CLASSICI ITALIANI COLLEZIONE FONDATA DA FERDINANDO NERI DIRETTA DA MARIO FUBINI Alessandro Tassoni LA SECCHIA RAPITA Rime e prose scelte A cura di GIOVANNI ZICCARDI UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE © De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013 UTET www.utetlibri.it www.deagostini.it ISBN: 978-88-418-9608-2 Prima edizione eBook: Marzo 2013 Tui i dirii sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodoa, memorizzata o trasmessa in alcuna forma e con alcun mezzo, eleronico, meccanico o in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scria dall’Editore. Le riproduzioni per finalità di caraere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effeuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. La casa editrice resta a disposizione per ogni eventuale adempimento riguardante i dirii d’autore degli apparati critici, introduzione e traduzione del testo qui riprodotto. INDICE DEL VOLUME Introduzione Nota biografica Nota bibliografica LA SECCHIA RAPITA A chi legge Paulino Castel vecchio ai lettori Canto primo Canto secondo Canto terzo Canto quarto Canto quinto Canto sesto Canto settimo Canto ottavo Canto nono Canto decimo Canto undecimo Canto duodecimo Dalle RIME I. Alle signore Orsi II. Ad Elena III. Donna sdegnata, amante pauroso IV. Ad una fanciulla V. Bella mendicatrice VI. «O me beato...» VII. «Dunque è pur ver...» VIII. A Fulvio Testi IX. Ad Antonio Bruni X. Fiore donato XI. Alla signora Crivelli XII. Nobile amore XIII. Occhi belli XIV. In morte di una cantatrice ferrarese XV. Amante sdegnato XVI. «Vivo fonte...» XVII. Per Marcantonio ed Ascanio Colonna XVIII. In morte di Filippo II XIX. Italia madre ai principi suoi figli XX. L’ombra di Carlo Emanuele duca di Savoia, che parla all’Italia XXI. Bellezze di Valladolid XXII. Risposta per le rime del Tassoni in nome di G. C. Gonzaga XXIII. Ai suoi parenti XXIV. Sopra un avaro ricco FILIPPICHE CONTRO GLI SPAGNUOLI Filippica I Filippica II RISPOSTA AL SOCCINO Dai PENSIERI DIVERSI I. Se la terra si muova II. Se ’l buon principe necessariamente dee esser letterato III. Se al principe sieno necessarie le lettere per imparar le virtù morali IV. Se sìa più utile per un principe la neutralità o la confederazione V. Se sia meglio per un principe l’avere stato grande e povero o mediocre e ricco VI. Se la favola del poema epico dell’Ariosto abbia unità VII. Chi meriti più il nome di poeta, Tito Lucrezio o Giovanni Boccaccio VIII. Se Omero nell’Iliade sia quel sovrano poeta, che i greci si danno a credere IX. Se nelle dottrine e nell’arti gli antichi prevalessero d’ingegno ai moderni X. Filosofi naturali antichi e moderni XI. Poeti antichi e moderni XII. Statue e pitture antiche e moderne XIII. Quali fossero maggiori ingegni, i greci o i romani Dalle CONSIDERAZIONI SOPRA LE RIME DEL PETRARCA Vice-dedicatoria Prefazione alle Considerazioni Proemio. «Voi, ch’ascoltate...» Sonetto XXXVII. «L’oro e le perle...» Sonetto CLXIII. «L’aura celeste...» Dagli AVVERTIMENTI DI CRESCENZIO PEPE Da LA TENDA ROSSA SCELTA DI LETTERE I. Al padre vicario della Sacra Inquisizione di Modena (2-2-1602) II. Al can. Annibale Sassi (31-10-1609) III. Al conte Alfonso Fontanelli a Modena [1612] IV. Al conte di Polonghera a Torino [1612] V. Al conte di Polonghera a Torino [1612] VI. Al conte Giuseppe Fontanelli a [Modena] [1613] VII. Al conte di Polonghera a Torino [1613] VIII. Al conte di Polonghera a Torino [1613] IX. Al can. Annibale Sassi (28-6-1614) X. Al can. Annibale Sassi (5-7-1614) XI. Al can. Albertino Barisoni (25-12-1615) XII. Al can. Albertino Barisoni (5-3-1616) XIII. Al can. Albertino Barisoni (24-9-1616) XIV. Al can. Albertino Barisoni (15-7-1617) XV. Al can. Annibale Sassi (9-9-1617) XVI. Al can. Costanzo Tassoni a Cremona [1618?] XVII. Al can. Annibale Sassi (12-10-1619) XVIII. Al can. Annibale Sassi (13-11-1619) XIX. Al can. Annibale Sassi (6-6-1620) XX. Al can. Annibale Sassi (11-8-1621) XXI. Al can. Annibale Sassi (8-1-1622) XXII. Al can. Annibale Sassi (5-3-1622) XXIII. Al can. Annibale Sassi (13-8-1622) XXIV. Al can. Annibale Sassi (26-10-1624) XXV. Ai signori conservatori di Modena (10-3-1625) XXVI. Ai can. Annibale Sassi (17-4-1627) XXVII. Al can. Annibale Sassi (16-8-1631) XXVIII. Al cav. Cassiano del Pozzo a... (22-12-1632) INTRODUZIONE I. IL PENSIERO E L’AZIONE POLITICA. Tra le caricature, i ragionamenti saldi o soili, le divaga zioni critie erudite e pseudo scientifie, le pagine eloquenti e appassionate, onde Alessandro Tassoni riempì le carte sue, i volesse trovare il segno personale d’un suo sentimento dominatore, forse abbandonerebbe la ricerca come vana. Con quel suo ridere degli altri e talora di se stesso, con quel ragionare ora sul serio ora per gioco, con quel sostenere in un punto un’idea, e non bene si mostra coerente con un’altra idea sostenuta in un altro punto, disorienta il lettore e disorienta il critico desideroso di formarsi di lui un concetto unitario. Pure un nucleo sentimentale, nonostante le incertezze e le deviazioni, si potrebbe riconoscere nella sua avversione agli spagnoli. Vissuto alcuni anni nella Spagna, vissuto alcuni decenni a Roma, amico o segretario di cardinali e traavano gli affari del governo pontificio, in posti eminenti da vedere il malgoverno spagnolo e da avvertire ane quel diffuso spirito d’indipendenza, e tra tante oscillazioni era al fondo della politica vaticana, per debito d’ufficio e per naturale acume disposto a distinguere e seguire i fili complicati degl’interessi europei; persuaso e molti mali in Italia eran prodoi dall’animo servile e dalla viltà dei prìncipi; spregiatore della boria fastosa e della effeiva povertà degli spagnoli, della fama di potenza invincibile e dell’intima debolezza della Spagna, sarebbe stato lieto di vedere i sovrani italiani insorgere per abbaere quella dominazione opprimente, raccolti intorno a Carlo Emanuele I, e si proclamava vendicatore della libertà della patria. ando perciò dall’abate Scaglia, ambasciatore di Carlo Emanuele a Roma, nel 1614 ebbe conforto di notizie e d’incitamento, lusingato ane dalla speranza di aprirsi la via all’ufficio di primo segretario del duca a Torino, scrisse quelle due Filippiche, che sono le prose politiche più eloquenti del nostro seicento. Le ragioni, che ricercano la forza potenziale degl’italiani e la debolezza coverta degli spagnoli, corrono serrate alla dimostrazione e appare efficace ane se non sempre solida. La Spagna infai era ancora assai forte da reggere a un assalto italiano, e gl’italiani eran lontani da quella concordia d’intenti, e sola poteva dar forza non illusoria all’azione. Il difeo delle Filippiche è perciò simile a quello dell’impresa tentata da Carlo Emanuele. esti, coi nomi sonanti d’indipendenza e libertà nazionale nobilitando il desiderio d’ingrandire il dominio di casa Savoia, s’illuse e i prìncipi non vedessero dove in realtà egli mirava, non misurassero le difficoltà dell’impresa e corressero a dargli aiuto volenterosi: cosa e essi si guardarono dal fare. Il Tassoni con due saldi discorsi volle dar sostegno di pagine eloquenti a un’illusione sia pure generosa; ma, se piacque al partito dei Savoia, non mosse il partito favorevole a Spagna e era numeroso, nè mosse il partito di quanti volevano stare a vedere, che era anche più numeroso. Negli stessi discorsi ci son trai più vigorosi e caldi, e son quelli e si rivolgono ai prìncipi italiani e indagano i torti di Spagna e le ragioni d’Italia; e ci son trai più deboli e speciosi, e son quelli e tentano di giustificare a puntino l’impresa condoa dal duca. Il quale si vuol mostrare come un principe leale, affezionato e devoto a re Filippo III, e quasi costreo a fargli guerra pei modi sleali e prepotenti tenuti verso di lui dall’Inojosa, governatore di Milano e generale del re; mentre nè l’Inojosa si moveva se non per volontà del re, nè il duca poteva esser proprio devoto al re mentre gli faceva la guerra. este ragioni d’una politica tortuosa, e egli ben conosceva per la corrispondenza col Polonghera e per la familiarità collo Scaglia, furono adaate a quelle veramente pensate e sentite da lui. Ma ebbe torto come oratore, e così diminuiva il pregio delle sue orazioni; e non ebbe ragione come politico, perè forse non intese e quel dare addosso all’Inojosa, tentando di meer fuori causa il re Filippo, era indizio e il duca, mentre faceva la guerra si preparava a far la pace, sacrificando alla sua politica i bei propositi di libertà e indipendenza d’Italia. Il medesimo sentimento d’italianità aivo e combaivo vive nella Risposta al Soccino del 1617. Il Soccino genovese aveva confutato le ragioni delle Filippiche, sostenendo sia la legiimità della dominazione del re di Spagna in Italia; sia lo scarso fondamento del dirio vantato da Carlo Emanuele, e parlava in nome dell’Italia lui principe di origine francese; sia la poca consistenza dell’amore di patria, poié a tui gli uomini secondo lui è veramente patria l’universo. Il Tassoni rispose ribaendo una per una (e ragioni dell’avversario, con un discorso polemico vivace, a trai arguto se non sempre persuasivo, mentre tuavia cercava di temperare le accuse già fae agli spagnoli, e riconosceva ane lui il buon fondamento dei loro dirii. «Che andate dunque sognando e gli spagnoli hanno acquistato con violenza e con fraude gli stati d’Italia? Se usaron forza e fraude a i gli possedeva, la forza e la fraude non diedero loro ragione alcuna, ma sì bene le successioni e gli accordi: nè mai il signor duca di Savoia ha guerreggiato con loro per levargli quello e posseggono giustamente, nè per odio nè poco rispeo e egli porti a quel re, degnissimo per se stesso e per la grandezza sua d’ogni ossequio e d’ogni riverenza; ma per difender se medesimo, e la riputazione e lo stato, messogli in compromesso dalla mala volontà d’alcuni ministri spagnuoli…». Eran mutati i tempi, e mentre il duca viveva ora in guerra ora in pace con Filippo III, agli scrittori troppo arditi contro gli spagnoli eran serbate altre vendette che di parole, secondo esperimentò Fulvio Testi appunto nel 1617. Se in questi scrii col sentimento nazionale si misura l’azione politica del Tassoni, nei libri VII e Vili dei Pensieri diversi si misura la consistenza teorica del suo pensiero. Ritiene legiima l’eredità dinastica degli stati, e quindi legiime le guerre dinastie. Capo dello stato vuole un monarca assoluto, dal quale dipenda l’amministrazione buona o caiva e sia. Non crede utile e il principe sia doo, non ritiene consigliabile e sia filosofo; conveniente invece gli pare e sia educato alle virtù morali, delle quali deve governando fare continuo esercizio e dare esempio ai sudditi. Al quesito se è peggio per lo stato e il principe sia caivo e i consiglieri buoni, o il principe buono e i consiglieri caivi, risponde e è preferibile il principe buono. «I principi vogliono il potere assoluto e libero: e non si lasciano correggere, se non in quelle cose, e non toccano il gusto loro: e anco molto spesso ripugnano in quelle, per non parer di dipendere come pupilli dall’altrui volontà». Nei consiglieri non vogliono i maestri, ma gli esecutori della loro volontà. Chi «sapesse ritrovar la maniera d’essere amate e temuto ugualmente, colpirebbe nel segno»; ma come questo incontra di rado, meglio un principe troppo rigoroso e uno troppo benigno. Degno di biasimo è i asservendo la patria se ne faccia tiranno. «La patria è più e madre, e se non è lecito fare siava la propria madre per qualunque errore ’ella commea, tanto meno è lecito meere in servitù la propria patria per qual si voglia imperfezione, e si vegga nel suo governo». Pensiero generoso. Ma come sorge il principato, se non opprimendo la libertà della patria? L’incoerenza è prodoa dalla discordia non conciliabile tra la naturale generosità dell’autore e la dorina contemporanea, disciplinata a sostegno e difesa del principato assoluto. E altre incoerenze ci sono, e insieme mostrano un pensatore poco rigoroso nel cavare le conclusioni, e derivano logicamente dalle premesse acceate. Così la personale esperienza rimeditata insieme collo studio degli scrii del Maiavelli, del Guicciardini e del Boterò, mentre riescono a osservazioni e ragionamenti non privi di forza e di acume, non giungono a formare una dottrina salda e coerente. II. GLI STUDI LETTERARI. Minore forza il Tassoni dimostra negli scrii di critica leeraria e artistica. Le Considerazioni sopra le rime del Petrarca del 1609 hanno note ora acute persuasive e originali, ora argute e satirie, ora fragili e inconsistenti sulle rime, e egli soopose ad esame più nel rispeo delle forme particolari espressive e nei sensi e le ispirano. Opera di leore aento ai difei più e opera di critico sereno, dà addosso ai petrarchisti anche più che al Petrarca: ma dei petrarchisti non coglie il difetto fondamentale, e del Petrarca non fissa il pregio capitale. Gli Avvertimenti dì Crescenzio Pepe del 1611 e la Tenda Rossa del 1613, scrii in polemica con Giuseppe degli Aromatari e era insorto a difesa del Petrarca, se a trai si leggono volentieri per l’arguzia e la felicità delle trovate, non fanno però avanzare d’un passo la critica petrarchesca oltre i limiti segnati dalle Considerazioni. Nei libri IX e X dei Pensieri diversi affronta vari e interessanti problemi di poesia e d’arte. Giova toccare di qualcuno. La favola dell’Orlando Furioso non manca, a suo giudizio, di unità, perè la guerra del re Agramante fu una sola; e l’Ariosto «non mancò in questa parte così principale di cantare una sola azione: ma piuosto mancò nel darle perfezione, per non le avere dato principio». Peccò ane nel titolo, e invece di Guerra del Re Agramante o Francia Difesa o Carlo Vittorioso fu Orlando Furioso, mentre l’eroe principale è Carlo e non Orlando. Così il critico rimane nelle reti aristotelie, e sbaglia perfino l’eroe e il titolo del poema dell’Ariosto. Al quesito se meriti più il nome di poeta Lucrezio o Boccaccio, risponde e Boccaccio imitò la natura ma scrisse in prosa, e perciò non è poeta; Lucrezio traò la fisica di Epicuro anzi e l’imitazione, e perciò non è poeta. Tuavia il nome di poeta conviene più a Lucrezio e «fra’ i suoi versi ha misiate molte imitazioni», e al Boccaccio le cui imitazioni «si sostentan più con la bontà della lingua e con la maniera del dire, e con la verisimilitudine e bontà loro riguardando al costume». Giudizio erroneo sul Boccaccio quanto alla verosimiglianza e alla bontà poetica, e comunque sfocato quanto al valore artistico; giudizio non chiaro su Lucrezio, che sfiora e non risolve un problema delicato. Al quesito se nell’Iliade Omero fu gran poeta, risponde e no. Omero, secondo gli pare, fu meraviglioso nella locuzione, fu debole nella favola e nel costume; e per quaranta pagine, dopo aver rigeato l’opinione degli antii e di Omero esagerando facevano l’iniziatore e il maestro della civiltà greca, esamina il poema nei trai estranei i più alla sostanza poetica, con ragioni intelleualistie, moralistie e antistorie, senza considerarlo nella sua intima natura poetica se non per caso, e giunge alla conclusione che Omero, «componendo a caso, se mai disse nulla di buono, lo disse a caso». II Tassoni invero scrisse a lungo di poesia, senza veder nea l’essenza della poesia, e egli ritenne consistere nell’imitazione espressa in versi. Escluse quindi dalla poesia le opere e non erano scrie in versi e non erano dimitazione; ma nel considerare in concreto l’imitazione scivolò in giudizi legati a quello e pareva buono o conveniente a lui, secondo e erano aderenti o discordanti dalla moralità, dagli usi, dalle forme artistie in vigore ai tempi suoi, restringendo così sino alla grea pedanteria la stessa poetica di Aristotele, e aveva in germe idee e potevano produrre giudizi meno estrinseci e superficiali. Egli fece però qua e là sagaci osservazioni particolari, le quali, prive come sono d’un fondamento e d’una sistemazione teoretica, rimangono segni sparsi d’un pensiero vivace e a istanti acuto, ma scarso di coerenza. Lo stesso si nota in quanto scrisse sui piori e scultori. Portò un interesse di erudito per gli antii, dei quali tolse le notizie generalmente dagli ultimi libri della Naturalis historia di Plinio, integrandole colla direa osservazione delle opere raccolte nelle gallerie romane; portò un interesse più aivo di amatore per le opere recenti, per alcune delle quali lasciò impressioni vive e colorite, come pel Cupido del Parmigianino, come pel Salvatore del Tiziano posseduto dal duca di Modena. Ma l’impostazione critica dei giudizi, sia per gli antichi sia pei moderni, è in difetto pei pittori e scultori come è in difetto pei poeti. III. IL DILETTANTISMO SCIENTIFICO. Di molto inferiori agli scrii politici e leerari sono quelli scientifici raccolti nei primi sei libri dei Pensieri diversi. Nel primo l’autore si propone quesiti intorno al caldo e al freddo, nel secondo quesiti intorno al cielo e alle stelle, nel terzo intorno al sole e alla luna, nel quarto intorno all’aria all’acqua e alla terra, nel quinto intorno ad accidenti e proprietà diverse di fisiologia e patologia umana, nel sesto intorno alle disposizioni agli abiti e alle passioni degli uomini: tua una vasta enciclopedia. Volere e egli potesse parlare da scienziato di tuo cotesto, oltre e di argomenti politici, leerari e artistici, sarebbe pretender troppo. Già la materia di questi dieci libri dei Pensieri diversi riiama il ricordo dei tesori e delle somme medievali, anziè delle opere colle quali nel seicento si affermava II pensiero italiano. Uno sguardo ad alcuni quesiti conferma questa impressione. Mentre il Galilei coll’osservazione direa e coi calcoli esai dimostrava le leggi e governano i pianeti, il Tassoni studiava le figure astrologie e formava oroscopi per sè e per gli amici. Nel secolo e fondava la scienza sull’osservazione e sugli esperimenti, e da essi procedeva con ragionamento rigoroso verso l’ipotesi, e era controllata dal calcolo e da nuovi esperimenti, il Tassoni si affidava a ragionamenti parte fondati su osservazioni non sistematie, parte fondati su concetti non accertati, riuscendo a conclusioni poco salde e talvolta risibili. Dire e nei suoi scrii mani ogni influenza del metodo sperimentale, sarebbe dir troppo: ma contro il giudizio assai indulgente di alcuni, è doveroso affermare e a lui mancò la disciplina mentale dell’uomo educato all’indagine scientifica, e mancò il metodo rigoroso per giungere all’accertamento del vero. Egli rimase l’erudito, il ragionatore pseudo-scienziato sulle curiosità fisie e naturali; lo studioso legato al metodo e fu deo aristotelico, quando si volle dire metodo superato e vieto; il raccoglitore di ragioni giuste e di ragioni false messe insieme con debole controllo. La leura del quesito XXV del libro quarto «se la terra si muova», e è uno dei più meditati, dimostra il buon fondamento di questo giudizio più di un lungo discorso. IV. L’ATTIVITÀ POETICA, «LA SECCHIA RAPITA». Negli anni giovanili il Tassoni scrisse dei versi senza darvi importanza, indizio non trascurabile e gli fece difeo quel fervore di cuore e quella facilità fantastica, i quali, se sono i trai caraeristici del poeta, sono nel poeta particolarmente aivi durante la giovinezza. Fu scarso di quella umana simpatia, e apre l’anima a penetrare e comprendere le pene altrui, a soffrire delle altrui sofferenze, a godere con benevolo affeo delle gioie degli altri. Fu scarso del calore e scalda i pensieri alla fiamma viva d’un amore profondo, dà vita unitaria alle immagini sorgenti e sospinge ad abbandonarsi in loro balìa, sciolto dai vincoli strei dei miseri puntigli o dei piccoli tornaconti personali soppesati cogli amici veci o cogli amici d’un giorno, e soppesati coi boegai e ci provvedono il cibo quotidiano. Anzi e poeta, egli fu studioso e intenditore di poesia, e scrisse un gruppo di lirie e costruì ane un poema non privo di pregi particolari. Lasciò venti rime serie, galanti le più, cortigianese o politie alcune, mediocri tue. Le rime galanti, in mancanza d’un affeo sentito, si svolgono tra soigliezze e arguzie di sieo sapore secentesco, qualcuna con quale trao di spirito, le altre stiraciate tra immagini scialbe o cavate col rampino. Rimanendo nella maniera del Marino, del Marino appare meno ingegnoso e vivace. Nella canzone Per Marcantonio ed Ascanio Colonna segue invece i modi pindarici tenuti dal Chiabrera e dal Guidi: suono di parole, vano gioco dei venti. Alquanto meglio nel soneo Italia madre ai principi suoi figli , nel quale, se i versi valgon poco, c’è almeno un moto d’affeo verace e li scalda e li lega alle Filippiche; alle quali ci riiama ane il soneo L’ombra di Carlo Emanuele, e è l’eco tardiva e attenuata di spiriti generosi. Nè son belle le più delle rime satirie e burlese, e troppo abbondano d’insulti volgari e di espressioni sconce oltre il limite della decenza e dell’arte. Si sollevano sopra la mediocrità tre sonei. In quello Ai parenti l’avversione vivace trova modi faceti nella felicità espressiva; in quello Sopra un avaro ricco è immediatamente intuita la figura di quella mummia col fiato, e pare un uomo di cartapesta semovente per quale complicato congegno nascosto, figura e poi alquanto si annebbia nelle note soverie onde è segnata la spilorceria; e infine nel soneo su Le bellezze di Valladolid la piura, e non rifugge dalle espressioni icastie più repellenti e salaci, riesce a dare vivo e neo il senso del disgusto, che la città per sua poca ventura suscitò nel poeta. Prima di por mano alla Secchia, nel tempo in cui sperava di passare al servizio di Carlo Emanuele I, nel 1614 direi, avviò un poema sul viaggio di Cristoforo Colombo, L’Oceano; e lasciò interroo alla seconda oava del secondo canto, perè si dovè accorgere e per questo viaggio s’era imbarcato male. In verità quanto scrisse si avvolge tra le antie fole e le consuete macine della scenografia poetica, desunte parte da Omero e dal Tasso, parte dal Camões: fruo d’imitazione anzi e poesia traa dalle nuove scoverte e meraviglie dei viaggi di Colombo. ando aveva fao le sue varie esperienze nella vita, nella cultura e nell’arte, in dieci mesi tra il 1614 e il 1615 compose La Secchia Rapita in dieci canti, e nel 1618 portò a dodici, inserendone due nuovi tra il nono e il decimo. Aveva fresca e viva l’avversione al dominio e alla boria degli spagnoli; aveva neo il giudizio e Omero nei suoi poemi aveva introdoo dèi ed eroi grossolani e immorali, e del Petrarca si usava e si abusava copiandone gli aeggiamenti ed esagerandone i difei; aveva ardente l’odio contro Alessandro Brusantini, che egli credeva ispiratore d’una satira diffusa contro di lui; pronto lo scherzo agro dolce verso gli amici e pronta la beffa acerba contro i nemici, facile il riso per le mesine gare municipali. Nella Secchia intese riversare questi sensi e giudizi, prendendo argomento da una guerra combauta tra modenesi e bolognesi nel 1249 «Per una vil secia di legno». Fece quindi una specie di poema a doppio fondo: l’uno formato dalle vicende parte reali parte immaginarie di questa guerra, nella quale raccolse fai e persone di tempi disparati; l’altro formato dal riferimento delle persone e dei fai remoti alle persone e ai fai contemporanei. Così spesso altro diceva, altro intendeva: poema a iave da tener sempre pronta a disserrare i pensieri riposti; poema a indovinelli da sciogliere successivamente per penetrarne i sensi nascosti. Naturalmente il valore del poema non può dipendere e da quello e in effeo esso riesce ad esprimere. Che soo questa o quella persona, soo questo o quel fao sian celati altri fai ed altre persone, può interessare l’interprete e voglia comprendere oltre alle forme dell’arte ane le intenzioni dell’autore; può interessare il leore e sia curioso di conoscere i ripici e le bizze personali e municipali del poeta e dei suoi contemporanei: ma il giudizio critico, liberandosi da queste reti e da quelle trappole, si rivolge netto e solo al mondo fantastico concretamente significato. Di questo mondo la prima impressione e si riceve è l’abbondanza strabocevole della materia non proprio fantastica, ma di ordine modestamente pratico. In una serie non grande di fai di guerra figurano ben tre lunghe rassegne di eserciti, dell’esercito modenese, dell’esercito bolognese e dell’esercito padovano: rassegne e occupano circa la quarta parte dell’intero poema. Ora questa sarà ane la parodia delle inamene rassegne dei poemi epici, ma serve specialmente per infilare l’uno dietro l’altro i personaggi benvisti e malvisti dall’autore, i quali spesso non hanno alcuna importanza nell’economia generale del racconto, ma tuavia giovano a pagare un debito di amicizia o di gratitudine, o a far sorridere di loro o a ricevere frustate e frecciate. anto accade per la rassegna dell’esercito padovano, secondo si può seguire nelle leere stesse del Tassoni, è particolarmente significativo. Non avendo direa conoscenza dei luoghi e delle persone del padovano, egli scriveva per notizie agli amici di Padova, le riceveva e, aggiuntovi quale trao serio o faceto o satirico, le versificava e le includeva nel poema. In forma meno impersonale agì pei modenesi e pei bolognesi, dei quali aveva più direa conoscenza; ma il modo, tolte alcune figure principali, non fu di molto differente. Ora se è vero e solo i grandi poeti riescono, quando riescono, a superare gli scogli delle rassegne fissando nei trai caraeristici le persone e agiranno nel corso dell’azione, e poesia si poteva aendere da queste interminabili serie di oave dal Tassoni scrie per divertire gli amici, e riconoscendo questo o quello potevano sorridere ammiccando furbescamente tra di loro? E insieme colla poesia per noi manca ane il divertimento dell’ammiccamento furbesco, perchè quelle persone e quei fatti nella gran parte per noi son cose rimorte. Un altro difeo fondamentale del poema è la mancanza dell’unità di impressione per la sua forma ibrida, della quale come di una forma originale appunto si gloriava il poeta. Non è racconto burlesco di fai gravi, non è racconto grave di fai burlesi, ma racconto misto di fai seri narrati ora seriamente ora burlescamente, e di fai comici narrati ora seriamente ora comicamente; i quali, confusi come sono gli uni insieme con gli altri, lasciano il leore spesso dubbioso se ridere o non ridere ane delle parti serie. Il disorientamento è accresciuto dalle frequenti uscite di pagliaccio, colle quali il Tassoni dà il trao finale a questa o quella figura seria, all’uno o all’altro episodio grave: e quando li leore crede finalmente di aver capito e ai serio non è poi da prestare intera fede, è tra breve se lo vedrà mutato in ridicolo, ecco e gli càpita improvviso un fao tuo serio da capo a fondo. Così rimane deluso da questa arte a sorpresa, da questo artificio di freddurista pertinace. La pluralità e la discordanza delle impressioni aestano l’assenza d’un nucleo ispirativo. L’avversione a Spagna, espressa con vigore nelle Filippiche, qui compare e circola aenuata in quale episodio e in accenni particolari sparsi, ma non dà il tono unificatore al racconto. L’amore di patria, e fu sentimento non mentito nel Tassoni, qui trova appena quale voce fioca e poco espressiva. esta guerra per una secia di legno, le lunghe e sanguinose contese combaute tra cià e cià, mosse da mesine gare municipali e da deplorevoli odii di parte; l’assenza di un’idea e potesse esser bandiera non tua spregevole a così feroci loe fratricide; il nome dell’Impero con quello dei ghibellini, il nome della Chiesa con quello dei guelfi ripetuti ancora per consuetudine stracca, senza alcuna viva risonanza nelle anime: tuo dimostra l’assenza di un sentimento o di un pensiero animatore della parte diciamo eroica del poema. In quella vece son rassegne interminabili, baaglie e ripetono sazievolmente i colpi, le ferite e le uccisioni, il meraviglioso mitologico e il meraviglioso magico, gli eroi e la virago, l’unità d’azione e la varietà degli episodi: tutti mezzi esteriori di un’epica decisamente mancata. Similmente circola l’intenzione della parodia delle loe comunali combaute senza un motivo serio; la parodia del sussiego e dei costumi spagnoleggianti; la parodia dell’epica e quella della lirica petraresca, dei miti pagani e ane un poco delle cerimonie caolie; la parodia degli eroi e delle eroine: ma alle parodie sciolte ed episodie manca un centro e manca la coerenza e le fonda. La presa di Castelfranco presentata seriamente mal si lega con una concezione satirica delle guerre municipali; i fai gravi mal si legano coll’intenzione di parodiare il poema epico; il concilio e il faceto contrasto degli dèi di Omero in cielo, le fatie meretricie di Venere all’osteria mal si conciliano colla figurazione di Venere serenatrice dell’aria e dominatrice dei venti, mentre dalla bocca d’Arno è in viaggio verso Napoli. Meglio resiste lo spirito comico, e va dall’espressione realistica alla caricatura, al moo arguto, alle forme triviali od oscene. Al suono a martello della campana maggiore il sùbito saltar dei modenesi dal leo, e il balzar per le scale, e correre alla finestra e al pitale è figurazione vivace di realismo felice. I pacifici borghesi trasformati in guerrieri assetati di sangue riescono figure ora lepide, ora argute, più spesso caricate e mutate in pupazzi, come ben rileva il Momigliano. Comicità di solito addensata, raccolta in poi trai decisi e taglienti, nella cui smorfia guizza il contrasto e è in loro tra l’aeggiamento visibile e le tendenze nascoste. Ma l’intimo delle persone s’indovina o si travede più e vedersi; la forma espressiva veloce ed epigrammatica, quando è ben riuscita, fissa alcune linee apparenti e trascura o tocca appena quelle più profonde, dalle quali le apparenti dovrebbero assumere senso e ragione. Così le persone rimangono superficiali, colla parvenza anzi e coll’effeiva consistenza della vita. Si muovono, dicono le loro parole, feriscono ed uccidono o si lasciano ferire e uccidere; ma appaiono e scompaiono senza rivelare la loro fonda umanità, posto e l’abbiano. L’uno è gran bevitore, l’altro è divoratore di castagne sece; questo è un omeo minuto, sagace e astuto parlatore, quello è vantatore parabolano; costui è versaiuolo maniaco, colui è poltrone gonfio di boria: ma non si vede quali siano gl’intimi sensi di ciascuno, quelli e dovrebbero rivelare l’umanità del bevitore o del divoratore, dell’omeo astuto o del vuoto parabolano, del versaiuolo o del poltrone borioso. Tra tante caricature emergono due figure comiche, Titta romano e, più felice, il conte di Culagna. Il conte di Culagna è tracciato con mano sicura fin dalla prima presentazione. Quest’era un cavalier bravo e galante, filosofo, poeta e bacchettone; ch’era fuor de’ perigli un Sacripante, ma ne’ perigli un pezzo di polmone. Spesso ammazzato avea qualche gigante, e si scopriva poi ch’era un cappone; onde i fanciulli dietro, di lontano, gli soleano gridâr: — Viva Martano. — (III, 12). L’azione svolge con festività comica e felicità inventiva i trai addensati nel ritrao. Rubiera è in pericolo, e a liberarla occorre un capitano valente. Il re Enzio lo cerca. — V’andrò io: i m’accompagna? — dice il conte. E al re meravigliato di tant’ardire osserva il Poa a bassa voce: — esto è un mao glorioso. — Salinguerra in baaglia vede il conte «pomposo d’armi e di bei fregi altiero»; credendolo un guerriero poderoso, gli sprona il cavallo addosso. Ma il conte lesto si rilancia a piede, e si ripara dietro al suo destriero (VI, 10). Aspra è la baaglia tra modenesi e bolognesi e le sorti sono ancora indecise, quando il conte impaurito fugge via correndo alla cià annunziatore di disfaa. Se non e a Renoppia, e animosamente esce colle donne per difesa alla campagna, per ricere e faccia non appare segno alcuno di disfaa nè vicino nè lontano. La maggiore bravura il conte la dimostra di fronte a Melindo. esti per arte negromantica ha già aerrato in giostra i più noti campioni dei due eserciti avversari, allor e verso di lui s’avanza il conte, e all’incontro iude gli oci e stringe i denti per paura; ma alle grida e agli applausi riaprendo gli oci si ritrova ai piedi abbauto il vincitore di tanti guerrieri. Si gonfia alla vioria; ma lo sgonfia un nano e, porgendogli lo scudo guadagnato, gli rivela e per ao d’incanto Melindo non poteva esser vinto se non venia un guerrier tanto codardo, che non trovasse paragone in terra (IX, 79). La codardia singolare, e qui viene diiarata per arte magica, appare in tua la sua vergogna nella sfida e nel duello con Tia romano. Per vendea d’essere stato da lui cornificato il I conte lo sfida, come sa e egli è ben iuso in carcere e non può fare il duello. Ma poi e Tia è scarcerato e accea la sfida, il conte s’ammala: nè valgono gli amici o il medico o il farmacista o Renoppia stessa a guarirlo della paura e a sospingerlo al duello. Ci riesce il vino generoso, e gli accende in cuore una fiammata di ardimento; della quale approfiano subito gli amici per menarlo finalmente contro l’avversario. Ma l’innata viltà ritorna presto, è al primo scontro, scambiando per ruscello di sangue un nastro rosso: — Oimè son morto — grida. Alle doti di soldato vigliacco e smargiasso il conte aggiunge quelle dell’innamorato poeta e itarrista. Vinto Melindo, e aveva giostrato per amore di Renoppia, conclude a suo modo e dunque coll’onore delle armi gli ha tolto ane il dirio all’amore di Renoppia; e così di lei s’innamora, dimenticando e «moglie giovane e bella ei possedea». Rifacendo il verso ai poeti siciliani (siamo ai tempi di Federico II), canta il suo amore per la guerriera: O, diceva, bellor de l’universo, ben meritata ho vostra beninanza; chè ’l prode battaglier cadde riverso, e perde l’amorosa e la burbanza. (X, 7). Ma non potendo sposare Renoppia se non si libera della moglie, lo sciagurato decide di avvelenarla; ma dal fallito tentativo cava per sè una purga d’antimonio, e colle corna meritate la fuga della moglie. Pure di questo coniglio colla pelle di leone, di questo innamorato d’immaginazione, di questo avvelenatore dalla moglie tradito e beffato si ride senza acredine, si ride di buonumore, perè se agisce male, lo fa meno per malizia e per natura superficiale e facilona; la quale ora lo spinge contro i nemici, ora lo induce a fuggire per meersi in salvo, ora gli fa credere di essere innamorato: mobile e corrivo alle impressioni dell’istante, le quali, essendo diverse e talora contrarie, lo inducono ad ai diversi e talora opposti. Ma quale è l’intimo motivo e lo muove? quello e dà unità e concretezza umana alla sua persona? Come si giustifica la ricerca del pericolo colla sua innata viltà? Come l’amore d’immaginazione col tentato uxoricidio? Come il desiderio d’onore colle azioni vergognose? Son problemi e in sede psicologica come in sede estetica potrebbero trovare la loro soluzione; ma occorrerebbe una concezione più intimamente umana del conte, anzi e quella caricaturale e il poeta ci presenta: la quale, a non lasciarsi illudere dalla varietà degli episodi comici, rimane an’essa ali’incirca nei limiti nei quali rimangono le figure minori del poema. Figura più complessa, ma artisticamente meno coerente del conte di Culagna, è Tia di Cola romano. In lui sono impersonati due motivi e coesistono e non si fondono: l’uno è nel figlio del villano arricito a forza di ladrerie, e nella burbanza, nell’ostentazione sfacciata delle ricezze dal padre mal acquistate, nella smania di nobilitarsi facendo il paladino di Francia con scarso vigore di membra e nativa viltà di animo, è oggeo di dileggio e di riso. L’altro motivo è nell’amante sagace e malizioso, piacente e fortunato don Giovanni, e della dabbenaggine del conte di Culagna destramente si prevale, per farsi finalmente della moglie di lui la ganza bella e soddisfaa; la quale, fintasi mora, all’amante si stringe ghioa di piacere soo gli oci del marito, e non la riconosce e si compiace. Ora questa flessibilità di mente e quella prosopopea di otre gonfio di vento; questa destrezza e ingegnosità boccaccesca e quel risibile valore di soldato smargiasso, mentre per un verso suscitano il riso, per un altro verso suscitano quella simpatia non scevra di una certa ammirazione, e suole concedersi al furbo matricolato e si fa gioco del babbeo: duplicità di motivi e duplicità d’impressioni artistiche. È verosimile e la duplicità derivi da due diversi tipi osservati direamente dal vero. Per l’amante fortunato sovviene una nota dal Tassoni scria soo il nome di Salviani a proposito di una vanteria di Tia (X, 74); e aiutano le ricere industriose del Santi (II, 247), il quale in Tia vede Giovan Baista Viori, nipote di papa Paolo V e aspirante alla porpora cardinalizia, e pei suoi amorazzi e la condoa disordinata dallo zio fu iuso in Castel sant’Angelo. Per «lo zerbino affeato nato di casa nuova, arricito per strada obliqua e fa del cavallerazzo e del bravo, mentre conosce d’avere a fare con persona inferiore e di poco polso» — secondo scrive il Salviani — sarà stato tenuto presente quale diverso modello. Ma se la dualità dei modelli può spiegare la dualità dei motivi, non giustifica (e come potrebbe?) la mancata coerenza poetica di Tia. E questa è un’altra prova e l’ingegno del Tassoni, fao per le macchiette e le caricature, fallisce nell’intuizione d’un carattere. La sinfonia comica maggiore è nella sfilata e nel concilio degli dèi. Gli dèi di Omero, personificando e idealizzando gli stati d’animo le virtù e i vizi dei greci, li presentavano potenziati nelle qualità e nel vigore. Gli dèi del Tassoni, conservando i trai particolari degli dèi di Omero, discendono a rappresentare gli stati d’animo, le virtù e i vizi più volgari degl’italiani del seicento. In questo abbassamento è la parodia dell’Olimpo omerico, ma è ane la figurazione tra satirica e faceta della corte pontificia e della società contemporanea, e soo nomi sonori celavano povertà di spirito o corruzione di costumi, secondo pareva al poeta. Così Apollo è divenuto un bellimbusto e corre in carrozza decorato del toson d’oro, seguito da ventiquaro donzelle e lo seguono in scarpee. Pallade, dea della sapienza e della guerra, è divenuta una donna bizzarra, «sdegnosea e fiera in volto», e porta «a Pardon la scimitarra», e si vale della sua sapienza per vestirsi alla moda mezzo greca e mezzo ispana. Venere, dea della bellezza e dell’amore, nel corteo si mostra una dama galante del seicento, nell’osteria discende a meretrice e si concede senza misura. Saturno è un vecio stitico, catarroso e maligno, Marte è il soldato furibondo e fanfarone, Cerere e Bacco vengono da buoni campagnoli ragionando insieme, Neuno è un povero pescatore, Diana fa la lavandaia, Giunone da moglie bisbetica fa dispei al marito; Giove con sussiego alla spagnola viene preceduto da Ercole, e gli fa la strada rompendo a i la testa a i le braccia, come «un imbriaco svizzero» della guardia pontificia. Il concilio svolge con brio e forza comica alcuni dei motivi accennati nella sfilata: se non e la mano dell’autore appare meno agile, i toni divengono più gravi, i tratti più caricati e l’espressione complessiva è informata a quella comicità densa e pingue, e è la forma prevalente della Secchia nelle parti riuscite bene. Del resto questo concilio, convocato con gran suono di campane per deliberare sull’aeggiamento degli dèi di fronte alla guerra tra modenesi e bolognesi, finisce poi senza concludere, dacé ciascuno agisce a modo suo, e Giove con tua la maestà e le minacce non riesce a imporre la volontà sua. Rivive invece in tono minore la rivalità omerica tra Pallade e Marte, gli adescamenti amorosi di Venere, la furia erotica di Marte, i lamenti e il pianto del povero Vulcano marito tradito e bastonato, e i sogghigni e i motti degli dèi che alle sue disgrazie si divertono. Se il poeta meglio riesce nelle varie gradazioni del comico, ha tuavia una versatilità e una scioltezza d’ingegno, e gli fanno trovar la nota giusta ane nel tema pietoso o nel tema sensuale e amoroso, se però non esigono un ampio respiro. Nel giro di alcune oave, talora nel giro di poi versi fissa con sobria neezza di sensi e di parole un profilo commovente o una scena amorosa. Nel breve episodio di Ernesto e Jaconìa, per esempio, passa un’onda di commozione sincera, e, se non raggiunge quella suscitata da Cloridano e Medoro con tanto maggiore umanità presentati dall’Ariosto, mostra tuavia nell’autore una perizia, e non è tua dileantismo leerario. Più felice appare l’episodio di Endimione, fuso ed equilibrato tra l’ispirazione erotica nella prima parte e la sapida parodia del mito lunare nella seconda. Scomparso il sole dalla scena del mondo, la noe ha steso il suo velo di tenebre; la Luna sorgendo solleva quel velo e illuminando la terra «le campagne mirò tacite e sole». Veduto Endimione addormentato e gli Amorini intorno e lo vagheggiano e lo infiorano, incuriosita scende a guardare da presso. Gli Amorini fuggono ed ella si ferma a contemplare; rimane a vagheggiarlo, e nel vagheggiamento si perde. Vinta dall’impeto venereo e la prende, a Endimione e si sveglia sbigoito della presenza divina e fa per prostrarsi ai piedi di lei, ella manifesta altro desiderio: «I’ son la Luna, Ch’a dormir teco in questa piaggia erbosa Amor, necessità guida e fortuna». E a lui si stringe in un amplesso ardente e tenace, che nei versi del poeta trova accenti molto coloriti e infiammati. Il mito della castità della Luna è già caduto, quand’ella, esaltando queste dolcezze inusitate, si cruccia del tempo oerduto vanamente nella caccia alle fiere, e si propone di rifarsi nel futuro il meglio e potrà delle dolcezze perdute; e dea infine questa legge, e nessuna donna morrà d’ora in poi vergine e pura, «se non mentitamente o al suo dispetto». Così un episodio di calda sensualità è riaddoo terminando alla parodia del mito e del costume, e dà la voce prevalente al poema. NOTA BIOGRAFICA Alessandro Tassoni nacque a Modena il 28 seembre 1565 dal conte Bernardino e da Gismonda Pellicciari, dei quali rimasto orfano in tenerissima età, fu curato con grande affeo dal nonno materno e dallo zio Marcantonio Pellicciari. Trascorse l’adolescenza e la giovinezza con quale dissipazione, andando per ben sedici anni «aorno per gli studi e per le accademie d’Italia», e laureandosi in utroque iure nel 1592. Fece parte dell’accademia della Crusca e dell’accademia degli Umoristi di Roma. Sul cadere del 1597 andò a Roma col desiderio di occuparsi nella corte pontificia, e nel 1599 fu assunto come primo segretario dal card. Ascanio Colonna, e nel 1600 lo condusse seco in Spagna. Libero da questo ufficio tra la fine del 1603 e gl’inizi del 1604, fu più anni ospite del card. Bartolomeo Cesi e del card. Alessandro d’Este; poi, ammirando l’aività di Carlo Emanuele I, e parve sorgere vendicatore dell’indipendenza italiana, per lui da Roma mandò informazioni politie, e per sostenere la sua politica pubblicò due Filippiche contro gli spagnoli nel 1614 e la Risposta al Soccino nel 1617. Entrò quindi nel 1618 quale gentiluomo ordinario presso il card. Maurizio di Savoia, dimorando parte a Roma parte a Torino, finé nel 1621, disgustato dei Savoia, e per riguardo agli spagnoli lo tenevano in disparte, si liberò dal loro servizio e rimase quale tempo sciolto da ogni impegno. Acceò quindi di passare al servizio del card. Ludo-visi, col quale stee dal 1626 al 1632, quando, morto il cardinale, ormai vecio stanco e infermo accolse la nomina di gentiluomo di belle leere alla corte di Francesco I di Modena, dove trascorse tranquillamente gli ultimi anni e morì il 25 aprile 1635. Segretario di cardinali, negli affari acuì il naturale acume nel penetrare i motivi degli avvenimenti politici, conservando un sentimento nazionale assai vivo pei tempi suoi. Le ore libere dalle occupazioni di ufficio, ed eran molte, impiegò nello studio degli scriori antii e moderni, delle opere di storia di costume e di scienza, coll’interesse aivo del leore curioso e intelligente, e desidera non solo di apprendere, ma ane di diffondere cogli scrii il fruo delle sue leure. Oltre a poe rime composte sparsamente in varie occasioni, alla poesia dedicò un periodo breve ma intenso della sua vita, dal 1614 al 1618 circa, quando egli era presso alla cinquantina o l’aveva di poco superata. Libero da legami coniugali, da una domestica ebbe un figlio, Marzio, e crebbe dissipato e vizioso, e fu il dolore e il cruccio del padre, finé, maturato dagli anni e dal bisogno, non s’indusse finalmente per occuparsi a fare il soldato. Le vicende liete e tristi della vita, le speranze e le delusioni del suo lungo servire, l’osservazione aenta degli avvenimenti politici, le lunghe traative con amici e stampatori per la pubblicazione delle opere, la Secchia specialmente, le ire violente e i rancori a lungo covati contro gli avversari, sono da lui stesso espressi nelle Lettere, scrie con vigore ineguale, con facilità di mano e a trai con umore e vivacità non indegni della Secchia. Tenace negli affei, amò gli amici, amò la patria; vendicativo beffardo, perseguitò i nemici con odio lungo pertinace, come fece pel conte Alessandro Brusantini, e egli infamò nel poema sotto il nome del conte di Culagna. NOTA BIBLIOGRAFICA Opere La Secia rapita compiuta nel 1615 era in 10 canti (vedila pubblicata a cura di C. ANGELI, Modena, 1935); essendo stata ritardata la stampa per impedimenti vari, nel 1618 ebbe aggiunti i canti X e XI, inseriti tra il IX e il X. La prima edizione fu pubblicata a Parigi nel 1622, La Secia poema eroicomico d’Androvinci Malisone, in Pariggi, presso Tussau du Bray; ritoccata secondo gli ordini della Congregazione dell’Indice, fu ripubblicata a Ronciglione (Roma) nel 1624 col dtolo La Secia Rapita , in due lezioni, l’una di poi esemplari correa secondo la volontà del pontefice, l’altra dei rimanenti esemplari lasciata secondo la volontà dell’autore. esta lezione fu riprodoa nell’edizione veneziana del 1625, e ulteriormente ritoccata dall’autore fu ristampata a Venezia nel 1630 da Giacomo Scaglia. Il testo di Ronciglione, correo secondo la volontà del papa, fu seguito dal Baroi, Modena, 1744, e dagli altri dopo di lui ane recentemente; il testo veneziano del 1630, e offre l’ultima volontà del poeta, fu seguito da F. L. MANNUCCI per l’Utet, 1928, da G. Rossi pel Laterza, 1930, e da L. FASSÒ pel Rizzoli, 1942. L’Oceano, pubblicato nel 1622 insieme colla Secchia, fu riprodoo molte volte e accolto nelle ediz. Laterza e Rizzoli. Le Rime, pubblicate sparsamente o lasciate inedite, furono da T. C ASINI riunite nel volume Rime di A. Tassoni raccolte su i codici e le stampe, Bologna, Romagnoli, 1880; a questa edizione fanno capo le ristampe posteriori. / pensieri diversi la prima volta in numero di 151 furono pubblicati col titolo Parte de’ quesiti del sig. Alessandro Tassoni , Modena, Giulian Cassiani, 1608; ma questa ediz. non fu riconosciuta dall’autore, e nel 1612 pubblicò Varietà di pensieri di A. T. divisa in IX parti, Modena, G. M. Verdi, con 232 pensieri in 9 libri. Nel 1620 l’opera, accresciuta dèi libro X e di quesiti sparsi negli altri libri, fu ripubblicata in edizione definitiva a Carpi, presso Girolamo Vasieri. Le Filippiche nel 1614 e la Risposta al Soccino nel 1617 furon diffuse anonime; recentemente furono accolte in Prose politie e morali a cura di G. Rossi, Laterza, 1930, e nelle Opere ci. a cura di L. FASSÒ. Il manifesto di A. T. intorno alle relazioni passate tra esso e i principi di Savoia, scrio nel 1627, vide la prima volta la luce nel 1849 a cura di G. CAMPORI in Appendice all’«Ardi. stor. ital.»; fu ripubblicato recentemente dal Rossi e dal FASSÒ nei voli. ci. Le Considerazioni sopra le Rime del Petrarca, edite a Modena presso Giulian Cassiani nel 1609, furono ritoccate per una nuova edizione e ripubblicate dal MURATORI insieme col suo commento al Petrarca, a Modena presso il Soliani nel 1711. Avvertimenti di Crescenzio Pepe da Susa al Sig. Giosefo degli Aromatari intorno alle «Risposte» date da lui alle «Considerazioni» del Sig. Alessandro Tassoni sopra le «Rime» del Petrarca , Modena, Cassiani, 1611. La Tenda rossa. Risposta di Girolamo Nomisenti ai «Dialoghi» di Falcidio Melampodio, Francfort (Modena), 1613. Le lettere di A. T. tratte da autografi e da copie e pubblicate per la prima volta nella loro interezza, a cura di GIORGIO ROSSI, Bologna, Romagnoli, voi. I, 1901; II, 1910. Difesa di Alessandro il Macedone, a cura di G. Rossi, Livorno, 1904. Ragionamento tra F. Caran-dino e G. Prato, a cura di G. Rossi, nelle Prose politiche, citt. Sussidi e studi fondamentali. Rossi G., Saggio di una bibliografia ragionata delle opere di A. T Bologna, 1908. FASSÒ L., al nome Tassoni nell’Enciclopedia Treccani, XXXIII, 1937. PREZZOLINI G., Reperì, bibliogr. della storia e della critica della leu. ital., Roma, 1939, voi. II, al nome Tassoni. Per la vita: MURATORI L. A., Vita di A. T., nell’ediz. della Secchia Rapita, Modena, 1744. SANDONNINI T., A. T. e il S. Uffizio, nel «Gior. stor. lett. ital.», IX, 345. RUA G., A. T. e Carlo Emanuele I di Savoia, nel «Gior. stor. lett. ital.», XXXII, 281. SANTI V., A. T. e il cardinale A Scanio Colonna, negli «Ai e memorie R. Dep. stor. patr. per le prov. moden.», serie 5a, II, 1902. CASINI T.-SANTI V., Miscellanea tassoniana, Modena, 1908. Per le opere: CARDUCCI G., A. T., nei «Primi saggi», Bologna, 1889. 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In questo volume, correi gli errori e ritoccata moderatamente la punteggiatura e la grafìa, per La Secchia Rapita seguo l’ediz. veneziana del 1630, e presenta il testo secondo l’ultima volontà del poeta: per le Rime l’ediz. del CASINI e ìe raccolse: per le Filippiche e la Risposta al Soccino l’ediz. del Rossi riveduta sull’originale; pei Pensieri diversi l’ediz. del 1620; per le Considerazioni il testo ampliato del Tassoni, pubblicato dal M URATORI nell’ediz. de Le Rime di F. Petrarca, Modena, 1711, notando peraltro le differenze col testo del 1609; per gli Avvertimenti e la Tenda Rossa l’ediz. originale; per le Lettere il testo integrale del Rossi. Nelle note al poema ho accolto parte delle Dichiarazioni, e il Tassoni vi appose nell’ediz. del 1630 soo il nome dell’amico Gaspare Salviani, e alcune delle diiarazioni nella redazione più ampia accolta dal BAROTTI nell’ediz. modenese del 1744. LA SECCHIA RAPITA A CHI LEGGE La Secia rapita, poema di nuova spezie inventata dal Tassone, contiene una impresa mezza eroica e mezza civile, fondata su lìstoria della guerra, e passò tra i Bolognesi e i Modanesi al tempo de Wimperador Federico secondo, nella quale Enzio re di Sardigna, figliuolo del medesimo Federico, combattendo in aiuto de’ Modanesi, restò prigione, e prima d’esser liberato morì in Bologna, come oggidì ancora può vedersi dall’epitafio della sua sepoltura nella iesa di San Domenico. La secia di legno, per cagion della quale è fama e nascesse tal guerra, si conserva tuttavia nell’arivio della caie dr ale di Modana, appesa alla volta della stanza con una catena di ferro, quale dicono e servisse a iudere la porta di Bologna, per onde entrarono i Modanesi quando rapiron la secchia. Di tal guerra ne trattano il Sigonio e 7 Campanaccio istorici e alcune cronie in penna della citta di Modana, donde si può vedere e il poema della Secia rapita ha per tutto ricognizione d’istoria e di verità. L’impresa è una e perfetta, cioè con principio, mezzo e fine; e se non è una d’un solo, Aristotile non prescrisse mai ai compositori così fatte strettezze. E oggidì è iaro e le azioni di molti dilettano pià e quelle d’un solo, e e è più curiosa da vedere una battaglia campale di qual si voglia duello. Perciò e il diletto della poesia epica non nasce dal vedere operare un uomo solo, ma dal sentir rappresentare verisimilmente azioni maravigliose; le quali quanto sono più, tanto più dilettano. Ma facendosi operare un sol uomo, non si può rappresentare in una impresa sola gran numero d’azioni; adunque sarà sempre più sicuro l’introdurre più d’uno. E per questo ve ggiamo e l’Ariosto, tutto e non abbia unità di favola e introduca gran moltiplicità di persone, diletta molto più dell’Odissea d’Omero per la quantità e varietà delle azioni maravigliose ben collegate insieme. Ma comunque si sia, quando l’autore compose questo poema (e fu una state nella sua gioventù), non fu per acquistar fama in poesia, ma per passatempo e per curiosità di vedere come riuscivano questi due stili misiati insieme, grave e burlesco; imaginando e se ambidue dilettavano separati, avrebbero eziandio dilettato congiunti e misti, se la mistura fosse stata temperata con artificio tale, e dalla loro scambievole varietà tanto i dotti quanto gli idioti avessero potuto cavarne gusto. Perciò e i dotti leggono ordinariamente le poesie per ricreazione, e si dilettano più delle baie, quando sono ben dette, e delle cose serie; e gl’idioti, oltre il gusto e cavano dalle cose burlese, sono eziandio rapiti dalla maraviglia, e ie azioni eroiche sogliono partorire. Or questa nuova strada, come si vede, è piaciuta comunemente. All’autore basta averla inventata e messa in prova con questo saggio. Intanto, com’è facile aggiugnere alle cose trovate potrà forse qualctialtro avanzarsi meglio per essa.