’ordine
dei nanosecondi rispetto ai fotoconteggi che li hanno provocati; con un ritardo dell’ordine dei microsecondi si trovano invece gli after-pulse dovuti alla
ionizzazione dei gas residui nel fototubo, per cui gli ioni sono attratti verso
il fotocatodo e generano altri fotoelettroni. Il correlatore di cui disponiamo
non riesce a calcolare la correlazione a tempi inferiori ai microsecondi, ed è
stato possibile rivelare soltanto gli after-pulse del secondo tipo: mandando
sul fotocatodo una sorgente di luce di intensità costante, con fluttuazioni
trascurabili, la funzione di correlazione presentava un picco che decadeva
in un tempo pari a 0, 5 µs, corrispondente al tempo di ritardo con cui si
presenta l’after pulse nel fototubo. Le misure di fotocorrelazione sulla luce
incidente sul fotocatodo saranno allora affidabili a partire da un tempo su98
periore a 0, 5 µs: in base a questo è stato scelto un tempo minimo di 4 ÷ 5µs
a cui calcolare, tramite il correlatore, la funzione di correlazione.
Il correlatore utilizzato é stato interamente ideato e realizzato, nei laboratori del gruppo glas a Roma, dal dott. Roberto Di Leonardo [23], che sta
lavorando al progetto di studio tramite fotocorrelazione di campioni sotto
shear. Dedicheremo il prossimo paragrafo al funzionamento di un correlatore
e presenteremo in particolare il correlatore realizzato.
3.2
3.2.1
Progetto e sviluppo di un correlatore
Tecniche di autocorrelazione digitale
Il correlatore è lo strumento che elabora il segnale in uscita dal fotomoltiplicatore, per calcolarne la funzione di correlazione; sarà analogico se il segnale
in ingresso da correlare è continuo, digitale se è costituito da impulsi di
corrente. Nel nostro caso il fotomoltiplicatore fornisce, in uscita, un segnale
digitale, dovremo usare allora un correlatore digitale, che conterà gli impulsi
del segnale in uscita dal fototubo e calcolerà la funzione di autocorrelazione
di questi conteggi. Poichè ogni impulso, nel caso ideale, corrisponderà ad un
fotone assorbito sulla superficie del fotocatodo, quello che il correlatore misurerà sarà la funzione di autocorrelazione del numero di fotoni che arrivano
sul rivelatore. Se n(t) è il numero di fotoni che arrivano nell’intervallo di
tempo (t, t + T ), il correlatore darà
C(t) ≡ n(t)n(0)
Il numero di fotoconteggi è legato all’intensità della luce che illumina la
superficie del rivelatore al tempo t tramite la relazione, valida nel caso di T
sufficientemente piccolo affinchè il numero medio di fotoni in T sia n 1
t+T
n(t) = α
I(t )dt
t
dove α è l’efficienza quantica del fotocatodo, dunque
t+T
C(t) = α2 dt
t
T
0
dt I(t )I(t )
I due integrali
danno la media temporale dell’intensità nell’intervallo di
1 t+T
¯
I(t )dt = I(t),
per cui si potrà scrivere
tempo T : T t
¯ I(t)
¯
C(t) = α2 T 2 I(0)
99
Figura 3.1: Impulsi contati dalla scheda counter timer board.
Si avrà allora un errore sistematico dovuto al fatto che, invece di prendere
il valore istantaneo dell’intensità, I(t) viene mediata su T ; in effetti anche
n(t), per come è definita, è un valore medio su T . Cerchiamo ora di quantificare questo errore sistematico calcolando esplicitamente la relazione tra
la funzione di correlazione I2 (t) = I(0)I(t) dell’intensità della luce che
arriva sul fotocatodo e la C(t), nel caso di decadimento esponenziale per
|t|
I2 (t) = 1 + e− τ , come per le soluzioni diluite:
C(t) = α2
t+T
t
dt
T
0
dt I(t )I(t ) = α2
t+T
t
dt
T
0
dt (1 + e−
|t −t |
τ
)
se t > T posso togliere il modulo, risolvendo i due integrali ottengo
t
T
C(t) = [1 + e− τ β( )]
τ
con
τ2
T
T
β( ) = 2 2 (cosh − 1)
τ
T
τ
Potendo mediare l’intensità su un tempo T τ si avrà β → 1 e l’errore
sistematico diventerà trascurabile.
Presenteremo ora tre modi di acquisizione dei dati, che permettono di
calcolare la funzione di correlazione dei fotoconteggi, la loro particolarità [22]
è che l’informazione della sequenza temporale dei fotoni rivelati non viene
persa, come avviene invece nella maggior parte dei correlatori commerciali.
In ognuno di questi modi, la scheda del correlatore è una counter timer board
NI-6602 (fig. 3.1) che ha la funzione di contare i fotoni rivelati nel tempo:
ha due entrate, gate e source, ed un’uscita, il cui segnale è raccolto da un
contatore 32 bit. Del segnale digitale in entrata dal source vengono contati
gli impulsi, fino a che, quando arriva un impulso dal segnale in entrata dal
gate, il numero di conteggi accumulati dal source viene trasmesso in uscita
100
verso il contatore; dopodichè altri conteggi provenienti dal gate vengono
sommati a quelli precedenti e ritrasmessi in uscita al seguente impulso dal
source, e cosı̀ via.
3.2.2
Algoritmo in numero di fotoconteggi
Presenteremo ora uno degli algoritmi che permettono di calcolare il numero
di fotoni incidenti nel tempo e di calcolarne la funzione di correlazione.
Supponiamo di dividere la scala dei tempi in intervalli di lunghezza T e
chiamiamo ni il numero di fotoconteggi contenuti nell’i-esimo intervallo.
L’algoritmo usato per calcolare la funzione di correlazione normalizzata dei
fotoconteggi è
i ni ni+j
(3.1)
C(jT ) = ( i ni )2
e sarà proporzionale alla funzione di correlazione normalizzata dell’intensità
(considerando però l’errore sistematico dovuto alla media su T calcolato in
¯ I(t)/
¯
¯ 2.
3.2.1): I(0)
I
Tecnicamente, per il contatore, si dovrà mettere il segnale uscente dal
fotomoltiplicatore nell’entrata source, mentre il gate dovrà essere alimentato da un segnale di clock, costituito da un treno di impulsi di periodo T .
Cosı̀ i conteggi incrementeranno ogni volta che un fotone viene ricevuto dal
rivelatore e gli impulsi in uscita dal contatore forniranno il numero di fotoconteggi n (da cui il nome dell’algoritmo) che si trovano entro un periodo T
del segnale di clock, da cui si potrà calcolare la (3.1).
Vediamo, in particolare, come avviene il trasferimento dei dati dal contatore al computer. Il contatore può leggere qualsiasi numero inferiore a 232 ,
che viene poi trasferito, nell’ordine in cui è arrivato, ad un altro componente
chiamato FIFOs (first in first outs), costituito da un buffer di sedici elementi, ognuno dei quali conterrà trentadue bit ed esprimerà il numero trasferito
dal contatore, quest’ultimo viene allora azzerato ed è pronto a ricevere nuove
informazioni. Durante il trasferimento dei dati al FIFOs, il contatore viene
bloccato per un intervallo di tempo, detto tempo morto, che dura fino a
quando il contatore non viene azzerato: i segnali in entrata nella scheda
non vengono contati durante il tempo morto, che è dell’ordine delle decine
di ns. I dati accumulati nel FIFOs vengono poi trasferiti alla memoria del
computer (RAM ), dove vengono memorizzati su due buffer molto lunghi, in
grado di contenere diversi buffer del FIFOs: il primo accumula i dati provenienti dal FIFOs, il secondo, che riceve i dati del primo, trasferisce i dati
che verranno elaborati. La correlazione viene fatta mediando tra i conteggi
101
contenuti all’interno del secondo buffer e viene poi mediata, con il peso opportuno, con la funzione di correlazione ottenuta dall’elaborazione dei dati
ricevuti in precedenza, in questo modo la funzione é aggiornata di continuo e, piú tempo sará passato dall’inizio dell’acquisizione, piú le fluttuazioni
della funzione di correlazione verranno mediate.
Poichè non si può sapere dove, all’interno dell’intervallo T , è arrivato
il fotoconteggio, la massima risoluzione temporale sarà determinata dalla
larghezza del periodo T , tipicamente viene posto T = 100 ns. Ma, se è vero
che per ridurre l’errore sistematico converrà diminuire il periodo T , è anche
vero che il numero di dati al secondo che il calcolatore dovrà processare, pari
a 1/T , diventerebbe troppo alto e diminuirebbe l’efficienza nel trasferimento
dei dati, infatti sprecherei molta dell’informazione trasmessa: la maggior
parte degli ni diventerebbe nulla, in quanto il numero medio di fotoni che
colpiscono la superficie del fotocatodo in un tempo T piccolo (rispetto alla
frequenza media dei fotoni rivelati) si avvicina a zero. La scheda, che fissa la
frequenza del segnale di clock, sceglierá un tempo T abbastanza grande da
evitare errori di sovrascrittura sul FIFOs, che avvengono se il buffer da sedici
che contiene i conteggi provenienti dal contatore viene saturato, in quanto i
dati non hanno avuto il tempo di essere trasferiti alla RAM dal FIFOs, per
poter registrare i dati successivi provenienti dal contatore tutto il buffer del
FIFOs verrá allora cancellato e si perderá l’informazione relativa.
3.2.3
Algoritmo in tempo
Se la frequenza del segnale di clock è maggiore della frequenza media con
cui i fotoni vengono rivelati (sempre inferiore a 1M Hz per non danneggiare
il fotomoltiplicatore), l’efficienza nel trasferimento dei dati per l’algoritmo
in numero di fotoconteggi è molto bassa. In questo caso conviene usare
l’algoritmo in tempo, in cui il segnale del fotomoltiplicatore viene immesso
nel gate e il segnale di clock di periodo T nel source: l’uscita dal contatore
indicherà il numero di cicli di clock contenuti nell’intervallo di tempo che
intercorre tra il passaggio di due fotoni successivi, per questo chiamiamo
questo modo ”algoritmo in tempo”. Per il calcolo della funzione di correlazione si divide la scala temporale in intervalli di larghezza t0 , con t0 > T e
si grafica un istogramma con larghezza dei bin pari a t0 , nell’i-esimo bin si
mette il numero di fotoconteggi a distanza it0 (in effetti in questo algoritmo
il contatore dà il numero di intervalli temporali T contenuti tra due fotoni
successivi). Otteniamo cosı̀ la funzione di correlazione C(it0 ), interpretabile
come la probabilità di trovare un fotone dopo un tempo it0 , entro t0 , se ne ho
avuto uno al tempo t = 0; se ad esempio it0 supera il tempo di correlazione
102
τ , il valore dei bin per it0 > τ sarà pari alla probabilità di avere un fotone
entro t0 (cioè al numero medio di fotoni nell’unità di tempo, moltiplicato
per il tempo t0 ), poichè i fotoconteggi sono ormai scorrelati.
Di nuovo la risoluzione temporale sul fotone in arrivo è maggiore tanto più è alta la frequenza del segnale di clock, invece il numero di dati al
secondo che vengono processati è dato dalla frequenza dei fotoni rivelati. A
causa della stocasticità del segnale sul gate, serviranno alcune precauzioni:
bisognerà bloccare i conteggi degli impulsi del gate durante il tempo morto,
infatti il gate potrebbe ricevere un impulso prima che il segnale precedente
sia stato trasferito al FIFOs e il contatore sia stato azzerato. Perderò allora
dei fotoni non in modo random, ma ogni volta che sono troppo ravvicinati
temporalmente e modificherò la funzione di correlazione nella scala dei tempi del tempo morto; tuttavia è possibile minimizzare il tempo morto fino a
renderlo inferiore alla risoluzione temporale T , cosı̀ che il primo punto della
funzione di correlazione corrisponda ad un tempo superiore alla scala dei
tempi del tempo morto. C’è la possibilità di avere degli errori di sovrascrittura nel FIFOs: nel caso di una sequenza di fotoconteggi molto ravvicinati
è importante che il FIFOs abbia abbastanza spazio da non saturare mentre
attende che il segnale sia trasferito alla RAM del computer, altrimenti tutto
il buffer andrebbe perso.
Nei due metodi presentati, il calcolo della funzione di correlazione comporta una somma in cui, fissato un fotoconteggio, lo correlo con tutti gli altri
e sommo poi su tutti i fotoconteggi, dunque il numero di dati da elaborare,
se N è il numero di fotoni contati dall’inizio dell’acquisizione, va come N 2 ,
per calcolare la correlazione a tempi lunghi o nel caso di un’alto numero di
fotoconteggi al secondo dovrò allora elaborare un’enormità di dati ed avrei
degli errori di sovrascrittura sulla RAM: mentre il secondo buffer sta trasferendo i dati, il primo, essendo saturo, non é piú in grado di ricevere i nuovi
dati provenienti dal FIFOs; l’errore consiste nel fatto che il primo buffer
della RAM, non potendo essere trasferito, viene cancellato.
3.2.4
Algoritmo multi-τ
Per sormontare il problema dell’inefficienza nel calcolo della funzione di correlazione a tempi lunghi è stato utilizzato il metodo multi-tau, un algoritmo
in cui il numero di dati da elaborare per il calcolo della correlazione va
come N . Non ci soffermeremo sulla descrizione del circuito utilizzato in
questo metodo, daremo soltanto un’idea qualitativa su come viene calcolata
la funzione di correlazione.
Si divide la sequenza dei fotoconteggi in gruppi, ognuno contenente m
103
sottointervalli temporali, la media parziale del numero di fotoconteggi per
ogni sottointervallo diventa l’elemento di altri gruppi, contenenti ancora m
elementi, e cosı̀ via iterando il procedimento. Si ottiene che la funzione
di correlazione della media parziale dei fotoconteggi ad un certo passo, si
avvicina alla funzione di correlazione dei fotoconteggi C(t) tanto più il procedimento è stato iterato; infatti, se i primi α gruppi ricoprono un intervallo
temporale pari a τ0 , dopo n passi i primi α gruppi ricopriranno un intervallo
pari ad mn τ0 e daranno una funzione di correlazione che ha fatto molto più
statistica; per i tempi corti lo scostamento tra la funzione di correlazione
dei fotoconteggi e quella ricavabile con questo metodo è maggiore rispetto
al risultato per i tempi lunghi, in cui sto mediando su intervalli di tempo più
lunghi. Non dovendo correlare i fotoconteggi ma i gruppi, non dovrò processare molti dati, il che è vantaggioso per il calcolo della correlazione a tempi
lunghi, si eviteranno inoltre errori di sovrascrittura. Tuttavia questo metodo
comporta un errore sistematico dovuto al fatto che si media il numero dei
fotoconteggi, bisognerà allora rendere tale errore inferiore alle fluttuazioni
statistiche.
3.2.5
Il correlatore realizzato
Per avere una buona efficienza ed evitare errori di sovrascrittura, il nostro correlatore usa il metodo multi-tau, che riesce a calcolare la funzione
di correlazione da un tempo minimo di 5µs senza commettere errori. Per
l’acquisizione e l’analisi statistica dei fotoconteggi è stata realizzata [23]
un’estenzione di Python [24].
Il fatto che il nostro correlatore preservi l’intera sequenza temporale dei
fotoni in arrivo permette una grande versatilità nell’analisi dei dati, per
cui, oltre alla fotocorrelazione, è possibile ottenere altre funzioni che diano
informazioni ulteriori sulla dinamica del campione, non contenute nella funzione di correlazione. Innanzi tutto è possibile visualizzare il numero di
fotoconteggi in arrivi al secondo. Inoltre si puó calcolare l’istogramma della
distribuzione dei fotoconteggi p(n, T ), cioé la probabilitá di rivelare n fotoni
in un intervallo di tempo T : si può in questo modo verificare la stabilità del
numero di fotoni in arrivo tramite la deviazione standard dell’istogramma
(se, ad esempio, il campione presenta delle impurezze che diffondono molto
quando attraversano il volume illuminato, l’istogramma presenterà dei bin
piccati ad un numero di fotoconteggi nell’unità di tempo superiore a quello più probabile, dunque la deviazione standard aumenterà) e da un fit si
possono verificare i risultati dello studio presentato in 2.6 sulla statistica dei
104
fotoconteggi, le misure ottenute per verificare tali risultati sono presentate
in 4.4.
3.3
Fasci gaussiani
Il fascio laser utilizzato nel nostro esperimento come anche, con buona approssimazione, il fascio lanciato da una fibra ottica a singolo modo, é un
fascio gaussiano, per questo dedicheremo questo paragrafo alla caratterizzazione di questo tipo di fasci.
I fasci gaussiani sono delle onde piane modulate da un’ampiezza complessa che varia lentamente in funzione della posizione, rimanendo approssimativamente costante entro una lunghezza λ in modo che localmente si possa
considerare l’onda simile ad un’onda piana:
U (r) = A(r)e−ikz
L’ampiezza complessa dell’onda U (r) dovrà soddisfare l’equazione di Helmoltz per le onde ∇2 U + k2 U = 0. Una soluzione di questa equazione
fornisce l’equazione di un fascio gaussiano:
U (r) = A0
ρ2
ρ2
W0
exp[− 2 ]exp[−ikz − ik
+ iζ(z)]
W (z)
W (z)
2R(z)
con
W (z) = W0 [1 + (z/z0 )2 ]1/2
R(z) = z[1 + (z/z0 )2 ]
ζ(z) = tan−1 (z/z0 )
W0 = (λz0 /π)1/2
(3.2)
dove A0 e z0 (detto Rayleigh range) sono dei parametri determinati dalle
condizioni al contorno, mentre W (z) e R(z), come vedremo, misurano la
larghezza del fascio e il raggio di curvatura del fronte d’onda. L’intensità
dell’onda I(r) = |U (r)|2 è una funzione della distanza assiale z e radiale
ρ = (x2 + y 2 )1/2
I(ρ, z) = |A0 |2
2ρ2
W02
exp[−
]
W 2 (z)
W 2 (z)
105
Ricordando l’ultima delle (3.2), si trova che lungo l’asse del fascio (ρ = 0)
l’intensità decresce al crescere di z e in z = ±z0 raggiunge la metà del
valore massimo, che si ha per z = 0. Il profilo trasverso del fascio, ottenibile
fissando z in I(ρ, z), è gaussiano e la varianza della distribuzione è σ =
W (z)/2, per questo W (z) è detto raggio del fascio ed assume il suo minimo
valore in z = 0: W (0) = W0 è chiamato waist e corrisponde al valore in cui
la gaussiana in z = 0 decade di√1/e. Il raggio del fascio cresce gradualmente
con z, raggiungendo il valore 2W0 in z = z0 , per z z0 il raggio risulta
avere un andamento lineare con z:
W (z) ≈
W0
z = θ0 z
z0
dall’ultima delle (3.2) risulta θ0 = λ/(πW0 ). Il cono definito dall’angolo 2θ0
determina la divergenza angolare del fascio per z z0 . Poichè in z = 0
si ha il raggio minimo W0 , diremo che il fascio è a fuoco
√ entro la distanza
assiale, centrata nel waist, in cui il raggio è inferiore a 2W0 , la profondità
di fuoco risulta essere allora (dalla prima e dall’ultima delle (3.2))
2z0 =
2πW02
λ
(3.3)
ad esempio per un fascio laser di lunghezza d’onda λ = 633 nm e di waiste
1 mm (come quello che utilizzeremo per le misure, tramite fotocorrelazione
eterodina, del profilo di velocità di un campione sotto shear, descritte nel
capitolo 5) la profondità di fuoco è di 10 m.
Si trova [40] che la forma dei fronti d’onda è un paraboloide di raggio
di curvatura pari a R(z), definito dalla seconda delle (3.2): il suo andamento è tale che in z = 0, vicino all’asse, il fascio è approssimabile con
un’onda piana, il fronte d’onda ha la massima curvatura in z = z0 e diventa
approssimativamente sferico vicino all’asse per z z0 .
Nel nostro esperimento, per focalizzare il fascio gaussiano del laser, lo si
fa passare attraverso una lente, lo stesso viene fatto prima di raccogliere il
fascio tramite una fibra ottica, che è preceduta da un collimatore, costituito
da una lente che restringe il fascio raccolto (si veda il par. 3.4). Quando
il fascio gaussiano attraversa una lente, viene trasformato in un altro fascio gaussiano con waist e curvatura alterati ed è possibile ricavare [40] la
posizione del punto z del nuovo fascio proveniente dal punto z del fascio
incidente e i nuovi parametri z0 , W0 e θ0 conoscendo i parametri del fascio
incidente e la distanza focale f della lente. Noi riporteremo soltanto i risultati per due casi limite, nel nostro esperimento ci troveremo nel secondo dei
due casi limite che ora descriveremo. Se (z − f ) z0 , in modo che la lente
106
sia fuori dalla profondità di fuoco del fascio incidente, il fascio può essere
approssimato con un’onda sferica e valgono le leggi dell’ottica geometrica
per la focalizzazione di un’onda sferica: 1/z + 1/z ≈ 1/f e
W0 ≈ |f /(z − f )|W0
torna il fattore di magnificazione che dà le dimensioni dell’oggetto immagine
nell’ottica geometrica. Se invece la lente è posta nel waist del fascio e la
profondità di fuoco é molto più lunga della distanza focale della lente, il
fascio incidente è ben approssimato, nel waist, da un’onda piana, dunque il
fascio trasmesso viene focalizzato sul piano focale della lente come avviene
per un’onda piana incidente su una lente, si trova allora che z ≈ f e
W0 = f θ0
3.4
(3.4)
Fibre ottiche a singolo modo
Come descritto in 2.3.3, il modo migliore per raccogliere il segnale in un
esperimento di fotocorrelazione, é tramite l’utilizzo delle fibre ottiche, che
consentono di ottenere un valore dell’intercetta della funzione di correlazione
piú alto che nei metodi classici di raccolta, nei quali si utilizzano lenti e
diaframmi. Inoltre, per realizzare un esperimento con tecnica eterodina,
l’utilizzo delle fibre ottiche é particolarmente adatto, poichè garantisce un
automatico matching dei fronti d’onda dei due campi, l’oscillatore locale e
il fascio diffuso. Per questo ci soffermeremo ora sulla descrizione di questi
oggetti.
Una fibra ottica é costituita da un cilindro di materiale dielettrico avvolto in un altro materiale dielettrico con indice di rifrazione inferiore. La
sua funzione é di condurre luce attraverso il mezzo interno senza che venga irradiata in quello esterno. Infatti i raggi incidenti sull’interfaccia tra
i due mezzi ad angoli superiori all’angolo critico, sono riflessi totalmente
dall’interno e vengono condotti attraverso il cilindro senza essere rifratti. I
raggi con maggiore inclinazione rispetto all’asse della fibra perdono intensitá nel mezzo esterno ad ogni riflessione e non vengono guidati fin all’altro
estremo della fibra. I due indici di rifrazione che caratterizzano la fibra,
n1 del cilindro interno e n2 per quello esterno, differiscono di molto poco:
∆ ≡ (n1 − n2 )/n1 1. Solitamente il materiale di cui sono costituite le
fibre é un vetro (SiO2 ) chimicamente molto puro, aggiungendo una piccola
concentrazione di altri materiali si ottiene una leggera variazione dell’indice
di rifrazione.
107
Nelle fibre in cui il diametro del cilindro interno è molto maggiore della
lunghezza d’onda della luce (le fibre cosiddette multimodo hanno una tale
cartteristica), vale l’ottica geometrica. In tal caso, per i raggi passanti attraverso l’asse della fibra, la condizione affinché abbiano riflessione totale é
che l’angolo θ formato con l’asse della fibra sia inferiore al complementare
dell’angolo critico θc = π/2 − θc = cos−1 (n2 /n1 ), dove θc é ottenuto dalla
legge di Snell. Si trova che anche per i raggi che non passano per l’asse della
fibra, la condizione per la riflessione totale é la stessa. Dunque un raggio
luminoso proveniente dall’aria, che incide sulla fibra con un angolo θ, viene
trasmesso se, dopo essere rifratto all’interno della fibra, forma con l’asse
della fibra un angolo piú piccolo di θc . Dalla legge di Snell applicata all’interfaccia aria-fibra, si ottiene per essere trasmessi i raggi devono incidere
con un angolo inferiore a θa , con sin θa = n1 (1 − cos2 θ c )1/2 + (n21 − n22 )1/2 .
Chiamando apertura numerica N A ≡ (n21 − n22 )1/2 ≈ n1 (2∆)1/2 , si trova che
l’accettanza angolare della fibra, che determina il cono contenente i raggi
esterni che saranno trasmessi dalla fibra, è
θa = sin−1 N A
I raggi incidenti ad un angolo maggiore di θa saranno trasmessi soltanto per
una piccola distanza all’interno della fibra.
La forma di un’onda monocromatica che si propaga in una fibra si può
ricavare cercando il campo magnetico e il campo elettrico delle onde che
soddisfano le equazioni di Maxwell e le condizioni al contorno imposte dall’interfaccia tra i due dielettrici. Le particolari soluzioni che rappresentano il
campo trasmesso, dette modi della fibra, hanno una determinata costante di
propagazione, una caratteristica distribuzione del campo sul piano trasverso e due possibili stati di polarizzazione indipendenti. Ogni componente
del campo elettrico e magnetico deve soddisfare l’equazione di Helmoltz
∇2 U + n2 k02 U = 0, dove n = n1 nel cilindro interno di raggio a e n = n2
in quello esterno, e k0 = 2π/λ. In un sistema di coordinate cilindriche le
soluzioni che a noi interessano (i modo di fibra) hanno la forma di onde propaganti nella direzione z (corrispondente all’asse della cella) con costante di
propagazione β, e periodiche di 2π rispetto alla coordinata angolare Φ:
U (r, Φ, z) = u(r)e−ilΦ e−iβz
dove l è un numero relativo. Si trova che l’onda viene trasmessa se la costante
di propagazione è minore del numero d’onda nel cilindro interno (β < n1 k0 )
e maggiore di quello all’esterno (β > n2 k0 ). Le soluzioni dell’equazione di
Helmoltz sono delle funzioni di Bessel 1 :
1
Jl (x) è la funzione di Bessel di ordine l di prima specie, che oscilla come un seno o un
108
u(r) ∝ Jl (kT r) se r < a
u(r) ∝ Kl (γr) se r > a
dove kT = n21 k02 − β 2 e γ 2 = β 2 − n22 k02 . Per valori grandi di kT si hanno forti
oscillazioni della distribuzione radiale nella zona r < a, mentre per grandi
valori di γ si ha un decadimanto più rapido ed una minor penetrazione nella
zona r > a, la somma dei quadrati dei due parametri è costante (e pari a
N A2 k02 ), dunque le due tendenze saranno vincolate.
Nel caso di una fibra a singolo modo, ottenibile con un raggio a ed
un’apertura numerica N A piccoli, o lavorando a lunghezze d’onda sufficientemente alte, la soluzione prevede soltanto un modo, quello corrispondente
ad l = 0, che ha una costante di propagazione che dipende dal parametro
V = 2π(a/λ)N A e una distribuzione spaziale trasversa ben approssimabile
con una gaussiana, infatti il fascio passante per la fibra é assimilabile ad
un fascio gaussiano. In particolare si trova che la condizione per avere un
singolo modo è che sia V < 2.4.
Per quanto riguarda la polarizzazione, in una fibra di sezione circolare,
ogni modo ha due stati indipendenti di polarizzaione (nella direzione x e
nella direzione y) con la stessa costante di propagazione, dunque con la stessa energia. In linea di principio non c’è scambio di energia tra i due stati,
cosı̀ che se il fascio entra nella fibra con un certo stato di polarizzazione,
dovrebbe rimanervi; tuttavia bastano delle leggere imperfezioni nella fibra
perchè il modo passi in modo random da uno stato di polarizzazione all’altro, il risultato è che un’onda polarizzata linearmente che incide sulla fibra
ne esce con polarizzazione ellittica. Per ottenere una fibra a mantenimento
di polarizzazione bisogna eliminare la degenerazione tra i due stati diversificando le costanti di propagazione corrispondenti o le due polarizzazioni, ciò
è possibile introducendo un’anisotropia nell’indice di rifrazione o utilizzando
fibre con una sezione trasversa ellittica.
coseno con un’ampiezza che decade: nel limite x 1
Jl (x) ≈ (
2 1/2
1 π
) cos[x − (l + ) ]
πx
2 2
Kl (x) è invece la funzione di Bessel di ordine l del secondo tipo, che decade
esponenzialmente in x; per x 1 ha un andamento del tipo
Kl (x) ≈ (
π 1/2
4l2 − 1 −x
) (1 +
)e
2x
8x
109
La caratteristica di una fibra a singolo modo é di trasmettere un’onda
luminosa, il cosiddetto modo di fibra, che é sempre lo stesso a prescindere
dal campo elettrico entrante nella fibra: il campo elettrico (come il campo magnetico) del fascio trasmesso ha una struttura spaziale trasversa ben
definita (approssimabile con una distribuzione gaussiana), dunque la luce
che viene raccolta da una fibra é data dalla proiezione della distribuzione
spaziale del campo elettrico (e magnetico) sul modo di fibra. Per questo la
distribuzione del campo del fascio raccolto da un lato della fibra è la stessa
del fascio che sarebbe entrato dall’altro lato in direzione opposta, poiché
entrambi corrispondono al modo di fibra. Questo principio puó essere sfruttato per la scelta del volume illuminato in un esperimento di diffusione della
luce: dalla fibra che raccoglierá il fascio diffuso viene lanciato un fascio laser
in modo da visualizzare la direzione e il diametro del fascio diffuso che sará
raccolto.
Le fibre da noi utilizzate sono delle fibre OZ Optics a singolo modo a
mantenimento di polarizzazione, visto che nella tecnica eterodina serve che i
due fasci che interferiscono siano polarizzati, in modo che la somma dei due
campi elettrici non dipenda dai cambiamenti random della polarizzazione dei
fasci nelle fibre. Per focalizzare il fascio che verrá raccolto dalla fibra useremo dei collimatori, costituiti da una lente, che consentono di raccogliere
il fascio da una regione molto collimata lungo l’asse della fibra. Potendo
approssimare il modo di fibra con un fascio gaussiano, la lente del collimatore produrrá un altro fascio gaussiano. Dalla risoluzione delle equazioni di
Maxwell con i parametri tipici delle nostre fibre (a = 1.71̇0−6 m e N A = .11)
e del nostro fascio laser (λ = 633 nm) si trovano i parametri caratteristici
del fascio gaussiano a cui possiamo approssimare il modo di fibra: si trova
W0 = 2.2 µm e z0 = 24 µm; un fascio con tali caratteristiche ha una grande
divergenza angolare e la fibra raccoglierebbe luce da un regione molto grande
non appena ci si sposta dal waist del fascio raccolto. Conoscendo poi la distanza focale della lente del collimatore (35 m in uno e 50 mm nell’altro dei
due collimatori di cui disponiamo), possiamo trovare i parametri caratteristici del fascio gaussiano trasformato dalla lente; ci troviamo nel limite in cui
possiamo approssimare il fascio in prossimitá della lente ad un’onda piana,
per cui per ricavare il waist del fascio gaussiano dopo la lente varrá la (3.4),
dalla (3.3) possiamo poi trovare il parametro z0 . Per il fascio gaussiano raccolto dalla fibra preceduta dal collimatore di focale 35 mm, risulta un waiste
W0 = 3.3 mm e una profonditá di fuoco z0 = 55 m, mentre per il collimatore
di focale 50 mm si ha W0 = 4.8mm e z0 = 112 m. Data la lunghezza della
profonditá di fuoco ci troveremo molto vicino al waist del fascio, dove l’onda
é approssimabile con un’onda piana. I collimatori sono stati scelti affinché
110
il waist del fascio raccolto fosse abbastanza largo, per avere un volume illuminato che comporti un tempo di transito lungo per le particelle del fluido
sotto shear.
3.5
Il campione utilizzato
Il campione da noi utilizzato è un prototipo classico di sistema colloidale:
palline di latex di polistirene in sospensione in una soluzione di glicerolo e
acqua, o semplicemente in acqua distillata. Il glicerolo (C3 H5 (OH)3 anche
detto glicerina, una sostanza spesso usata nei cosmetici a causa delle sue
proprietà igroscopiche) è un sistema vetroso. Le sferette di polistirene (è un
polimero) utilizzate hanno un diametro di 1, 05 mum, se immerse in acqua
o in glicerolo sono caratterizzate da una dinamica diffusiva, infatti sono
spesso utilizzate per lo studio dei moti Browniani. A volte é stato usato
un campione di palline di latex di diametro 481 nm in acqua distillata. Per
le misure preliminari di fotocorrelazione per testare l’apparato sperimentale
abbiamo utilizzato una delle due sospensioni, che rientrano in quella classe
di sistemi, le soluzioni diluite, di cui abbiamo presentato le caratteristiche
in 2.4: essendo la viscosità del glicerolo diluito da noi utilizzato maggiore di
quella dell’acqua di tre ordini di grandezza (dipende dalla concentrazione in
volume di glicerolo), abbiamo scelto, nei vari casi, il campione più adatto,
tenendo conto dei diversi tempi di decadimento delle funzioni di correlazione
corrispondenti.
La sospensione delle palline di latex in glicerolo diluito con acqua, come
anche quella in acqua distillata, costituisce un sistema colloidale, le cui caratteristiche idrodinamiche sono quelle di un fluido newtoniano: la sua viscosità
è indipendente dalle sollecitazioni esterne. Poichè il campione di acqua e
palline di latex scivolava sui piatti della cella a velocità di rotazione elevate
del disco, abbiamo scelto il campione di glicerolo, di viscosità maggiore, per
misurare il profilo di velocità del flusso all’interno della cella.
Il campione che sarà adatto invece allo studio della relzione tra il tempo
di rilassamento strutturale e il tasso di shear nei sistemi stazionari fuori equilibrio, è la laponite [11], un colloide che invecchia alla temperatura ambiente
e presenta effetti di shear thinning.
111
Capitolo 4
Misure preliminari per la
caratterizzazione
dell’apparato sperimentale
L’apparato sperimentale per le misure di fotocorrelazione è stato interamente implementato nel corso di questo anno di lavoro. Si sono allora resi
necessari degli studi preliminari per testare e perfezionare le sue proprietà e
per familiarizzare con la tecnica di fotocorrelazione, in particolare ci siamo
soffermati sul metodo omodino: una volta misurato il profilo di velocità del
fluido all’interno della cella con la tecnica eterodina, ci serviremo del metodo omodino per misurare il tempo di rilassamento strutturale di un sistema
sotto shear. In questo capitolo abbiamo raccolto tutte le misure realizzate
su di un campione all’equilibrio non sottoposto a shear, per approfondire
vari aspetti relativi alla tecnica sperimentale implementata, lo studio non è
propedeutico alla comprensione dei risultati, esposti nell’ultima parte (5) del
lavoro, delle misure in eterodina sul profilo di velocità del flusso all’interno
della cella.
Presenteremo in 4.1 un’analisi della funzione di correlazione misurata in
base alla lunghezza scelta per gli impulsi del segnale in ingresso del correlatore; in 4.2 discuteremo della forma della funzione di correlazione; mentre
in 4.3 mostreremo dei dati relativi allo studio, presentato in 2.3.3, sull’intercetta della funzione di correlazione in funzione del numero di aree di coerenza che illuminano la superficie del fotocatodo; infine presenteremo le misure
sulla statistica dei fotoconteggi che confermeranno gli studi presentati in 2.6.
112
1.0
∆t=3000 ns
∆t=900 ns
∆t=500 ns
∆t=200 ns
∆t=100 ns
∆t=50 ns
∆t=30 ns
fit su ∆t=30 ns:
0.8
C(t)
0.6
0.4
C(t)=A1exp(-t/t0)
A1=0,854 t0=174 µs
0.2
0.0
-5
10
-4
10
-3
10
-2
10
-1
10
t (s)
Figura 4.1: Funzione di correlazione dell’intensità del segnale, con valore asintotico posto a zero, ottenuta con la tecnica omodina per diverse lunghezze
degli impulsi del segnale correlato. Il campione è una sospensione di palline
di latex in acqua distillata. I dati relativi alla lunghezza degli impulsi più
piccola sono stati analizzati tramite un fit esponenziale, per ricavare il valore
dell’intercetta della funzione di correlazione.
4.1
Dipendenza della funzione di correlazione dei
fotoconteggi dalla lunghezza degli impulsi
Per evitare che nel correlatore, con la modalità dell’algoritmo in tempo
(descritta in 3.2.3), si abbiano degli errori di sovrascrittura del FIFO, che
potrebbero alterare la funzione di correlazione a tempi corti, serve che gli
impulsi che costituiscono il segnale da correlare siano più lunghi rispetto
agli impulsi in uscita dal fotomoltiplicatore. Tuttavia, allungando la durata
degli impulsi in uscita dal fotomoltiplicatore tramite un discriminatore, si
osserva una diminuzione dell’ampiezza della funzione di correlazione all’aumentare della lunghezza degli impulsi mandati al correlatore, come mostra
la figura 4.1. Come è spiegato in 2.3.3, siamo interessati ad un’intercetta
della funzione di correlazione più alta possibile; con degli impulsi di larghezza ∆t = 200 ns non si hanno, nel correlatore, errori di sovrascrittura del
113
FIFO, mentre il valore dell’intercetta raggiunge un valore sufficientemente
alto: come mostra la figura 4.1 per tale valore della larghezza dell’impulso,
l’intercetta è già saturata al valore massimo; per questo, per usare l’algoritmo in tempo abbiamo scelto una larghezza ∆t = 200 ns per gli impulsi da
mandare al correlatore. Nella modalità multitau invece, non presentandosi
problemi di sovrascrittura del FIFO, si è scelto ∆t = 30 ns.
Per spiegare i risultati sperimentali appena esposti, forniremo ora, tramite
un calcolo teorico approssimato, una relazione tra la funzione di correlazione
e la larghezza degli impulsi all’ingresso del correlatore. Se il segnale da correlare è costituita da impulsi di lunghezza ∆t, per trovare un impulso centrato
ad un certo tempo t, si dovrà non avere un impulso centrato in un istante
appartenente all’intervallo [t − ∆t, t]. Se I(t) è l’intensità del segnale e α
è l’efficienza quantica, la funzione di correlazione calcolata dal correlatore,
che si può intendere come la probabilità di avere due fotoconteggi separati
da una certa distanza temporale τ , sarà
i(t)i(t + τ ) = (1 − α
t
t−∆t
I(t )dt )αI(t)(1 − α
t+τ
t+τ −∆t
I(t )dt )αI(t + τ )
per procedere nel calcolo consideriamo l’intensità costante nell’intervallo ∆t,
tale approssimazione è giustificabile come segue:
(I(t ) − I(t))2 = 2I 2 − 2I(t)I(t )
= 2[2I2 − I2 (t − t )] ≈ 0 se t − t < τc
dove τc è il tempo di decadimento della funzione di correlazione, sicuramente maggiore di ∆t, I2 (t − t ) è definita dalla (2.16) supponendo il sistema stazionario e, considerando valida l’approssimazione gaussiana, si è
posto I 2 = 2I2 . Tornando allora alla funzione di correlazione, possiamo
t
I(t )dt = ∆tI(t), si trova cosı̀
porre t−∆t
i(t)i(t + τ ) = α2 I(t)I(t + τ ) − α3 ∆t[I 2 (t)I(t + τ ) + I(t)I 2 (t + τ )] + o(α4 )
trascurando gli ordini superiori ad α3 , si ottiene che la diminuzione dell’ampiezza della funzione di correlazione risulta lineare in ∆t.
4.2
Forma della funzione di correlazione
Analizzeremo ora le caratteristiche della forma della funzione di correlazione
per il nostro campione. Come si vede dal fit della figura 4.1, la funzione
114
di correlazione ha un andamento esponenziale, come previsto in 2.4 per le
soluzioni diluite. Quando nel campione sono presenti molte impurezze, anche queste, oltre alle palline di latex, contribuiranno alla diffusione; il tempo
di decadimento della funzione di correlazione per soluzioni diluite dipende
dal raggio delle particelle in sospensione (par. 2.4), se sono presenti particelle di diverse dimensioni (palline di latex e impurezze), la funzione di
correlazione non ha più un unico tempo di decadimento, dunque la sua forma non è più data da un singolo esponenziale; per questo è importante che
il campione sia pulito e non venga esposto alla polvere. Si trova che l’intercetta della funzione di correlazione è modificata dalla presenza di un fondo
incoerente nella luce da correlare; in particolare, maggiore è il contributo
del fondo incoerente, minore sarà l’intercetta, per questo durante le misure
è bene eliminare ogni sorgente di luce a parte il fascio diffuso dal campione. Daremo ora una spiegazione del fenomeno descritto tramite un calcolo
teorico approssimato.
Se l’intensità della luce è data dalla somma di una sorgente di luce incoerente (Ii ) e di una sorgente (il campione) per cui valga l’approssimazione gaussiana (Ig ): I = Ii + Ig con Ig Ii , la funzione di correlazione normalizzata
al tempo t = 0 risulta essere
C(0) =
≈
Ig2 + Ii2 + 2Ig Ii I 2 =
I2
Ig 2 + Ii 2 + 2Ig Ii Ig2 + 2Ig Ii Ig2 + 2Ig Ii Ii ≈
)
(1 − 2
2
2
Ig (1 + 2Ii /Ig )
Ig Ig ≈ 2(1 −
Ii )
Ig dove abbiamo trascurato gli infinitesimi al secondo ordine di Ii /Ig e si è
utilizzata l’approssimazione gaussiana per cui Ig2 = 2Ig 2 . Un’intercetta
bassa sarà quindi dovuta a dei contributi di luce incoerente, alcuni dei quali
saranno impossibili da annullare: la luce riflessa dalle pareti della cella che
contiene il campione, ad esempio, dà un fondo incoerente che si somma alla
luce diffusa dal campione, anche la luce diffusa dalle particelle del solvente,
che è scorrelata da quella diffusa dalle palline di latex, potrebbe contribuire
al fondo incoerente.
Un’altra caratteristica che si è presentata nella funzione di correlazione
misurata, sono delle oscillazioni su tempi dell’ordine delle decine di millisecondi: effettivamente, bisogna tener conto del fatto che le vibrazioni mec115
caniche degli strumenti utilizzati nell’esperimento possono riflettersi sulla
funzione di correlazione, modificandone la forma con delle oscillazioni; per
questo durante un esperimento di questo tipo si cerca di minimizzare le
vibrazioni del tavolo su cui viene realizzato l’esperimento.
Tuttavia la funzione di correlazione presentava delle oscillazioni a tempi
corti (sulla scala delle decine di millisecondi), tipici delle vibrazioni meccaniche, che persistevano anche quando si cercava di minizzare le oscillazioni
del tavolo. Si è risolto il problema cambiando geometria di raccolta, passando cioè dalla configurazione lente - pine-hole - pine-hole a quella con la
lente tra i due diaframmi. Nella prima configurazione le oscillazioni del primo pine-hole potevano provocare forti variazioni della posizione del volume
illuminato da questo selezionato, mentre nel secondo caso le molecole del volume illuminato vengono prima defocalizzate dalla lente di apertura ridotta,
cosı̀ che quando il secondo pine-hole deve selezionare il volume illuminato,
ad ogni centro diffusore corrisponde un cerchio e le oscillazioni non riescono
a superare l’estensione del cerchio, cosı̀ che il volume illuminato non subisce
forti variazioni.
4.3
Intercetta della funzione di correlazione in funzione del numero delle aree di coerenza
Un altro effetto che determina il valore dell’intercetta della funzione di correlazione è dovuto al numero di aree di coerenza sulla superficie del fotocatodo,
come mostra la (2.27). Per verificare la validità di tale formula, abbiamo
realizzato delle misure di fotocorrelazione omodina su una sospensione di
palline di latex, utilizzando la geometria di raccolta del segnale lente - pinehole - pine-hole. Le dimensioni dell’area di coerenza sono determinate, come
descritto in 2.3.3, dall’angolo di coerenza selezionato dall’ultimo pine-hole
(quello prima del rivelatore), dunque dalle sue dimensioni Φp . Si è scelta una
giusta distanza tra il rivelatore e l’ultimo pine-hole perchè il fascio diffratto dal pine-hole fosse interamente contenuto sulla superficie del fotocatodo,
anche la distanza R tra lente e pine-hole è stata scelta in modo che l’area
di coerenza fosse dell’ordine delle dimensioni della superficie del fotocatodo
Ar : se l’angolo di coerenza è θ = λ/Φp , l’area di coerenza viene ad essere
Ac ∼ (θR)2 = (λR/Φp )2 . La (2.27) si potrà scrivere allora in funzione delle
dimensioni del pine-hole:
f (Φp ) =
1
√
1 + (λR/( Ar ))−2 Φ2p
116
(4.1)
1.0
0.9
dati
0.8
fit β=A0/(1+(φp/A1) )
A0=0.89 A1=149 µm
2
0.7
β
0.6
0.5
0.4
0.3
0.2
0
50
100
150
200
φp (µm)
Figura 4.2: Valore della funzione di correlazione al tempo zero ( β) in
funzione delle dimensioni del pine-hole, con il fit suggerito dalla (4.1).
Nella figura 4.2 i dati dell’intercetta della funzione di corelazione (a cui si è
sottratto 1) in funzione delle dimensioni del pine-hole sono analizzati con una
per il parametro A1
funzione del tipo y = A0 /(1 + (x/A1 )2 ), i valori ottenuti
√
sono consistenti con il valore calcolato da (λR/( Ar ), come previsto dalla
(4.1).
4.4
Distribuzione dei fotoconteggi
Un’altro aspetto dell’apparato sperimentale che è stato da noi approfondito
è lo studio della statistica dei fotoconteggi prodotti dal fotomoltiplicatore
tramite il processo di fotoemissione, con la luce che incide sulla superficie
del rivelatore costituita da una sorgente termica. Alcune delle previsioni
teoriche presentate in 2.6.1 a questo riguardo sono state verificate da misure sulla distribuzione dei fotoconteggi generati da un campione di palline
di latex in acqua. E’ utile ricordare l’espressione della distribuzione dei fotoconteggi p(n, T ), che rappresenta la probabilità di trovare n fotoconteggi
nell’intervallo di tempo T , per un tempo arbitrario rispetto al tempo di
117
correlazione Tc :
1
1
(N + n − 1)!
n
N (1 + N )n
(N − 1)!n! (1 +
n
N )
p(n, T ) =
(4.2)
dove il parametro N , espresso dalla (2.61), è ricavabile dalla funzione di
correlazione del sistema; rispetto al caso teorico discusso in 2.6.1, la funzione
di correlazione misurata differirà dalla (2.60) per un’ampiezza β < 1 davanti
all’esponenziale (ricavabile dal fit esponenziale della figura 4.3), per cui il
parametro N diventa
N= T T
0
0
T2
|t−t |
−2 T
c
β2e
=
dt dt
1
β 2 ( TTc +
Tc2
−2 TT
c
(e
2
2T
− 1))
(4.3)
Abbiamo misurato la distribuzione dei fotoconteggi fissando diversi valori per T , in ogni caso abbiamo studiato il regime T > Tc . Dato il tempo
di correlazione per il nostro campione, non è possibile mettersi nel regime
T < Tc , in quanto si avrebbe un numero troppo piccolo di canali occupati
nell’istogramma della distribuzione (si veda, ad esempio, la figura 4.4); d’altronde non è neanche possibile aumentare troppo il numero di conteggi per
secondo cps, perchè il laser non arriva oltre ad una potenza di qualche decina
di milliwatt. Nelle nostre misure il numero di conteggi al secondo è stato
fissato regolando la potenza del fascio diffuso dal campione in modo da avere
sempre abbastanza canali dell’istogramma popolati. L’unica possibilità per
verificare la validità della 4.2 nel regime T < Tc starebbe nel cambiare campione per aumentare Tc (ad esempio aumentando la viscosità del solvente o
la dimensione delle palline del soluto).
Nelle figure 4.4, 4.5, 4.6 e 4.7 sono riportate le misure ottenute, confrontate con la distribuzione teorica ottenuta dalla (4.2) avendo calcolato il parametro N per i diversi valori di T dalla (4.3). Per alleggerire il
calcolo
√ della (4.2) per N molto grande si è fatto uso dell’approssimazione
k! ≈ 2πkk+1/2 e−k per k 1, per cui si ha
N 1
p(n, T ) → √
N −1
1
n
(
+ 1)N +n−1/2 (
)N −1/2
n
N
−
1
2πn
(4.4)
Risulta un buon accordo tra le previsioni teoriche per la distribuzione dei
fotoconteggi e i dati misurati, il che conferma un buon funzionamento del
fotomoltiplicatore, del correlatore e in generale dell’apparato sperimentale
implementato.
118
10 6
10 3
time ( s)
10 4
10 5
1s
1.2
1.4
1.6
1.8
10 1
10 2
1 ms
g(2)
Figura 4.3: Funzione di correlazione per una sospensione di palline di latex
in acqua con fit esponenziale: y = A0 + βexp(−t/Tc ), i parametri del fit che
ci interessano sono Tc = 2, 1 ms e β = 0, 84.
119
40
30
n
20
10
0
0.02
0.04
0.06
0.08
0.10
0.12
P(n)
Figura 4.4: Distribuzione dei fotoconteggi con T = 0, 0001s, da cui N = 1, 5,
il numero di fotoconteggi medi al secondo é cps ∼ 56000. I cerchi sono i dati,
i quadrati sono la distribuzione teorica calcolata con la (4.2).
120
40
n
30
20
10
0
0.01
0.02
0.03
0.04
0.05
0.06
0.07
P(n)
Figura 4.5: Distribuzione dei fotoconteggi con T = 0, 001 s, da cui N = 1, 9,
il numero di fotoconteggi medi al secondo é cps ∼ 10000. I triangoli singoli
sono i dati, i triangoli doppi sono la distribuzione teorica calcolata con la
(4.2).
121
40
30
n
20
10
0
0.01
0.02
0.03
0.04
0.05
0.06
0.07
P(n)
Figura 4.6: Distribuzione dei fotoconteggi con T = 0, 01 s, da cui N = 7, 4,
il numero di fotoconteggi medi al secondo é cps ∼ 1300. I triangoli sono i
dati, i quadrati sono la distribuzione teorica calcolata con la (4.2).
122
2000
1500
n
1000
500
0.0005
0.0010
0.0015
0.0020
0.0025
0.0030
P(n)
Figura 4.7: Distribuzione dei fotoconteggi con T = 0, 1 s, da cui N = 67, il
numero di fotoconteggi medi al secondo é cps ∼ 10000. I cerchi sono i dati,
i rombi sono la distribuzione teorica calcolata con la (4.4).
123
Parte III
Risultati sperimentali
124
Capitolo 5
Misura del profilo di velocità
di un fluido complesso sotto
shear tramite
fotocorrelazione eterodina
Come emerge dagli studi su fluidi complessi sottoposti a shear, che vengono
portati in stati stazionari fuori equilibrio, il parametro fondamentale che
regola la scala di tempo caratteristica della dinamica strutturale del sistema
è il tasso di shear γ̇ (par. 1.3). E’ nostro interesse utilizzare una cella per
misure sotto shear costituita da due dischi rotanti, in cui il tasso di shear
non è uniforme e non è direttamente calcolabile dai parametri caratteristici della cella, come nel caso di un profilo di velocità lineare. Tuttavia, in
un esprimento di fotocorrelazione sotto shear per lo studio dei sistemi in
stati stazionari fuori equilibrio, si può considerare il tasso di shear uniforme
nella piccola regione in cui si misura la funzione di correlazione (il volume
illuminato), bisognerà allora misurarne il valore. In particolare misureremo
il profilo di velocità all’interno della cella cosı̀ che, conoscendo la velocità
media nel volume illuminato e trascurando la non linearità in tale regione,
potremo calcolare il valore del tasso di shear nel volume illuminato. In effetti, misure di velocimetria su fluidi complessi destano un certo interesse
scientifico, come dimostrano i recenti lavori in letteratura: in particolare si
veda [14], in cui è presentato uno studio, tramite fotocorrelazione eterodina,
del profilo di velocità di un fluido complesso posto sotto shear in una cella
di Couette. Conoscendo il parametro di controllo γ̇, si potrà procedere allo
studio dei fluidi complessi sotto shear tramite fotocorrelazione, che rappre125
senta l’obiettivo di un lungo studio, la cui fase iniziale costituisce il lavoro
di questa tesi.
Nel seguito descriveremo la messa a punto della tecnica di fotocorrelazione eterodina, che permette di misurare la velocità con cui si muovono
le particelle del fluido sotto shear, poi presenteremo i risultati ottenuti dalle
misure di velocimetria sul campione sottoposto a shear nella cella rotante.
5.1
Misure di fotocorrelazione con tecnica eterodina
Nell’apparato sperimentale per realizzare misure di fotocorrelazione con tecnica eterodina il fascio laser viene diviso in due parti tramite beam un splitter
80/20, cosı̀ che il fascio incidente sia in parte rifratto (con una percentuale
dell’80% in intensità) per proseguire nella stessa direzione, e in parte riflesso (il restante 20%). Quest’ultimo colpisce poi il campione, mentre l’altro
viene attenuato tramite filtri o pine-hole (che diffrangono il fascio e dunque
ne riducono l’intensità nella direzione di propagazione) e costituirà l’oscillatore locale. Il fascio diffuso e quello rifratto vengono raccolti attraverso
delle fibre ottiche a singolo modo, ognuna preceduta da un collimatore, le
caratteristiche dei fasci collimati raccolti dalle fibre sono descritte in 3.4;
il collimatore con focale minore, che raccoglie un fascio piú stretto, viene
utilizzato per raccogliere il fascio diffuso, in modo da avere un volume illuminato di dimensioni sufficientemente piccole rispetto alla distanza tra i
piatti che contengono il campione. Le fibre sono a singolo modo e a mantenimento di polarizzazione, e costituiscono l’ingresso di un beam splitter FOBS
OZ, che consiste in due semicubi di vetro uniti a formare un cubo su di una
faccia diagonale, le fibre sono già allineate su di esso in modo che i due fasci
vengano sovrapposti a causa della rifrazione e riflessione a 90◦ sulla faccia
diagonale e vengono trasmessi, con un’altra fibra in uscita dall’opportuna
faccia del beam splitter, al fotomoltiplicatore. Affinchè i due fasci raccolti e
poi sovrapposti siano coerenti, il cammino percorso da ognuno viene scelto
della stessa lunghezza a meno di un paio di centimetri, affinchè si trovino
all’interno della stessa lunghezza di coerenza del fascio laser (∆lc ∼ 30 cm
dal par. 3.1). Per scegliere e visualizzare il volume illuminato, il fascio dell’oscillatore locale viene lanciato nella fibra che raccoglierà il fascio diffuso,
che viene regolata in modo che la luce laser cosı̀ emessa intersechi il fascio
incidente nel campione nella regione che vogliamo diventi il volume illuminato, dato che la zona da cui la fibra raccoglierà luce coincide con quella
illuminata dal fascio laser lanciato.
126
Abbiamo constatato che una condizione fondamentale per la riuscita di
un esperimento in eterodina è che le oscillazioni meccaniche o termiche dei
vari strumenti utilizzati per la raccolta della luce siano molto piccole. Infatti, se ad esempio si hanno delle oscillazioni meccaniche indipendenti per
i due collimatori collegati alle fibre di raccolta dei due fasci, la differenza
di fase Φl tra i due campi, cioè la differenza di cammino ottico tra i fasci, diventa dipendente dal tempo. Un altro effetto che può far variare la
differenza di cammino ottico è la dilatazione termica, che avviene in modo
indipendente nelle due fibre a causa di fluttuazioni della temperatura nel
tempo: nonostante la dilatazione termica del vetro, di cui sono costituite
le fibre, sia inferiore a quella del metallo di cui sono costituiti i supporti
degli strumenti, le fibre sono notevolmente più lunghe (hanno tutte la stessa
lunghezza di 1m) e si dilatano maggiormente. Ricordando il calcolo con cui
si è ricavata l’espressione della funzione di correlazione in un esperimento
eterodino in 2.3.2, si troverà che nell’ultimo termine della (2.19), all’interno
della parte reale, comparirà il fattore ei(Φl (t)−Φl (0)) , che risultava nullo nel
caso di differenza di fase costante tra i due fasci. Se Φl (t) − Φl (0) oscilla fino
a 2π, il termine eterodino si annullerà (perchè il nuovo fattore è indipendente
dagli altri e la sua media vale zero) e, a parte i termini costanti, rimarrà
soltanto il termine omodino dipendente dal tempo, che avevamo trascurato
nella (2.19), essendo la sua ampiezza molto piú piccola di quella del termine
eterodino: |E0 |4 |E0 |2 |Elo |2 . Per cambiare la fase di 2π, se pensiamo
a delle oscillazioni nella direzione del fascio che viene raccolto, l’ordine di
grandezza dello spostamento dovrà essere di ∆r tale che k · ∆r = 2π, dove k
è il vettore d’onda del fascio, che abbiamo supposto parallelo a ∆r; basterà
allora che l’ampiezza delle fluttuazione sia pari a λ = 2π/k perchè il termine
I1 (t) che si vorrebbe misurare venga mediato a zero.
Effettivamente le prime misure di fotocorrelazione in eterodina da noi
realizzate su di un campione di palline di latex in acqua all’equilibrio non
hanno dato buoni risultati, evidentemente a causa di oscillazioni meccaniche
che facevano annullare il termine eterodino e comparire quello omodino nella
funzione di correlazione, il tempo di rilassamento, invece di raddoppiare
(come previsto dai risultati presentati in 2.4) rimaneva infatti uguale a quello
misurato con la tecnica omodina sullo stesso campione. Per verificare che
fosse proprio una fluttuazione della differenza di fase ad annullare il termine
eterodino, abbiamo costruito un interferometro, che è in grado di misurare
la differenza di fase tra due fasci che interferiscono.
127
5.1.1
Costruzione di un interferometro
L’interferometro che abbiamo costruito funziona in modo simile al famoso
interferometro di Michelson, che dimostrò l’inesistenza di un sistema di riferimento privilegiato e invalidava le leggi di trasformazione galileiane. Il fascio laser, dopo essere attenuato, viene diviso in due da un beam splitter e
le fibre di raccolta per i due fasci sono poste in modo che i due abbiano
percorso la stessa lunghezza sulla scala del cm e si trovino all’interno della
stessa lunghezza di coerenza; le due fibre incidono su due facce di un altro
beam splitter che sovrappone i fasci e li fa incidere, tramite un’altra fibra,
sulla superficie del fotocatodo. La somma di due onde elettromagnetiche
monocromatiche tra di loro coerenti dà luogo ad uno spettro di interferenza;
infatti, dati i due campi con differenza di fase ϕ(t)
E1 (t) = E10 ei(ω0 t+ϕ(t))
E2 (t) = E20 ei(ω0 t)
l’intensità I del fascio ottenuto dalla loro sovrapposizione sarà
I = (E1 + E2 )∗ (E1 + E2 ) = I1 + I2 + 2 I1 I2 cos ϕ(t)
(5.1)
con I1 = (E10 )2 e I2 = (E20 )2 ; ponendo I1 = I2 si ha I = 2I1 (1 + cos ϕ(t).
Del fascio somma si misura allora il numero di fotoni n nell’unità di tempo
T , che è proporzionale ad I, infatti, essendo l’intensità del laser costante:
n = α 0T I(t )dt = αIT (dalla (2.43)). La (5.1) si può allora scrivere
nella stessa forma per il numero di fotoni n1 , n2 dei due fasci e n del
fascio sovrapposizione. Ponendo n1 = n2 si osservano delle fluttuazioni
di n sulle scale di tempo della decina di secondo e i valori nmin e nmax
tra cui oscilla sono contenuti nell’intervallo [0, 4n1 ], come mostra la figura
5.1, il risultato rimane invariato variando di qualche decimo di millimetro la
posizione di una delle due fibre. Ciò significa che l’oscillazione è dovuta ad
una fluttuazione della fase nel tempo che supera 2π indipendentemente dalla
differenza di cammino ottico. Le oscillazioni nel numero di conteggi sono su
scale di tempo molto più lunghe di quelle tipiche delle vibrazioni meccaniche
e sono dovute a fluttuazioni di temperatura nell’ambiente, che provocano la
dilatazione o contrazione delle due fibre di raccolta in modo indipendente e
generano una variazione della differenza di cammino ottico tra i due fasci
superiore a λ e dunque tale da variare la fase oltre a 2π. Infatti, riscaldando
rapidamente una delle due fibre, le oscillazioni diventano molto più frequenti,
poichè si crea una dilatazione della fibra molto più rapida rispetto a quella
128
dovuta alle fluttuazioni termiche nell’ambiente, che supera diverse lunghezze
d’onda λ in poco tempo; infatti, dal coefficiente di dilatazione della silice, si
trova che per una fibra lunga un metro, tenendo conto dell’indice di rifrazione
della silice ns , basta una variazione di temperatura di mezzo grado per
ottenere una dilatazione ∆L che provochi una differenza di cammino ottico
∆Lns pari ad una lunghezza d’onda del fascio laser. Il fatto che i valori
del massimo e del minimo numero di conteggi non coincidano con 4n1 e
0 fa pensare alla presenza di un fattore davanti al coseno: n = 2n1 (1 +
a cos ϕ(t)), che potrebbe coincidere con l’espressione dell’interferenza per
onde non perfettamente monocromatiche: il fattore a riduce il contrasto
tra le frange minime e massime ed è un indice della non monocromaticità
dell’onda [44]. In realtà, variando il tipo di sollecitazioni meccaniche che
creano delle vibrazioni del banco ottico su cui sono poggiati gli strumenti,
l’ampiezza delle oscillazioni variava, in particolare diminuiva fino quasi a
non poter più distinguere delle oscillazioni regolari se si accendevano delle
forti sollecitazioni meccaniche. Mostreremo ora come variando l’ampiezza
delle oscillazioni meccaniche possa variare l’ampiezza dell’oscillazione del
numero di fotoconteggi. Supponiamo che la differenza di fase tra i due
fasci possa variare attorno ad un valore medio a causa di due contributi:
le oscillazioni meccaniche, che generano una differenza di fase ϕ1 (t), e le
oscillazioni termiche, che generano una differenza di fase ϕm (t) che, con
l’aggiunta del valore medio, chiameremo ϕ2 (t) = ϕ(t) + ϕm (t). Il coseno
della (5.1) si potrà allora scrivere come
cos(ϕ1 (t) + ϕ2 (t)) = cos ϕ1 (t) cos ϕ2 (t) − sin ϕ1 (t) sin ϕ2 (t)
Il numero di fotoconteggi viene mediato su di un tempo che è solitamente
fissato ad un secondo e la scala di tempo caratteristica delle oscillazioni meccaniche è tipicamente molto più piccola (circa 10−3 s), mentre le oscillazioni
termiche hanno un periodo di qualche decina di secondo, dunque i fattori
con ϕ1 dovranno essere mediati nel tempo. Se ϕ1 (t) variasse oltre a 2π non
osserveremmo le oscillazioni del numero di fotoconteggi sui tempi della decina di secondi, perchè il termine con il coseno verrebbe mediato a zero in un
tempo inferiore ad un secondo, dunque le oscillazioni meccaniche provocano
una fluttuazione della differenza di fase intorno allo zero in un intervallo inferiore a 2π, sarà allora sin ϕ1 = 0, mentre cos ϕ1 sarà tanto più piccolo
quanto più sono ampie le oscillazioni di ϕ1 intorno a zero. Invece dell’espressione (1 + a cos ϕ(t)) per stabilire l’ampiezza delle oscillazioni del numero di
fotoconteggi, si avrà (1 + cos ϕ1 cos ϕ2 (t)) e si spiegherebbe perchè accendendo più sollecitazioni meccaniche del tavolo l’ampiezza delle oscillazioni
del numero di fotoconteggi decade. Se l’oscillazione della fase fosse soltanto
129
45
N/10
3
36
27
18
9
2400
2600
2800
3000
t(s)
Figura 5.1: Oscillazione del numero di fotoconteggi del fascio ottenuto dall’interferenza di due fasci laser, a causa della fluttuazione della differenza
di cammino ottico. I dati sono stati acquisiti senza aggiungere ulteriori
sollecitazioni meccaniche al banco ottico.
su scale di tempo lunghe, la funzione di correlazione, che decade in tempi
molto più corti, non ne risulterebbe influenzata perchè vedrebbe una fase
costante, cosı̀ il termine eterodino non si annullerebbe. Tuttavia, oltre alle
oscillazioni termiche a tempi lunghi si hanno le oscillazioni meccaniche, che
sono responsabili del fallimento dei primi tentativi di fotocorrelazione in
eterodina. In effetti avevamo utilizzato un laser le cui ventole di raffreddamento provocavano forti vibrazioni del tavolo, cambiando laser le oscillazioni a tempi lunghi nel numero di conteggi rimanevano, ma la funzione di
correlazione riusciva a misurare il termine eterodino, perchè le oscillazioni
meccaniche erano diminuite notevolmente. La funzione di correlazione del
fascio nell’interferometro presenta in effetti delle oscillazioni su due scale di
tempo ben separate, come mostra la figura 5.2: l’oscillazione a tempi corti ha un’ampiezza che dovrebbe indicare l’entità delle fluttuazioni di natura
meccanica1 e il tempo dell’oscillazione dovrebbe corrispondere al loro tempo
1
Scriviamo l’intensità del fascio dato dalla (5.1) come la somma di un termine costante
e un termine che fluttua nel tempo: I = I + δI(t), con δI(t) = 0 . L’intercetta della
130
1.12
singolo fascio
senza vibrazioni
con vibrazioni
tavolo sospeso senza vibrazioni
tavolo sospeso con vibrazioni
1.10
C(t)
1.08
1.06
1.04
1.02
1.00
0.98
0.96
1E-6
1E-5
1E-4
1E-3
0.01
0.1
1
t(s)
Figura 5.2: Funzione di correlazione del fascio ottenuto dall’interferenza di
due fasci laser: le misure sono ottenute con le ventole di raffreddamento di
un laser spente e poi accese per generare delle forti oscillazioni meccaniche, le
stesse misure sono state realizzate con il banco ottico sospeso per attenuare
le oscillazioni meccaniche. Le due funzioni di correlazione con le ventole
spente non sono ben normalizzate.
caratteristico, la seconda oscillazione provoca un decadimento della funzione
di correlazione a tempi superiori al secondo e corrisponde alle fluttuazioni
termiche, infatti rimane invariata se si accendono delle sollecitazioni meccaniche. Attivando le ventole di raffreddamento del laser con cui non si
riusciva a misurare il termine eterodino, le oscillazioni meccaniche risultano
più ampie e più frequenti e si spiega l’impossibilità di ottenere delle misure in
eterodina. Per minimizzare le oscillazioni meccaniche il banco ottico su cui
poggiano gli strumenti può essere sollevato su dei cuscinetti di aria compresfunzione di correlazione del segnale di intensità I sarà
δI 2 I 2 =
1
+
I2
I2
Maggiore è l’intervallo su cui varia la differenza di fase, maggiore sarà δI 2 , dunque
l’intercetta della funzione di correlazione risulterà più alta.
131
1.2
2
|gete(t)|
gomo(t)
1.0
2
fit |gete(t)|
fit gomo(t)
τomo=3.69 10 s
-3
0.8
τete=7.35 10 s
τete/τomo=1.99
C(t)
-3
0.6
0.4
0.2
0.0
1E-5
1E-4
1E-3
0.01
0.1
t(s)
Figura 5.3: Verifica della validità dell’approssimazione gaussiana per una
soluzione di palline di latex in acqua, tramite la sovrapposizione della funzione di correlazione normalizzata del metodo omodino e di quella del metodo eterodino normalizzata ed elevata al quadrato. Su entrambe le funzioni
di correlazione C(t) calcolate dal correlatore è stato effettuato un fit esponenziale: y = a + be−t/τ e sono state normalizzate calcolando in ogni punto
dell’asse temporale g(t) = (C(t) − a)/b.
sa, che ammortizzano le vibrazioni meccaniche. Si nota che le oscillazioni a
tempi corti con le ventole spente scompaiono, per questo dovremo metterci
in queste condizioni per realizzare le misure in eterodina: manterremo il
tavolo sospeso e utilizzeremo il laser senza ventole di raffreddamento.
5.1.2
Misure in eterodina su di un campione all’equilibrio
Lo studio dell’interferenza di due fasci laser ci ha permesso di capire le condizioni ottimali su cui lavorare per eliminare i problemi dovuti alla fluttuazione della differenza di cammino ottico tra i due fasci che vengono
sovrapposti negli esperimenti di fotocorrelazione in eterodina. E’ stato
necessario l’utilizzo di un laser senza ventole di raffreddamento, per non
provocare delle forti sollecitazioni meccaniche: la lunghezza d’onda del laser
132
He-Ne che utilizzeremo per le misure in eterodina è di 633 nm. Avendo
cosı̀ minimizzato le oscillazioni meccaniche degli strumenti, la misura della
funzione di correlazione eterodina su di un campione di palline di latex in
acqua è stata realizzata con successo. La funzione di correlazione ottenuta
con il metodo omodino sullo stesso campione dava un decadimento esponenziale dal cui fit è stato ricavato il tempo di decadimento τomo , lo stesso è
stato fatto con la funzione di correlazione ottenuta con il metodo eterodino
(τete ): secondo i risultati presentati in 2.4 per soluzioni diluite (che è il caso del nostro campione), si dovrebbe avere, se l’approssimazione gaussiana
risulta valida2 , un decadimento esponenziale per entrambe le funzioni con
τete = 2τomo . Dalle nostre misure abbiamo ottenuto τete /τomo = 1.99.
Tramite l’analisi della due funzioni di correlazione si può verificare la
validità o meno dell’approssimazione gaussiana nel campione scelto. Supponiamo che valga l’approssimazione gaussiana, per cui per le intensità valga
la relazione I 2 = 2I2 e per il decadimento di entrambe le funzioni di correlazione si abbia un andamento esponenziale. Tramite i parametri del fit
esponenziale sulle due funzioni, queste vengono normalizzate ottenendo g2 (t)
(per la tecnica omodina) e g1 (t) (per l’eterodina), in modo da avere un’intercetta pari a uno ed un valore asintotico nullo; dall’espressione della funzione
di correlazione ottenuta con il metodo omodino e con quello eterodino (par.
2.3.2) si trova che le funzioni normalizzate sono esprimibili come:
g2 (t) ≡
I(0)I(t) − I2
I(0)I(t) − I2
=
I 2 − I2
I2
g1 (t) ≡
Re[f ∗ (0)f (t)]
Re[f 2 ]
dove f (t), che supponiamo reale, determina le modulazioni temporali del
campo diffuso Es (t). Se ora prendiamo il modulo quadro di g1 (t), ricordando che E02 f ∗ (0)f (t) = Es∗ (0)Es (t)eiω0 t , troviamo che l’equazione dell’approssimazione gaussiana coincide con l’equazione |g1 (t)|2 = g2 (t):
I(0)I(t)
|E ∗ (0)E(t)|2
=
−1
2
I
I2
Per visualizzare il risultato graficamente abbiamo elevato al quadrato la
funzione di correlazione del metodo eterodino g1 (t), normalizzata tramite i
2
In un sistema vale l’approssimazione gaussiana se il campo elettrico diffuso raccolto
in un punto da un ensemble di sistemi o, se il sistema è stazionario, dallo stesso sistema
a diversi istanti temporali, ha una distribuzione gaussiana.
133
parametri del fit esponenziale, e l’abbiamo graficata insieme alla funzione
del metodo omodino g2 (t), analogamente normalizzata: la figura 5.3 mostra
come le due funzioni ottenute siano perfettamente sovrapposte, ciò indica la
validità dell’approssimazione gaussiana per il nostro campione.
5.2
Misura del periodo delle oscillazioni della funzione di correlazione in un campione sotto shear
La funzione di correlazione ottenuta con il metodo eterodino su di un fluido
con particelle in moto a una velocità uniforme, secondo gli studi del paragrafo 2.5.1, presenta delle oscillazioni, dal cui periodo è ricavabile la velocità
delle particelle di fluido. Il campione che studieremo è una soluzione diluita
di palline di latex in glicerolo con una percentuale del 13% in volume di
acqua. Ricordiamo che l’espressione per il periodo delle oscillazioni cercate
è T = 2π/(q · v), dove q è il vettore d’onda scambiato nella diffusione e v
è la velocità delle particelle che vogliamo misurare, dovremo considerare in
realtà una velocità media all’interno del volume illuminato, visto che avremo un gradiente di velocità non nullo. Una condizione necessaria per poter
osservare le oscillazioni nella funzione di correlazione è che il periodo delle
oscillazioni sia inferiore ai tempi di taglio caratteristici per un campione
sotto shear. Dunque servirà
T < min[τtr , τa , τete ]
Il tempo τete di decadimento della funzione di correlazione per il campione
all’equilibrio è dell’ordine dei secondi e non darà problemi, mentre il rapporto
tra il tempo di taglio dovuto al movimento delle aree di coerenza e il periodo
T è
Lv
2π qy γ̇Lv
T
=
=
τa
qy v 2π
z
dove qy è la proiezione di q nella direzione di v, Lv è la dimensione del
volume illuminato e z la distanza dal disco fermo. Sicuramente ci troveremo
nella condizione Lv /z < 1 e potremo osservare diversi periodi di oscillazione
prima che la correlazione decada. Anche il tempo di transito sarà superiore
al periodo T , il loro rapporto è infatti
2π v
λ
T
=
=
τtr
q y v Lv
nLv cos q
v
dove n = 1.45 è l’indice di rifrazione del glicerolo in acqua all’87%. A
meno che q e v non siano ortogonali, essendo la lunghezza d’onda del laser
λ = 6 · 10−7 m e solitamente Lv > 10−4 m, sarà T < τtr .
134
Abbiamo verificato che il periodo T è più piccolo degli altri tempi di
taglio della funzione di correlazione a causa di altri effetti. Tuttavia T
dovrà essere più grande del tempo minimo (bin) a cui il correlatore comincia
a calcolare la funzione di correlazione, altrimenti le oscillazioni verrebbero
mediate e non sarebbero osservabili. Il bin del correlatore multitau è di 5
µs e non si riesce a correlare a tempi più corti, effettivamente il metodo
multitau è adatto al calcolo della correlazione a tempi lunghi, mentre a
tempi corti non dà una buona risoluzione temporale e le oscillazioni non
sarebbero ben definite. Per questo si è preferito utilizzare il metodo in
numero di conteggi, che comincia a correlare da 4 µs senza dare errori e
mantiene bin di 4 µs su tutto l’asse temporale, dando una buona risoluzione
e permettendo di calcolare meglio il periodo delle oscillazioni. Supponiamo
di prendere un volume illuminato per cui q e v siano paralleli, la velocità
(come somma delle tre componenti assiale, azimutale e radiale) che possiamo
raggiungere nella cella (escludendo la zona in prossimità della finestra) è
dell’ordine dei centinaia di mm/s, dunque il periodo che possiamo ottenere
con questa geometria è T = λ/(nv) ∼ 4 µs. Nella condizione con q e
v ortogonali le oscillazioni non sono osservabili con il nostro correlatore:
anche se cominciassimo a correlare a 4 µs utilizzando il metodo in numero
di conteggi non avremmo abbastanza punti per visualizzare un’oscillazione.
Bisognerà allora mettersi con un angolo tra q e v che si avvicini a 90◦ , in
modo da ottenere un periodo più grande.
Misurando la funzione di correlazione in eterodina sul campione di palline
di latex in glicerolo si osservano delle oscillazioni modulate da una funzione
che decade dopo un paio di periodi. Cercheremo ora un’espressione per
questo inviluppo. Dai risultati mostrati in 2.3.2 si trova che la funzione
di correlazione ottenuta tramite la tecnica eterodina è proporzionale alla
funzione di correlazione delle fluttuazioni di densità:
i(o)i(t) ∝
eiq·(ri (t)−rj (0))
i,j
dove ri (t) è la posizione nell’i-esimo centro diffusore contenuto nel volume illuminato; se le posizioni dei centri diffusori sono statisticamente indipendenti
(come avviene per le soluzioni molto diluite), l’espressione scritta diventa
i
eiq·(ri (t)−ri (0)) =
eiq·v(ri )t =
dr eiq·v(r)t ρ(r)
i
dove abbiamo considerato le particelle del fluido in moto uniforme, mentre
ρ(r) è la densità delle particelle: ρ(r) = i δ(r − ri ). Nel nostro fluido sotto
135
1.00125
dati
fit: C(t) = A + B exp(-t/τ) cos(ωt)
1.00100
1.00075
1.00050
C(t)
1.00025
1.00000
0.99975
0.99950
0.99925
0.99900
0.0000
0.0001
0.0002
0.0003
0.0004
0.0005
t(s)
Figura 5.4: Oscillazioni della funzione di correlazione nel metodo eterodino.
Il campione è una soluzione di palline di latex in glicerolo all’87% in acqua, la
frequenza di rotazione del disco della cella è di 0.671 ± 0.005 Hz, la distanza
del volume illuminato dal centro della cella è di 3, 0 cm.
shear la velocità delle particelle sarà v(r) = v0 + γ̇r, se il vettore q si trova
nel piano x − z (fig. 5.6) e ci limitiamo a questo piano, potremo esprimere
il tensore γ̇ come
γ̇ =
∂vx
∂x
∂vz
∂x
∂vx
∂z
∂vz
∂z
Il prodotto q γ̇r che dovremo calcolare, dove q è un vettore riga e r un vettore
colonna, sarà allora
∂vx
∂vx
∂vz
x+
z) + qz
z
∂x
∂z
∂z
Le oscillazioni della funzione di correlazione misurata hanno una frequenza
ω = q · v, chiamando ωx = qx vx , l’integrale che dovremo calcolare sarà
q · γr = qx (
dx dz ρ(x, z)ei
∂ωx
∂x
xt i ∂ω
zt
∂
e
Se la distribuzione delle particelle nel volume illuminato è indipendente nelle
due direzioni x e y: ρ(x, y) = ρ(x)ρ(y) e le due distribuzioni sono gaussiane
136
Figura 5.5: A causa della rifrazione una traslazione della cella di L provoca
una traslazione del volume illuminato rispetto alla posizione della finestra
di L.
con varianza, rispettivamente, σx e σz , l’integrale diventerà una trasformata di Fourier di una gaussiana (che dà ancora una gaussiana con varianza
inversa):
2 t2 /2
dxdzρσx (x)ρσz (z))ei[(∂ωx /∂x)t]x ei[(∂ω/∂z)t]z ∼ e−σx (∂ωx /∂x)
2 t2 /2
e−σz (∂ω/∂z)
Delle due gaussiane, quella con varianza inferiore è la seconda nel prodotto,
poichè, secondo il profilo di velocità che ci aspettiamo ∂vx /∂x < ∂vx /∂z+ ∂vz /∂z;
dunque l’inviluppo della funzione di correlazione temporale sarebbe una
gaussiana centrata in zero con varianza σ ∝ (∂ω/∂z)−1 . Nel caso in cui
la distribuzione dei centri scatteratori fosse simile ad una lorentziana, la sua
trasformata darebbe un esponenziale, il cui tempo di decadimento sarebbe
proporzionale a (∂ω/∂z)−1 . Effettivamente, sia un esponenziale che una
gaussiana funzionano abbastanza bene come inviluppo del coseno per un fit
sulla funzione di correlazione misurata, abbiamo scelto allora una funzione
di fit della forma y = A+ Be−t/τ cosωt. Secondo il risultato appena ottenuto
il tasso di shear all’interno del volume illuminato dovrebbe determinare la
larghezza dell’inviluppo della funzione di correlazione: la figura 5.15 presenta l’inverso del tempo di decadimento τ (ottenuto dall’analisi della funzione
di correlazione misurata) in funzione della posizione del volume illuminato
all’interno della cella, il relativo andamento della frequenza ω è mostrato
nella figura 5.14, effettivamente si trovano dei minimi della funzione 1/τ in
corrispondenza delle zone in cui la derivata della frequenza è più piccola,
mentre si trova un andamento circa costante in corrispondenza della zona
in cui la derivata della frequenza è costante.
5.3
Misura del profilo di velocità
Con la tecnica interferometrica eterodina per la misura della velocità delle
particelle del fluido sotto shear è possibile misurare le tre componenti del vettore velocità, i cui andamenti teorici, trovati tramite simulazioni numeriche,
sono presentati in 2.5.2. Si può cosı̀ trovare il valore del tasso di shear nel
volume illuminato (assumendo di avere un gradiente di velocità costante in
137
tale regione) e studiare gli effetti di taglio ”spuri” della funzione di correlazione (presentati in 2.5.3), entrambi preliminari allo studio dei sistemi
stazionari di non equilibrio tramite la diffusione della luce.
L’unica componente che sarebbe possibile misurare in maniera diretta è
quella assiale, infatti nella nostra cella per misure sotto shear è possibile raccogliere il fascio diffuso solo frontalmente, dalla finestra ottica (attraversata
dallo stesso fascio incidente) che costituisce il piatto fermo; a causa di questa
configurazione il vettore d’onda scambiato q avrà sempre una proiezione non
nulla lungo la componente assiale della velocità vz . Non potendo misurare le
tre componenti in modo indipendente, abbiamo scelto tre geometrie di diffusione che ci permettono di ottenere le componenti del vettore velocità come
combinazione lineare delle tre corrispondenti frequenze di oscillazione della
funzione di correlazione nelle varie geometrie. Dalle prime due configurazioni
ricaveremo le componenti assiale e radiale, dall’ultima, e dalla conoscenza
della componente assiale, ricaveremo la componente azimutale. In ogni caso, una volta fissate le direzione dei fasci incidente e diffuso, trasleremo
semplicemente la cella lungo la direzione dell’asse di rotazione tramite dei
movimenti micrometrici, e sposteremo cosı̀ il volume illuminato all’interno
della cella; dall’analisi della fuzione di correlazione tramite un fit del tipo
y = A+Be−x/τ cos ωx, misureremo il prodotto q·v = ω in vari punti lungo la
distanza tra un piatto e l’altro e ricaveremo il profilo del suddetto prodotto
lungo la direzione dell’asse di rotazione (direzione z). E’ importante notare
che, a causa della rifrazione del fascio entrante nella cella, una traslazione
∆z della cella lungo z corrisponde ad una traslazione ∆z = r∆z del volume illuminato rispetto alla posizione della finestra. Infatti, come illustrato
nella figura 5.5 nel caso di ks ortogonale alla finestra (nelle altre geometrie
il risultato è lo stesso), se θi è l’angolo con cui il fascio proveniente dall’aria
incide sulla finestra e θr è l’angolo con cui è rifratto nel campione dopo aver
attraverso la finestra, il rapporto tra i due spostamenti ∆z, ∆z è
r=
cot θr
cot θi
Nel nostro caso θi = 70, 7◦ , da cui r = 3, 35; lo spostamento ∆z è stato
scelto di 0, 25 ± 0, 01 mm, dunque ∆z = 0, 84 ± 0, 03 mm.
Per le prime due geometrie ci metteremo con il fascio incidente nel piano
orizzontale ortogonale ai piatti della cella (regoleremo l’inclinazione della cella in modo che la riflessione del fascio sulla finestra rimanga verticalmente
alla stessa quota) e passante per l’asse di rotazione: raccogliendo il fascio
diffuso ortogonalmente alla finestra nello stesso piano, avremo il vettore q
ortogonale alla velocità azimutale (fig. 5.6). La distanza radiale del volume
138
Figura 5.6: Geometria della diffusione nella prima configurazione.
illuminato dall’asse di rotazione è stata scelta di 2, 5 cm e la frequenza di
rotazione del disco è di ν = 0, 671 ± 0, 005 Hz. Dalla legge di Snell l’angolo con cui viene rifratto nel campione il fascio incidente sulla finestra è
θr = arcsin(sin θi /n), dove n è l’indice di rifrazione del campione; l’angolo di diffusione è allora θ = π − θr , mentre le proiezioni della componente
azimutale e radiale sul vettore d’onda scambiato sono rispettivamente
vz ·
q
|q|
= vz cos
θr
2
vr ·
q
|q|
= vr sin
θr
2
Dunque la frequenza ricavabile dalle oscillazioni della funzione di correlazione è identificabile con la somma
ω = vz |q| cos
θr
θr
+ vr |q| sin
2
2
La differenza tra la prima e la seconda geometria è semplicemente il segno
dell’angolo θi (e quindi di θr ), ciò lascia invariata la proiezione della compo139
nente assiale su q e cambia segno a quella radiale, otteremo allora facilmente
le due componenti della velocità dalle equazioni:
vz =
vr =
ω1 + ω2
2|q| cos |θ2r |
ω1 − ω2
2|q| sin |θ2r |
dove ω1 è la frequenza delle oscillazioni della funzione di correlazione nella
prima configurazione e ω2 lo è della seconda. Nelle figure 5.7 e 5.8 mostriamo
la funzione di correlazione misurata, con sovrapposta la funzione di fit, nelle
varie posizioni del volume illuminato lungo la direzione z, nelle 5.10 e 5.11
riportiamo la frequenza ottenuta dai fit in funzione della posizione, infine
nelle 5.12 e 5.13 sono presentati i profili delle componenti assiale e azimutale
della velocità. Le velocità non arrivano a zero come dovrebbero (sia vz che vr
sono nulle sui piatti), a causa delle dimensioni finite del volume illuminato,
che conterrà anche delle particelle in movimento. Riducendo le dimensioni
del volume illuminato tramite una lente davanti alla fibra di raccolta si
potranno ridurre tali effetti.
Per misurare la componente azimutale della velocità abbiamo lasciato il
fascio incidente e la fibra di raccolta come nella seconda configurazione e abbiamo semplicemente traslato la cella in modo indipendente nella direzione x
e nella y, per portare i vettori d’onda ki e ks in un piano parallelo al precente
e il volume illuminato ad una distanza R = 1, 0 cm dall’asse di rotazione
lungo la direzione y. In questa geometria la velocità azimutale avrà la stessa
direzione della velocità radiale nella configurazione precedente, mentre la
componente radiale è ora lungo la direzione y ed ha una proiezione nulla
sul vettore q; infine la componente assiale, che dai risultati teorici risulta
indipendente dalla posizione radiale, rimane la stessa. Abbiamo scelto di
diminuire la distanza radiale per avere una velocità azimutale inferiore e
conseguentemente una frequenza ω abbastanza piccola per poter visualizzare le oscillazioni della funzione di correlazione con il nostro correlatore
che, nel metodo in numero di conteggi, riesce a lavorare da un tempo minimo di 4 µs. La frequenza delle oscillazioni ricavata dall’analisi della funzione
di correlazione sarà data, analogamente ai casi precedenti, dalla somma
θr
θr
+ vϕ |q| sin
2
2
La variazione della posizione radiale non comporta alcun problema nel ricavare la componente azimutale della velocità, visto che la componente vz
ω3 = vz |q| cos
140
misurata deve essere indipendente dalla distanza radiale. La componente
azimutale cercata è ottenibile allora dall’equazione
vϕ =
ω3 − 0.5(ω1 + ω2 )
2|q| sin |θ2r |
Analogamente alle geometrie precedenti, le figure 5.9, 5.14 e 5.16 riportano
i risultati per quest’ ultimo caso.
Nelle figure 5.12, 5.13 e 5.16 sono riportati anche gli andamenti delle velocità previsti dai risultati numerici [27]: conoscendo la distanza tra i piatti,
la viscosità cinematica del campione e la frequenza di rotazione del disco, è
stato calcolato il valore del numero di Reynolds (si veda il paragrafo 2.5.2)
Re = 7, 40, dai grafici della figura 2.4 si è estrapolato l’andamento delle
tre funzioni h, h e g per il numero di Reynolds calcolato e si sono calcolate
le tre componenti della velocità dalle (2.36). Considerando che si tratta di
una funzione teorica e non di un fit sui dati sperimentali, possiamo dire
di aver ottenuto un buon accordo tra i nostri risultati sperimentali e quelli
ottenuti in [27] tramite simulazioni numeriche. Come previsto, le particelle
del flusso risultano caratterizzate, oltre che da una velocità azimutale, da
un moto verso il piatto rotante e da un movimento nella direzione radiale
a causa degli effetti inerziali. Considerando che la velocità radiale è proporzionale alla distanza dall’asse di rotazione (dalla (2.36)), ci aspettiamo
che, alla distanza a cui abbiamo misurato la componente azimutale, il valore della velocità radiale sia di un ordine di grandezza inferiore rispetto alla
componente azimutale, come accade per la componente assiale, dunque per
il nostro numero di Reynolds e per R = 1 cm si possono trascurare, anche se
l’approssimazione è un pò rozza, le componenti non azimutali della velocità,
come spesso è accaduto nei nostri calcoli (ad esempio per la stima del tempo
di transito delle particelle attraverso il volume illuminato). Nella figura 5.17
abbiamo riportato le tre componenti della velocità per il nostro numero di
Reynolds e per una distanza radiale R = 1 cm secondo quanto previsto dai
risultati numerici, con i quali abbiamo mostrato di essere in buono accordo. Le misure ottenute per il profilo di velocità possono essere ripetute per
diverse velocità angolari (compatibilmente con le possibilità del correlatore,
che non può visualizzare le oscillazioni con periodo troppo piccolo), o per
campioni con diversa viscosità in modo da variare il numero di Reynolds.
Vediamo ora come i risultati ottenuti possono essere utili per lo studio dei
sistemi stazionari fuori equilibrio, in cui si utilizzerà la tecnica di fotocorrelazione omodina per ricavare il tempo di rilassamento τα del sistema; in 2.5.3
avevamo introdotto i possibili effetti di taglio della funzione di correlazione
141
che potevano impedire la misura di τα , ora saremo in grado di scegliere la
situazione ottimale per evitare questi effetti ”spuri”; inoltre siamo ora in
grado di ricavare, dalle misure sul profilo di velocità ottenute, il valore del
tasso di shear, il parametro in funzione del quale si vuole studiare la variabile τα . Come si può vedere dalla figura 5.17, sarà ragionevole considerare
il tasso di shear costante all’interno del volume illuminato (le cui dimensioni
lungo l’asse z sono di circa 1 mm, dunque un ordine di grandezza inferiori
alla distanza tra i dischi) e il maggior contributo sarà dato dal gradiente della velocità azimutale. Nella seconda delle configurazioni scelte la posizione
di 0, 4 z/H per il volume illuminato sembrerebbe un buon compromesso per
avere un tasso di shear approssimabile al solo contributo azimutale (si vede
dalla fig. 5.17 che in quel punto le derivate delle altre due componenti sono
trascurabili rispetto a quella della velocità azimutale), analogamente per la
velocità; inoltre, dalla figura 5.11, si vede che la proiezione della velocità
sul vettore d’onda è trascurabile in tale posizione e ciò rende il tempo τa
(par. 2.5.3) abbastanza lungo da non ”tagliare” la funzione di correlazione
prima del tempo di rilassamento τα . Infine, alla velocità angolare con cui
abbiamo fatto ruotare il disco e nella posizione prescelta all’ interno della
cella, la velocità delle particelle fornisce un tempo di transito τtr attraverso
il volume illuminato dell’ordine di 10−1 s: resta da vedere se il campione
che useremo per lo studio dei sistemi stazionari fuori dall’equilibrio ha un
tempo di rilassamento τα inferiore a τtr al tasso di shear a cui ci troviamo (considerando solo il contributo della velocità azimutale risulta essere
γ̇ = 2, 9 s−1 ). Nel caso in cui la diseguaglianza τα < τtr non fosse soddisfatta si potrà sempre variare la posizione del volume illuminato e le sue
dimensioni per aumentare τtr . In realtà, cambiando il campione, cambierà il
numero di Reynolds a causa della variazione della viscosità, dunque il profilo
di velocità sarà diverso da quello qui presentato, ci accontenteremo per ora
di dare delle indicazioni qualitative per la scelta della posizione del volume
illuminato, nell’ottica di fornire i presupposti per affrontare lo studio dei
sistemi vetrosi sotto shear attraverso la fotocorrelazione.
142
C(t)
18∆z
9∆z
17∆z
8∆z
16∆z
7∆z
15∆z
6∆z
14∆z
5∆z
13∆z
4∆z
12∆z
3∆ z
11∆z
2∆z
10∆z
0
100
1∆z
0
100
200
t(µs)
t(µs)
Figura 5.7: Misure di fotocorrelazione in eterodina per diverse posizioni del
volume illuminato lungo la distanza tra la finestra ottica (z = 0) e il disco
rotante (z/H = 1). ∆z corrisponde ad una traslazione del volume illuminato
di 0, 84 ± 0, 03 mm rispetto alla posizione della finestra, la distanza radiale
è di 2, 5 cm e l’angolo di incidenza del fascio laser sulla finestra è 70, 7◦ . La
funzione per il fit è un coseno modulato da un esponenziale.
143
18∆z
9∆z
17∆z
8∆z
C(t)
16∆z
7∆z
15∆z
6∆z
14∆z
5∆z
13∆z
4∆z
12∆z
3∆z
11∆z
2∆z
1∆z
10∆z
0
100
t(µs)
0
250
500
t(µs)
Figura 5.8: Misure di fotocorrelazione in eterodina per diverse posizioni del
volume illuminato. La distanza radiale è di 2, 5 cm e l’angolo di incidenza
del fascio laser sulla finestra è −70, 7◦ .
144
C(t)
18∆z
9∆z
17∆z
8∆z
16∆z
7∆z
15∆z
6∆z
14∆z
5∆z
13∆z
4∆z
12∆z
3∆z
11∆z
2∆z
10∆z
1∆z
0
50
t(µs)
0
50
100
t(µs)
Figura 5.9: Misure di fotocorrelazione in eterodina per diverse posizioni del
volume illuminato. La distanza radiale è di 1, 0 cm e l’angolo di incidenza
del fascio laser sulla finestra è −70, 7◦ .
145
140000
120000
ω1 (Hz)
100000
80000
60000
40000
20000
0
-20000
-40000
0.0
0.2
0.4
0.6
0.8
1.0
z/H
Figura 5.10: Frequenza delle oscillazioni della funzione di correlazione, fornita dall’analisi dei dati presentati nella figura 5.7, in funzione della posizione
lungo z.
140000
ω2 (Hz)
120000
100000
80000
60000
40000
20000
0
-20000
-40000
-60000
0.0
0.2
0.4
0.6
0.8
1.0
z/H
Figura 5.11: Frequenza delle oscillazioni della funzione di correlazione, fornita dall’analisi dei dati presentati nella figura 5.8, in funzione della posizione
lungo z.
146
0.0035
vz (m/s)
0.0030
0.0025
0.0020
0.0015
simulazione
dati sperimentali
0.0010
0.0005
0.0000
0.0
0.2
0.4
0.6
0.8
1.0
z/H
Figura 5.12: Profilo della componente assiale della velocità lungo la direzione
z, ottenuto dalla combinazione lineare delle frequenze ω1 e ω2 .
0.010
0.008
simulazione
dati sperimentali
0.006
0.004
vr (m/s)
0.002
0.000
-0.002
-0.004
-0.006
-0.008
-0.010
0.0
0.2
0.4
0.6
0.8
1.0
z/H
Figura 5.13: Profilo della componente radiale della velocità lungo la
direzione z, ottenuto dalla combinazione lineare delle frequenze ω1 e ω2 .
147
ω3 (Hz)
400000
300000
200000
100000
0
0.0
0.2
0.4
0.6
0.8
1.0
z/H
Figura 5.14: Frequenza delle oscillazioni della funzione di correlazione, fornita dall’analisi dei dati presentati nella figura 5.9, in funzione della posizione
lungo z.
148
60000
-1
1/τ (s )
40000
20000
0
0,0
0,2
0,4
0,6
0,8
1,0
z/H
Figura 5.15: Inverso del tempo di decadimento dell’esponenziale che modula
la funzione di correlazione, ottenuto dall’analisi dei dati mostrati in figura
5.9, in funzione della posizione del volume illuminato all’interno della cella:
z/H = 0 corrisponde alla posizione della finestra ottica e z/H = 1 alla
posizione del disco rotante
149
0.04
simulazione
dati sperimentali
vφ (m/s)
0.03
0.02
0.01
0.00
0.0
0.2
0.4
0.6
0.8
1.0
z/H
Figura 5.16: Profilo della componente azimutale della velocità lungo la
direzione z, ottenuto dalla combinazione lineare delle frequenze ω1 , ω2 e
ω3 .
150
0.04
v (m/s)
0.03
vφ
0.02
0.01
vr
vz
0.00
0.0
0.2
0.4
0.6
0.8
1.0
z/H
Figura 5.17: Profilo delle tre componenti della velocità dai risultati numerici
per R = 1, 0 cm e Re = 7, 40.
151
Appendice A
Calcolo del campo elettrico
diffuso
Consideriamo [36] un mezzo non assorbente (cioè con transizioni molecolari non messe in risonanza dalla lunghezza d’onda della luce incidente) di
costante dielettrica media ε, e di permeabilità magnetica µ = 1 (trascuriamo
quindi le proprietà magnetiche). Il campione avrà una costante dielettrica
locale
ε(r, t) = εI + δε(r, t)
dove I è il tensore unità e δε è il tensore delle fluttuazioni della costante
dielettrica. Sia il campo elettrico incidente approssimabile con un’onda piana monocromatica descritta dalla (2.10).
I campi totali E, D, H (rispettivamente campo elettrico, spostamento
dielettrico e campo magnetico) saranno dati dalla somma tra i campi incidenti Ei , Di , Hi e i campi diffusi Es , Ds , Hs corrispondenti. Dal momento
che sia il campo totale, sia il campo incidente verificano le equazioni di
Maxwell, anche il campo diffuso, per linearità, le verificherà:
∇ × Es = −
∇ × Hs =
1 ∂Hs
c ∂t
1 ∂Ds
c ∂t
∇ · Ds = 0
∇ · Bs = 0
152
(A.1)
Se µ = 1 abbiamo che l’induzione magnetica Bs = Hs . Possiamo eliminare
Hs dalle prime due equazioni da cui otteniamo
1 ∂ 2 Ds
c2 ∂t2
I vettori D ed E sono legati tramite la costante dielettrica:
∇ × (∇ × Es ) = −
(A.2)
D = (εI + δε)(Ei + Es ) = εEi + εEs + δεEi
dove, trascurando la diffusione multipla, abbiamo posto δεEs 0. Poichè
Di = εEi , essendo ε la costante dielettrica del mezzo esterno, si ha che
Ds = δεEi + εEs
da cui, sostituendo Es (ricavabile dall’ultima equazione) nella (A.2) troviamo
∇2 Ds −
ε ∂ 2 Ds
= −∇ × ∇ × (δεEi )
c2 ∂t2
dove si è usata la relazione tra vettori ∇ × ∇ × A = −∇2 A + ∇(∇ · A) e
l’ultima delle (A.1). Introduciamo ora un vettore Π tale che
Ds = ∇ × ∇ × Π
allora l’equazione per Π è
ε ∂2Π
= −δε̂Ei
c2 ∂t2
che può essere risolta attraverso la funzione di Green dando come soluzione
∇2 Π −
Π(R, t) =
V
d3 r
δε̂(r, t )Ei (r, t )
4π|r − R|
(A.3)
dove V è il volume illuminato, t = t − (n/c)|R − r| è il tempo di ritardo che
tiene conto del tempo che impiega il segnale a propagarsi nel mezzo e R è la
posizione del rivelatore che consideriamo immerso in un mezzo di costante
√
dielettrica ε (e quindi di indice di rifrazione n = ε).
A questo punto assumiamo che l’onda incidente sia data dalla (2.10).
Essendo il rivelatore molto lontano dal volume illuminato posso considerare
|R| >> |r|, per cui lo sviluppo in serie di |R − r| sara’
|R − r| =
= |R| 1 −
(Rx − rx )2 + (Ry − ry )2 =
Rx2 + Ry2 − 2rx Rx − 2ry Ry
2r · R
r·R
|R|(1 −
) = |R| − r · R̂
2
|R|
|R|2
153
con R̂ ≡ k̂f versore nella direzione di R. Il tempo ritardato diventera’
t t − (n/c)(|R| − kˆs · r) e la (A.3) sara’ riscrivibile, all’ordine 1/|R|, come:
Π(R, t) =
E0
4π|R|
V
d3 rδε(r, t )n̂i ei(ki ·r−ωi t+ωi (n/c)|R|−ωi (n/c)r·R̂)
(A.4)
Sviluppiamo ora in serie di Fourier δε(r, t ) in un intervallo T
δε(r, t ) =
δεp (r)eiΩp t
(A.5)
p
dove Ωp = ( 2πp
T ). Le uniche componenti della frequenza che contribuiscono
alla somma sono quelle tipiche del moto rotazionale e traslazionale del sistema e sono dell’ordine di 1013 Hz, mentre la frequenza della luce incidente
e’ dell’ordine di 1015 Hz, per cui si avra’ ωi Ωp per tutte le Ωp rilevanti.
Definiamo ora
ωf
≡ ωi − Ωp
kp ≡ (n/c)ωf k̂f
qp ≡ ki − ks
(A.6)
sostituendo la (A.5) nella (A.4) e ricordando che sul rivelatore Ds = εEs ,
troviamo per il campo elettrico diffuso:
E0 d3 rδεp (r)·n̂i eiΩp (t−(n/c)(|R|−r·k̂f )+iki ·r−iωi (t−(n/c)(|R|−r·k̂f )) ]
Es (R, t) = ∇×∇×[
4πε|R| p V
possiamo riscrivere l’esponente avvalendoci delle (A.6)
Ωp (t − (n/c)|R| + (n/c)r · k̂f ) + ki · r − ωi (t − (n/c)|R| + (n/c)r · k̂f )
= Ωp t − ωi t + ki · r + (n/c)ωf (|R| − r · k̂f ) = Ωp t − ωi t + ki · r + kp · R − kp · r
Poichè Ωp ωi , ricordando l’espressione per ωi , con buona aprossimazione
sarà
|kp |k̂f = (n/c)ωf k̂f (n/c)ωi k̂f = |ki |k̂f ∼
= |ks |k̂f
dove nell’ultima uguaglianza si è considerato che tipicamente la lunghezza
d’onda del fascio diffuso è praticamente uguale a quella del fascio incidente ed
è k = 2πn/λ. Avendo cosı̀ eliminato la dipendenza da p di k si riconoscerà lo
sviluppo in serie di Fourier per δε descritto dalla (A.5); in definitiva avremo:
E0 i(ks ·R−ωi t)
e
ks × [ks ×
Es (R, t) =
4πε|R|
154
V
d3 reiq·r δε(r, t) · n̂i ]
Appendice B
Funzione di distribuzione
Poissoniana
In questa sezione studieremo la funzione di distribuzione Poissoniana
p(n, t) =
(λt)n e−λt
n!
dove µ ≡ λt è il parametro della legge di Poisson, e ne calcoleremo il valor medio e la varianza. Mostreremo in particolare [37] che una tale distribuzione descrive l’evento di fotoemissione e in generale ogni fenomeno in
cui:
1. il verificarsi o meno dell’evento nell’intervallo di tempo ∆t è indipendente da quanto è avvenuto in precedenza;
2. la probabilità che si verifichi un evento nell’intervallo di tempo ∆t
dipende solo dalla durata dell’intervallo stesso, cioè p(1, ∆t) = λ∆t
con λ che dipende dal particolare fenomeno che si vuole studiare;
3. la probabilità che si manifesti più di un evento nell’intervallo di tempo
∆t è nulla.
Costruiamo per induzione la distribuzione di probabilità che soddisfa
queste tre ipotesi. Calcoliamo la probabilità di non osservare alcun evento
nell’intervallo di tempo (t + ∆t): dalla condizione 1
p(0, t + ∆t) = p(0, t)p(0, ∆t)
dalle condizioni 2 e 3
p(0, ∆t) = 1 − p(1, ∆t) = 1 − λ∆
155
(B.1)
da cui ottengo che
p(0, t)p(0, ∆t) − p(0, t)
p(0, t + ∆t) − p(0, t)
=
∆t
∆t
=
p(0, t)(1 − λ∆t) − p(0, t)
= −λp(0, t)
∆t
Al tendere di ∆t a zero si ha
dp(0, t)
= −λp(0, t)
dt
con la condizione p(0, 0) = 1, la soluzione dell’equazione differenziale è:
p(0, t) = e−λt
(B.2)
Passiamo ora alla probabilità di osservare un evento nello stesso intervallo
di tempo (t + ∆t):
p(1, t + ∆t) = p(1, t)p(0, ∆t) + p(0, t)p(1, ∆t)
ne calcolo il rapporto incrementale:
p(1, t + ∆t) − p(1, t)
∆t
=
p(1, t)(1 − λ∆t) + e−λt λ∆t − p(1, t)
∆t
=
−λ∆tp(1, t) + λ∆te−λt
∆t
dove abbiamo usato la (B.1) e la (B.2). Nel limite ∆t → 0 l’equazione
diventa:
dp(1, t)
= −λp(1, t) + λe−λt
dt
la cui soluzione particolare è della forma
p(1, t) = λte−λt
Iterando il procedimento n volte si ha
p(n, t) =
(λt)n e−λt
n!
sostituendo µ ≡ λt si ottiene la distribuzione descritta dalla (2.6).
156
Calcoliamo ora il valor medio e la varianza della distribuzione (2.6).
Cominciamo a calcolare il primo dei due:
n =
∞
n
n=0
= e−µ µ
∞
µn −µ
µn e−µ
e =0+
n!
(n − 1)!
n=1
∞
µj
j=0
j!
=µ
calcoliamo ora
n2 =
∞
n=0
= e−µ
n2
∞
µn −µ
µn n
e = 0 + e−µ
n!
(n − 1)!
n=1
∞
µn (n − 1)
n=1
(n − 1)!
= 0 + e−µ µ2
+ e−n
∞
µn
(n − 1)!
n=1
∞
∞
µn−2
µj
+ e−µ µ
(n − 2)!
j!
n=2
j=0
= µ2 + µ
finalmente troviamo per la varianza della distribuzione Poissoniana:
(∆n)2 = n2 − n2 = µ
157
(B.3)
Conclusioni
Lo studio dei sistemi stazionari di non equilibrio rappresenta un campo di
ricerca verso cui si sta focalizzando un forte interesse nell’ambito della fisica
dei sistemi disordinati, questi ultimi sono infatti caratterizzati da tempi di
rilassamento verso l’equilibrio molto lunghi, mentre i sistemi sotto shear
si portano in stati stazionari di non equilibrio e permettono di studiare la
dinamica fuori equilibrio. Con il lavoro sperimentale di questa tesi è stato
avviato uno studio in questo senso attraverso la tecnica di diffusione della
luce.
Una prima parte del lavoro è stata dedicata alla messa a punto di un
apparato sperimentale per misure di fotocorrelazione: è stata appresa la
tecnica omodina e sono stati approfonditi alcuni aspetti relativi alla raccolta
del segnale e alla sua elaborazione per il calcolo della funzione di correlazione
dell’intensità del campo diffuso dal campione. Tale funzione di correlazione
è legata alla funzione di correlazione delle fluttuazioni di densità, la variabile
fondamentale negli studi teorici e numerici che analizzano la dinamica dei
sistemi in questione.
Il recente interesse scientifico nello studio del flusso dei sistemi complessi, ci ha invece motivato, nella seconda parte del lavoro, a implementare
un apparato per misure di fotocorrelazione eterodina, con cui sono state
realizzate delle misure di velocimetria per conoscere il profilo di velocità di
un fluido all’interno della cella di cui disponiamo per lo studio dei sistemi
sotto shear. I risultati ottenuti sono di particolare interesse, poichè hanno
permesso di misurare il profilo di velocità di un fluido complesso in una geometria nota, tramite una tecnica introdotta solo recentemente per gli studi
di velocimetria e non ancora utilizzata per lo studio del flusso di un sistema
tra due piatti rotanti, il lavoro costituisce dunque un punto di partenza per
l’approfondimento della meccanica dei fluidi complessi tramite la tecnica di
fotocorrelazione eterodina.
Infine le misure di velocimetria ottenute costituiscono anche un passaggio
preliminare allo studio dei sistemi vetrosi in stati stazionari di non equilibrio:
158
l’invecchiamento caratteristico di tali sistemi è bloccato dallo shear, viene
raggiunto uno stato stazionario ed è interessante studiare il tempo di rilassamento del sistema in funzione del tasso di shear, che diventa il nuovo
parametro rilevante al posto del tempo di attesa tw per i sistemi che invecchiano. Dalla conoscenza del profilo di velocità sarà possibile valutare
il tasso di shear, mentre la funzione di correlazione misurata con la tecnica
omodina fornirà la variabile microscopica che nei modelli teorici descrive
quantitativamente la dinamica del sistema. Per analizzare la dinamica dei
sistemi sotto shear il tempo di rilassamento strutturale ricavabile dalla funzione di correlazione dovrà essere studiato in funzione del tasso di shear, per
indagare la relazione esistente tra le due variabili. La difficoltà nella misura
del tempo di rilassamento sarà costituita dal possibile taglio della funzione
di correlazione a causa di effetti spuri, che bisognerà riuscire ad arginare.
159
Ringraziamenti
Tutto quello che ho imparato durante questo anno di lavoro lo devo a Roberto, al quale va un ringraziamento del tutto particolare: la sua pazienza e
disponibilità hanno reso le giornate passate in laboratorio molto proficue, i
miei dubbi e le mie lacune sono state risolte puntualmente con spiegazioni di
una chiarezza non comune; inoltre mi ha sempre mostrato dei metodi brillanti e intelligenti per affrontare i problemi che tipicamente si presentano
nel corso di un esperimento: ricordo, il giorno in cui il mio lavoro di tesi ha
avuto inizio, la sua supposizione della non linearità del profilo di velocità
che a noi interessava, effettivamente i risultati che abbiamo ottenuto alla
fine di questo studio non sono altro che l’approfondimento e la conferma
di quella lungimirante intuizione. Ma soprattutto gli resterò grata perchè
è riuscito a trasmettermi una passione che non avrei immaginato: del tutto inaspettatamente la fisica sperimentale si è rivelata per me un campo
davvero affascinante.
Le lotte per avere la meglio sul mio computer sono state edulcorate dall’
atmosfera di solidarietà che tutti i ragazzi con cui ho condiviso la stanza
hanno contribuito a creare: senza Tullio non sarei mai riuscita a dominare
il suo ”ex-calcolatore”, Emanuele ha sempre risposto alle mie richieste di
aiuto e a lui va il merito di avermi suggerito la scelta di questa tesi: i suoi
consigli si sono rivelati più preziosi del previsto! Anche Francesco, il cui
lavoro di tesi è stato la conditio sine qua non per lo sviluppo del mio studio,
ha contribuito a questi consigli ed ha sempre risposto prontamente alle mie
domande. Ringrazio Deen per la pazienza con cui ha soddisfatto le nostre continue richieste, necessarie allo sviluppo dell’esperimento, con l’aiuto
dei tecnici dell’officina meccanica. Ed ora tocca alle presenze femminili:
ringrazio Barbara per avermi dato qualche consiglio per l’uso di Origin,
Roberta, che mi ha dato alcune ”dritte” necessarie per mettere le figure che
trovate in questa tesi e Laura, che in laboratorio ci ha rifornito dei pezzi che
non avrei saputo trovare altrimenti.
E ringrazio soprattutto Giancarlo, perchè mi ha permesso di affrontare
uno studio che si è rilevato molto interessante e formativo e perchè mi ha
seguito con estrema competenza e grande disponibilità.
E’ d’obbligo ricordare le divertentissime partite di calcetto, che hanno
confermato l’affiatamento del gruppo anche al di fuori dell’ambito universitario; ringrazio tutti per la simpatia con cui vi hanno partecipato e perchè
hanno contribuito a far nascere in me un’altra nuova passione: il pallone!
160
Bibliografia
[1] J. Kurchan, cond-mat/0011110 (2000)
[2] L. F. Cugliandolo, J. Kurchan, P. Peliti, Phys. Rev E 55, 3898 (1997)
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nostro algoritmo in tempo.
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