Due argomenti a confronto nella risoluzione delle lacune

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Dipartimento di Scienze giuridiche
CERADI – Centro di ricerca per il diritto d’impresa
Due argomenti a confronto nella risoluzione delle lacune:
argumentum a pari e argumentum a contrario sensu
Amelia Bernardo
Maggio 2010
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Il dogma della completezza dell’ordinamento, che di sé informa il
nostro ordinamento giuridico, impone al giudice di dire sempre il diritto, anche
dinanzi all’oscurità o addirittura all’assenza di una disposizione normativa.
Difatti, l’art.12 delle preleggi esprime il principio per cui nel caso in cui una
controversia non possa essere decisa con una precisa disposizione si ha
riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso
rimane ancora dubbio si decide secondo i principi generali dell’ordinamento
dello Stato (art. 12 disp. prel. cod. civ.).
L’art. 12 riconosce e codifica quello che nella retorica classica è definito
argumentum a simili, e che si concretizza nel confrontare tra loro due fattispecie,
nell’evidenziarne i profili di somiglianza e nel pretendere, in virtù di detta
similitudine, l’applicazione del trattamento previsto per una di esse all’altra.
Tradotto in formula il ragionamento analogico si scinde in due diversi rapporti
di identità, tra i due termini del rapporto ed il loro quid comune M. Rapporti
riconducibili a queste formule: Q è P; Q è M; S è M; S è P. Prendiamo ad
esempio l’art. 1151 del vecchio codice, che recitava:”Qualunque fatto dell’uomo
che arreca danno ad altri, obbliga quello per colpa del quale è avvenuto, a
risarcire il danno”. Ci si chiede se anche la persona giuridica sia imputabile di
illecito civile, in quanto uomo. Con l’interpretazione analogica si propone di
correggere la lettera della legge in base ai seguenti passaggi:
Q ( uomo) è P (persona fisica)
Q ( uomo) è M ( persona giuridica).
S (uomo imputabile ex 1151) è M come S è P ( persona fisica).
Per il diritto in generale è uomo sia la persona fisica che la persona
giuridica: sono persone. Dunque anche per la disciplina dell’illecito civile S (
uomo imputabile d’illecito ai sensi dell’art. 1151) è M ( persona giuridica)
come S è P ( persona fisica).
Il passaggio inferenziale così descritto presuppone non tanto l’identità
formale di P e M, ovvero della persona fisica e della persona giuridica, che,
anzi, l’argomento analogico riconosce mancare, quanto che il criterio, assunto in
generale dal diritto, che rende la persona giuridica simile alla persona fisica, sì
da identificarle nella persona, sia compatibile con il criterio assunto nel caso
particolare dall’art. 1151 per imputare all’uomo il fatto illecito.
La similitudine tra il fatto regolato e quello non regolato è dunque
ammissibile nella misura i fatti in oggetto condividano la ratio, ovvero la ragione
di politica legislativa che è a fondamento della norma ( ubi eadem ratio, ibi eadem
dispositio).
Nell’impiego che riceve nella logica giuridica il ragionamento
per analogia viene dunque formulato in modo che la ratio ne sia il perno, sì da
sviluppare direttamente il profilo della somiglianza: se P è simile a M, se P è S
(predicato), dunque M è S. Ciò è corretto in quanto S, persona giuridica, ha in
comune con M, persona fisica, la personalità, che è la ragion sufficiente per cui
M ( persona giuridica) sia P ( imputabile di illecito).
***
La codificazione dell’argomentum a simili esprime il riconoscimento, nel
nostro ordinamento giuridico, di una norma di chiusura dell’ordinamento che
consente al giudice di regolare ogni caso ricorrendo, in caso di lacuna, alle
disposizioni o ai principi che regolano fattispecie analoghe: c.d. norma generale
inclusiva.
Tale norma non rappresenta tuttavia l’unica soluzione interpretativa
che si offre al giurista. Dinanzi ad un caso di lacuna sarà infatti sempre
applicabile il suo opposto: la norma generale esclusiva .
Vediamo meglio: una norma che regola un comportamento, non solo
limita la regolamentazione e quindi le conseguenze giuridiche, ma nello stesso
tempo esclude da quella regolamentazione tutti gli altri comportamenti.
Tutti i comportamenti non compresi nella norma particolare sono
dunque teoricamente riconducibili nell’alveo applicativo della norma generale
che esclude ( e dunque norma generale esclusiva ) tutti i comportamenti che non
rientrano in quello previsto dalla norma particolare. La teoria della norma
generale esclusiva, primamente sostenuta dal giurista tedesco Ernst Zitelmann
nel saggio intitolato”Le lacune del diritto” si basa sul principio che: “ Alla base
di ogni norma particolare, che sanziona un’azione con una pena o con
l’obbligo di risarcimento danni, o attribuendo qualsiasi altra conseguenza
giuridica, sta sempre come sottintesa ed inespressa una norma fondamentale
generale e negativa, secondo cui, prescindendo da questi particolari casi, tutte le
altre azioni rimangono esenti da pena o da risarcimento: ogni norma positiva,
con cui venga attribuita una pena o un risarcimento, è in questo senso
un’eccezione di quella norma fondamentale generale e negativa. Donde segue:
nel caso che manchi una tale positiva eccezione non viè lacuna, perché il
giudice può sempre, applicando quella norma generare e negativa, riconoscere
che l’effetto giuridico in questione non è intervenuto, o che non è sorto il
diritto alla pena o l’obbligo al risarcimento” E. Zitelmann (wikipedia) Lücken
im Recht, Leipzig, 1903, p. 17, come richiamato Da N. Bobbio, Teoria generale
del
diritto,
Giappichelli,
1993,
cit.
p.
252
http://it.wikipedia.org/wiki/Norberto_Bobbio).
Ad esempio la Costituzione dispone che non è ammesso il referendum
abrogativo per le leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e di indulto, di
autorizzazione a ratificare trattati internazionali (art. 75), dunque si deve
concludere che solo queste leggi sono sottratte al referendum abrogativo, e si
deve escludere che siano sottratte a referendum abrogativo anche leggi diverse
da quelle espressamente enumerate, come le leggi processuali penali.
Il ragionamento espresso dalla teoria generale esclusiva corrisponde
all’argomento (analogico) a contrario sensu ( incluso unius excluso alterius; qui de uno
dicit de altero negat): l’argomento a contrario muove anch’esso dal confronto di due
fattispecie, ma - a differenza di quello a simili – si pone come quello scopo di
evitare che la disciplina prevista per il caso regolato si estenda al caso non
regolato1. Mentre la norma generale inclusiva regola i casi non compresi nella
norma particolare, ma simili a questo, in modo identico, la norma generale esclusiva
regola tutti i casi non compresi nella norma particolare in modo opposto.
Precisa Tarello che l’argomento a contrario è quello che raccomanda di
attenersi alla lettera della legge nella accezione più ristretta, escludendo ogni
estensione del significato dei termini ed ogni analogia, in base al brocardo ubi
lex voluti dixit, ubi noluit tacuit, e considerando come tassativa ogni enumerazione
del legislatore. Con l’argomento a simili la legge è considerata come una
espressione puntuale di una regola implicita che riguarda il genere intero; con
l’argomento a contrario la legge è concepita come eccezione ad una regola
generale di segno opposto.
L’efficacia dell’argomento
a contrario dipende dalla capacità
dell’interprete di dimostrare, sempre con riferimento alla ratio delle
disposizioni, che la fattispecie cui si riferisce costituisce un’eccezione rispetto
alla regola contente il genus: difatti, se sganciato dal ricorso all’intenzione del
1 Così Alessandro Traversi, La difesa penale. Le tecniche argomentative ed oratorie, Giuffre,
1995, cit. p. 60
legislatore, l’uso dell’argomento a contrario potrebbe portare a risultati
formalmente corretti dal punto di vista formale, ma sostanzialmente
paradossali sotto il profilo della ratio legis, come nell’inverosimile aneddoto
dell’uomo che pretendesse di entrare nella sala di attesa della stazione- sulla cui
porta era appeso un cartello di divieto di introdurre cani – con un orso al
guinzaglio. Ragionando a contrario il proprietario dell’orso potrebbe sostenere
che la volontà del legislatore era quella di vietare l’ingresso dei cani, e solo dei
cani avendo ad essi fatto riferimento. Se avesse voluto estendere il divieto
anche ad altri animali avrebbe potuto tranquillamente dirlo. Non avendolo
detto il divieto può applicarsi solo ed esclusivamente ai cani.
E’ evidente la fallacia di questa argomentazione che esaurisce il proprio
ragionamento in una lettura formale e letterale della disposizione, disancorata
dall’esame della ratio che la anima, con esiti, inevitabilmente, paradossali.
***
Se dunque duplice è la soluzione che si prospetta all’interprete, come
deve decidere il giurista dinanzi alla lacuna?
La risposta a siffatto quesito non può essere data a priori. Solo il
contesto, la valutazione della situazione, la determinazione dello scopo
perseguito dalle disposizioni legali o dalle decisioni dei giudici, permetteranno
di far prevalere nei singoli casi l’una o l’altra tecnica argomentativa, di preferire
l’identificazione di due specie alla loro opposizione.
Paradigmatico dell’uso giudiziale dei due argomenti può essere il
seguente caso tratto dalla giurisprudenza americana.
Una coppia stipula un contratto di maternità surrogata con una donna, c.d.
madre portante, che si impegnava sottoporsi ad un intervento di fecondazione
artificiale, a fornire il proprio ovulo, e, concepito il bambino, a consegnarlo al padre
biologico, rinunciando ai diritti parentali ed alla potestà di genitore. A fronte delle
obbligazioni assunte dalla madre portante, il padre biologico si impegnava a versare
una somma di danaro.
Al termine della gravidanza la madre surrogata, che aveva sentito crescere in
quei mesi l’affetto per la bimba, cambiava idea e di conseguenza si rifiutava di
consegnare, come da contratto, la bambina alla coppia committente.
I coniugi agiscono contro la donna per ottenere l’adempimento in forma
specifica del contratto, domandando al giudice la consegna della bambina e la
cessazione dei diritti parentali della madre biologica. Ad essi si oppone la surrogate
mother sostenendo l’invalidità del contratto. La tesi del padre naturale, a sostegno della
validità del contratto, muove dalla constatazione della piena autonomia dei privati in
assenza di disciplina della materia. Il legislatore infatti non poteva prevedere la
sviluppo delle tecniche di fecondazione, e sicuramente ad esse non aveva pensato nel
disciplinare la cessione dei diritti parentali in materia di adozione. Il secondo
argomento, sul quale l’attore fonda le proprie ragioni, poggia sul diritto alla privacy, che
comprenderebbe la “facoltà degli adulti di gestire come meglio credono la propria
riproduzione”. Riguardato come strumento di affermazione ed esercizio di un diritto
fondamentale dell’individuo, la tutela di questo di tipo di contratti è individuata nella
norma costituzionale che tutela i diritti fondamentali.
La Corte di primo grado ha accolto la tesi del padre biologico, e si è espressa
per la validità del surrogacy contract. Alla base della pronuncia delle corti di merito sta il
principio generale della autonomia privata, che informa la disciplina dei rapporti
patrimoniali, inteso sia come diritto di ciascuno di gestire liberamente le proprie scelte
procreative sia come libertà di stipulare qualsiasi tipo di accordo, purchè esso non
contrasti con una disposizione inderogabile espressamente dettata dal legislatore.
L’assenza di uno specifico divieto per quel particolare contratto doveva quindi
interpretarsi come assenso dell’ordinamento, secondo il principio per cui “tutto ciò
che non è espressamente vietato è lecito”.
L’interpretazione è chiaramente esegetica: la corte fa ricorso per la soluzione
del caso alla regola generale esclusiva per cui tutti i contratti che non sono espressamente
proibiti dalla legge, sono leciti.
Diversa è invece la ricostruzione dei giudici d’appello che,
accogliendo la tesi della madre surrogata, concludono per l’invalidità del contratto.
Vediamo con quali argomentazioni.
La Corte contesta l’inquadramento del surrogacy contract nell’ambito della
disciplina dei rapporti patrimoniali, basati sul principio dell’autonomia privata.
L’assenza di una norma diretta a regolare quel tipo di contratto non è espressione della
volontà del legislatore di consentirne la pratica, ma il risultato inevitabile di un
progresso scientifico più veloce dello stesso legislatore, che a quell’ipotesi non aveva
pensato. Ciò è dimostrato dal fatto che i rapporti di famiglia sono attentamente
disciplinati in ogni manifestazione, e con rigore ancora più intenso quando sono in
gioco gli interessi dei minori: lo dimostrano le disposizioni in materia di adozione,
quelle sulla cessazione dei diritti parentali, quelle in materia di affidamento etc. Ed è
evidente che il surrogacy contract involge interessi di natura personale, e non meramente
patrimoniali. Interpretare il silenzio del legislatore come tacita approvazione del
surrogacy contract significherebbe quindi riservare all’arbitrio dei privati uno dei suoi
settori più delicati, quello della filiazione, in palese contraddizione con lo spirito che
informa il sistema del diritto di famiglia ( interpretazione sistematica). La Corte d’Appello,
muovendo da tali premesse, argomenta l’esistenza di una lacuna, e attraverso l’esame
sistematico delle disposizioni del diritto di famiglia, ne individua per induzione i
principi generali (analogia iuris). Conclude nel senso che il contratto di maternità
surrogata rappresenta un’operazione contrattuale illecita, in quanto viola: le norme
sull’adozione, che proibiscono il pagamento o la riscossione di danaro in rapporto alla
adozione (il fatto costituisce reato); le norme che richiedono la prova dell’inidoneità
dei genitori o quella dell’abbandono affinché possa essere dichiarata la cessazione dei
diritti parentali ed essere concessa l’adozione; ed infine le norme che richiedono la
revocabilità della cessione dell’affidamento e del consenso nell’ambito dell’adozione
privata. Il contratto dedotto in giudizio è assimilato al baby selling, in quanto il
pagamento della somma di danaro rappresenta il corrispettivo economico a fronte
dell’affidamento della bambina e non, come si era ritenuto in primo grado, una
semplice controprestazione a fronte dei disagi derivanti dalla gravidanza. E’ proprio il
momento economico che qualifica l’illegalità dell’operazione: non si intende colpire la
tecnica in sé, ma la strumentalizzazione della stessa al fine di eludere le leggi che
vietano il commercio dei bambini.
Nel secondo grado quindi, l’interprete giunge ad opposte conclusioni,
ricorrendo alla norma generale inclusiva ( argumentum a simili)
***
Come si è visto l’applicazione dell’argomentum a simili o di quello
a contrario è dipesa dalla scelta operata, nel caso concreto dall’interprete. Spetta
all’interprete la decisione se in caso di lacune egli debba applicare la norma
generale esclusiva, e quindi escludere il caso non previsto dalla disciplina del
caso previsto, oppure applicare la norma generale inclusiva, e quindi includere
il caso non previsto nella disciplina del caso previsto.
L’esistenza di due opposte soluzioni ermeneutiche, entrambe
percorribili, consente di meglio precisare anche il concetto di lacuna, che, come
insegna Bobbio “si verifica non già per la mancanza di una norma espressa per
la regolamentazione di un determinato caso; ma per la mancanza di un criterio
per la scelta di quale delle due regole generali, quella esclusiva e quella inclusiva,
debba essere applicata… Se vi fosse, in caso di comportamento non regolato,
una sola soluzione, quella della norma generale esclusiva, come avviene, ad
esempio, di solito nel diritto penale dove l’estensione analogica non è ammessa
potremmo anche dire che non esistono le lacune: tutti i comportamenti che
non sono espressamente proibiti dalle leggi penali, sono leciti. Ma poiché le
soluzioni, in caso di comportamento non regolato sono di solito due, la lacuna
consiste proprio nella mancanza di una regola che permetta di accogliere una
soluzione piuttosto che l’altra” (N. Bobbio, Teoria generale del diritto,
Giappichelli, 1993, cit. p. 255)
Certo, non entrambe le soluzioni risulteranno egualmente persuasive,
ma entrambe sono sempre idealmente pecorribili. La forza persuasiva della
soluzione di volta in volta individuata dipenderà dalla capacità del giurista di
individuare i punti di coincidenza o difformità tra le tra le fattispecie
interessate, argomentando razionalmente sulla opportunità di estendere ovvero
escludere l’applicazione della norma dettata per il caso particolare al caso non
regolato.
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