INTRODUZIONE ALLE DISPENSE DEL CORSO 2015-16 “Realismi”
Questo testo non sostituisce lo studio dei saggi della dispensa, ma ha lo scopo di
agevolarne la comprensione. E’ diviso in due sezioni. La prima sezione (pp.1-19) cerca di
tracciare uno scenario generale nel quale prende posto una contrapposizione polemica tra
il “realismo” e precedenti posizioni sia nella filosofia che nelle pratiche letterarie e
artistiche.
In questa prima sezione viene esposta la necessità di distinguere tra due definizioni
possibili di “realtà”, o meglio la necessità di distinguere due termini che di solito vengono
intesi come equivalenti: “realtà” e “reale”.
La seconda sezione (pp. 19-29) è invece una breve guida analitica a ogni singolo testo
della dispensa in cui vengono segnalati temi, concetti e posizioni importante da tenere
presenti nello studio, e anche collegamenti possibili tra le varie posizioni.
I TESTI DELLA DISPENSA SARANNO DISPONIBILI PRESSO COPISTERIA Fronteretro
(Viale Sarca) ENTRO GENNAIO 2016
SEZIONE PRIMA - Significati e usi della parola “realismo”
Si parla oggi da più parti di un ritorno al realismo. Provo allora a dare una prima
provvisoria a generale definizione di realismo. Lo definirei prima di tutto come
la credenza consolidata e condivisa –legata profondamente
al senso comune – che esista qualcosa là fuori, che non dipende
nella sua struttura e configurazione dall’osservazione, percezione,
interpretazione di un soggetto o dall’intervento costruttivo
di un logos. In questo senso, si tratta di “una questione
non controversa” come dichiara Franca D’Agostini
(D’Agostini, 2013).
Ne consegue che la conoscenza nel suo complesso è l’impresa che ha il compito di dare
solidità e saldezza scientifica a questa credenza basilare del senso comune. Il realismo
salda così ontologia (la teoria di ciò che c’è) e epistemologia, la teoria di ciò che possiamo
conoscere e del modo in cui possiamo farlo. Come osserva Enrico Berti, la questione del
realismo è connessa strutturalmente a una teoria della verità (Berti,, p.
).: se “realtà”
indica che là fuori c’è qualcosa di indipendente dalle nostre percezioni e dai nostri
“schemi”, la “verità” consiste nell’approssimarsi della conoscenza a questa realtà.
Perché si torna a discutere oggi su questo, in vari campi (la filosofia, la letteratura, il
cinema, per esempio)? L’ipotesi è che le parole realismo/realtà, a cui si dà un
“bentornato”, siano un indice adatto a contrassegnare il presente attuale come periodo di
domesticazione, o urbanizzazione, o normalizzazione delle asprezze alle quali si era
arrivati in conseguenza dell’egemonia culturale di un set transdisciplinare che va dal
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predominio della svolta linguistica al costruzionismo epistemologico al post-strutturalismo
alle pratiche letterarie delle Avanguardie e neo-avanguardie. Il post-strutturalismo
soprattutto, in un’accezione generica che indica grosso modo i pensatori della French
Theory, è un facile terreno di confronto e di polemica, insomma l’avversario o l’uomo di
paglia, lo strawman filosofico ideale, insieme al Rorty della svolta linguistica.
Oggi, cinquant’anni dopo il post-strutturalismo e la svolta linguistica, si delineano i contorni
di un’epoca di rinnovata credenza nella presenza, nella trasparenza, nel contatto diretto –
e in una forma più classica di soggettività. Alcuni “realisti” influenti affermano di credere
appunto nella possibilità che il pensiero possa entrare in contatto diretto con “la cosa
stessa”:
-
C’è qualcosa di duro e inemendabile là fuori (una salda roccia) accessibile
all’esperienza
L’esperienza è un contatto diretto che sfugge alle complicazioni del logos
Ci sono emozioni dirette, elementari, descrivibili anche in termini di hardware corporeo
Il soggetto si mette in rapporto di conoscenza come adaequatio rispetto a questa realtà
L’ipotesi dunque è questa: viviamo l’epoca della semplificazione delle asprezze
(concettuali, terminologiche, lessicali) che avevano caratterizzato la fase estrema del
modernismo.
E’ finita l’epoca in cui la scrittura non solo letteraria ma anche filosofica era un’esperienza
del limite (o dell’eccesso). E’ come se le parole dovessero ora essere restituite al loro
aspetto rassicurante, trasparente, referenziale. Pare che il realismo impegni questa
dimensione.
Le coordinate del modello realista nella filosofia recente
Al di là delle differenze tra i vari esponenti della posizione realista, proviamo a descrivere
le aree di contiguità, le risonanze semantiche che gravitano intorno alla parola-chiave
“realismo”. Nella sua grande opera degli anni Quaranta, Erich Auerbach definisce fin dal
titolo il realismo in letteratura come dargestellte Wirchilichkeit, o “realtà rappresentata”,
realtà passata entro il filtro della rappresentazione. Il realismo letterario, i cui massimi
rappresentanti si ritrovano nella letteratura francese della metà del Secolo XIX, è
caratterizzato da una “linea storica” definita dalla prevalenza del significato sulle strutture
linguistiche del significante. Così Aurelio Roncaglia:
“l’attenzione tecnico-retorica alle strutture linguistiche non è più esclusiva e nemmeno dominante; la
trascende un costante riferimento alle strutture immanenti dell’esperienza reale. Gli aspetti del
‘significante’ passano quasi in seconda linea dietro gli aspetti del ‘significato’ “ (Roncaglia, “Saggio
introduttivo”, in Auerbach, tr. it. 1956 p. XXX).
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Notare: “riferimento alle strutture immanenti
dell’esperienza reale”: questa terminologia
tornerà in tempi recenti, come vedremo.
Credo che l’attenzione al “significato” rispetto al “significante” sia una buona sintesi di una
delle più forti opposizioni attuali, quella tra realismo e formalismo. E la critica
all’autoriferimento del linguaggio a se stesso, della chiusura autoreferenziale, risuona in
molti dei critici “realisti” recenti.
Secondo Auerbach il realismo “consiste nella rappresentazione seria della realtà sociale
quotidiana contemporanea, sulla base del movimento storico classista” (Ivi, Vol. II, p. 296).
Esaminiamo brevemente una possibile rete di parentele. Essa comprenderebbe: una
teoria dell’essere come ciò che c’è o come “fatto”, punto di partenza dell’ontologia
(D’Agostini); una teoria della rappresentazione come adaequatio (Ferraris, D’Agostini);
una teoria della conoscenza/coscienza capace di entrare in presa diretta con la realtà
(Possenti); ma anche, nel contesto narrativo, una dimensione del soggetto come polo
necessario della rappresentazione (C. Comencini) fino a una sua dimensione di “eccesso”
(Daniele Giglioli: “eccessi dell’io”); la narrazione applicata all’esperienza del sé per la
ricostruzione di un’identità e di una permanenza dell’io (Jedlowski) e infine la
rivendicazione parallela, o complementare, di una indipendenza/prevalenza dell’immagine
come via più diretta rispetto al linguaggio o dell’iconicità come uno stato di “innocenza
delle immagini”: quest’ultima pare essere una delle declinazioni della “svolta iconica” (ad.
es, Mitchell, in Pinotti-Somaini). I correlati sarebbero l’enfasi sull’emozione e sull’empatia
come via diretta al rapporto soggetto/reale o soggetto/altri soggetti.
Tra tutti questi aspetti, il più importante, ciò che tiene insieme le varie versioni di realismo,
pare essere la ricerca di uno strato primario, l’idea o il desiderio che il soggetto si configuri
in modo da poter raggiungere in presa diretta la realtà – o sotto forma di logos referenziale
(ecco ritornare la questione della prevalenza del “significato”) o sotto forma di immagine:
come se bastasse appunto una sorta di presa diretto dello sguardo, dal momento che “le
immagini non hanno bisogno di traduzione” ha scritto recentemente Walter Siti.
Il tema filosofico
verrebbe dunque ri-declinato così: va rintracciata una via
diretta, primaria, che eviti le trappole e le mediazioni-interposizioni
del medium linguistico o che comunque metta in diretto contatto
il linguaggio e le immagini con “ciò che c’è là fuori”:
Vediamo ora una sommaria rassegna di alcune di queste posizioni. Già molti anni fa alla
voce “Realismo” dell’Enciclopedia Einaudi, si notava che la presenza di una realtà
indipendente è oggetto di una sorta di “assenso primordiale”, presupposto dal senso
comune (Micheli, 1980, p. 679; riferimento a Reid, ivi). Il termine “reale” notava però
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Micheli, ha due significati che il senso comune accoppia e non distingue: reale è ciò che
esiste oggettivamente e in modo indipendente dal soggetto; ma anche ciò che è più
importante, essenziale. Nella prima accezione si oppone a “soggettivo”, nel secondo a
“apparente”.
Emergono altre distinzioni nel dibattito recente. Una distinzione tra realismo “ontologico” e
realismo “gnoseologico” (Possenti, pp. 21-23): il primo afferma l’indipendenza del mondo
esterno rispetto al linguaggio e alla mente, il secondo (il vero “nocciolo duro” secondo
l’Autore) afferma una teoria della conoscenza secondo la quale la nostra mente può
cogliere l’essenza delle cose – insomma afferma l’intelligibilità e accessibilità del reale di
contro al suo carattere amorfo, caotico e inconoscibile.
Una distinzione complementare è quella tra realismo “metafisico” o “descrittivo” che
afferma che esiste una realtà di cui si può predicare il vero o il falso – e un realismo
“metodologico” o normativo che afferma la necessità di - (essere realisti: pensiamo alla
celebre posizione sostenuta a suo tempo nel dibattito estetico-letterario da Lukàcs, o
anche al motto militante “bentornata realtà!” che è il titolo di una delle molte recenti
pubblicazioni in proposito) (D’Agostini, Realismo? p.19).
Franca D’Agostini riassume la sua posizione in tre proposizioni “inconfutabili”: esiste una
realtà o meglio “esistono fatti”; esiste una sola descrizione vera dei fatti; a volte possiamo
fornire questa descrizione (ivi, p. 26). In ogni caso, la distinzione tra piano ontologico l’affermazione che qualcosa là fuori, indipendente e refrattario, c’è – e un piano definibile
come epistemologico – la teorie di come conosciamo quel che là fuori c’è – è
fondamentale e condivisa (cfr. per es. Ferraris, ER, “Postfazione”, cit. p. 579).
Le varie posizioni concordano anche sull’idea di un salutare “ritorno” al realismo, di una
“oggettiva rinascita” insomma (D’Agostini, p. 24; Ferraris, ivi p. 575): ecco presentarsi un
aspetto normativo, valutativo.
Ma perché rinascita? Questa dimensione realistica, del resto connessa al buon senso,
pareva essere stata per lungo tempo oscurata, messa in disparte. Secondo la
ricostruzione di Ferraris la storia comincia molto indietro, addirittura con Cartesio, per
approdare attraverso Kant al Nietzsche di Su verità e menzogna in senso extramorale,
diLa gaiascienzae dei Frammenti della seconda metà degli anni Ottanta del XIX Secolo:
come noto è questa fase che culmina con l’affermazione incriminata, “non ci sono fatti,
solo interpretazioni”.
Ora, i veri eredi di Nietzsche (secondo Ferraris) sono i “postmoderni” con la loro
confusione irresponsabile di realtà e finzione e la loro negazione del valore di verità. In
un’altra ricostruzione (D’Agostini) la situazione è stata prodotta invece da una confusione,
da una cattiva mescolanza tra le due tradizioni, quella analitica di origine anglosassone, e
quella europea egemonizzata dal set potstrutturalismo/ermeneutica/teoria critica
francofortese. Il risultato scrive la studiosa è una “stultificazione” del dibattito, di cui
occorre far giustizia.
Dunque la crisi di questo modello egemonico, soprattutto in riferimento all’ermeneutica,
secondo Enrico Berti è l’occasione per la ri-emergenza del tema del realismo (Berti, in
Lavazza-Possenti, p. 53).
Ma esiste anche una versione debole o “negativa” di realismo, sostenuta da Umberto Eco
(e a suo tempo anche da Ferraris in una precedente versione del suo modello) e illustrata
attraverso l’efficace metafora del cacciavite: un cacciavite può servire a molte pratiche ma
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è sconsigliabile usarlo per pulirsi l’orecchio e in ogni caso non si può usare come
bicchiere. Dobbiamo dunque pensare la realtà (il cacciavite) come una sorta di zoccolo
duro o un insieme di “sensi” permessi e vietati. Insomma non tutte le interpretazioni (e le
pratiche) sono possibili, i sono linee di resistenza appartenenti alla cosa, all’oggetto, che
sono in grado di opporsi agli eccessi dell’interpretazione.
Proviamo ora a estrarre da questa rapida ricognizione alcuni aspetti comuni:
-
l’indipendenza dell’oggetto; l’identificazione di “reale”
in senso proprio come ciò che “esiste” secondo la fisica (D’Agostini p. 180);
-
una teoria della verità come adaequatio o una delle sue varianti:
per esempio, verità è quando la mente si riconcilia con il reale
da cui proviene: Ferraris, “Realismo positivo” ; oppure
D’Agostini, p. 21: l’esser vero (di una proposizione) è ciò
che è “corrispondente a come stanno le cose nel mondo”;
-
la ripresa di una nozione di “esperienza” come percezione
diretta, contatto pre-linguistico o non linguistico
(primarietà dell’esperienza sul linguaggio: Sacchi p. 111;
Possenti,nozione di realismo “diretto”);
-
una ripresa della nozione di “fatto” , qualcosa che dice no,
o anche “qualcosa su cui si può mentire” (D’Agostini);
-
il ruolo attivo del soggetto che “intenziona” il mondo (Possenti,
-
la possibilità di accordo sulla verità ovvero la presupposizione
o la credenza (kantiana, poi ripresa da altri tra cui Habermas)
di un “mondo in comune” a cui fare riferimento;
-
la stessa definizione più volte presente nelle varie versioni,
di “mondo”, ovvero di una realtà non amorfa, non caotica
e insensata, ma strutturata, dotata di una sua “logica”.
);
Come notava Roland Barthes, (“L’effetto di reale”, 1968); possiamo definire “realista” “ogni
discorso che accetti enunciazioni legittimate dal solo referente” (p.158). Ma nella versione
più rigida, quella di Franca D’Agostini (“Pugni sul tavolo” in Realismo?, cit.) le tesi del
realismo sono “anelenctiche” ovvero inconfutabili, devono essere accettate se alle parole
si dà il loro giusto senso.
Chi si proclama antirealista “metafisico” con affermazioni dl tipo “la realtà non esiste” o “i
fatti non esistono” o usa in modo diverso le parole o sta parlando d’altro o semplicemente
non sa quel che dice (D’Agostini, cit. p. 168). Il punto di partenza dunque è semplicemente
“logico” o riguarda un uso semanticamente corretto (cioè condiviso) dei termini. Si passa
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dal piano logico al piano “metafisico” quando l’affermazione di esistenza della realtà si
specifica in una discussione su che cosa sono e come sono fatti “i fatti”. E’ a questo punto
che Franca D’Agostini, che aveva sostenuto la tesi dell’importanza che non siano solo le
scienze empiriche ad occuparsi della realtà, ma che un ruolo fondamentale spetti alla
filosofia, anzi a una sua versione forte, la “metafisica”, riconosce che le cose, insomma “i
fatti” in senso forte, anche quando li si voglia definire come “combinazioni di oggetti e
proprietà” (ivi, p. 178), sono in ultima analisi proprio quelli di cui parla la fisica.
Notiamo la clausola fondamentale: se si dà alle parole il loro senso … cioè: il senso
consueto, condiviso: non a caso Franca D’Agostini cita il libro “gamma” della Metafisica di
Aristotele, cioè il libro delle definizioni e dei “significati dell’essere” (Met. 1002 33 sgg.)
insomma il libro che stabilisce le regole della grammatica alla quale poi tutto il pensiero
filosofico posteriore si è riferito – almeno fino alla grande discontinuità di cui abbiamo fatto
cenno. In questa chiave davvero il ritorno al realismo suona come una restaurazione, un
“bentornato”.
Dunque “realismo” si oppone a “formalismo” (Berti, Possenti), “postmoderno” (Ferraris), o
semplicemente a qualunque forma di “antifilosofia” (D’Agostini) dal momento che la
filosofia non può che essere metafisica e questa è la domanda intorno a ciò che c’è,
l’essere, la realtà. Insomma la filosofia o è realista o non è filosofia. Chiaro.
E se invece la contesa – la linea di demarcazione o anche la linea di resistenza - non
passasse tra, diciamo, la coppia stretta realtà/reale, da un lato, e dall’altro l’irrealismo, il
formalismo, l’antirealismo, il costruttivismo, il predominio linguistico, il primato del
significante sul significato, il predominio del concettuale sul percettivo, il predominio del
testo sul fuori-testo, il predominio delle interpretazioni sui fatti - non passasse, diciamo, per
l’esterno ma per l’interno? Insomma solcasse e dividesse proprio la coppia realtà/reale,
dando del reale una definizione di ciò che alla realtà e al soggetto che la percepisce o la
comprende, non si assoggetta?
Realtà e soggetto, in tal caso, farebbero parte dello stesso insieme: il soggetto appunto
“intenziona” il reale/realtà, vi si indirizza, vi trova il suo senso, la sua direzione di
riferimento, il suo compimento cognitivo.
Ma la realtà è il reale? Un altro realismo
C’è qualcuno, nel contemporaneo, che “usa le parole in modo diverso”, e un differente uso
della parola instaura un differente modo di vedere “il mondo”. Questo differente uso della
parola è anche un punto di resistenza. Questo punto di resistenza fa perno proprio su un
diverso uso di “reale” non complanare ma opposto o contrapposto a “realtà”. E’ una
tradizione che, non a caso, risale principalmente a uno degli autori che più o meno
esplicitamente sono considerati corresponsabili dei misfatti anti-realistici, ovvero i
pensatori della cosiddetta French Theory attualmente sotto accusa. Questo uso infatti
risale a loro e in particolare a Jacques Lacan: “realtà” e “reale” non sono complementari o
sinonimi, i termini non hanno lo stesso senso e riferimento. Si tratta appunto di una tesi
che va contro il “senso comune”.
Prendiamo alcuni degli strani sinonimi di questo altro reale, o un frammento della rete
semantica in cui lo troviamo: osso, granello, ostacolo, “lamella”, carne viva, “impossibile”.
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Lettera. Informe. Anche “godimento”, e anche “evento”, interruzione, rottura, squilibrio o
perturbazione del campo o del saldo terreno che congiunge il soggetto con il qualcosa là
fuori. La provenienza prevalentemente, ma non solo, psicoanalitica di questo “reale”
permette di affermare che in realtà questo fuori è interno: è “estimo”, è un esterno
dell’interno.
Dell’interno di che cosa? Del linguaggio, della rappresentazione, della stessa immagine
come raf-figurazione. Questo punto è importante, lo mette in rilievo Deleuze quando parla
della pittura di Francis Bacon: non si tratta di contrapporre la figurazione all’astrazione, si
tratta di passare all’interno (della figurazione, ma anche del linguaggio) per distorcerla e
produrvi altri eventi.
Questo reale c’entra con la percezione? È diretto?
Sarebbe ben diverso e incompatibile con il rassicurante
termine esterno della percezione che si chiama
“oggetto”. Anzi, non riconciliabile con la “oggettività”
che sarebbe appunto il carattere della “realtà”: aperta,
condivisibile, parte del “mondo in comune”.
La realtà, appunto, non è informe ma è sensata, dicono i realisti. Lo spiega bene Umberto
Eco: presenta dei versi o delle direzioni o dei “sensi” permessi o vietati. E’ logica. E’
compatibile con il logos e dunque può essere conosciuta, articolata dal linguaggio anche
se lo precede. La realtà, diremmo, è dotata di un senso che la conoscenza può
rintracciare.
Allora però questo diverso uso descriverebbe un incontro con qualcosa di diverso: il reale
è fuori-senso, fuori-sesto. Lo si può solo toccare, quando i sensi vanno out of joint, si
dissestano.
Lacan
Si possono prendere come punto di riferimento alcune affermazioni di Lacan dal
Seminario XXIII, dedicate alla riflessione sui “nodi borromei” e sulla scrittura di Joyce. E’
l’ultimo Lacan, quello che si accosta al regime del reale, appunto.
Che cos’è un nodo borromeo, il nodo formato da una strana disposizione di cordicelle e
che ritroviamo nello stemma della nobile casata lombarda? Potremmo definirlo come un
particolare intreccio di tre cerchi che permette, sciogliendo uno dei tre, di sciogliere l’intero
nodo. Ma per Lacan è una scrittura, e anche il prodotto di una pratica (di una techne, in
senso proprio) la cui caratteristica principale consiste nel fatto che “non significa nulla”,
insomma elude il senso. Un semplice e insensato gioco di corde che mostra, illustra o
anche “simbolizza”, cioè che fa pensare il reale, questo altro reale sottratto al senso.
Per l’ultimo Lacan, il legame direzionale (sensato) tra significante-lettera e significato, il
legame di intenzionalità che tiene insieme le parole e le cose, il linguaggio e il mondo, si
occlude. Attraverso la figura del nodo e la scrittura di Joyce, così lontana dalla
trasparenza, si tratta di “toccare” questo, che non è cosa. E’ la materialità di una lettera in
cui si deposita uno stato del soggetto – uno stato di godimento – che non ne vuol sapere.
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Joyce è il suo eroe eponimo, la sua insegna: è un “a-Freud”, dice Lacan. Che significa? La
scrittura di Joyce è l’invenzione che gli permette di fare da esempio, perché mostra un
modo di maneggiare, di averci a che fare, diverso da quello logico. Anche Freud in fondo,
constata Lacan, ha usato ancora il logos, è rimasto dentro la cerchia di un inconscio che
parla, che manifesta un “dire”. L’inconscio “di Freud” non è ancora “il nostro inconscio”, si
potrebbe dire che la sua realtà non è ancora il reale con cui si misura Lacan. La talking
cure freudiana era una pratica clinica che esponeva l’inconscio ancora nella dimensione
del senso, del logos, del linguaggio.
In fondo la pratica freudiana con tutto il suo sconvolgente potere rivoluzionario risponde
ancora a un ordine di realtà, il sapere dell’inconscio freudiano è ancora un dire, un sapere
parlato, sensato (S XXIII, p. 124): “nonostante tutto il dire punta a essere inteso (…)
l’inconscio ha un senso” (ivi, p. 126), un sapere che si dice e si parla (logos).
E’ importante notare che a questo punto Lacan parla esplicitamente di una connessione
tra logos, realtà e verità, cioè fa un ritratto della situazione che corrisponde proprio alle
coordinate realistiche – a patto che, appunto, si parli di realtà: “il vero è un dire” – cioè un
logos – “conforme alla realtà” (ivi, p. 129). Ma realtà è precisamente ciò che “funziona”, ciò
che ha un senso, cioè una direzione, un versante o un verso (ricordiamo la precisazione di
Eco). Tuttavia “il mio reale”, che Lacan aggiunge, o contrappone, a quello che accomuna
Freud con il realismo, quello “di cui mi servo”, è altro. L’istanza del discorso/sapere di
Freud “non presuppone il reale di cui mi servo”, ma, appunto, il senso della realtà. La
scoperta freudiana del “sintomo” – ciò che l’inconscio vuole dire – appartiene in fondo
ancora al “campo del senso”, al mondo-in- comune di cui si parlava insomma (ivi, p. 131).
Conferma di ciò che avevamo notato: reale, senso, mondo in comune, soggetto del logos
stanno insieme.
Allora c’è un altro reale. Per toccarlo Lacan non può servirsi, come se si trovasse sullo
stesso terreno, del sapere e del dire; dal suo specifico punto di vista, quello della pratica
analitica, che non bisogna dimenticare, propone di spostarsi e di riconoscere un altro
piano. Il reale si oppone a ciò che può essere detto, portato al linguaggio e al senso, e
l’orientamento a questo reale “forclude” il senso (ivi, 118) mentre la psicoanalisi con Freud
era arrivata, certo, a produrre un “cortocircuito” rispetto al linguaggio comune – ma questo
cortocircuito passava pur sempre per il senso (ivi, p. 118). Il motto di spirito, il Witz (Freud,
1905) è comunque un senso doppio, un senso sviato ma ricco, più ricco del sensocomune: è, appunto, un “motto di spirito” dove l’inconscio “parla”.
La realtà, punto di approdo dell’impresa cognitiva, è fatta di “oggetti”. Ma qui, nel reale,
non c’è oggetto, c’è piuttosto un “torsolo” intorno a cui il senso, il linguaggio, possono solo
girare. Il reale sfugge precisamente alla presa di realtà/verità, al dispositivo cognitivo
realista. E’ importante notare questa differenza: se parliamo di realtà, allora il realismo e la
sua teoria della verità hanno ragione, anche per lo stesso Lacan, in fondo. Ma se parliamo
di reale, parliamo di altro. Ciò che si cerca di accostare, di toccare, fugge all’alternativa
si/no, che è ciò che il discorso di verità pretende: vero è ciò che è conforme a come
stanno le cose, dicono i realisti, falso ciò che non lo è: devi dire sì o no rispetto a un
referente, a un “fatto”, per fare un discorso di verità “realista”.
Notiamo che Lacan accetta questo modello, per differenziarsene. Insomma il reale, posta
l’alternativa tra realisti e antirealisti - esistono/non esistono “fatti” - sta da un’altra parte e
non prende una delle due parti, che sarebbe come aderire necessariamente all’alternativa
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si/no. Appunto, con molta chiarezza Lacan dice che ogni discorso che si assoggetta al
paradigma di verità tende a cancellare, dietro la pretesa di discorso vero, la presenza di
questo reale che “non si collega a niente”. Il “realismo”, si può dire, con la sua gabbia
si/no, cancella il reale dell’inconscio.
Il problema che Lacan pone, partendo dall’interno della sua specifica pratica, è un
problema per la stessa filosofia: non si tratta più di “conoscere”, insomma di portare al
logos. Si tratta di “toccare”. Toccare è diverso da dire. Questo reale lo si tocca, e non è un
intero – ricordiamoci la passione per l’intero, per la totalità, che anima tutti i realisti dai
filosofi del presente, all’indietro, fino a Lukàcs e dietro di loro a Hegel.
E’ fuori-discorso? No, richiede un differente uso del linguaggio e del senso. Si scrive, o se
si dice è un dire fuori sesto, una deformità del dire – come nei linguaggi della letteratura
dell’alto modernismo. Un linguaggio lontano dalle regioni dell’equilibrio, un balbettio della
lingua, dirà Deleuze in Critica e clinica. E’ la scrittura di Joyce e di tutta l’avanguardia,
certo, ma anche la scrittura ultima del “realista” Pasolini, di Petrolio e del suo “cinema di
poesia”. “Qualcosa di scritto”, aveva intuito Pasolini, ovvero: qualcosa che si può e si deve
solo scrivere.
La scrittura di Joyce ha per Lacan interesse perché pare che lui abbia trovato una via che
passa al di fuori, di lato all’intendere, all’intenzionalità, al dire come logos o scrittura
dell’anima. E occorre aggiungere: si può solo scrivere o mal-dire (Beckett) perché possa
mostrare in questo il godimento, lo stato pulsionale e non l’intenzionalità cognitiva del
soggetto. Ma allora la scrittura sarà una pratica singolare e non universale, rivelerà
un’altra dimensione del soggetto rispetto al dire-conforme-al-vero.
E il reale si scrive anche nella strana scrittura delle cordicelle e dei nodi, le cordicelle del
nodo borromeo (e le elaborazioni che ne fa Lacan sembrano richiamare le scritture
precolombiane fatte con nodi e cordicelle). In ogni caso sono il corrispondente del modo
joyciano di usare il linguaggio, sono una techne. Lacan è in cerca di una nuova scrittura
che, rileva, ha una “portata simbolica” (S XXIII, p. 128).
Forse la parola simbolo” è fonte di confusione, forse si potrebbe usare “esibizione”: la
scrittura a-significante dei nodi esibisce o certifica, testimonia l’evento di un contatto con il
reale che fa-godere. E’ in quanto pratica di godimento singolare che “assomiglia” alla
scrittura di Joyce. Questa modalità materiale di maneggiamento insomma è un
equivalente singolare della techne che Joyce esercita sulla scrittura diventata “lettera”: un
significante, certo, ma opaco e piuttosto parte di una lingua-corpo (Bonazzi, 2009).
Se ne può parlare? Quando e se ne parlo, allora “parlo del reale come impossibile”:
“parlo del reale come impossibile nella misura in cui credo appunto che il reale (…) il reale
sia, bisogna pur dirlo, senza legge. Il vero reale implica l’assenza di legge. Il reale non ha
ordine. (…) dico che l’unica cosa che forse un giorno riuscirò ad articolare qui con voi è
qualcosa che riguarda ciò che ho chiamato un lembo di reale” (Lacan, S XXIII, pp. 134135).
Continuiamo a tenere presente l’insistenza dei realisti: la realtà ha un senso, ha un ordine,
non è caotica… Dunque per Lacan invece ciò che si può comunque “articolare” non è
dell’ordine dei discorsi ma delle pratiche, non è una totalità ma se ne possono dare
“lembi”.
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Toccare, mostrare, mettere in opera. Si oppone a
dire, portare al logos, “articolare” nel senso della
compiutezza discorsiva. Le cordicelle di Lacan
sono un modo per entrare in contatto fisico,
corrispondente alla scrittura letteraria del reale
“di Joyce”. Due modalità parallele e singolari, due modi
di esporre il singolare del godimento.
Questo reale, per Lacan, è infatti il nucleo di godimento del soggetto che non è possibile
trasferire nel linguaggio (se non a lembi). Ma, ecco il punto: perché tentare di pensare
questo reale impossibile sarebbe oggi (dopo Freud, bisogna dirlo) “necessario”? Che cosa
c’è, nelle singolari tecniche lacaniane, che parla anche alla filosofia e al presente?
Quello che Lacan cerca di descrivere come “il nostro inconscio”, l’inconscio che non è
compreso nemmeno nel dire freudiano, anche se ne deriva, è il segno di una specifica
situazione non solo clinica ma anche storica. E’ una piega storica del soggetto e non solo
una specifica evoluzione della disciplina chiamata psicoanalisi.
E’ la situazione nella quale dobbiamo fare i conti con il fatto storico che “non c’è Altro
dell’Altro” (ivi, p. 124). Non c’è più un Altro che “risponde”, un intero di senso – Dio o “la”
Donna, esemplifica Lacan. Potremmo dire anche: questo Altro ha anche le vesti del
mondo-in-comune che è la credenza del Moderno, e al quale si appellano i realisti nella
loro istanza di verità. Questa constatazione apre un altro scenario, quello della crisi della
“efficacia simbolica”.
Ma che cos’è il simbolico? Una buona definizione di partenza la troviamo in un libro di
Judith Butler:
“l’insieme delle regole di soglia che rendono possibile e intelligibile la cultura, e che non
sono né del tutto riducibili al loro carattere sociale né scisse in modo permanente dalla
sfera del sociale. (…) regole che presiedono all’intelligibilità culturale ma che non sono
riducibili a una data cultura” (La rivendicazione di Antigone, tr. it. 2003, p. 32).
Ora, quello che rende così importante questa versione del reale per noi oggi, consiste
nello scenario differente che il termine reale apre: l’irruzione del reale, la necessità di
tenerne conto, di pensarlo in termini esterni al modello realista, è in rapporto con la fine
(storica) dell’Altro dell’Altro, Grande Altro o ordine simbolico o mondo-in-comune. I realisti,
si potrebbe dire, non se ne sono accorti. Questa situazione impone una deriva radicale
all’ultimo Lacan: le regole che presiedono all’intelligibilità (Butler) sono crollate, in questa
situazione il soggetto deve averci a che fare con il reale dopo il Simbolico collassato.
Zizek
Tra gli interpreti contemporanei di Lacan è certamente Slavoj Zizek che ha tratto le
conseguenze più significative per la filosofia, per la cultura in generale, da questa
situazione, e ha approfondito la distanza tra realtà e reale e il particolare statuto
dell’immagine che ne deriva.
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Ne Il soggetto scabroso il filosofo sloveno descrive il proprio progetto di ricerca come una
ontologia sociale o meglio ancora, “politica”. Il ricorso a questa parola, ontologia, ci
informa che almeno per l’autore ci troviamo su terreno comparabile a quella della grande
tradizione filosofica, quello stesso cui fanno riferimento i realisti. Ontologia, ovvero una
domanda sull’essere. In questa ontologia l’ordine simbolico, o Grande Altro o Altro
dell’Altro, è l’ordine comparabile con la “realtà” (Benvenuti… p. 20). La realtà e il senso
della realtà dipendono dall’efficienza e dal buon funzionamento delle “coordinate
simboliche”, l’insieme delle regole, secondo Butler. La sua “efficacia” (“L’immagine…” p.
56 e 59) è garanzia della nostra identità.
Questa situazione è connessa, sul piano intersoggettivo, a una forma condivisa del
“credere” che non può funzionare senza “un minimo di idealizzazione”. Come il mondo in
comune di Kant, si tratta della credenza nella possibilità e validità di una Legge che motiva
l’accordo intersoggettivo. L’accordo può essere presupposto come base dello stesso
dissidio. E’ questo mondo in comune che rende possibile pensare l’intesa di cui parlano
per esempio D’’Agostini e Berti.
Nel modello di Zizek l’ordine simbolico non è quello della realtà contrapposta
all’apparenza, ma è quello della “apparenza reale”. La realtà è il Simbolico quando
funziona (“L’immagine, …”). E’ l’esito, e non il presupposto, del buon funzionamento delle
apparenze-reali. Ora, la constatazione storica consiste nel rilevare che questo buon
funzionamento, questa efficacia, non funzionano più (“la realtà è ciò che funziona” aveva
appunto affermato Lacan). Il nocciolo della “realtà” è precisamente nella sua capacità di
tener lontano, di arginare “l’orrore del reale”. La realtà è il reale, al giusto grado di
idealizzazione, si potrebbe dire. Dove la nozione di “idealizzazione” gioca a quanto pare
un doppio ruolo. In primo luogo, eleva il piano empirico dell’esistente su un altro piano di
validità. Certo, i singoli sono fallibili e incompleti, ma noi possiamo continuare a credere
che all’infinito, asintoticamente, l’ordine simbolico possa effettuarsi, completarsi. Il nocciolo
è la credenza condivisa nell’Intero. Mentre sul piano empirico il funzionamento della Legge
è sempre carente, difettoso, “bucato”, la nostra credenza nella sua validità come termine
di confronto resiste.
In secondo luogo, l’idealizzazione o apparenza reale necessaria mostra il suo ruolo sul
piano degli artefatti. Qui Zizek pare riprendere una riflessione lacaniana sull’arte e sulla
sua portata “pacificante”. L’arte, e in generale il piano estetico, sono al servizio delle idee
simboliche in quanto sostengono la credenza-idealizzazione coprendo, allontanando il
reale. Questo si manifesta proprio nella prossimità eccessiva, è il troppo-vicino, sostiene
Zizek: appare quando salta la distanza (simbolica). L’ordine di realtà non ci mette dunque
al contatto con “la cosa stessa”, ma nemmeno il reale lo fa. La “cosa stessa” in realtà è
essa stessa il prodotto di un’idealizzazione riuscita.
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Il crollo dell’efficacia simbolica e del buon
funzionamento delle apparenze si potrebbe
svolgere così: è una situazione che porta alla luce,
che mette in luce una dimensione strutturale
del Simbolico, cioè la sua costitutiva incompletezza.
Nella battuta di Zizek non solo “Dio è morto”, ma più
profondamente, è sempre stato morto – il Grande
Altro o l’Altro dell’Altro non c’è mai stato, “solo che
non lo sapeva”. La sua efficacia si basa precisamente
su questo punto opaco.
Se l’ordine simbolico era il terzo in grado di tenere insieme immaginario e reale nel
modello dell’apparenza-reale, e di conseguenza costituiva la garanzia della nostra fragile
identità (“L’immagine…” p. 59) la sua dissoluzione, il venire in luce della sua strutturale
incompletezza, producono una dissoluzione della realtà stessa: da un lato il precipitare in
una situazione di mostruoso “reale pre-ontologico” – l’informe, l’escremento, la carne
senza pelle - e dall’altro la moltiplicazione infinita delle “maschere” intercambiabili di un
immaginario scatenato. Per questo, insiste Zizek, occorre abbandonare la facile
contrapposizione tra l’apparenza e un reale/realtà “nascosto dietro l’apparenza”
simulacrale (Benvenuti… p. 34). Tutto il XX Secolo, osserva il filosofo sloveno, è stato
ossessionato da una sorta di passione per il reale (ivi, p. 16) che non è altro che il segno
reattivo di una condizione di assenza, di una percezione dell’Altro mancante come
garanzia della realtà. Ne consegue il bisogno di inventare regole che ne suppliscano
l’assenza (Il soggetto scabroso, pp. 418-19).
Proprio la posizione dell’immagine appare allora singolare e rivelativa di questa
condizione: essa si trova come in bilico “tra realtà e reale”. Non può più essere pensata
come la rappresentazione-riproduzione della realtà (codice realistico) ma nemmeno come
un rutilante caos o una fantasmagoria libera da qualunque riferimento (codice
“postmoderno”). Si tratta, attraverso un ritorno a Lacan che appare la ripetizione del
movimento lacaniano di ritorno a Freud, di trovare il modo di averci a che fare, privi della
credenza simbolica – cioè del “realismo”.
Articoliamo sommariamente la contrapposizione tra due forme di “realismo”, quello che si
riferisce alla realtà e quello che ha di mira il reale:
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“Realtà”
“Reale”
Intenzionalità
Trasparenza
Immediatezza dell’immagine
Esperienza diretta veridica
Verità come adaequatio
Narrazione referenziale
Egoità
Empatia
Traccia come produzione del soggetto
Fine dell’efficacia simbolica
Opacità
Ripetizione
“Osso di traverso”
verità come ordine parziale
Informe, carne viva
Inconscio
Extimité
Traccia originaria
Testimonianze recenti dal campo estetico: letteratura e arti
In riferimento allo specifico estetico dunque la domanda sarebbe: ora a che punto siamo,
dopo la svolta linguistica, dopo il formalismo, dopo il predominio della deriva ermeneutica,
dopo il “postmoderno”?
Il ritorno del reale (Return of the Real, 1996) viene tematizzato in un importante lavoro del
critico americano Hal Foster nella seconda metà degli anni Novanta, precisamente in
contrapposizione sia al realismo della rappresentazione sia all’enfasi post-strutturalista sul
linguaggio come orizzonte insuperabile. Al centro di questa seconda deriva verso il reale
pare essere la nozione di “trauma”.
Secondo Foster l’arte contemporanea mostra un ritorno del reale un tempo “represso dai
vari post-strutturalismi” (Foster, cit. p. 49). Il critico allude qui precisamente alla “svolta
linguistica” e al problema del linguaggio. Ora questa epoca, anche per Foster, è passata.
Però il realismo-del-reale, se così possiamo dire, si contrappone tanto al poststrutturalismo, quanto al “realismo” di cui abbiamo parlato: infatti lo stesso realismo
classico, osserva Foster, è da considerare a sua volta come una forma di “idealismo”. Il
progetto di opera d’arte che il realismo mette in atto implica un “significato trasparente alla
sua struttura” (ivi, 78). Ricordiamo che il predominio del significato sulla struttura
linguistica era appunto uno dei cardini della definizione del realismo in estetica. Ma la
trasparenza è ottenuta per selezione, per idealizzazione appunto, per intervento di una
scelta formale che fa cornice e conferisce senso alla congerie dei particolari empirici: la
nozione di “tipico” che troviamo in un grande teorico del realismo come Lukàcs illustra
bene questa situazione. Il tipico del realismo secondo Lukàcs è
“quella particolare sintesi che tanto nel campo dei caratteri che in quello delle situazioni
unisce organicamente il generico e l’individuale. (… Il vero grande realismo ritrae dunque
l’uomo completo e la società completa, invece di limitarsi ad alcuni dei suoi aspetti “(Saggi
sul realismo, 1946, tr. it. pp. 15-16).
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La realtà che leggiamo o vediamo nelle opere d’arte realiste, osserva Foster, è effetto
dunque di un lavoro della rappresentazione (Foster, ivi, pp. 148-149). Per contro, la svolta
verso il reale si manifesterebbe o nella semplice presenza dei particolari, delle singolarità
vuote di senso, indifferenti, o all’altro estremo nel tentativo di mostrare il “trauma”, “la ferita
e la carne” come suona il titolo di un capitolo introduttivo del recente lavoro di Daniele
Giglioli (2011).
Perciò Foster vede nel contemporaneo un tentativo di affrontare e formalizzare
l’esperienza del trauma (ivi, p. 163). Si tratta nel complesso di
“ una svolta enfatica verso il corporeo e il sociale, l’abietto e il site-specific. Da un regime
convenzionale nel quale niente è reale e il soggetto è superficiale, molta arte
contemporanea presenta la realtà nella forma del trauma (…). Dopo l’apoteosi dei
significante e del simbolico (…) siamo testimoni di una svolta verso il reale da una parte,
verso il referente dall’altra” (Foster, ivi, p. 127, corsivi miei).
Appunto: il reale da una parte, il referente dall’altra. Lo scenario è molto chiaro: “reale” e
“referente” (o meglio: “referenziale”) sarebbero ciò che accade “dopo” il predominio del
“significante” (post-strutturalismo, svolta linguistica, formalismo…). Il reale di cui parla
Foster fa riferimento esplicitamente al pensiero di Lacan proprio nella sua differenza dalla
“realtà”.
Ma che cos’è, che cosa può essere un’esperienza del trauma? O meglio: ci può davvero
essere “esperienza” del trauma? Se per esperienza intendiamo, nella sua formulazione
classica, “il primo prodotto che dà il nostro intelletto quando elabora la materia greggia
delle sensazioni” come scrive Kant all’inizio della Critica della ragion pura, allora del
trauma non c’è direttamente esperienza né elaborazione cognitiva. E’ come se il trauma
fosse la piega fantomatica in negativo di quella solida esperienza diretta delle cose là fuori
di cui parla appunto il realismo.
Dunque, si può dire che il “ritorno del reale” abbia un secondo senso, ricavato dalla
complessa nozione freudiana di Nachtraeglichkeit, tradotta nel pensiero francese come
aprés-coup e quasi intraducibile nella nostra lingua. Forse la si può tradurre con
“rappresentazione retroattiva”. Il trauma è un reale che ritorna perché può solo vivere nel
ritorno, o nella seconda volta (aprés, appunto). Non riconquista di un evento a suo tempo
incompreso, ma piuttosto “incontro mancato”. Il trauma ha questo carattere, secondo
Foster. C’è solo la seconda volta, nach (“dopo”), proprio perché il momento del trauma di
per sé sfugge all’esperienza. Ma questa seconda volta in realtà lo manca in quanto lo
rappresenta. Nella presentificazione del trauma dunque l’arte “del ritorno del reale” cerca
di far-vedere, di rendere-fenomeno qualcosa che al fenomeno (il termine dell’esperienza)
per sua natura sfugge.
Daniele Giglioli osserva a questo proposito che in realtà questa forma di trauma diventato
oggetto di insistente e ripetuta rappresentazione, pertiene piuttosto al campo
dell’immaginario. Certo, Giglioli ripete con Foster e con Lacan che
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“il reale è ciò che testardamente resiste a ogni tentativo di simbolizzazione. E’ un buco
nell’ordine simbolico (…) ha la natura (…) dell’evento senza senso, traumatico in quanto
non può essere elaborato, simbolizzato (Senza trauma, pp. 16-17).
Ma allora bisogna sottolineare ancora una volta che si tratta di una “esperienza” che
proprio in quanto non “vissuta” può essere solo “ripetuta”. Il corrispettivo del trauma è la
sua ripetizione.
Ne consegue che sul piano estetico si manifesta una sorta di ripetizione immaginaria di
questo non-vissuto. Così quelle che Giglioli chiama “scritture dell’estremo” possono
essere, al pari delle arti dell’informe o dell’abietto di cui parlava Foster, solo “il tentativo di
rimotivare a posteriori i segni vuoti in cui ci rispecchiamo” Ivi, p. 18).
Walter Siti ha affermato appunto, dal suo punto di vista di scrittore e dunque di testimone
attendibile dello scenario estetico, che “il realismo è l’impossibile”. Credo che nel suo caso
si tratti di un realismo del reale, non della realtà (o del Simbolico, che è lo stesso secondo
le coordinate di Lacan e di Zizek).
Così anche per Siti il reale si coglie proprio quando nell’esperienza letteraria “il verosimile
va in frantumi” (Siti 2013, p. 32), e gli stereotipi vengono sospesi (ivi, 66). Nella
professione di poetica dello scrittore italiano, “il realismo, per come la vedo io, è l’antiabitudine: è il leggero strappo che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale (…)
è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che
coglie impreparata la realtà” (ivi, p. 8). E, a proposito della connessione di questo reale
con il soggetto, al contrario di come si potrebbe pensare, l’auto fiction, - la tecnica
praticata dallo scrittore - non pertiene a un io narratore che si identifica con l’esperienza
dell’autore e piattamente constata se stesso in contatto con le cose intorno (la “realtà
quotidiana” di Auerbach) ma mette in scena piuttosto un “io sperimentale”, un trickster e
non “un testimone della verità” (ivi, p. 65).
Non è un caso che nelle pagine critiche di Siti appaia anche una polemica contro il
realismo, nella sua versione recente di New Italian Realism parallela al nuovo realismo in
filosofia. Secondo Siti
“questa riapparizione della realtà ha imboccato sostanzialmente quattro strade: 1) la crisi
economica e la difficoltà di lavoro per i giovani; 2) il romanzo storico con particolare
riguardo al nazismo e alla criminalità organizzata; 3) un nuovo impulso autobiografico, con
idiosincrasie personali in primo piano; 4) un ritorno al romanzo mimetico tradizionale, con
approfondimenti soprattutto psicologici” (ivi, pp. 65-66).
Prendiamo in esame brevemente ora l’altra deriva, quella “realista”. Roland Barthes
definiva a suo tempo il realismo come un’operazione basata sul “riconoscimento del già
noto”. Una breve ricognizione del materiale (testi, interviste) riconducibile al nuovo
realismo in letteratura e nelle arti visive o nel cinema porta alla luce lo stesso set di
presupposti che abbiamo riassunto a proposito del nuovo realismo in filosofia:
accostamento a-problematico al quotidiano, desiderio di uscire dall’autoriferimento del
linguaggio, emergenza di un soggetto che rappresenta/intenziona un reale là fuori,
intersoggettività empatica basata sul presupposto di un “mondo in comune” che l’opera
d’arte a sua volta presenta o arreda.
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Andrebbe ricordato che l’etichetta “nuovo realismo” è ricorrente. Non solo, come è stato
notato, anche gli scrittori e gli artisti più estremi rivendicano una forma di realismo. Si
pensi al suffisso sur- coniato proprio da una delle Avanguardie del Novecento a indicare la
tensione verso un grado più intenso, più elevato di “realtà” (o di “reale”?). il che ci
riconduce all’osservazione già vista di Micheli sul secondo significato, gerarchico e
valoriale, della parola “reale”: ciò che è più importante, ciò che davvero “conta”.
Per contro, nella recente narrativa italiana (ma credo che il ragionamento valga anche
altrove) Daniele Giglioli rileva una sorta di “osmosi incontrollabile” tra personaggio,
narratore e autore che porta a esiti contrari rispetto alla figura dell’io-trickster come lo
intende Siti, e conduce a una rivalutazione enfatica dell’io, a una narcisismo esibitorio
sotto le vesti di un’apertura alla realtà. Questi “eccessi dell’io” nella letteratura recente
portano a “una parola assediata da un eccesso di intimità”, da una collusione
programmatica con le abitudini e il mondo del lettore o a una “confidenza aproblematica”
che degrada il narratore al ruolo di “intrattenitore” (Giglioli, 2014, p. 21).
Questa forma di ritorno alla realtà sarebbe dunque basata su un fraintendimento che
implica una funzione della letteratura come riadattamento, appaesamento, “ritorno alla
fiducia ottocentesca nella trasparenza del rapporto tra soggetto linguaggio e mondo (…)
all’insegna dell’ipertrofia dell’io” (ivi, p. 23). Proprio la letteratura “realista” recente sarebbe
insomma la rivelazione di una forma di normalizzazione parallela o forse conseguente a
quella filosofica.
Torniamo ora brevemente a qualche testimonianza a proposito del ritorno al realismo in
letteratura, testimoniato ad esempio da recenti dibattiti sulle riviste specializzate che
hanno coinvolto scrittori, registi e critici. Anche qui il tono generale pare essere quello di
una liberazione all’insegna di una salutare semplificazione. Nella letteratura e nel cinema,
osserva l’editoriale di un numero della rivista Allegorie dedicato all’evoluzione del
romanzo, la fine del postmoderno registra insieme un “ritorno alla realtà” e poetiche dell’
“eccesso”. Questo ritorno alla realtà è descritto proprio come “riappropriazione soggettiva
dell’esperienza vissuta”, “attitudine documentaria”, recupero dei generi forti” (ivi, p. 82).
Secondo Giovanna Taviani il cinema a sua volta “fuoriesce dal regno autoreferenziale dei
segni” e “torna a raccontare storie in cui ciascuno possa riconoscersi”, “senza perdere il
coraggio di dire ‘io’” (ivi, pp. 87-88). Questo ritorno ridefinisce un campo di esperienza
“autentica” (ivi, 89) che collide con la “crisi dell’idea postmoderna della scomparsa del
referente”. Insomma, “il reale c’è e costringe a fare i conti con le cose”.
Più sobriamente, Mario Barenghi osserva da una parte il “bisogno di verificare che
esistano connessioni non casuali tra i fatti”, e dall’altra la necessità del soggetto, del sé,
tornato a essere “matrice primaria di ogni narrazione”. In questa situazione, nella prima
persona pare riemergere la nozione lukacsiana del “tipico”: un “narrare di sé” che possa
essere esemplare, “dando voce a una condizione più generale” (in Tirature,
, pp. 43
sgg).
Lo stesso romanzo o film di “genere” in questo scenario viene rilegittimato come una sorta
di versione letteraria o comunque narrativa del mondo in comune, quando in un’intervista
sul cinema il regista Chiesa dichiara che esso può essere visto come “un modo per
condividere apriori elementi di senso” (Allegorie, cit. p.
, corsivo mio). Si intende bene
allora il motto di Cristina Comencini: si tratta, dopo la vertigine autoreferenziale, di “aprire
la finestra” (ivi, p. ).
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Schema sommario dell’evoluzione del realismo letterario
Dopo avere sottolineato la somiglianza o il parallelismo tra i “nuovi realismi”
rispettivamente in filosofia e nel campo estetico, ora potremmo provare a tracciare un
sommario schema dell’evoluzione storica del realismo nel campo narrativo.
A - Il Grande Realimo del Moderno a partire dalla metà del XIX secolo, contrassegnato
dalle figure esemplari di Balzac e Tolstoj secondo Lukàcs, e che in un quadro più ampio
(Auerbach) comprende almeno anche Flaubert, Zola e Dostoevskij, sarebbe caratterizzato
dalla verosimiglianza dei personaggi, dall’onniscienza dell’autore con l’uso della terza
persona, dal tempo narrativo di un passato compiuto (Barthes), dalla nozione di “tipico”
come rapporto dialettico tra singolarità e totalità (Lukacs) o dal riferimento della vita
quotidiana a un orizzonte più ampio (“classista” nella terminologia di Auerbach).
B - Erich Auerbach amplia a sua volta la portata del realismo fino al periodo tra le due
grandi guerre mondiali, e individua le sue figure esemplari in Virginia Woolf ma anche
negli stessi Proust e Joyce. Questa dimensione del realismo si allarga fino a un differente
linguaggio narrativo: si tratta di “rinunciare al terreno della rappresentazione
apparentemente obiettiva o di quella puramente soggettiva, in favore di una prospettiva
più ricca”. In questa forma di realismo allargato trova posto anche il dispositivo narrativo e
formale del discorso indiretto libero già presente a suo tempo in Flaubert, dove
“svaniscono per mezzo del piano tonale i limiti fra i discorsi diretti o indiretti dei personaggi
e quello che dice l’autore, cosicché non si è mai del tutto sicuri di sentire proprio l’autore
che si trova posto fuori dal romanzo” (Mimesis, II, tr. it. p. 329).
In questa prospettiva realismo e avanguardia anziché contrapporsi sembrano ibridarsi, nel
nome di due figure-cerniera (Proust e Joyce appunto).
C - Ma il realismo appare chiaramente superato nell’evoluzione successiva, quella dove il
modello narrativo classico entra definitivamente in crisi: lingua balbettante (come scrive
Deleuze a proposito di Kafka e di altri), declinazione dell’Autore come pura “funzione”
storicamente datata (Foucault), eclissi dell’io (“non importa chi parla” secondo il celebre
motto di Beckett) e del referente individuabile (“la “vicenda” di cui parla sprezzantemente
Robbe-Grillet), fino alla icastica definizione del “cinema di poesia” in Pasolini: all’opposto
della narrazione come riproduzione della finestra trasparente della prospettiva, si trattava
di “far sentire la macchina”.
D - Dopo tutto questo, ciò che chiameremmo “nuovo-nuovo realismo” sarebbe solo la
quarta tappa, che ha ora le insegne di una nuova confidenza con la normalità: ritorno
dell’io, trasparenza narrativa, appello ai generi come variante letteraria del mondo
condiviso, ripresa di una nozione non traumatica di “esperienza” e “empatia” come
modello di una sorta di comunità emozionale … un nuovo-piccolo-realismo, insomma, una
sorta di formato minore che riprende gli stilemi del Grande Realismo ottocentesco, e nel
quale ha posto un io tanto rimpicciolito quanto enfatico che trova conforto nella credenza
nella Realtà nonostante le smentite del Reale.
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“L’autentica mania del XX Secolo di penetrare la cosa reale (alla fine: il vuoto distruttivo)
attraverso la ragnatela delle apparenze che costituiscono la nostra realtà culmina (…) in un
brivido del reale come “effetto” insuperabile, ricercato negli effetti speciali (…) attraverso la
Tv verità e i porno amatoriali, fino agli snuffmovies”.
Così Slavoj Zizek (Benvenuti nel deserto del reale, p. 16). La passione del reale rischia
quindi di incorrere in un costante equivoco, soprattutto nei campi dell’estetico – arti visive,
letteratura, cinema. Da un lato la stanchezza per questa situazione pare produrre anche
qui nuovi eredi del realismo classico, dall’altro il tentativo di mostrare, di rendere
percepibile il reale out of joint nelle sua dinamiche di eccesso. Da un lato il bisogno di
riavvicinamento a forme di “realtà” vivibili, frequentabili, alle regioni medie della
predominanza del significato e del referente (raccontare storie come strumento di identità)
a figure di un io-soggetto che si rappresenta l’esperienza, il riavvicinamento alla solidità
del sensibile. Dall’altra il tentativo di far emergere ciò che non può a rigore essere
direttamente mostrato, ovvero proprio il buco in quel tessuto simbolico che istituiva il
nostro senso della realtà.
Riassumiamo dunque l’alternativa attuale:
da un lato il piano della normalizzazione, il ritorno
del soggetto e della rappresentazione, cioè la ritornata
fiducia che si possa vedere, toccare, fare esperienza
della realtà. Dall’altro, il tentativo di rendere estetico
(cioè percepibile, visibile, toccabile, frequentabile)
ciò che all’aisthesis propriamente si sottrae –
nella forma dell’eccesso.
Dove sta allora l’equivoco specificamente estetico? Se il reale non è fenomeno, non può
essere offerto ai cinque sensi. L’arte del reale e dell’eccesso sembra cadere a sua volta in
un’illusione, quella del mostrare (per esempio vedi Bois-Krauss, L’informe). Se il reale non
è esperienza, e l’esperienza, anche quella di cui parlano i realisti, in fondo è ancora quella
elaborata dal pensiero moderno, cioè incontro con il sensibile, elaborabile dalla coscienza
alla luce della credenza in un mondo-in-comune, allora l’incontro con il reale non è
esperienza, esso sfugge proprio al mondo in comune che l’esperienza presuppone. Lo si
può vedere solo nella sconnessione del tessuto – narrativo, linguistico, figurativo. Cioè nel
lacerarsi del tessuto che congiunge la realtà alla rappresentazione e al rappresentabile. Si
incontra nei punti di scordatura, di smarrimento o di disfunzione del Simbolico che regge
l’apparenza-reale. Il buco incomprensibile che si apre nelle narrazioni di Lynch per
esempio.
Se esperienza c’è, non sarà quella di un particolare che può diventare esemplarità
dell’intero ovvero “tipo”. Ma quella di un lembo, di un pezzo staccato che appare nella
frattura. Non sarà né esperienza percettiva diretta, puro incontro del senziente con il
sensibile, immune agli schemi concettuali e all’intervento dell’intelletto, ma nemmeno
l’esperienza come “prodotto” a valle dell’intervento dell’intelletto (o degli “schemi
concettuali” di cui parlano certi realisti contemporanei). A sua volta, l’incontro con la
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“realtà”, sembra avere i caratteri di una rinnovata credenza nel Simbolico che diventa un
apriori rassicurante.
Secondo Slavoj Zizek l’immagine si trova dunque “tra realtà e reale”. A dire il vero, pare
che “il reale” non abbia però solo la figura impossibile del trauma, ma anche quella
dell’indifferenza al senso: ora punctum o “immagine che brucia” (Didi-Huberman, in PinottiSomaini, pp. ), ora indifferenza opaca, grado zero della simbolicità, come in tanta
fotografia contemporanea. Ora reale-trauma ora reale indifferente al senso, che non è
traccia di altro.
Per completare questo quadro provvisorio, si potrebbe dire che l’immagine – e per
“immagine” si intende non solo l’immagine visiva ma anche quella acustica o linguistica –
pare essere contesa fra tre codici o regimi di riferimento, che sono regimi o codici storici.
Essa può essere o meglio poteva esse, nel registro simbolico, immagine “di realtà”:
rimando di senso a un mondo in comune. Nel registro reale, l’immagine fa apparire a tratti
l’osso o lettera o torsolo ora insensato ora traumatico, avvertibile non direttamente, là
fuori, ma solo nell’interstizio o nel baratro in cui la rappresentazione consueta cade.
C’è però il terzo registro, quello dell’immaginario. Che cos’è l’immagine, qui? Si direbbe “la
regina delle merci” secondo la definizione di Giglioli: prodotto sofisticato di un dispositivo di
produzione del sentire, in un mondo in comune diventato fantasy.Oppure, in una delle sue
varianti, una forma di quasi-soggetto dotato di desideri e volizioni: è l’umanizzazione del
rappresentante (Mitchell in Pinotti-Somaini, pp. 99 sgg.) che reagisce a sua volta alla
svolta linguistica e al predominio del significante rivendicando che “le immagini vogliono
avere gli stessi diritti del linguaggio”.
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SEZIONE SECONDA – Indicazioni per lo studio dei testi della dispensa
I testi della dispensa sono suddivisi in sei parti:
PARTE PRIMA - “Il dibattito filosofico recente sul realismo”
PARTE SECONDA – “La realtà non è il reale”
PARTE TERZA – “Il paradigma realista nella letteratura e nell’estetica moderna”
PARTE QUARTA – “La critica contemporanea al paradigma estetico realista”
PARTE QUINTA – “Il dibattito recente sul realismo nella letteratura italiana”
PARTE SESTA – “La questione del realismo nelle immagini”
La prima e la seconda parte affrontano la questione teorica principale in filosofia e nel
campo estetico, quello della distinzione tra “realtà” e “reale”. La prima parte presenta
alcune delle voci del dibattito recente in filosofia sul “nuovo realismo”: Enrico Berti, Franca
D’Agostini, Maurizio Ferraris, Umberto Eco, e un precedente saggio di Gianni Micheli sull’
Enciclopedia Einaudi (1980) che traccia alcune importanti distinzioni.
PRIMA PARTE
Nel saggio di Micheli vanno tenute presenti le seguenti riflessioni: la distinzione dei due
significati della parola “reale” e l’osservazione secondo la quale il realismo è una sorta di
tonalità istintiva originaria nell’essere umano. L’Autore traccia poi una sintetica storia del
concetto in filosofia, risalendo alla posizione di Platone per finire con un commento
all’espressione di Hegel secondo la quale “il reale è razionale” per individuarne il vero
significato nella interpretazione ottocentesca di Friedrich Engels. Micheli fornisce così
alcune coordinate di base per la comprensione delle origini e della natura del dibattito
filosofico.
Gli altri testi fanno parte tutti di una discussione più recente che ha al centro la figura del
filosofo italiano Maurizio Ferraris. Le tesi di Ferraris sono emerse da una ricostruzione
fortemente polemica della storia della filosofia degli ultimi decenni che si trova nella
“postfazione” del 2011 a Estetica razionale: l’estetica, come teoria delle sensibilità, è
considerata in questo testo il punto di partenza per una ricostruzione della “ontologia”.
L’ontologia è la teoria filosofica di quel che c’è, e quel che c’è, questo il punto principale di
Ferraris, non dipende da noi e dalle nostre interpretazioni. I concetti principali da tener
presenti sono: la nozione di “realtà” come qualcosa di esterno e indipendente. La
distinzione tra “ontologia” e “epistemologia”. La nozione di “mondo in comune”. La nozione
di “esperienza”. La polemica con Kant e Nietzsche e di conseguenza contro le correnti che
nel pensiero contemporaneo negherebbero l’indipendenza della realtà esterna e la
possibilità di conoscerla.
Il secondo saggio antologizzato, “Realismo positivo”, ribadisce la tesi e aggiunge una
distinzione tra due forme di realismo – negativo e positivo appunto. Il punto centrale di
questo saggio consiste nell’affermazione che la posizione realista – con i caratteri visti
sopra – non si limita a pensare che la realtà là fuori è indipendente dal pensiero e dalle
interpretazioni dei soggetti e “dice no” a ogni interpretazione possibile, ma presenta anche
un carattere positivo. “L’essere precede il pensiero” e il pensiero, con le sue leggi,
emergono dalla realtà (p.42). L’altro concetto importante riguarda la nozione di
20
“inemendabilità” ovvero: la realtà resiste ed è “incorreggibile” dalle nostre interpretazioni
(contrariamente al “costruttivismo che afferma che il pensiero costruisce il mondo: vedi più
avanti la posizione di Nelson Goodman). Viceversa le interpretazioni e dunque le
costruzioni della conoscenza sono emendabili, correggibili.
Il concetto di “realismo negativo” o anche “minimale” è al centro delle considerazioni del
saggio di Umberto Eco, la posizione è illustrata dalla efficace immagine del cacciavite
(vedi testo). Eco spiega che la realtà ha dei “sensi” (obbligati/vietati). Si può pensare che
questa posizione sia riconducibile in qualche modo a quella del filosofo della scienza Karl
Popper (“falsificazionismo”). Nelle parole di Eco, essere realisti significa tener presente
che “ci sono dei momenti in cui il mondo ci dice no” (vedi testo).
Il punto principale delle argomentazioni di Franca D’Agostini consiste nella polemica
contro quelle che chiama posizioni “stultificanti” ovvero posizioni superficiali che non fanno
luce sulla vera questione. E la vera questione è: la filosofia è “metafisica” ovvero parla
necessariamente di una realtà indipendente e ne indaga la natura. Le tesi di F. D’Agostini
secondo l’Autrice sono “anelenctiche” ovvero, inconfutabili, se alla parola “realismo” diamo
il suo corretto significato, e possono essere riassunte così: (p. 26) ci sono fatti; c’è una
sola descrizione vera dei fatti; questa descrizione vera può a volte essere raggiunta.
Contrappore il realismo al “postmoderno” come fa Ferraris è per l’Autrice una posizione
sbagliata e superficiale. Inoltre si devono tener presenti altri punti importanti: la definizione
di “fatto” (vedi testo), la differente lettura di un punto importante come il pensiero di Kant
(vedi testo), la distinzione tra realismo “metafisico” e “metodologico” (p. 19; la nozione di
“verità” come corrispondenza: “l’essere vero in quanto corrispondente a come stanno le
cose nel mondo” (testo, p. 21).
La nozione di verità è presente anche nel saggio di Enrico Berti che da questo punto di
vista ha posizioni molto simili a quelle di D’Agostini. Berti sottolinea in particolare i
seguenti aspetti: la rinascita del realismo è effettiva ed è in relazione con la crisi dell’
“ermeneutica” (p.53). C’è una distinzione classica che va conservata tra “verità di fatto” e
“verità di ragione” (pp 58 sgg.). Il punto più rilevante che si oppone al “formalismo” e
all’ermeneutica, consiste nell’affermazione di una forma di realismo “diretto” che coincide
con la “concezione classica della verità” e si può esprimere così: “noi conosciamo non le
nostre idee ma direttamente le cose” (p. 57), ovvero, la realtà ha una logica interna, una
struttura razionale conoscibile.
21
SECONDA PARTE - “La realtà non è il reale”
La seconda parte comprende un testo di Jacques Lacan dal Seminario XXIII (1976)
dedicato a Joyce, alcuni testi del filosofo sloveno Slavoj Zizek, tratti da Il soggetto
scabroso, Benvenuti nel deserto del reale e un saggio dal titolo “limmagine tra realtà e
reale” apparso su una rivista italiana, e l’introduzione di un recente lavoro del critico
Daniele Giglioli.
I principali concetti e le argomentazioni di questa sezione sono stati già espressi nella
prima parte introduttiva. Ripetiamo qui alcune questioni da tenere presenti:
a-
la differenza tra realtà e reale: realtà è ciò che ha senso, reale è il privo-disenso. Ciò che ha senso è ciò che è linguisticamente articolabile, ciò che
“funziona”. Reale è invece “l’impossibile”, ciò che si sottrae al senso e che appare
come resto, “lettera”, significante opaco e incomprensibile, che assilla il soggetto.
bSeconda questione; la distinzione tra l’inconscio “freudiano” e quello che
Lacan chiama “il nostro inconscio”. Questa distinzione appare nelle due differenti
parole “sintomo” e “sintomo”. Il ragionamento di Lacan e che mentre il sintomo in
qualche modo tende al senso (“vuole dire”), cioè tende all’ordine linguistico, il
sintomo no, è intrattabile e proprio per questo ha a che vedere con “il reale”.
Le due “figure” di cui Lacan si serve a proposto del reale sono: la figura di Joyce e della
sua scrittura, e la figura del nodo borromeo praticata dallo stesso Lacan. La dimensione
che occorre tenere presente è questa: sia la scrittura di Joyce che la figura del nodo
borromeo non sono forme di “linguaggio”, cioè non sono forme del “dire” ma sono
“pratiche” ovvero tecniche di manipolazione (del linguaggio letterario, nel caso di Joyce, o
di elementi fisici come nel caso dei nodi borromei). Dunque sono modi di entrare in
contatto con un reale fuori-senso, che non si può “dire”, portare al senso/linguaggio. E’ per
questo che a Lacan interessa Joyce, soprattutto quello più estremo dell’ultima opera dello
scrittore irlandese, Finnegans Wake (1939).
I saggi di Zizek sviluppano la ricerca di Lacan precisandone alcune direzioni che ci
mettono più direttamente in contatto con la dimensione culturale, storica e sociale
dell’inconscio.
Si potrebbe dire così: quello che Lacan descrive come “il nostro inconscio” Zizek lo chiama
“crollo dell’efficacia simbolica”. Un aspetto importante delle argomentazioni di Zizek è
contenuto nella nozione, di origine hegeliana, di “apparenza reale”. L’ordine simbolico è
quello che permette alla “realtà” di funzionare proprio in termini di “apparenza reale”.
Realtà implica un ordine condiviso, precisamente il “mondo in comune” di cui parlano i
realisti.
Una seconda argomentazione importante di Zizek riguarda l’immagine: in una situazione
in cui l’ “efficienza simbolica” crolla, non sono più validi senza discussione le “credenze”
nella realtà (quelle dei realisti) e la stessa “immagine” trova in bilico tra il piano di realtà –
ovvero il piano in cui le “apparenze” sono “reali” e le rappresentazioni sono indirizzate a un
mondo comune – e il “reale” incomprensibile opaco o orribile. La realtà oggi tende dunque
a dissolversi in due aspetto: un reale opaco e/o orribile disgustoso e mortale e una serie di
“maschere” immaginarie.
22
Il saggio di Giglioli sviluppa queste argomentazioni in riferimento alla recente scrittura
letteraria e in particolare al panorama italiano. La nozione fondamentale da tenere
presente è quella di “trauma” e la domanda cui Giglioli risponde potrebbe essere così
espressa: è possibile mostrare il trauma/reale? La tesi che occorre tenere presente è
questa: mostrare il reale vuol dire incorrere nell’equivoco di pensare che il reale si possa
far entrare nell’ordine del vedere, dell’estetico – e dunque dal punto di vista lacaniano si
tratta in fondo di un reale-immaginario.
TERZA PARTE - “Il paradigma realista nella letteratura e nell’estetica moderna”
Questa parte ha lo scopo di fornire un sintetico panorama della posizione del realismo
classico in letteratura, a partire dalle testimonianze di alcuni dei suoi stessi protagonisti.
Presenta prima di tutto due testi rilevanti come testimonianza diretta del periodo classico
del realismo in letteratura (il XIX Secolo) vale a dire le riflessioni sul romanzo di Gustave
Flaubert e dei fratelli Goncourt.
In secondo luogo, parte di un saggio del più importante teorico e critico del realismo in
estetica e in letteratura, il filosofo ungherese Gyoergy Lukàcs (anni Trenta e Quaranta del
Novecento).
All’inizio troverete l’introduzione di un lavoro recente sul realismo in letteratura, lo studioso
italiano Federico Bertoni (2007).
L’introduzione di Bertoni al libro Realismo e letteratura. Una storia possibile, riporta
alcune posizioni rilevanti: quella del filosofo americano Nelson Goodman (1968) secondo
la quale il realismo non riguarda tanto l’essere vicini allo stato delle cose o alla “realtà”
oggettiva, ma è il frutto di convenzioni culturali (brani del saggio di Goodman sono riportati
in questa dispensa alla parte quarta). Al contrario, secondo un altro grande studioso del
realismo come Erich Auerbach, la cui opera risale agli anni Quaranta del Novecento, il
realismo sembra essere una sorta di “universale estetico” che percorre la storia
dall’antichità fino al Novecento.
Il saggio di Bertoni è assai utile perché ha il pregio di raccogliere con precisione alcune
citazioni da vari Autori che dànno l’idea dell’estensione dell’arco semantico ricoperto dalla
parola “realismo” e insiste sui due caratteri della “proliferazione semantica” e della
“instabilità lessicale” del termine.
Alle pp- 24-26 in particolare troverete raccolte le varie definizioni.
L’interessantissimo testo di Flaubert, raccolto e tradotto in inglese nell’antologia a cura di
G.J. Becker, Documents of Modern Literary Realism (1963), riporta alcune preziose
dichiarazioni dell’autore di Madame Bovary (1857) considerato uno dei vertici del realismo
ottocentesco, che hanno il pregio di far luce sulla poetica e sulle intenzioni dello scrittore.
Vanno tenute presenti in particolare le seguenti dichiarazioni: in primo luogo la presa di
distanza dell’autore dal testo (“evitare di divertire il pubblico con noi stessi … e con la
personalità dello scrittore”), dunque l’accento sull’impersonalità dello sguardo dell’autore
“invisibile e onnipotente”. Ne consegue quello che Flaubert definisce un metodo spietato,
che rende la scrittura letteraria (impersonale appunto) parente dell’atteggiamento delle
scienze naturali. Nei brevi documenti di Emile e Jules Goncourt gli aspetti notevoli
23
riguardano soprattutto una distinzione tra realismo e naturalismo che verrà poi rafforzata e
canonizzata da lavori come quello di Lukàcs.
Il saggio di Lukàcs che risale al 1936 rispecchia una decisa presa di posizione normativa
di carattere non solo estetico ma anche politico. Il pensatore ungherese prima di tutto
assume un atteggiamento gerarchico allineando gli scrittori del realismo ottocentesco
lungo una scala di valore ai cui vertici stanno soprattutto Balzac e Tolstoj, mentre tende a
svalutare sia Zola che lo stesso Flaubert.
Le distinzioni concettuali da rintracciare nel testo sono soprattutto le seguenti: la differenza
tra narrazione e descrizione: la narrazione apparenta il romanzo moderno al piano
dell’epica classica, “la narrazione raggruppa e distingue”, quindi mette in luce nella
vicenda e nei personaggi il carattere “tipico”. Ovvero: la possibilità per un elemento
particolare di rappresentare l’universale, la totalità del mondo sociale. Per contro la
descrizione è basata sull’enumerazione dei particolari semplicemente osservati e perde la
“sensibilità per i momenti essenziali” (p. 288). Su questa base proprio Lukàcs opera una
distinzione poi diventata classica tra “realismo” e “naturalismo” (tendenza questa associata
al nome di Zola). Il naturalismo privilegia le singolarità e le descrizioni fini a se stesse, e fa
mancare la vera tonalità “epica”.
QUARTA PARTE - “La crisi contemporanea del paradigma estetico realista”
I saggi antologizzati in questa parte vanno presi in considerazione e studiati in un
confronto diretto con quelli della parte precedente, per comprendere pienamente il senso
della contrapposizione tra il “realismo” e quella che nel complesso possiamo chiamare
una tendenza “formalista” che ha a che fare con l’influenza o l’egemonia del “poststrutturalismo” e della “svolta linguistica” (vedi prima parte di questa Introduzione).
I testi, non a caso, risalgono tutti, tranne quello di Gilles Deleuze, agli anni Sessanta, cioè
al periodo cruciale di elaborazione di queste riflessioni. Gli Autori in ordine di
pubblicazione sono i seguenti: Roman Jakobson, “Il realismo nell’arte” 1965; Alain
Robbe-Grillet, “Di alcune nozioni scadute”, 1965; Roland Barthes, “L’effetto di reale”,
1968; Nelson Goodman, da I linguaggi dell’arte, 1968; Gerard Genette, “Verosomiglianza
e motivazione”, 1969, mentre il saggio di Deleuze “Balbettò”, da Critica e clinica, è più
tardo (1993).
Vediamo ora le principali argomentazioni di ogni testo. Il saggio di Jakobson mette in
discussione la presunta “fedeltà al reale” del realismo, e enumera (p. 98) tre possibili
significati del termine. La successiva analisi smonta però la pertinenza di una definizione
semplice del realismo, e conclude criticamente che i vari significati del termine non
possono stare insieme. L’immagine famosa è quella del “sacco” che li conterrebbe alla
rinfusa.
Un’altra interessante precisazione riguarda la qualifica e i caratteri che potrebbero definire
un realismo “progressista”. Secondo il grande linguista russo, si tratta di una scrittura
(letteraria) caratterizzata dalla presenza di “tratti non essenziali” che allontanerebbero
dalla narrazione stereotipa. Le tesi dello studioso sono molto simili a quelle di Goodman: il
realismo è una questione di convenzione, di abitudine o di “linguaggio” (p. 99).
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Il saggio dello scrittore e regista Alain Robbe-Grillet, uno dei principali esponenti della
corrente dell’Ecole du regard francese dalla seconda metà degli anni Cinquanta in poi, ha
un tono fortemente polemico: in realtà il “realismo” professato a sua volta da R.G. si
qualifica in negativo come una presa di distanza dagli stilemi della letteratura precedente:
personaggio, vicenda o trama, distinzione forma/contenuto. Robbe-Grillet li elenca con
precisione e vi contrappone una concezione del romanzo che tende a privilegiare – la
polemica con le teorie classiche del realismo alla Lukàcs è evidente – una visione netta
delle cose o “la realtà assoluta della cose”, “al di qua della vicenda” e del significato. Ciò
che conta è la qualità della scrittura e non il significato, il messaggio.
Anche il saggio di Roland Barthes appare vicino a queste posizioni, dal momento che
parla del reale come un “effetto”. Barthes riprende l’argomento del particolare inessenziale
o dell’ “insignificante” come un aspetto importante e conclude con una forte definizione del
realismo come “ogni discorso che accetti enunciazioni legittimate del solo referente”.
Barthes definisce però questa posizione criticamente, come una sorta di “illusione
referenziale” ovvero l’illusione che il testo, la scrittura, siano per così dire trasparenti,
possano dunque “toccare direttamente” il reale.
I passi antologizzati di Nelson Goodman provengono da un libro che ha come argomenti
“i linguaggi”, specificamente i linguaggi artistici. La posizione di Goodman è molto incisiva
e esemplare: il realismo è una questione di convenzione, di abitudine: non è un rapporto
“naturale” con le cose à fuori ma una questione appunto “culturale”. Questa posizione
rientra o è coerente con un punto di vista più generale secondo cui l’oggettività (della
conoscenza) non è altro che un prodotto o il risultato di un modo di intendere il mondo (è
precisamente quello che i realisti oggi chiamano “schemi concettuali”). Sulla base di questi
presupposti Goodman smonta criticamente le principali posizioni “realiste” e conclude in
modo assai radicale che “la misura del realismo è l’assuefazione” (p. 43).
Il saggio del critico e storico della letteratura Gerard Genette affronta la nozione (realista)
di “verosimglianza” e procede a un’accurata destrutturazione che procede in direzione
simile a quella degli altri Autori di questa parte. E’ particolarmente interessante in questa
chiave critica la distinzione tra “racconto” e “discorso”. Il racconto “puro” procederebbe per
così dire “da solo” senza bisogno dell’inserzione di spiegazioni e giustificazioni da parte
dell’Autore, mente Genette individua proprio in un grande romanziere realista come Balzac
l’intervento della voce fuori campo dello scrittore per “giustificare” la piega presa dalla
vicenda. Il modernismo, a sua volta, si caratterizza come disprezzo della verosimiglianza,
e considera il racconto verosimile come una ipotetica presentazione del “significato senza
significante” – cadendo così all’opposto in una posizione non verosimile. In modo
caratteristico e rivelatore Genette conclude che “la stravaganza è il privilegio del reale”
mentre la verosimiglianza è frutto di “un corpo di massime e pregiudizi”.
Il saggio di Deleuze è molto più tardo ma affronta lo stesso problema, che potrebbe anche
essere sintetizzato così: quale deve essere il linguaggio della scrittura letteraria quando
questa, secondo la direzione impressa alla letteratura dalle avanguardie a partire dal
primo Novecento, rifiuta le modalità espressive basate sulla rappresentazione (che
corrisponde grosso modo alla “figurazione” nelle arti visive)? Per avere un’idea sintetica
dei canoni della tradizione che vengono ora rifiutati, si vedano le pagine antologizzate di
Robbe-Grillet.
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La risposta di Deleuze è assai originale: lo scrittore fa balbettare la lingua, ovvero conduce
la lingua fuori da se stessa. La lingua poetica è quella che si avventura in regioni lontane
dall’equilibrio. Dove l’equilibrio è la struttura narrativa tradizionale, con il primato del
referente, insomma l’insieme dei luoghi comuni letterari. Questa operazione con la lingua,
che Deleuze definisce “balbettio” definisce anche lo “stile”: si tratta di rendere straniera a
se stessa la lingua o di fare della lingua una “danza delle parole”. Gli esempi di Deleuze
sono soprattutto Kafka e Beckett, come l’esempio di Lacan era stato Joyce.
QUINTA PARTE - “Il dibattito recente sul realismo nella letteratura italiana”
Questa parte riporta riflessioni di critici e scrittori che riguardano gli sviluppi in senso
realistico della narrativa italiana recente. La serie dei testi antologizzati è aperta da un
saggio di Daniele Giglioli assai critico nei confronti di questa tendenza, e comprende poi
brani da riviste come Allegorie, Nazione indiana e Tirature.
La tesi di Giglioli è che la narrativa “realista” o che si autodefinisce tale presenti “un
ritorno alla fiducia ottocentesca nella trasparenza del rapporto tra soggetto linguaggio e
mondo” – cioè precisamente una riedizione letteraria dei canoni realisti in filosofia che si
sono visti nella parte precedente. Giglioli sottolinea però, e questo è un punto importante,
che questa tonalità narrativa implica una corrispondente “ipertrofia dell’io”, i cui segnali
sarebbero visibili soprattutto nella pratica dell’auto-fiction. Il realismo si coniugherebbe
così con un “narcisismo esibitorio dell’autore”, resuscitando una figura (l’autore appunto)
che era stata criticata nella letteratura delle Avanguardie (vedi i testi della PARTE
QUARTA).
Nello studio di Giglioli si stabilisce così uno stretto rapporto tra: predominio della
narrazione tradizionale, “eccessi dell’io” o del soggetto-autore, e instaurazione di una sorta
di eccessiva “confidenza” tra autore e lettore –versione critica dell’ipotesi realista di un
“mondo in comune”.
Negli altri testi si possono trovare molte delle affermazioni condivise circa il
realismo/nuovo realismo letterario recente: la critica al linguaggio formalista che sarebbe
auto-riferito, la sentenza di morte verso il “postmoderno” che sarebbe tramontato, il ritorno
della narrazione a forme che riguardano una “esperienza autentica” (G. Taviani in
Allegorie) ma anche il recupero di una “distanza critica” nei confronti degli eventi narrati,
e, nella narrazione della graphic novel, considerata una forma di narrativa letteraria a tutti
gli effetti, “l’urgenza di raccontare la realtà sociale” (Interdonato, in Tirature).
Il saggio di Barenghi sempre in Tirature rileva a sua volta una sorta di ritorno generale a
“un alto tasso di narrabilità” e, se è vero che “viviamo anni di narcisismo trionfante”, è
anche importante che il soggetto, il sé, compaia nella narrazione dato che “parlare di sé” è
“matrice primaria di ogni narrazione”. Il recupero del soggetto però dovrebbe avvenire alla
condizione di permettere di dar voce a “una condizione più generale” (secondo una
tradizione che risale al realismo di Lukàcs, vedi la PARTE TERZA).
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Infine il saggio di Andrea Cortellessa ripubblicato su Nazione Indiana (ed. originale in Lo
specchio) ritorna dal punto di vista specificamente letterario sulla distinzione tra “realtà” e
“reale”, secondo un punto di vista che si richiama a Lacan e a Hal Foster (vedi la prima
sezione di questa introduzione): per definire questa dimensione il critico italiano usa la
parola “contingenza” (da Celati): “l’esposizione all’inatteso, al fuori, a una situazione (…)
che diventa come una dimensione esterna dell’inconscio”. Per avere un’idea più precisa
di questa specifica dimensione di “un altro realismo”, vedi il libro di Siti Il realismo è
l’impossibile che assieme al volume di Hal Foster, Il ritorno del reale, è tra i testi richiesti
per questo corso.
SESTA PARTE - “La questione del realismo nelle immagini”
Lo scopo di questa ultima parte è di presentare alcuni aspetti del realismo nel campo
specifico delle immagini, a partire da un testo classico che fa da cornice. Si tratta di una
parte del libro della studiosa di storia dell’arte Svetlana Alpers (1983) che prende in
considerazione l’arte figurativa in uno dei suoi momenti più alti, l’Olanda del Seicento.
Vengono poi presentati alcuni testi sull’immagine nel cinema e nella fotografia: due capitoli
dal classico lavoro di André Bazin Che cosa è cinema? (1958), alcune famose riflessioni
di Pier Paolo Pasolini sul “cinema di poesia”, di qualche anno più tarde (1965) e due
interviste a Gilles Deleuze (1985 e 1985) su uno dei concetti più importanti del filosofo
francese, “l’immagine-tempo” e sulla nozione di “immaginario”.
Si ritorna poi agli anni più recenti con due testi di diverso spessore: alcune riflessioni di
registi italiani sul tema specifico del realismo e del ritorno al realismo nel cinema (sempre
dalla Rivista Allegorie) e infine la densa introduzione di Andrea Pinotti e Antonio Somaini
a un volume che fa il punto sulla recente “svolta iconica” .
Il punto principale dell’argomentazione di S. Alpers è la distinzione tra “narrazione” e
“descrizione”. Secondo la studiosa, l’arte figurativa del Seicento olandese si distingue dalla
tradizione del Rinascimento italiano perché non sarebbe “narrativa” – non intenderebbe le
immagini pittoriche come una sorta di frammento di un racconto, di “azioni” – ma piuttosto
“descrittiva”. Questo implica prima di tutto uno stretto rapporto tra l’arte figurativa e lo
sviluppo della scienza, e anche una differente dimensione del tempo. Anche l’arte
olandese come la scienza, mira a una “rappresentazione esatta e non selettiva della
natura”. C’è anche un rapporto stretto in questa pittura tra arte e conoscenza, si trattava di
“ritrarre ogni cosa (…) in modo da farla conoscere”.
Se si tengono presenti i canoni classici del realismo letterario (vedi Lukàcs) qui abbiamo
una differente versione di che cosa debba essere considerato “realismo”, che ci permette
di arrivare, nel contemporaneo, fino a esempi come quelli dei romanzieri francesi della
“scuola dello sguardo” (Sarraute, Butor, lo stesso Robbe-Grillet: si veda il testo nella
sezione TERZA).
I due capitoli di Bazin riguardano prima di tutto lo statuto dell’immagine fotografica, e in
secondo luogo la tecnica cinematografica del montaggio. Il punto chiave è proprio una
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definizione radicale di “realismo”: da un lato l’immagine fotografica ha uno stato
“ontologico” preciso: risale necessariamente a un evento reale, a un già-stato. La
fotografia da un lato riproduce una “oggettività essenziale” e dall’altro è impersonale,
esclude nella riproduzione meccanica l’intervento dell’uomo (queste considerazioni
andrebbero confrontate con lo stato attuale dell’immagine fotografica dopo l’avvento del
digitale).
La stessa posizione radicale sul realismo si ritrova nel secondo breve saggio dal titolo
“montaggio proibito”: Bazin, che è stato forse il maggiore critico cinematografico del suo
tempo, spiega che il realismo (al cinema) implica la “omogeneità dello spazio” mentre il
montaggio, che consiste nell’assemblaggio di spezzoni, frammenta il tempo diretto della
ripresa e diventa un “creatore astratto di senso”. Il piano-sequenza, ovvero quel tipo di
ripresa nella quale la macchina non stacca mai, diventa allora “espressione della durata
concreta” mentre il montaggio presenta un “tempo astratto”.
Considerazioni importanti sull’immagine cinematografica si trovano negli anni Sessanta
nelle riflessioni di Pasolini: il cinema di poesia è paragonato dallo scrittore e regista
italiano alla tecnica narrativa del “discorso libero indiretto” (vedi qui Auerbach alla p. 16 la
definizione di “piano tonale”). Nel discorso libero indiretto scrive Pasolini, c’è una
“immersione dell’autore nell’animo dei suoi personaggi”. Pasolini rintraccia esempi di
questo cinema di poesia in autori a lui contemporanei: Antonioni Bertolucci Godard. Nello
stesso testo compare poi un’altra definizione del cinema di poesia, molto importante: a
differenza del cinema tradizionale – che da questo punto di vista può essere paragonato al
racconto letterario “realista” tradizionale – non c’è trasparenza, ovvero adesione della
lingua al significato, ma “si sente la macchina”. (Confrontare questa osservazione con
quelle degli autori della PARTE QUARTA).
Le due brevi interviste di Deleuze propongono riflessioni fortemente innovative sulla
questione del rapporto tra realtà e immagine. Contrariamente all’idea che l’immagina sia
una rappresentazione/riproduzione della realtà (paradigma realista) Deleuze propone di
pensare l’immagine in se stessa come una forma di realtà, e il cinema come una specifica
forma di immagine “diretta” o “indiretta” del tempo. Quella che il filosofo francese definisce
immagine/tempo equivale al modello non-narrativo che abbiamo visto nei testi precedenti,
ed è paragonabile a quanto Pasolini afferma sul cinema di poesia: come per Pasolini “si
sente la macchina” – cioè l’immagine non è trasparente – così per Deleuze l’immaginetempo spezza la falsa unità narrativa basata sull’illusione generata dal movimento delle
immagini. Si tratta di “un diverso regime” delle immagini dove si spezza la concatenazione
narrativa tradizionale.
Un secondo aspetto fondamentale è l’idea che l’immagine sia una “realtà” e non una
semplice riproduzione/rappresentazione o una forma di realtà seconda. L’immagine traccia
percorsi direttamente “nel cervello”. Come se il cervello fosse una sorta di “schermo”.
Questa posizione così radicale porta Deleuze addirittura a diffidare della parola stessa
“immaginario”.
I testi della rivista Allegorie che vengono proposti in questa parte riportano considerazioni
di alcuni registi sul tema del realismo. Sono utili per capire il lessico e le poetiche narrative
di una parte importante del cinema attuale che si rifà al realismo. In particolare ci si
domanda se “realismo” nel cinema significhi: narrazione realista o referenziale, oppure:
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stile documentario; oppure: forma del cinema-inchiesta (precedentemente a proposito
della narrativa veniva richiamata la formula del New Journalism americano). Ci si chiede
poi quale relazione ci sia tra questo realismo e la tradizione italiana del neorealismo del
secondo dopoguerra (Rossellini, in particolare, è richiamato da quasi tutti come un
esempio fondamentale).
Alcuni però, come Costanzo e Crialese, manifestano dubbi circa la formula realista
classica: secondo Costanzo compito del cinema sarebbe “trascendere la realtà”; secondo
Crialese la stessa formula del “ritorno alla realtà” è ambigua. Mentre altri, come Cristina
Comencini, hanno una visione più consueta del realismo che consisterebbe nel guardare
all’esterno, nell’ “aprire la finestra”.
L’ultimo saggio antologizzato è l’introduzione di Andrea Pinotti e Antonio Somaini al
volume collettivo Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo (Milano, 2009). Il saggio
riprende alcune domande caratteristiche della attuale “svolta iconica”: che cos’è
un’immagine, che cosa intendiamo quando parliamo di immagine, che rapporto c’è tra
l’immagine e l’ “essere”.
I principali nodi tematici del dibattito sono presentati a p. 10: il rapporto tra la attuale
“svolta iconica” e la precedente “svolta linguistica” (anni Sessanta) che metteva il
linguaggio, e non l’immagine, al centro dell’attenzione; che rapporto c’è tra immagine e
parola; infine che cosa intendiamo quando parliamo di “potere delle immagini”. Questi
punti vengono poi discussi analiticamente nel corso del saggio.
Nel complesso gli Autori mettono l’accento su alcuni presupposti condivisi nell’attuale
dibattito (pp. 26 sgg.):
la necessità di prendere in considerazione “tutte” le immagini, e non solo quelle
tradizionalmente considerate “alte” ovvero le immagini artistiche;
la necessità di considerare le immagini, nel loro complesso, come un punto chiave,
“storicamente determinato”, nel tessuto complessivo della cultura;
la fiducia nell’operazione di accostamento o “montaggio” dei vari tipi di immagine
come un sistema o un insieme dotato nel suo complesso di significato.
Infine, la necessità di far emergere una contrapposizione tra l’idea di immagine
come atto “sociale” e l’idea più tradizionale di immagine come “naturalità”.
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