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Anno VII, numero 3 • Luglio-Settembre 2013
Editoriale
Sommario
Diritto alimentare e università
Editoriale
Luigi Costato
Diritto alimentare e università
1
Ricerche
Luigi Costato
Dai prodotti agricoli primari
ai consumatori:
I percorsi della storia
Alessandra Tommasini
Strategie di competitività
nel sistema agroalimentare
in funzione della nuova PAC
(imprenditori agricoli alla
riscoperta della food security)
3
11
Commenti
Paolo Borghi
L’insostenibile leggerezza
delle versioni linguistiche:
condizionamento e
confezionamento dei prodotti
DOP e IGP nel recente
regolamento UE n. 1151/2012
29
Ferdinando Albisinni
Prodotti alimentari
o agroalimentari?
Il TAR del Lazio, giudice
del mercato e law maker,
smentisce il MIPAAF e l’AGCM
33
Luis González Vaqué
El concepto ‘declaración de
reducción del riesgo de
enfermedad’ prevista en el
Reglamento (CE) nº 1924/2006:
la sentencia “Green – Swan”
48
de 18 de julio de 2013
Gioia Maccioni
Riflessioni sulla nuova OCM
unica e sulle misure per
fronteggiare le crisi alimentari
55
Elena Tiberti
Geographical Indications
and Trademarks: space
for coexistence as an
equitable solution
65
AlimentarEuropeo
a cura di Laura Salvi
72
Siamo tutti consci del fatto che le tabelle ministeriali relative ai diversi corsi
di laurea concretizzano ciò che i consiglieri del principe gli spiegano; ovviamente, qualcuno potrebbe dire che non sempre i consiglieri sono del tutto
disinteressati, ma non voglio seguire queste teorie spiacevoli e sgradevoli; mi pare preferibile pensare in positivo.
Mi è più facile, invece, annotare che le dette tabelle sono, come accade
ovviamente quando si ha a che fare con prodotti frutto di discussioni e di
diverse opinioni, non sempre del tutto in linea con le novità che perfino nel
mondo del diritto tardano a essere accettate. Basti ricordare che ci volle un
intervento autorevolissimo per rendere obbligatorio l’insegnamento di diritto dell’Unione europea, omissione pluridecennale francamente inconcepibile per un Paese che è stato fra i fondatori delle Comunità europee.
D’altra parte, ci sono voluti decenni anche perché la nostra giurisprudenza
costituzionale si decidesse a riconoscere la piena prevalenza del diritto
dell’Unione su quello interno. Per carità di Patria si evita di ricordare in concreto cosa accade in questi giorni.
Oggi si presentano altre novità delle quali non si è tenuto conto nella formulazione della tabella che regola il corso quinquennale di laurea in giurisprudenza, corso di studi che, tra l’altro, serve a preparare anche futuri
dirigenti privati e pubblici, oltre che possibili avvocati, magistrati e notai.
Mi riferisco al complesso di materie che il legislatore ha racchiuso nel settore 12/E3, e cioè quelle che studiano la regolazione dei mercati finanziari, industriali, agricoli e alimentari sia sotto il profilo interno, sia sotto quello dell’Unione europea e delle norme internazionali.
È quanto meno curioso che si trascuri di inserire fra le materie obbligatorie nella laurea in giurisprudenza lo studio di questi argomenti, che sono al
centro dell’attenzione di tutti, e che si riferiscono sia alla grande importanza assunta dalla regolazione dei mercati finanziari, sia a quella – che interessa particolarmente l’Italia – che si riferisce sia ai mercati dei prodotti
agricoli, sia, e ancor di più, a quella dei prodotti alimentari, grande vanto di
questo Paese, sempre in lotta per evitare, ovviamente con strumenti giuridici, le imitazioni che costellano il mercato planetario.
L’esclusione appare ancor più incomprensibile e contraddittoria, ove si
consideri che le schede di presentazione di tutti i corsi di laurea magistrale in Giurisprudenza insistono sulla necessità che il giurista dell’oggi abbia
conoscenza della regolazione delle attività economiche, e dell’impatto che
su tale regolazione hanno le fonti comunitarie e internazionali; fonti che
vanno conosciute non solo sul piano del disegno istituzionale e delle competenze, ma nei concreti contenuti disciplinari, quali studiati appunto nei
corsi tenuti dai docenti del settore 12/E3.
Sicché, paradossalmente e contraddittoriamente, le Schede di presentazione dei Corsi di laurea insistono sull’importanza qualificante di Corsi, che poi
non sono previsti nel piano di studi come attività di base o caratterizzanti.
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Direttore
Luigi Costato
Vice direttori
Ferdinando Albisinni - Paolo Borghi
Comitato scientifico
Francesco Adornato - Sandro Amorosino - Alessandro Artom
Corrado Barberis - Lucio Francario - Alberto Germanò
Giovanni Galloni - Corrado Giacomini - Marianna Giuffrida
Marco Goldoni - Antonio Jannarelli - Emanuele Marconi
Pietro Masi - Lorenza Paoloni - Michele Tamponi
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Anno VII, numero 3 • Luglio-Settembre 2013
2
Questo è, dunque, un accorato appello a che si provveda, quanto prima, a
eliminare questa grave lacuna ordinamentale, nell’interesse non solo della
scienza giuridica ma, e soprattutto, del Paese e delle sua capacità di formare persone pronte ad affrontare le sfide dei mercati con una buona formazione studiata ad hoc. Un Ministro scienziato qual è quello attuale non
trascurerà, ne sono certo, di affrontare e risolvere questo problema.
Luigi Costato
Segreteria di Redazione
Monica Minelli
Editore
A.I.D.A. - ASSOCIAZIONE
ITALIANA DI DIRITTO ALIMENTARE
Redazione
Via Ciro Menotti 4 – 00195 Roma
tel. 063210986 – fax 063217034
e-mail [email protected]
Sede legale
Via Ricchieri 21 – 45100 Rovigo
Periodico iscritto il 18/9/2007 al n. 393/2007 del Registro
della Stampa presso il Tribunale di Roma (online)
ISSN 1973-3593 [online]
Periodico iscritto il 26/5/2011 al n. 172/2011 del Registro
della Stampa presso il Tribunale di Roma (su carta)
ISSN 2240-7588 [stampato]
stampato in proprio
dir. resp.: Ferdinando Albisinni
HANNO COLLABORATO A QUESTO FASCICOLO
FERDINANDO ALBISINNI, ordinario Università della
Tuscia - Viterbo
PAOLO BORGHI, ordinario Università di Ferrara
LUIGI COSTATO, emerito nell’Università di Ferrara
GIOIA MACCIONI, ricercatrice Università di Udine
LAURA SALVI, dottore di ricerca Università di
Ferrara
ELENA TIBERTI, dottore in giurisprudenza
ALESSANDRA TOMMASINI, associato Università di
Messina
LUIS GONZÁLEZ VAQUÉ, British Institute of
International and Comparative Law
I testi pubblicati sulla Rivista di diritto alimentare, ad
eccezione delle rubriche informative, sono sottoposti
alla valutazione aggiuntiva di due “referees” anonimi.
La direzione della rivista esclude dalla valutazione i
contributi redatti da autori di chiara fama. Ai revisori
non è comunicato il nome dell’autore del testo da valutare. I revisori formulano un giudizio sul testo ai fini
della pubblicazione, ed indicano eventuali integrazioni
e modifiche che ritengono opportune.
Nel rispetto della pluralità di voci e di opinioni accolte
nella Rivista, gli articoli ed i commenti pubblicati impegnano esclusivamente la responsabilità degli autori
L’editoriale che apre il fascicolo richiama l’attenzione su un tema sin qui largamente trascurato: quello dell’insegnamento nelle università del diritto alimentare,
e più in generale del diritto dei mercati agroalimentari, sottolineando che, paradossalmente, le schede di presentazione dei corsi di laurea insistono sull’importanza qualificante di Corsi, quali quelli che attengono alle materie in discorso, ma
poi non inseriscono tali materie nel novero di quelle previste come attività di basi
o caratterizzanti.
Muovendo da tali premesse il fascicolo dedica peculiare attenzione a temi che in
vario modo si iscrivono in una considerazione unitaria dell’intera filiera agroalimentare, nella convinzione – espressa più volte in questi anni – che il diritto alimentare intrattenga una relazione privilegiata per un verso con il diritto dell’agricoltura, e per altro verso con il diritto dell’ambiente, all’interno di una dimensione
complessiva e relazionale, che non può trascurare il mercato e le sue regole.
Luigi Costato rilegge i percorsi della storia, dai prodotti agricoli primari ai consumatori, sottolineando le intersezioni fra discipline dei mercati e dimensioni del produrre.
Alessandra Tommasini riferisce sulle proposte di riforma della PAC prossime all’approvazione in sede europea, analizzando le relazioni anche disciplinari fra produzione
agricola e sicurezza alimentare, intesa come food security oltre che come food safety.
Paolo Borghi esamina la disciplina del condizionamento in zona dei prodotti di
qualità, rilevando le criticità che conseguono alla pluralità di versioni linguistiche
del nuovo regolamento europeo.
Ferdinando Albisinni torna sul tema, già esaminato nel Congresso AIDA di
Messina del settembre 2012 e nelle relazioni pubblicate nei precedenti fascicoli
della Rivista, degli esiti determinati dall’emanazione dell’art. 62 del decreto legge
n. 1/2012, intervenuto a disciplinare forme e contenuti dei contratti del mercato
agroalimentare, e commenta una recente, articolata ed innovativa, sentenza del
TAR del Lazio, che manifesta l’esigenza della ricerca di nuovi strumenti decisori
e nuovi paradigmi a fronte dell’articolazione delle fonti multilivello e multispecie.
Luis Gonzáles Vaqué torna sul tema delle indicazioni di cui al Regolamento n.
1924/2006, alla luce della recente sentenza Green-Swan del luglio 2013.
Gioia Maccioni propone una riflessione sulla nuova OCM unica all’interno di una
più ampia analisi della disciplina della filiera agroalimentare, quale va emergendo
nel pacchetto di provvedimenti di riforma della PAC.
Elena Tiberti indaga, attraverso una lettura comparativa che pone a confronto scelte europee e nord americane, sulle possibilità di nuovi assetti di coesistenza disciplinare fra indicazioni geografiche e marchi, e conclude che allo stato la soluzione
maggiormente praticabile appare quella della negoziazione di accordi bilaterali.
Completa il fascicolo la rubrica AlimentarEuropeo, curata in questo numero da
Laura Salvi, che dà conto dei più recenti sviluppi della giurisprudenza comunitaria.
la redazione
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Ricerche
Dai prodotti agricoli primari ai consumatori: i percorsi della storia*
Luigi Costato
1.- I rapporti diretti fra agricoltori e consumatori nel passato
II mercato dei prodotti alimentari ha subito profonde trasformazioni in conseguenza della mobilità umana e della
produttività del lavoro agricolo e non.
Infatti, con il progredire della tecnologia, anche in campo
non agricolo, si sono avute migrazioni di lavoratori dal settore primario al secondario con la conseguente mutazione
delle stesse tecniche e organizzazione dello scambio dei
prodotti della terra.
Il primo prodursi di eccedenze rispetto al fabbisogno dei
produttori agricoli ha dato origine non solo ai primi agglomerati urbani, ma addirittura alla nascente divisione fra
produttori agricoli e proprietari della terra; sotto il profilo distributivo, la nascita di piccoli centri, divenuti progressivamente sempre più grandi, produsse la conseguenza che il
surplus agricolo fosse trasportato per metterlo a disposizione di chi non lavorava la terra, con il conseguente consolidarsi e affermarsi, sul piano della forza politico – militare,
delle classi superiori, e cioè di quelle dei sacerdoti e degli
armati1.
Nella prima opera letteraria che l’umanità sembra abbia
prodotto, La saga di Gilgamech2, si racconta come un uomo che doveva diventare amico del re Gilgamech, uscito
per la prima volta dalla foresta e arrivato alle porte di una
“città”, abbia avuto in dono pani, frutto del lavoro di un trasformatore del grano in farina e di questa nel “pane” dell’epoca, a dimostrazione che anche 3000 anni, e probabilmente più, prima della nascita di Cristo almeno alcuni prodotti agricoli non solo erano trasportati dalla campagna ai
centri abitati, ma addirittura lavorati non in famiglia, ma da
un “professionista” della trasformazione.
Il fenomeno, tuttavia, si è sviluppato in modo assai più articolato di quanto or ora sinteticamente descritto: ad esem-
pio, infatti, i contadini della prima repubblica romana, pur
sicuramente soggetti al forte, addirittura prepotente potere
patrizio – allora largamente di origine etrusca – erano anche combattenti, tant’è che le prime guerre, come quella
contro Veio, si sospendevano all’epoca della mietitura per
permettere ai militari di tornare ai campi per raccogliere le
messi.
Ma lo svilupparsi della potenza di Roma, padrona dell’intero bacino del Mediterraneo, comportò, anche per il divieto
dei senatori di dedicarsi ai commerci, un progressivo impossessamento, da parte di questi ultimi, delle terre dell’impero, e la trasformazione di larghissime plaghe in superfici coltivate o, comunque, utilizzate come pascoli dagli
schiavi, con l’espulsione dalla terra dei coltivatori autonomi: il che ha comportato la necessità di fare affluire a Roma, come in Pannonia, di grano proveniente da molto lontano (Egitto, Libia e simili). In precedenza fioriva un importante commercio di maiali che, allevati nella boscosa pianura padana (abbondante di querce, le cui saporite ghiande rendevano i maiali che le mangiavano particolarmente
apprezzati), erano fatti arrivare a Roma percorrendo a piedi i sentieri che correvano sugli Appennini.
Come questi brevi cenni mettono in rilievo, lo sviluppo di
un grande impero dominante su terra e mari mise in moto
un processo di movimentazione delle materie prime per la
produzione di beni alimentari - ma anche di opere d’arte,
come il recupero dei cc.dd. bronzi di Riace sta a dimostrare – che ci consentono di intravvedere, in quel periodo,
una specie di anteprima della globalizzazione, seppur limitata al bacino del Mediterraneo.
Il progressivo indebolimento, e la caduta, alla fine, dell’Impero romano d’occidente resero insicuro il mare, reinfestato ormai dai pirati, e le strade, orgoglio imperiale, sorvegliate da barbari piuttosto che dalle legioni; il commercio,
dunque, venne meno in modo drammatico, e la curtis medievale divenne sempre più una unità autosufficiente, alimentata da contadini semiliberi e governata da vassalli che
ben poco rispondevano al re del momento, o all’imperatore
del Sacro romano impero, che conobbe un modesto tentativo di affermarsi con Carlo Magno3 ma che ben presto divenne impotente rispetto ai principi, duchi, conti e marchesi teoricamente a lui sottomessi.
(*) Accademia dei Georgofili - Giornata di studio
(1) Sull’arg. si veda A. Salvini, I semi della civiltà, Avenue Media Bologna, 1996, passim.
(2) Si veda, al proposito La Saga di Gilgamech, di A. Pettinato (in realtà di anonimi assai risalenti, ma a cura di Pettinato), Milano, IV edizione, 1974.
(3) Poco convincente appare il tentativo di H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Paris – Bruxelles, 1937 (ed. italiana 1939), di dimostrare l’esistenza di traffici significativi nell’epoca di questi personaggi tra i rispettivi territori d’influenza.
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Ben presto, però, i commerci ripresero, ad opera in primis
dei veneziani - che ebbero a lungo un rapporto speciale
con Bisanzio - i quali, tuttavia, se brillarono a lungo come
mercanti di spezie e di altri prodotti costosi, o preziosi addirittura, raramente si occuparono di merci di origine agricola, fatto salvo il guado, che era necessario per la tintura
delle stoffe.
Similmente, la straordinaria rinascita dei commerci, dall’XI
ma soprattutto dal XII secolo, si ebbe in Italia (Toscana,
dopo la fine di Amalfi, partita per prima ma bloccata ben
presto dall’occupazione da parte di Federico II, Milano e alcuni territori lombardo – piemontesi, oltre che Genova e Pisa) e nelle Fiandre; ma, anche in questo caso, i mercanti
trafficarono in merci di valore e ben raramente si occuparono di prodotti agricoli4, beni che, per il loro peso, in molti
casi per la difficile conservabilità e per lo stato delle strade,
sconsigliano gli spostamenti a largo raggio che, progressivamente, avvenne, però, sempre più per la lana grezza,
specie inglese, in quanto materia prima oggetto di trasformazione specie in Toscana.
Sintomatico, dunque, che da un lato il guado, dall’altro la
lana, fossero i prodotti agricoli oggetto di trasporto anche
in periodi difficili per lo spostamento di merci: si trattava di
materie prime di attività industriali, a conferma che quanto
è avvenuto dopo non costituisce una sorpresa o una novità
ma piuttosto lo sviluppo di altre possibilità di trasformazione fuori dal settore primario.
Non si può trascurare, infine, il fatto che in molte regioni
d’Europa le condizioni dei contadini, verso la fine del Medioevo, fossero molto difficili, e tali da spingerli a rivolgersi
ad attività manifatturiere e allo sviluppo d’industrie rurali,
attività che in certe zone assunsero dimensioni relativamente importanti5. La mezzadria toscana, come il piccolo
affitto in Lombardia, mitigarono in qualche misura le difficoltà che si conoscevano anche in quei territori; ben diverse le condizioni in molte zone del Veneto, Friuli e, soprattutto, nel Regno delle Due Sicilie.
Quanto ai mercati, che si realizzavano periodicamente in
moltissimi centri, non necessariamente grandi, ma soprattutto in quelli che riconoscevano la possibilità di portare le
merci e di scambiarle in regime “franco” da dazi, in essi
avevano importanza fondamentale gli scambi di prodotti
agricoli destinati prevalentemente all’alimentazione; si dava vita, così, a scambi interzonali, ma anche internazionali,
specie se si trattava di “mercati” situati in località sul mare
o su fiumi navigabili; in ogni caso, come già detto, era
molto più facile si spostassero anche a grande distanza le
lane piuttosto che materie prime alimentari. Le esperienze
4
di maggior rilievo, in questo campo, si rinvengono nelle
“fiere”, presenti in Fiandra, in certe località tedesche o francesi, ma anche in Italia, poiché durante tali manifestazioni,
che duravano anche settimane, l’esenzione daziaria era la
regola, e i commerci vi si svolgevano intensamente.
2.- I mercati alimentari del ‘700.
Mentre sino alla fine del Medioevo si può affermare che lo
stato delle tecnologie agricole e dei trasporti dei prodotti
nel settore primario furono sostanzialmente analoghi, dal
XVII secolo s’iniziò un processo di differenziazione fra le
agricolture d’Europa. Tale fenomeno, nelle zone che progrediscono di più, è dovuto a molteplici sviluppi sul piano
tecnologico, interessanti sia le produttività del settore primario che l’efficienza e affidabilità dei trasporti. Le novità
tecnologiche si presentano, infatti, con qualche vivacità
nell’Europa continentale e, per certi versi, nel Regno d’Inghilterra, mentre nel Regno delle Due Sicilie l’arretratezza
continua a farla da padrona.
La parte settentrionale d’Italia conobbe, dunque, anch’essa, e non solo per le innovazioni portate dalla Rivoluzione
francese portate dalle armate napoleoniche, un certo sviluppo, com’è stato ben fatto notare, riferendosi alla Lombardia, da chi ha saputo valorizzare a tal fine la stessa Inchiesta Jacini6.
In ogni caso, però, a lungo i commerci collegati a trasporti
a largo raggio interessarono, sostanzialmente, solo pochi
prodotti adatti alla trasformazione industriale, ma il loro numero si andò ampliando. I canali che percorrono la Francia
e si spingono sino in Belgio e in Olanda da un lato, i grandi
fiumi della zona di lingua tedesca dall’altro, facilitarono i
trasporti fin da prima della fine del Medioevo, e ciò anche
per i cereali, cioè prodotti di forte peso e di modesto valore. Solo con l’affermarsi di tali trasporti, e nelle zone dove
essi si realizzarono, si cominciarono a contenere gli effetti
delle carestie alimentari che, invece, in territori meno fortunati, continuarono ad apparire periodicamente; comunque,
le modeste rese produttive erano spesso causa di carenze
gravi di alimenti basici cui non si poteva rimediare neppure
con la migliorata rete di trasporti.
Ma anche le tecnologie produttive nel settore primario, dal
XVIII secolo, iniziarono a produrre effetti rilevanti, anche
se, malauguratamente, quasi solo nell’Europa continentale
occidentale e nel Regno d’Inghilterra e, seppur limitatamente, nella parte nord d’Italia. Sia nel campo meccanico
sia in quello chimico si ebbero progressi importanti che si
(4) V. Y. Renouard, Gli uomini d’affari italiani del Medioevo, ed. Italiana 1975, Milano, ediz. orig. Paris, 1949; e A. Sapori, Le marchand,
italien au Moyen Age, Paris, 1952.
(5) V. B. H. Slicher van Bath, Storia agraria dell’Europa occidentale (500 – 1850), Utrecht – Antwerpen, 1962, trad. italiana, Torino, 1972,
p. 303.
(6) Sull’arg. v. S. Zaninelli, Linee di evoluzione delle agricolture dell’Italia settentrionale fra settecento e novecento, in A.A. V.V., Storia
dell’agricoltura italiana, Milano – Roma, 1976, p. 162 ss.
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concretarono con il perfezionamento degli aratri tradizionali
e lo sviluppo di modelli più efficienti. Si costruirono, inoltre,
seminatrici meccaniche, trebbiatrici e trattori a vapore prima, poi quelli detti a testa calda, più tardi quelli diesel.
L’avvicendamento colturale diventò continuo, e si affermarono le coltivazioni delle foraggere, che aumentano i rendimenti dei cereali seminati dopo la loro coltivazione; la concimazione fu valorizzata e potenziata attraverso l’uso di letame e guano. Ne conseguì, dunque, un aumento di produzioni unitarie a ettaro, che cominciò a diminuire i rischi di
carestie che, tuttavia, in certi periodi, specie se bellici, non
mancarono neppure nella parte più sviluppata d’Europa,
che pure era all’avanguardia nell’uso di queste nuove tecnologie.
In Italia, invece, le condizioni dell’agricoltura rimasero misere, anche se,partendo dalla Toscana, si ebbe una trasformazione, diffusasi verso nord ma non verso sud, nei
contratti agrari, con l’introduzione, con inizio dal XII secolo,
del contratto di mezzadria (ma si hanno notizie di contratti
assimilabili a questa sin dal IX secolo), strumento che consentì una lentissima ma progressiva partecipazione del
contadino alla conduzione del fondo7, dotato di casa colonica e di stalla, il che fece sviluppare anche in Toscana, e
poi nelle Marche e nell’Italia del Nord l’uso del letame e, di
conseguenza la produttività dei terreni8.
Ma, mentre nell’Europa del nord si era ormai adottato definitivamente l’aratro pesante – per altro già ideato in epoca
romana – in Italia si restò a lungo legati al modello leggero,
che certamente si prestava bene a molti terreni del sud,
ma poco adatto a parecchi di quelli, pesanti, situati nel
nord della penisola, dove solo con qualche ritardo si arrivò
a usare la macchina più efficace.
In ogni caso, si deve osservare che le fasi di sviluppo e di
depressione si sono succedute in Europa in modo difforme
secondo i territori: in Italia, si ebbe depressione nella prima
metà del XVI secolo, espansione nella seconda metà; nel
XVII secolo si oscillò fra depressione e ristagno, anche per
influenza della depressione spagnola9.
I mercati alimentari, dunque, nell’Italia del XVII secolo non
ebbero particolari sviluppi rispetto alla precedenti “fiere” o
ai periodi “franchi” riconosciuti da certe località; sul punto,
però, vanno fatte salve le esportazioni di cereali dalla Sicilia in direzione della Spagna. Questo flusso fu facilitato dal
fatto che i governatori spagnoli delle Due Sicilie favorivano
5
le esportazioni per riscuotere le somme che gli esportatori
dovevano riconoscere loro per ottenere i permessi all’export.
Non si può, infine, tacere che ancora nella prima metà del
‘700 l’acquisto di un feudo era considerato preferibile all’acquisto di una proprietà, concezione che si superò progressivamente nella seconda metà, e non in tutta Italia, del
secolo grazie al pensiero illuminista francese prima, l’arrivo
delle truppe napoleoniche poi.
Mette conto, poi, di ricordare la grande carestia che caratterizzò il mezzogiorno dal 1759 e culminata nel 1764, che
rese evidente la situazione molto arretrata del sistema produttivo agrario e le gravi carenze del suo sistema di distribuzione e trasporto10.
3.- Gli scambi alimentari dall’Unità nazionale alla metà del
‘900.
Nel XIX secolo il Piemonte - grazie all’impegno del ministro competente anche nel settore dell’agricoltura, Cavour,
che in precedenza aveva già operato per modernizzare le
coltivazioni dei poderi di famiglia (si trattava., comunque,
di proprietà di lontana origine signorile, essendo il Cavour
conte) – seppe modernizzare il settore primario, così come forte fu l’impegno della dinastia Lorenese in Toscana,
che sostenne anche la creazione dell’”Accademia dei Georgofili”.
Lo sviluppo delle tecnologie produttive arrivò, dunque, anche in Italia, e si diffuse progressivamente nell’intera penisola e nelle isole maggiori specie dopo l’unità politica del
Paese. Restava, comunque, un gap costituito dal diverso
interesse dei proprietari della terra a meccanizzare l’agricoltura: il bassissimo costo della manodopera costituiva un
disincentivo all’evoluzione, e ancor di più questa scelta trova applicazione nelle zone nelle quali il potere dei signorotti locali riusciva a sovrastare anche quello del nuovo stato
unitario11.
Quanto alla circolazione delle merci, spesso accadde che il
surplus prodotto nella fertile pianura padana non potesse
trovare collocamento nel resto del Paese per la mancanza
di un sistema viario e ferroviario efficiente, risultato che si
ottenne più tardi anche se condizionato, in certe zone, dalla incapacità dello stato di imporre il tracciato migliore
(7) Si rinvia a I. Imberciadori, Per la storia agraria marco – umbro – toscana dal secolo XVIII, in A.A. V.V., Storia dell’agricoltura italiana,
Milano – Roma, 1976, p. 202 ss.
(8) Tuttavia, vedendo lo sviluppo tecnologico nel suo complesso, e cioè abbracciando anche settori diversi dal primario, si è giustamente osservato che ”Nei secoli dal XII al XV gli Italiani furono all’avanguardia non solo nel progresso economico ma anche in quello tecnologico. Nei secoli XVI e XVII il primato passò agli Inglesi e agli Olandesi” (così C.M. Cipolla, Storia dell’economia dell’Europa preindustriale, Bologna, 1974, p. 234.
(9) Così, ancora, C.M. Cipolla, Storia dell’economia cit., p. 287.
(10) Si rinvia a L. Rizzo, Le campagne meridionali dell’”Ancien régime” all’unità italiana, in A.A. V.V., Storia dell’agricoltura italiana, Milano
– Roma, 1976, p. 251 ss.
(11) Sul punto v. De Stefano – P. Lombardi, Evoluzione delle strutture agrarie nel Mezzogiorno, in A.A. V.V., Storia dell’agricoltura italiana, Milano – Roma, 1976, p. 264 ss
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sgradito, invece, ai potentati locali, come certe linee ferroviarie siciliane dimostrano ancor oggi.
In seguito all’Unità d’Italia le linee ferroviarie subirono un
buon incremento, e così fu delle strade, anche in correlazione al modesto movimento di merci che per tutto il periodo che va dall’Unità stessa alla fine della II guerra
mondiale.
Si ebbe un rilevante completamento di alcune grandi opere
di bonifica, come quella delle valli Pontine, da gran tempo
iniziata e portata a termine soltanto nella prima metà del
novecento. La produzione agricola restò, comunque, insufficiente a sfamare tutti gli italiani, sicché il nostro Paese
rimase importatore di cereali e di altri prodotti di base per
l’alimentazione, mentre conservò una certa eccedentarietà
nella produzione di olio d’oliva (esportato nei territori esteri
ove abitavano e risiedono ancora oriundi italiani) e di vini,
e almeno la sufficienza negli ortaggi e negli agrumi. Si ebbe un forte sviluppo nella bieticoltura, anche se il nostro clima non permetteva produzioni concorrenziali con l’Europa
del nord, cosa che avviene ancor oggi anche per il latte
vaccino. Quello ovino e caprino restò una nicchia importante, per l’autoconsumo soprattutto, e per la produzione di
qualche formaggio, in alcuni casi anche esportato.
Non poche utilità, considerato il loro stato spesso di estrema indigenza, gli abitanti di determinati territori potevano,
poi, trarre da quelli che furono chiamati usi civici, diritti che
consentivano a certe popolazioni di entrare in alcuni terreni
altrui e trarne legna, o portare animali al pascolo, ecc.
La battaglia del grano del 193412 provocò l’espianto di molti
vigneti per consentire al regime di allora di raggiungere
l’autosufficienza cerealicola. Il risultato fu mediocre e, per
potenziarlo, si abolirono gli ammassi volontari per sostituirli
con quelli obbligatori; durante la seconda guerra mondiale
si arrivò a legiferare in modo che molti dei prodotti agricoli,
all’atto del raccolto, divenissero di proprietà statale, ed il
produttore fosse a sua volta trasformato in creditore della
somma derivante dal prodotto fra quantità ottenuta e prezzo politico fissato; piccolissime quantità erano lasciate nella disponibilità degli agricoltori per l’auto approvvigionamento.
La distribuzione degli alimenti non era attività che coinvolgesse l’intera cittadinanza e per tutti i cibi, poiché la grande
maggioranza dei cittadini viveva in e di campagna, acquistando solo pochissime cose, e provvedendo, in generale,
a sostentarsi con il consumo dei propri prodotti.
La restante popolazione – quella urbana, in particolare –
acquistava gli alimenti in negozi di modeste dimensioni,
salvo rare eccezioni, così come quella agricola, per i pochi
acquisti, si rivolgeva a negozi multifunzionali del paesello,
ove normalmente non pagava ma chiedeva al negoziante
6
di ”segnare” su un quadernetto personale il debito di volta
in volta maturato, che era saldato a raccolto avvenuto.
Il preconfezionamento era quasi inesistente; l’acquirente
vedeva il venditore trarre da un cassetto, spesso con l’anta
anteriore in vetro, la pasta, lo zucchero e simili prodotti solidi con una pala apposita, il cui contenuto veniva versato
in un foglio di carta; per i liquidi, normalmente, si provvedeva a travasarli da contenitori di grosse dimensioni in bottiglie o fiaschi dell’acquirente. Quanto alla sicurezza dell’origine del prodotto, e alla sua genuinità, essa era garantita
dalla serietà del negoziante.
Quando si esamina il periodo postunitario dell’intera Italia,
non si può non tenere in considerazione l’inchiesta promossa dal conte Jacini, e attuata verso la fine del XIX secolo, che fornisce un quadro variegato, ma fondamentalmente gravissimo, relativo alla situazione agraria italiana;
si tratta, comunque, di un’inchiesta di stampo sostanzialmente conservatore, dalla quale, in concreto, non sortì un
programma d’interventi per sollevare dall’estrema miseria
gran parte della classe agricola nazionale13.
Questa situazione è, pertanto, alla base delle difficoltà di
individuare un vero sviluppo dell’agricoltura nazionale nell’intero secolo e, di conseguenza, di osservare anche progressi rilevanti, eccezion fatta per alcune zone del nord
d’Italia, nella distribuzione e nella vendita dei prodotti dell’agricoltura.
4.- Storia delle trasformazioni dei prodotti, alimentari e non,
nell’ambito della stessa azienda agricola
Fin dalle epoche più antiche, i prodotti agricoli sono stati o
ceduti o, comunque, fatti uscire dall’azienda agricola per le
successive trasformazioni presso famiglie o specialisti, o
trasformati sul fondo.
Nel Medioevo, la curtis era una cellula economica sostanzialmente autosufficiente, come in larga misura lo erano le
ville di campagna dei senatori romani anche prima del tempo nel quale si doveva tenere conto dei rischi che comportavano le invasioni barbariche.
Nell’epoca in cui forte era l’autoconsumo, per la grande
preponderanza numerica della popolazione agricola, la lavorazione dei prodotti della terra avveniva in misura rilavante in campagna; si filavano le fibre, si producevano formaggi e vino si macellava il maiale producendo prosciutti,
salumi e carne da autoconsumo (oltre a grasso sia alimentare che, talvolta, destinato a essere utilizzato per scopi
meccanici), si triturava il grano in appositi pestelli – solo
negli ultimi secoli i contadini andavano al molino, ad acqua
o a vento, per far macinare i loro grano e mais – si mace-
(12) Mi permetto di rinviare a L. Costato, L’evoluzione del mercato del grano (in Italia e nei Paesi del MEC), Milano, 1968, p. 11 ss.; Id.
voce Ammasso, in Digesto, IV edizione, Torino, 1987, pp. 1/18 dell’estratto.
(13) Un’analisi critica dell’inchiesta Jacini e dei difficili rapporti fra il senatore che le da il nome e il sen. Bertani, più orientato a dare un
significato sociale all’inchiesta, si può trovare in A. Caracciolo, L’inchiesta agraria Jacini, II edizione, Torino, 1973.
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rava la canapa – che veniva così fornita semilavorata agli
industriali canapini – che talvolta veniva lavorata sino alla
fibra e alla tessitura dagli stessi agricoltori. Similmente, si
produceva e conservavano le erbe necessarie al sostentamento degli animali al servizio del lavoro agricolo – fino alla loro sostituzione con i trattori – o dediti alla produzione
di latte; più raro l’allevamento di animali da carne, prodotto
poco utilizzato anche in città; si allevavano, invece, in modo abbondante, i c.c. d.d. animali da cortile (galline, anitre,
oche e simili), la cui alimentazione era poco costosa, essendo animali questi, ad alto rendimento, sia per produrre
uova sia per fornire, nelle grandi occasioni, carne. Spesso
questi animali servivano anche, nel caso della mezzadria
ma anche per molti affitti, a fornire al padrone del terreno
quanto contrattualmente dovuto. Praticato era anche l’allevamento di conigli così come, spesso, il contadino era anche cacciatore di animali selvatici.
A confermare, ad esempio, l’abitudine degli agricoltori di
far macinare il loro grano o le loro olive al molino o al frantoio, rispettivamente, si possiede un dato molto significativo: i molini che macinavano con le mole il grano portato
per ottenere farina da autoconsumo dai contadini erano,
nel 1958, in Italia, ancora circa 20.000 in tutto il paese, così come enorme era il numero dei frantoi.
Tuttavia, se frantoi e molini di questo tipo sono in pratica
scomparsi in un decennio, alcune attività di trasformazione
sono restate tradizionalmente legate all’agricoltura, sicché
anche oggi l’agricoltore che produce formaggi o vino, per
esempio, non perde, per questo motivo, a determinate
condizioni, la qualifica di agricoltore, così come gli accade
se alleva, entro certe proporzioni, animali di piccola e grossa taglia14.
L’allargamento odierno della nozione d’impresa agricola –
che non necessariamente coincide con la nozione tecnica
di agricoltura – consente all’agricoltore di conservare la
qualifica anche praticando l’agriturismo, confezionando i
suoi prodotti ed anche, in certa misura, prodotti dello stesso
tipo acquistati da terzi e a svolgere attività agro meccaniche
anche per conto terzi. Inoltre, l’allevamento “agricolo” oggi
si estende anche agli animali acquatici (pesci, molluschi e
crostacei), che possono essere venduti, come gli altri, da
parte dell’agricoltore anche fuori dagli spazi aziendali.
Infine, a certe produzioni tradizionali, che rispettino un disciplinare affermatosi storicamente e riconosciuto dall’Unione europea, viene assegnata la Denominazione d’origine protetta (DOP), ovvero l’Indicazione geografica pro-
7
tetta (IGP) o la Specialità tradizionale garantita (STG),
strumenti che hanno lo scopo di facilitare l’affermazione
sul mercato di questi prodotti15.
5.- Dalle manifatture agrarie alle industrie alimentari
Prima della seconda metà del XVIII secolo invenzioni tecnologiche rilevanti mancarono in campo agricolo, e gli agricoltori soffrirono perché, a fronte di un aumento della domanda cerealicola, dovuta anche all’aumento della natalità
nel nord dell’Europa, non corrisposero raccolti abbondanti,
anzi. Da ciò, appunto, lo svilupparsi di attività che quasi
potremmo chiamare agroindustriali, come l’industria tessile
sparsa in vasti territori del regno d’Inghilterra, in Irlanda, in
Vestfalia e in Svizzera che col passare del tempo e l’introduzione di nuove tecnologie, andò concentrandosi nelle
zone urbane, provocando, specie in Inghilterra, l’urbanizzazione anche della mano d’opera16.
In quel periodo l’Italia - che aveva finito il periodo felice dell’epoca comunale, il quale aveva consentito uno sviluppo
economico straordinario e l’accrescimento complessivo
della ricchezza prodotta nelle zone dove le città si svilupparono in regime autonomo (Siena, Firenze, Milano, in particolare, ma anche Pisa, e in maniera del tutto particolare,
Genova e Venezia), anche se la distribuzione della ricchezza stessa non fu neppure lontanamente equanime - si
avviò verso una fase del ciclo economico negativo di declino, dovuto alla stessa ricchezza prodotta, e cioè alla debolezza politica dei tanti stati minuscoli ma gelosamente autonomi presenti nei ricchi territori del centro nord: la ricchezza invogliò spagnoli, francesi e tedeschi a cercare di
accaparrarsela, causando una serie infinita di guerre, nelle
quali ogni città si alleava con uno straniero diverso, si potrebbe dire, e che ebbero conseguenze economiche devastanti17.
L’agricoltura, pertanto, non fu esentata da queste problematiche vuoi per il diminuire violento degli investimenti che
i ricchi mercanti avevano fatto a suo tempo per accrescere
la produttività del settore primario, vuoi perché allo scorazzare di bande di soldati stranieri – sostanzialmente tutti
mercenari – si aggiunse quello prodotto dalle guerre intestine scoppiate fra le varie signorie, che avevano occupato
il posto dei comuni nel governo del territorio; in ogni caso
l’agricoltore era soggetto a scorrerie terribili, che provocavano carestie e miseria.
(14) Ben diverse le vicende della trasformazione, ad esempio, del grano nel Nord America e nel Regno unito, ove la concentrazione della
trasformazione in mani industriali molto potenti fu facilitata nel primo caso dall’accesso al credito, dalle enormi estensioni delle coltivazioni del cereale e dallo spionaggio industriale realizzato ai danni dell’Ungheria, molto avanti nella tecnologia della macinazione, nel
secondo dalla progressiva scomparsa di questa coltivazione dalle isole britanniche, dall’importazione dalle colonie e, di conseguenza,
dalla necessità di disporre di capitali enormi per finanziare l’acquisto di navi del cereale. Sul punto v. A. Salvini, op. cit., p. 129 ss.
(15) Sull’arg., vedi per tutti, L. Costato – P. Borghi – S. Rizzioli, Compendio di diritto alimentare, VI edizione, Padova, 2013, passim.
(16) V. ancora B. H. Slicher van Bath, op. loc. cit.
(17) Analizza questi effetti sul sistema economico del paese, inteso globalmente per la parte più ricca, C.M. Cipolla, Storia dell’economia
cit., p. 292 ss., che analizza anche il collasso delle esportazioni italiane nel seicento (p. 295 ss.)
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In queste condizioni un’attività di trasformazione dei prodotti agricoli a valenza esterna aveva modesti spazi d’affermazione; tuttavia si ebbero le produzioni di seta dall’allevamento del baco nelle zone del comasco e del bergamasco,
di formaggi per il mercato attorno a Milano in particolare,
produzioni di paste alimentari – ma tendenzialmente autonome dall’agricoltura, anche se non sempre, in alcune zone del napoletano, allevamenti di suini in Emilia.
Una vera agroindustria tardò, comunque, ad affermarsi, e
quando lo fece si realizzò prevalentemente nelle zone ora
citate mentre altrove il nascere e svilupparsi dell’impresa
alimentare avvenne in forma autonoma rispetto agli agricoltori, anche se normalmente tali attività si andarono radicando nelle zone di produzione della materie prima agricola.
In definitiva, salvo poche eccezioni – esempio classico è
costituito dal fenomeno cooperativo in trentino, cui si possono affiancare alcune soluzioni analoghe in Lombardia
per il latte – la trasformazione del prodotto agricolo andò
affermandosi fuori dall’azienda agricola e si sviluppò progressivamente nel XIX secolo, per affermarsi, infine, e in
modo prepotente, tale da rendere l’agroindustria italiana
fra le più forti del mondo, nel XX secolo.
Resta, comunque, presente un grave problema a fronte di
questo sviluppo: la produzione agraria italiana è insufficiente ad alimentare le esportazioni di prodotti alimentari Made
in Italy, il che produce costantemente sussulti, proteste e
qualche provvedimento normativo, normalmente bocciato
a livello europeo, per impedire l’uso del denominativo Made in Italy per alimenti ottenuti anche con materie prime
agricole di origine non nazionali.
6.- La rivoluzione biotecnologica
La carenza di materie prime ora citata produce la necessità di esportare anche prodotti ottenuti, almeno in parte, con
materie prime non locali; sintomatica, al proposito, è la situazione dell’olio d’oliva, del quale siamo i primi consumatori del mondo, i secondi produttori, i primi esportatori e i
primi importatori, il che significa che di fatto si esporta anche olio non d’origine italiana pur contrassegnato dal Made
in Italy, operazione che gli imbottigliatori giustificano spiegando che ciò che si esporta non è solo l’olio ma anche la
loro sapienza nel realizzare miscele pregiate ed apprezzate anche dai buongustai italo – americani, grandi consumatori dei loro prodotti.
A questo proposito occorre riprendere un argomento accennato poco prima, e cioè le DOP e IGP; per questi prodotti si sta procedendo – la cosa è stata già realizzata a livello di norme vigenti per i latticini con atto del 2012 – a
predisporre un atto normativo che consenta di superare un
vecchio tabù del diritto comunitario europeo, e cioè la re-
8
gola di concorrenza estesa volontariamente dal Consiglio
al settore degli accordi fra agricoltori e trasformatori: si potrà consentire la programmazione della produzione e la fissazione preventiva dei prezzi da praticarsi all’acquisto da
parte dei trasformatori a favore dei produttori agricoli.
Questa soluzione, in un quadro di legislazione internazionale che ha eliminato, in pratica dal 2003, le protezioni daziarie per i produttori agricoli europei, consente di stabilire
un sistema che da qualche buona certezza di reddito a chi
produce le materie prime per DOP e IGP e anche per i produttori di questi ultimi prodotti, per i quali sarà possibile
programmare la produzione sulla base dei possibili collocamenti sul mercato. Tutto ciò è reso possibile dal fatto
che DOP e IGP sono segni distintivi che, quando adeguatamente diffusi, non sono fungibili e pertanto si auto proteggono anche senza dazi doganali.
Diversa è la situazione per i prodotti fungibili, per i quali
non è immaginabile una soluzione analoga, poiché le organizzazioni dei trasformatori non possono, nel pattuire un
prezzo preventivo con i produttori, non considerare che il
prezzo mondiale di prodotti sostanzialmente analoghi se
non uguali potrebbe essere, nel raccolto a venire, assai diverso da quello pattuito con i produttori nazionali.
Prescindendo dal fatto che qualcuno potrebbe insistere nel
dire che il Made in Italy dovrebbe essere riservato a prodotti trasformati derivati solo da derrate agricole nazionali,
soluzione che avrebbe conseguenze sull’esportazione di
grande rilevanza negativa a seguito della riduzione dell’offerta, occorre osservare che il mondo agricolo mondiale vive, in quest’epoca, una trasformazione epocale a seguito
delle nuove applicazione degli studi biotecnologici, per ora
visti come il fumo negli occhi dai governanti italiani, anche
a costo di sanzioni da parte dell’Unione e, sarà il prossimo
step, da parte della WTO.
Questa rivoluzione, che comporta generali aumenti produttivi unitari per ettaro e non è vissuta dai consumatori del
mondo in modo traumatico, come si dice accadrebbe in
Italia, ha delle forti influenze sui redditi agricoli che possono progressivamente mettere fuori mercato le produzioni
nazionali che, salvo la fortunata pianura padana18 e qualche altra piccola zona nel resto del Paese, hanno rese unitarie assai basse.
D’altra parte la c.d. rivoluzione biotecnologica altro non è
che il terminale di un lungo cammino percorso dall’uomo
agricoltore per potenziare le rese unitarie ottenute dall’attività svolta nel settore primario. Le rese unitarie di cereali
sono andate crescendo sino all’epoca dell’inizio dell’Impero romano, portandosi a circa dieci volte il seme del grano,
sono poi precipitate nel periodo medievale, durante il quale, per altro, la coltivazione dei cereali è arrivata sino all’estremo nord dell’Europa. Solo in epoche più vicine lo sviluppo delle tecniche selettive, l’incrocio forzato e altro an-
(18) Salvo che i cambiamenti climatici di cui si parla con insistenza non la rendano assai meno fertile.
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cora hanno consentito di arrivare a decuplicare, in certi casi, i migliori risultati ottenuti 2000 anni fa.
Le biotecnologie, frutto dell’avanzamento delle conoscenze
nei settori della genetica, costituiscono un ulteriore passo
in avanti, che si è appena compiuto e avrà bisogno di essere, probabilmente, affinato per consentire nuovi e più
esaltanti progressi.
7.- La nascita delle filiere e lo sviluppo della grande distribuzione alimentare
La nascita delle filiere e lo sviluppo della grande distribuzione alimentare costituiscono le novità del XX secolo, anche se di essi si sono avuti i primi sentori e le iniziali realizzazioni nel secolo precedente.
La filiera, ovviamente, ha cominciato a esistere quando si è
avuta la separazione fra produzione della materia prima
agricola e l’attività di trasformazione; infatti, il termine filiera
(supply chain) sta a indicare la sequenza delle lavorazioni
effettuate per trasformare le materie prime in prodotto finito.
Se al termine, invece, si vuole attribuire il significato di “filiera organizzata” occorre arrivare a periodi assai più vicini
a noi, poiché in questo caso il termine significa che fra alcuni o tutti i partecipanti alla catena che esiste per arrivare
al prodotto finito si crea un accordo al fine di assicurare la
materia prima, o per garantire il prezzo della stessa, oppure la certezza della sua vendita, per fornire solo alcuni
esempi degli scopi dell’organizzazione.
In Francia e in Olanda la diffusione dell’organizzazione di
filiera è ampiamente risalente nel tempo, e assume forme
diversificate che vanno dalla concentrazione dell’offerta di
uno specifico prodotto agricolo (cooperative di raccolta)
agli accordi di filiera, che prevedono convenzioni fra produttori e trasformatori per garantire il collocamento del prodotto anche se, fatto salvo quanto già detto per la filiera del
latte e su quanto sembra dovrà accadere per DOP e IGP,
non appare lecito, sulla base del diritto dell’UE, stabilire i
prezzi19.
Non essendo questa la sede adatta, non si ritiene necessario elencare lo sviluppo che l’organizzazione di filiera ha
avuto nella quasi totalità dell’Europa continentale (ovviamente escludendo i territori sotto l’influenza sovietica). Per
quanto concerne il nostro Paese, salvo alcune eccezioni di
rilevante significato, ma di efficacia localmente limitata
(cooperative trentine ad esempio), il sistema organizzativo
di filiera non ha avuto un buon successo, anche per la divisione che si è cercato di creare artatamente fra associazioni ispirate a diverso colore politico. Tutto ciò nonostante i
notevoli sostegni finanziari alla creazione di organismi di fi-
9
liera previsti dal diritto dell’UE sin dal 1962 al fine di concentrare l’offerta agricola, mentre la domanda dei prodotti
del settore primario andava concentrandosi sia nel settore
secondario sia in quello della distribuzione.
Si è già esposto, a titolo esemplificativo, il movimento di
concentrazione nel settore molitorio e dei frantoi, ma lo
stesso potrebbe dirsi per ogni forma di lavorazione dei prodotti agricoli.
Similmente è accaduto nel settore distributivo: mentre alcuni “grandi magazzini” (così si chiamavano allora) erano
apparsi, specie a Milano, anche prima dell’inizio del XX secolo, la stragrande o, meglio, la quasi totalità della distribuzione al consumatore finale avveniva attraverso piccoli
spazi commerciali, nel secondo dopoguerra, molto dopo
rispetto ad altre nazioni europee, prese a svilupparsi un sistema di grande distribuzione.
In quel periodo, prima dell’affermarsi della GDO, la concentrazione della domanda di prodotti agricoli si concentrò
nel settore secondario, ove si affermarono grandi gruppi industriali trasformatori.
Il passo successivo fu costituito, invece, dalla concentrazione della domanda dei prodotti alimentari nella GDO, fatto che ha provocato lo spostamento del “potere negoziale”
dal settore secondario al terziario; queste organizzazioni,
che detengono le grandi superfici espositive stanno progressivamente passando di mano divenendo di proprietà di
compagnie francesi, c on grossi rischi nel collocamento del
prodotto nazionale persino in Italia.
8.- L’indagine conoscitiva dell’AGCM del 2013
Nel 2013 l’Autorità della concorrenza e del mercato ha prodotto un’Indagine conoscitiva sulla grande distribuzione organizzata (GDO)20, ponendo l’accento, in particolare, sul
fenomeno della concentrazione dei canali distributivi ai
consumatori, e sviluppando l’argomento cui prima si faceva riferimento.
Il documento presenta molti aspetti interessanti: di rilevo
sono, tra gli altri, lo sviluppo che assume in esso l’indagine
comparativa con alcuni Paesi e l’analisi che riserva all’art.
62 della legge n. 27 del 2012 e dell’art. 9 della legge n. 182
del 1998, che qualifica come “strumenti alternativi di tutela
contro il buyer power”.
Al proposito il documento afferma che “accanto ai classici
strumenti di intervento antitrust, vanno tuttavia considerate
anche le competenze attribuite all’Autorità in materia di
abuso di dipendenza economica, previste dall’art. 8 della l.
182/98, e di abuso di potere contrattuale, di cui all’art. 62
della legge 24 marzo 2012 n. 27”.
(19) Sull’argomento, v. A. Jannarelli, Le regole della concorrenza nella PAC, in Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario, a
cura di L. Costato, III edizione, Cedam, 2003, p. 79 ss.
(20) In particolare, la concentrazione del settore distributivo è stata oggetto, nel 2013, di uno studio molto approfondito dell’Autorità della
concorrenza e del mercato, intitolato Indagine conoscitiva sul settore della GDO – IC43. Il documento si può trovare sul sito dell’Autorità.
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L’indagine costituisce una palese confessione dei ritardi legislativi, e in certa maniera anche amministrativi, con cui in
Italia sono stati affrontati problemi che sono da molto tempo emersi nei paesi più sviluppati, e soprattutto in quelli
ove è ben più diffusa la convinzione che la concorrenza sia
un misuratore di efficienza che deve essere garantito da un
lato, e che tale garanzia richiede non solo atti normativi, e
anche di questi abbiamo sofferto la carenza, visto che la
legge istitutiva dell’Autorità e che vieta i comportamenti anticoncorrenziali diversi da quelli previsti dal codice civile reca la data del 1990, copia di sana pianta le corrispondenti
norme del trattato comunitario e dimentica di “copiare”
quelle che regolano in modo eccezionale la concorrenza
nel settore primario, ma anche una intensa ed attiva attività amministrativa.
9.- Reti d’impresa e delocalizzazioni
Il processo di globalizzazione dell’economia, determinato
dallo sviluppo delle tecnologie di comunicazione del pensiero e di quelle dei trasporti delle merci, ha comportato un
progressivo ridursi delle protezioni daziarie anche dei prodotti agricoli, ma non solo di questi; da questo nuovo sviluppo delle tecniche umane deriva la propensione alla delocalizzazione delle imprese industriali e l’emergere di territori immensi, un tempo in posizione di sofferenza e ora con
sviluppo del PIL annuo anche a due cifre.
Questo tipo di evoluzione del mondo non è estensibile appieno al settore primario che, essendo fondato sulla terra,
resta alla stessa legato; pertanto vere delocalizzazioni di
aziende agricole non sono pensabili, mentre vanno emergendo, ed questa è veramente cosa grave e fonte di preoccupazioni, produzioni che un tempo erano tipiche delle
agricolture antiche (vino, olio e simili) e che ora, anche per
opera di europei – spesso italiani – emigrati, stanno diventando fortemente concorrenziali con le nostre. Si tratta di
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fenomeni che si stanno sviluppando in molte parti del mondo come in Australia (vino), paesi del Magreb (olive, che
un tempo, però, erano già state prodotte in quei luoghi),
formaggi (oramai, la mozzarella la producono un po’ ovunque) e via dicendo.
Questi attacchi, che derivano anche dalla estrema difficoltà
di difendere per vie legali nomi che non riescono a essere
riconosciuti come tipici, (preferendosi, ovviamente da chi è
interessato, considerarli ormai generici) richiedono risposte
che puntino sulla genuinità del Made in Italy e dalla formazione di masse critiche di prodotti che consentano investimenti pubblicitari importanti e da utilizzare nel mondo.
Tutto ciò richiede che le imprese agricole, pur mantenendo, quando ci riescono, la loro autonoma esistenza, si riuniscano in un sistema a rete che consenta di creare disciplinari comuni e rispettati, sistemi di controlli efficaci, e depositi di marchi che, anche se fondati su nomi ormai divenuti – o stimati – generici, acquisiscano tutelabilità attraverso lo sfruttamento della locuzione Made in Italy come parte
del marchio stesso.
Si vuol dire, cioè, che non esistono solo DOP e IGP per far
unire gli sforzi dei produttori al fine di ottenere prodotti ben
accetti al mercato; poiché una chiave di accesso a quest’ultimo è, sicuramente, l’evidenziare l’origine italiana, sarebbe necessario che alcuni cibi significativamente importanti e nello stesso tempo producibili su scala sufficiente
fossero la base sulla quale costruire un marchio privato, di
proprietà del consorzio, cooperativa o altro soggetto collettivo partecipato dai produttori, che portasse un nome abbastanza evocativo e che contenesse in se anche la locuzione Made in Italy, corroborato da un disciplinare che garantisse questa origine e la stabilità del prodotto ottenuto.
In questo modo si potrebbe, auspicabilmente, pur con investimenti non trascurabili, raggiungere i mercato mondiali
con buone probabilità di successo, specie sui concorrenti
che, in modo non appropriato, utilizzano nomi italiani per
prodotti ottenuti altrove.
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Strategie di competitività nel sistema agroalimentare in funzione
della nuova PAC (imprenditori
agricoli alla riscoperta della food
security)*
Alessandra Tommasini
1.- Le principali proposte di riforma della PAC post 2013 a
correzione delle attuali distorsioni di mercato
La PAC vigente fornisce sostegno agli agricoltori sulla base
di uno “status” (la proprietà o l’uso della terra, la titolarità di
un’attività economica organizzata, il riconoscimento di un
diritto acquisito nel passato) e non in considerazione dei
progetti che gli stessi intendono realizzare e/o dei comportamenti che si impegnano a porre in essere.
L’effetto è che numerose aziende sono già uscite dal mercato e, nei prossimi anni, molte altre sono destinate a tale
sorte o per mancanza di un successore interessato a continuare l’attività o per incapacità di gestire i cambiamenti.
Peraltro, l’esponenziale aumento della domanda globale
dei prodotti agricoli dovuto alla prevista crescita demografica dei prossimi decenni e, soprattutto, alla necessità di recuperare le fasce di sotto-nutrizione attualmente esistenti;
la riduzione delle sovvenzioni agricole1, l’apertura dei mer-
11
cati comunitari ed i comportamenti dei consumatori sempre
più segmentati sono solo alcuni dei fattori che il sistema
agricolo si trova ancora oggi a dovere affrontare in una
condizione di sostanziale debolezza strutturale.
Al fine di correggere le distorsioni di mercato e gli eccessi
del disaccoppiamento nonché di ristabilire un legame tra gli
aiuti economici e l’indispensabile requisito della produzione,
la Commissione europea ha -il 12 ottobre 2011- presentato
le proposte legislative per la nuova PAC 2, ridisegnando
aspetti tecnici estremamente rilevanti per gli agricoltori.
Molteplici novità sono state introdotte poi dal negoziato
svoltosi il 26 giugno del 2013 tra Commissione, Consiglio e
Parlamento europeo (c.d. trilogo), conclusosi con il raggiungimento di un accordo politico3, necessario per arrivare
al testo definitivo della riforma sulla PAC4, le cui ultime decisioni sono rimandate all’esito dell’approvazione del bilancio pluriennale dell’UE 2014-2020.
Pur se tale processo di revisione si muove nel segno di
una sostanziale continuità con il percorso avviato dalla riforma Fischler e ribadito successivamente dall’Health
check del 2008, esso si colloca in una fase storica caratterizzata da grandi cambiamenti economici, politici ed istituzionali. La PAC post 20135 -per effetto della procedura legislativa ordinaria, entrata in vigore con il Trattato di Lisbonaverrà discussa ed approvata con un ruolo decisivo del Parlamento europeo (che, in passato, aveva una funzione prevalentemente consultiva) e, dunque, con la partecipazione
a pieno titolo di ventotto governi nazionali, con agricolture
estremamente differenziate sul piano economico e sociale,
alla cui discrezionalità saranno affidate decisioni inerenti
aspetti applicativi (a seguire, potranno poi essere adottati i
regolamenti delegati6 e i regolamenti di esecuzione da par-
(*) Il presente contributo è destinato agli scritti in onore del prof. Luigi Costato.
(1) La nuova PAC non solo dovrebbe riconfermare il budget agricolo europeo ma è, altresì, auspicabile che quantomeno mantenga anche
il plafond destinato al nostro Paese. Ingiustificata, infatti, sarebbe una riduzione dello stesso per l’Italia, con l’effetto che quest’ultima
pagherebbe un dazio insostenibile con un significativo aumento del divario tra le risorse che versa all’UE (circa il 14% del bilancio comunitario) e quello che recupera (circa il 10%) attraverso la PAC. L’Italia avrebbe -ovviamente- tutto l’interesse a che la Commissione riveda i parametri per calcolare la superficie agricola in base alla quale distribuire il nuovo plafond finanziario, prendendo in considerazione
non solo gli ettari che hanno beneficiato storicamente dei premi UE ma l’intera superficie agricola utilizzabile.
(2) L’avvio del processo di riforma della PAC per il periodo 2014-2020 è avvenuto con la Comunicazione della Commissione al
Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni “La Pac verso il 2020: rispondere alle future sfide dell’alimentazione, delle risorse naturali e del territorio” –COM (2010) 672 def. del 18.11.2010.
(3) La proposta finale sembra essere indubbiamente migliorativa per il nostro Paese rispetto a quella iniziale avanzata dalla
Commissione. Infatti, all’esito del negoziato, in un quadro complessivo di arretramento della spesa globale e di appiattimento degli incentivi, l’Italia ha ottenuto un livello di aiuti molto più alto rispetto alla media europea.
(4) Dato certo è che non ci sono più i tempi tecnici per avviare la nuova Pac dal 2014 che, pertanto, sarà un anno di transizione in cui
gli agricoltori riceveranno i pagamenti in base ai vecchi titoli; quelli nuovi saranno assegnati in funzione del numero di ettari ammissibili dichiarati nella Domanda Unica al 15 maggio 2015.
(5) F. De Filippis - A. Frascarelli, Il percorso, l’impianto e gli obiettivi della riforma della Pac, in F. De Filippis (a cura di), La nuova Pac
2014-2020. Un’analisi delle proposte della Commissione, Roma, 2012, p. 11, precisano che questa riforma si inserisce in uno scenario
di incertezza e di volatilità dei prezzi, ma anche in un momento che si caratterizza per nuove sfide sui temi dell’ambiente, dell’energia e
del cambiamento climatico e, soprattutto, sullo sfondo di una crisi economica e finanziaria che sta mettendo a dura prova la capacità
della stessa Unione di farvi fronte in modo coeso, tempestivo ed efficace. In proposito, a p. 12, specificano che, a differenza di quanto
avvenuto nel 2003, il dibattito intorno alla nuova PAC si svilupperà senza un quadro di risorse finanziarie certe, essendo il percorso decisionale sulle prospettive finanziarie da poco iniziato.
(6) Secondo quanto previsto dal TFUE, il Parlamento ed il Consiglio possono riservare alla Commissione la facoltà di emanare atti delegati che integrano o modificano determinati elementi non essenziali degli atti legislativi, delimitando espressamente obiettivi, contenuto,
portata e durata della delega (art. 290).
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te della Commissione7. Le proposte8 preannunciano, invero, un notevole aumento degli spazi decisionali riservati
agli Stati membri nell’applicazione delle politiche comunitarie per l’agricoltura, non solo dal punto di vista della distribuzione delle risorse a disposizione, ma anche sotto il profilo delle scelte relative a se e come applicare alcuni degli
strumenti previsti. Come se ciò non bastasse, nell’ottica di
una rafforzata sussidiarietà, si tende a considerare -nell’ambito della nuova politica di sviluppo rurale- la programmazione integrata9 come un valore aggiunto, riconoscendo
così ai singoli Stati ed alle Regioni la necessaria discrezionalità e flessibilità per consentire la crescita di forme di coordinamento e cooperazione tra le diverse filiere, con le
modalità più idonee ad affrontare, di volta in volta, le criticità di un determinato comparto e/o territorio.
Sicurezza degli approvvigionamenti, gestione sostenibile, valorizzazione della differenziazione delle agricolture e delle
aree rurali sono i principali obiettivi strategici che questa politica progetta di raggiungere attraverso l’aumento della competitività del settore e la contestuale semplificazione delle
pratiche di accesso agli aiuti10. E ciò, mediante una migliore
12
ripartizione delle risorse sia tra gli Stati membri sia al loro interno11; nonché con l’attivazione di misure volte a fronteggiare le sfide ambientali e l’accresciuta volatilità del mercato.
Nonostante alcuni segmenti del settore agroalimentare
avessero richiesto il ripristino dei regimi accoppiati alla
quantità prodotta, la proposta di regolamento ha confermato il disaccoppiamento quale criterio guida dei pagamenti
erogati dalla PAC, indicando -tuttavia- cambiamenti di non
poco conto in direzione di un sostegno, definito dalla Commissione, più mirato e più equo. E così, dopo un adeguato
periodo di proroga dell’attuale sistema storico12, il pagamento unico aziendale dovrebbe essere rideterminato (con
importi più bassi ed omogenei a livello territoriale) e riassegnato, sulla base di parametri economici, agronomici ed
ambientali, ad imprese che effettivamente svolgono attività
di produzione di beni e/o servizi, con conseguente limitazione della platea dei beneficiari ai soli agricoltori c.d. attivi.
Più precisamente -come ben noto- l’accordo nel trilogo di
giugno ha suggerito il c.d. “spacchettamento” del pagamento in sette diverse componenti (di base13, ridistributivo14, ecologico o greening15, aree svantaggiate16, giovani
(7) Nelle ipotesi in cui, al fine di dare materiale esecuzione alle norme comunitarie, dovesse essere necessario un intervento della Unione
Europea in funzione di un’attuazione uniforme, le competenze esecutive possono essere conferite alla Commissione (cfr. al riguardo il
regolamento (UE) n. 182/2011 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011 che stabilisce le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri dell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione)
e, in tal caso, gli atti emanati assumono la forma di regolamenti di esecuzione o di decisioni europee di esecuzione.
(8) Sulle nuove proposte di riforma della PAC, v. L. Costato, Regime disaccoppiato, Trattato di Lisbona e obbiettivi della PAC verso il
2020, in Agr. Ist. Merc., 2011, n. 2, p. 13; F. Albisinni, Le proposte per la riforma della PAC verso il 2020: profili di innovazione istituzionale e di contenuti, in Riv. dir. agr., 2011, f. 4, p. 604.
(9) E’ importante la previsione di convivenza di programmi nazionali con programmi regionali e, soprattutto, la possibilità di effettuare
compensazioni finanziarie tra questi; il che eviterebbe, ad esempio, il frequente rischio di dover restituire alle casse comunitarie i finanziamenti non spesi da qualche Regione particolarmente lenta.
(10) Un regime di aiuto più semplificato gioverebbe alle imprese di settore per le quali la burocrazia è un peso ed un onere, eliminando
tutti quei pagamenti i cui benefici non superano i costi burocratici dell’istruttoria (stimati dalla stessa Commissione in 350,00 euro all’anno). Parimenti, regole e procedure comuni dovrebbero essere previsti anche per quanto attiene ai controlli, con la conseguenza che
devono essere individuate procedure semplificate ed armonizzate se solo si pensa che le organizzazioni di produttori e le cooperative
agricole spesso subiscono verifiche a livello europeo, nazionale e regionale per le stesse problematiche.
(11) La nuova PAC si propone di attuare una ridistribuzione più omogenea del sostegno per ettaro, procedendo in maniera graduale ad
una convergenza dei pagamenti tra Stati membri (esterna) e tra gli agricoltori di ogni singolo Paese membro (convergenza interna).
Entro il 1° agosto 2014 gli Stati dovranno decidere se adottare un valore medio dei pagamenti diretti a livello nazionale o regionale, in
base a criteri amministrativi o agronomici (c.d. regionalizzazione); ed, ancora, se uniformare i pagamenti diretti agli agricoltori verso il
livello medio regionale/nazionale entro il 2019 oppure se realizzare un avvicinamento dei pagamenti diretti entro il 2019 senza raggiungere il livello medio (convergenza interna).
(12) L’accordo finale sulla PAC mira al mantenimento di una parte del valore dei pagamenti storici anche dopo il 2019 allo scopo di salvaguardare il reddito degli agricoltori storici, seppur con un graduale avvicinamento al valore uniforme dal 2015 al 2019, con la conseguenza che la convergenza sarà parziale e non totale. Trattasi di scelta che, per converso, rappresenta una delusione per gli agricoltori che attualmente non ricevono i pagamenti diretti o possiedono titoli di valore basso.
(13) Gli Stati membri dedicheranno al nuovo regime di pagamento di base una percentuale del plafond nazionale dei pagamenti diretti
(max 70%), in funzione delle scelte che verranno fatte sulle altre tipologie di pagamenti. Il pagamento di base sarà imperniato su titoli
all’aiuto disaccoppiati. Sull’argomento, v. M. R. Pupo D’Andrea, Le proposte di riforma dei pagamenti diretti per la PAC 2014-2020.
Alcune valutazioni, in Riv. dir. agr., 2011, f. 4, p. 645.
(14) Rispetto alle proposte della Commissione, la novità introdotta dal negoziato di giugno 2013 è il pagamento ridistributivo per cui -in
concreto- gli Stati potranno usare fino al 30% della dotazione nazionale per ridistribuirla tra gli agricoltori per i loro primi trenta ettari; i
Paesi che decideranno di applicare questo tipo di pagamento potranno optare -altresì- per la non applicazione del capping.
(15) L. Russo, Profili di tutela ambientale nella proposta per la PAC 2014-2020: La “nuova” condizionalità ed il greening, in Riv. dir. agr.,
2011, f. 4, I, p. 628; Id., Il contenimento dell’attività produttiva dell’agricoltura e la valorizzazione del territorio: due finalità compatibili?,
ibidem, f. 1, I, p. 16.
(16) Gli agricoltori che percepiscono il pagamento di base e la cui azienda sia ubicata in tutto o in parte in aree svantaggiate avranno,
altresì, diritto ad un pagamento supplementare che gli Stati membri potranno in via facoltativa concedere agli stessi annualmente per
ogni ettaro ammissibile e fino al 5% del massimale nazionale.
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agricoltori, piccoli agricoltori, pagamenti accoppiati per produzioni strategiche17 attivabili entro percentuali del massimale nazionale parzialmente flessibili rispetto alle scelte
degli Stati membri, ad eccezione del c.d. greening che, viceversa, è stato determinato nella misura del 30%, fissa ed
uguale per tutti i Paesi comunitari. Si tratta di una risorsa18
cui avranno diritto gli agricoltori che percepiscono il pagamento di base e che rispettano una serie di pratiche (che
vanno oltre la condizionalità) a beneficio del clima e dell’ambiente, quali la diversificazione delle colture19, il mantenimento dei prati e dei pascoli permanenti, la destinazione
delle superfici agricole a scopi ecologici20. Rilevante novità
dell’accordo (risultato, peraltro, del negoziato dell’Italia) è
che le aree di interesse ecologico si applicheranno solo alle superfici a seminativo, con esclusione dall’obbligo del
greening delle colture permanenti (vigneti, oliveti, frutteti,
agrumeti), oltre che dei prati e pascoli. Per evitare di penalizzare quanti già adottano sistemi di sostenibilità ambientale, è stato previsto -altresì- un sistema di “equivalenza
13
d’inverdimento”, in base al quale le prassi favorevoli all’ambiente già in vigore (agricoltura biologica e regimi agro-ambientali) sostituiranno gli obblighi del greening. La PAC che
scaturisce dall’accordo è frutto di un compromesso tra la
visione ambientalista dell’agricoltura e quella produttivistica, più attenta alla produzione e al reddito degli agricoltori
storici21. Se, infatti, per un verso, prevede meno vincoli ambientali e ridimensiona le aree ecologiche; per altro, dà risalto agli obiettivi produttivi dell’agricoltura, con aumento
dell’aiuto accoppiato.
Al fine di perseguire un sostegno più equo, inoltre, si intende migliorare la distribuzione dei pagamenti con un meccanismo di progressiva limitazione di quelli di ammontare più
alto (capping22), fino ad eliminare i più esigui per ridurre gli
oneri burocratici (soglie minime23).
Guidata dalle strategie generali di Europa 2020, la riforma
-superando la separazione tra i due pilastri della PAC- mira, inoltre, a rendere gli interventi sinergici e complementari, per realizzare una concreta connessione tra sistema ru-
(17) L’accordo nel trilogo prevede la possibilità per gli Stati membri di concedere pagamenti accoppiati di importo limitato, collegati a un
prodotto specifico (sono esclusi il tabacco, le patate e il settore vitivinicolo), allo scopo di risolvere gli effetti potenzialmente negativi della
convergenza interna per settori specifici in determinate regioni. In altre parole, il pagamento accoppiato deve essere finalizzato a quei
settori che subiscono gli effetti negativi della uniformazione dei titoli, come la zootecnica, l’olio di oliva, il pomodoro da industria, la barbabietola, ecc. Inoltre, è possibile fornire un sostegno accoppiato per le colture proteiche con un incremento sino al 2% del massimale
dei pagamenti accoppiati che, in questo caso, può raggiungere il 15% della dotazione nazionale.
(18) Mentre nella versione precedente della proposta di riforma il pagamento verde rappresentava una componente aggiuntiva rispetto a
quella di base e destinata solo agli agricoltori disposti ad accollarsi il costo del greening, oggi la logica è completamente ribaltata, e,
sostanzialmente, ricalca quella della condizionalità: gli imprenditori saranno obbligati a seguire le regole del greening e solo in questo
modo potranno percepire il pagamento nella sua interezza. In caso di mancato rispetto di quest’obbligo della “supercondizionalità”, gli
agricoltori diventeranno passibili di sanzioni economiche che -presumibilmente- andranno ad intaccare in parte o tutto quel 30% corrispondente alla componente verde del pagamento unico.
(19) Rispetto alle originarie proposte della Commissione, la diversificazione delle colture a seminativo sarà meno rigorosa, prevedendo:
almeno due colture per le aziende la cui superficie è compresa tra 10 e 30 ha, nessuna delle quali copra più del 75% della superficie a
seminativo; per le aziende oltre i 30 ha, le colture saranno tre con la coltura principale che copre al massimo il 75% della superficie a
seminativo e le due colture principali al massimo il 95%. La conseguenza è che, fino a 10 ettari a seminativo, l’agricoltore non avrà obblighi di diversificazione.
(20) Le aree di interesse ecologico saranno obbligatorie per le aziende superiori a 15 ha a seminativo, per almeno il 5% della superficie a
seminativo dell’azienda; dal 1° gennaio 2017 tale percentuale aumenterà al 7% in seguito a una relazione della Commissione. Pertanto,
le aziende aventi dimensioni inferiori ai 15 ettari a seminativo saranno esonerate dall’obbligo delle aree di interesse ecologico.
Possono essere considerate aree di interesse ecologico i terreni a riposo, le fasce tampone, le terrazze, il mantenimento del paesaggio, la conservazione degli habitat naturali e della flora e fauna selvatica, superfici oggetto di imboschimento.
(21) In tal senso, v. A. Frascarelli, Pac 2014-2020, accordo politico con meno vincoli ambientali, in Terra e Vita, 2013, n. 27, p. 12.
(22) L’Unione Europea è orientata a ridurre, in termini di contribuzione, le differenze tra aziende con l’applicazione di un tetto massimo
agli aiuti dalle stesse percepibili (c.d. capping), anche se le decisioni sul capping rimangono in sospeso in attesa della definizione del
bilancio 2014-2020. L’accordo prevede un’applicazione obbligatoria di due quote di riduzione progressiva, a partire da 150.00 euro a
300.000 euro e oltre 300.000 euro. Gli Stati membri possono decidere che l’importo sia calcolato sottraendo le retribuzioni del lavoro,
legate all’attività agricola, effettivamente pagate e dichiarate dall’agricoltore nell’anno precedente, comprese le imposte e i contributi
sociali. Gli Stati membri che decidono di applicare il pagamento redistributivo per i primi ettari possono decidere di non applicare il capping.
Al fine di evitare che gli imprenditori colpiti dal capping frazionino le aziende, gli Stati membri dovranno assicurare che nessun pagamento sia effettuato in caso di suddivisione abusiva dell’azienda o della società nonché di trasferimento artificiale parziale di parte dell’azienda a soggetti terzi. Per quanto il capping possa apparire molto penalizzante, soltanto poche aziende -in realtà- ne saranno colpite, sia perché non si applica alla componente greening dei pagamenti diretti, sia perché sarà possibile per le grandi aziende strutturate
portare in detrazione il costo del lavoro salariato. La conseguenza è che solo le grandissime aziende agricole che gestiscono la coltivazione con i contoterzisti, quindi senza manodopera aziendale, saranno interessate dal capping.
(23) Sulla base della proposta di regolamento, gli Stati membri non potrebbero erogare pagamenti diretti se l’importo totale degli stessi
non supera i 100 euro e se la superficie ammissibile dell’azienda per la quale si vantano pagamenti diretti è inferiore a 1 ha, anche se
è prevista una certa flessibilità in considerazione della struttura delle rispettive economie agricole.
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rale (paesaggio, ambiente, culture locali) e produzioni di
qualità che rafforzi la competitività24 dell’agricoltura europea. Del resto, “l’identità di un prodotto alimentare è dovuta anche alla percezione dell’ambiente naturale che gli
agricoltori contribuiscono a tutelare ed a valorizzare25” a
conferma della necessità di interpretare i processi produttivi in maniera integrata e sistemica, sulla base di un nuovo
modello che combini sostenibilità economica, ambientale e
sociale.
Consapevole -tuttavia- che il requisito della qualità non
possa essere sufficiente a determinare l’incremento del livello di produttività e di competitività degli agricoltori nella
filiera agroalimentare, l’attesa riforma UE intende, a tal fine, rafforzare il potere contrattuale della parte agricola mediante la promozione della concentrazione dell’offerta ed il
consolidamento di realtà imprenditoriali frammentate.
L’obiettivo è quello di incentivare in maniera significativa le
misure di sostegno alla cooperazione attraverso il finanziamento -tra l’altro- di progetti pilota, di collaborazioni tra piccoli operatori per organizzare processi di lavoro in comune
e condividere impianti e risorse; ed, in particolare, alla cooperazione di filiera, orizzontale e verticale, nonché ad attività promozionali a raggio locale, per catalizzare lo sviluppo delle filiere corte. In tal modo, superando -per un versoi limiti di un’azienda individuale e permettendo -per l’altroal singolo operatore ed alla sua famiglia di restare sempre
il nucleo fondante di nuovi modelli associativi. In questa direzione, la PAC post 2013, nel prospettare una nuova Ocm
unica26, attribuisce, nell’ambito degli strumenti di regolazione del mercato agricolo, un ruolo centrale -per non dire
14
preminente- alle organizzazioni di produttori e alle loro associazioni (prevedendone, per la prima volta, l’estensione,
pur con gli opportuni adattamenti in relazione alle differenti
specificità, a tutti i settori produttivi), all’interprofessione
nonché a quelle altre forme di cooperazione e/o aggregazione, comprese le reti di imprese27, che tendono a facilitare i rapporti con i primi acquirenti, sempre nel rispetto delle
regole in materia di concorrenza. E ciò, però, senza trascurare che l’agricoltura, per essere veramente competitiva,
deve potere garantire la coesistenza di diversi modelli produttivi ed organizzativi, compresi quelli che operano su piccola scala e che offrono prodotti locali ed artigianali di qualità provenienti dalla filiera corta, in un’ottica di promozione
dello sviluppo delle zone rurali.
2.- La valorizzazione degli imprenditori agricoli tra le strategie della riforma.
Mantenere il tessuto imprenditoriale agricolo è indispensabile per non disperdere quello straordinario patrimonio,
economico e sociale, di cui l’agricoltura può giovarsi nell’accesso ai mercati comunitari ed internazionali. Ma, in
questa direzione, è stato necessario intraprendere un percorso coraggioso di revisione della politica agricola per fornire agli imprenditori strumenti più coerenti con lo scenario
attuale e con i suoi prevedibili sviluppi.
La nuova PAC auspica -per l’appunto- di valorizzare gli operatori del settore e di attribuire un rinnovato significato e ruolo alle qualifiche soggettive che la riforma Fischler aveva, in-
(24) La proposta della Commissione per la nuova PAC 2014-2020 sembra -rispetto al passato- volere adottare un moderato potenziamento per quanto riguarda le misure per l’innovazione, con tre novità di rilievo: il partenariato dell’innovazione agricola (attività a livello
generale e nazionale per stimolare le imprese a nuove tecnologie, tramite processi di informazione e divulgazione); il rafforzamento della
cooperazione tra imprese e comunità scientifiche; l’ampliamento del sistema di consulenza aziendale per il miglioramento dei risultati
economici ed ambientali.
(25) In tal senso, v. F. Adornato, La Politica agricola comune verso il 2020: tra mercati globali e sistemi territoriali, in Agr. ist. merc., 2011,
n. 2, p. 6.
(26) Rappresenta il naturale completamento della riforma relativa ai pagamenti diretti anche la proposta di regolamento sulla nuova Ocm
unica che ha come obiettivo dichiarato di «armonizzare, razionalizzare e semplificare le disposizioni, in particolare quelle che coprono
più di un settore agricolo». Sull’argomento, v. G. Canali, L’Ocm unica e le misure di mercato, in F. De Filippis (a cura di), La nuova Pac
2014-2020. Un’analisi delle proposte della Commissione, cit., p. 71 e ss.
(27) Nel quadro di azione dell’UE, ma anche nelle intenzioni del legislatore italiano, la costituzione di reti d’impresa rappresenta uno strumento utile affinchè le imprese in generale possano rispondere alle nuove sfide dei mercati, con vantaggi, oltre tutto, di carattere fiscale
e amministrativo. Sull’argomento, tra i tanti, v. S. Allodi, Decreto “Sviluppo 2012“ Contratti di rete. Novità della L. 134/2012, in Settimana
Fiscale n°32 - 7 settembre 2012, p. 36 e ss.; F. Mariotti, Questioni aperte sulla misura agevolativa a favore delle imprese in rete - sezione Agevolazioni - Corriere Tributario - 18/2012; A. Mengozzi, F. Pellizzari, Contratti di rete: caratteristiche e nuovo regime di pubblicità, in
Il Sole24Ore - I Focus Fiscali – 5/2012, p. 38 e ss.; F. Cafaggi, Il contratto di rete nella prassi. Prime riflessioni, in I contratti, n. 5/2011;
ID., Il contratto di rete ed il diritto dei contratti, ibidem, 2009, p. 915 e ss.; F. Festi, La nuova legge sul contratto di rete, in Nuova giur. civ.
comm., 2011, p. 535 e ss.; G. D. Mosco, Frammenti ricostruttivi sul contratto di rete, in Giur. Comm., 2011, p. 839 e ss.; E. M. Tripputi, Il
contratto di rete, in Nuove leggi civ. comm., 2011, p. 55 e ss.; P. Zanelli, Reti d’impresa: dall’economia al diritto, dall’istituzione al contratto, in Contr. e impr., 2010, p. 951 e ss.; A. Gentili, Una prospettiva analitica sulle reti di imprese e contratti di rete, in Obbl. e contr., 2010,
p. 87; P. Iamiceli, Il contratto di rete tra percorsi di crescita e prospettive di finanziamento, in I contratti, 2009, p. 63 e ss.; F. Macario, C.
Scognamiglio, Reti di imprese e contratti di rete, in I contratti, 2009, p. 914 e ss.; F. Macario, Il contratto e la rete: brevi note sul riduzionismo legislativo, in I contratti, 2009, p. 951 e ss; P. Perlingieri, Reti e contratti tra imprese, tra cooperazione e concorrenza, in AA. VV.,
Le reti di imprese e i contratti di rete, in Lex nova, Collana diretta da V. Roppo, a cura di P. Iamiceli, Torino, 2009, p. 396 e ss.; C.
Scognamiglio, Dal collegamento negoziale alla causa di coordinamento nei contratti tra imprese, ibidem, p. 61 e ss; F. Macario, Reti di
imprese, “contratto di rete” e individuazione delle tutele. Appunti per una riflessione metodologica, ibidem, p. 273 e ss.
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vece, indirettamente sacrificato, rendendo indifferente per
l’agricoltore se produrre o meno, oppure se dedicarsi alla
produzione di un determinato bene piuttosto che di un altro.
Come è ben noto, secondo la definizione di cui all’art. 2,
par. 1, lett. a) del reg. (CE) n. 73/2009, l’agricoltore è una
persona fisica o giuridica la cui azienda si trova nel territorio della Comunità e che esercita un’attività agricola, intendendosi per quest’ultima, ai sensi del par. 1, lett. c) sempre
della suindicata disposizione, la produzione, l’allevamento
e la coltivazione di prodotti agricoli (comprese la raccolta,
la mungitura, l’allevamento e la custodia degli animali per
fini agricoli), nonché il mantenimento della terra in buone
condizioni agronomiche ed ambientali (art. 6)28. Al rispetto
degli obblighi dettati dalla condizionalità (art. 4 e ss. reg.
CE n. 73/2009) è, allo stato, subordinata -per l’appunto- la
concessione degli aiuti, con possibile riduzione o revoca
degli stessi in caso di inadempimento (artt. 23-24). In ragione di un siffatto regime di sostegno, la riforma di medio
termine ha evidentemente posto sullo stesso piano l’agricoltore produttore ed il mero detentore del fondo, con la
conseguenza che i benefici economici sono erogati non in
base alla quantità di produzione realizzata ma semplicemente in funzione della disponibilità che un soggetto ha di
un terreno agricolo ed il cui utilizzo, secondo una scelta di
indirizzo, può consistere anche solo nel mantenerlo in buone condizioni. Il che ha evidentemente modificato le convenienze e, di conseguenza, le scelte degli imprenditori agricoli i quali, riconosciuta in un determinato contesto territoriale la mancanza di soluzioni produttive in grado di determinare un risultato economico positivo, possono -pur beneficiando del pagamento unico- optare per la “non coltivazione”. Questa situazione, unita al variabile e tendenzialmente decrescente andamento dei prezzi UE delle principali commodities, ha comportato e potrebbe ulteriormente
provocare una sostanziale uscita di fatto dall’attività pro-
15
duttiva in senso stretto di un numero non trascurabile di
aziende agricole29, con serie implicazioni per l’intero sistema agroalimentare. In questo scenario è già possibile operare una distinzione tra imprese agricole “vere e proprie” e
“altre” aziende agricole che, per quanto talvolta incluse -almeno sotto il profilo nominativo- in rilevazioni statistiche,
non svolgono concretamente alcun ruolo significativo nel
sistema produttivo agroalimentare in senso stretto né, tantomeno, contribuiscono alla gestione delle risorse naturali
e/o ambientali.
La nuova PAC verso il 2020 sembra volere recuperare il
collegamento tra il sistema dei pagamenti ed il requisito
della produzione di beni alimentari, garantendo gli aiuti a
chi effettivamente vive dei proventi derivanti dall’attività primaria e non finanziando il mero possesso di terreni agricoli. Sulla base della prospettata riforma, l’erogazione dei pagamenti diretti dovrà essere limitata a coloro che effettivamente si dedicano allo svolgimento di un’attività agricola
che, secondo la definizione contenuta nell’art. 4, par. 1,
lett. c) della proposta di regolamento, consiste -tra l’altronel “mantenimento della superficie agricola in uno stato
che la rende idonea al pascolo o alla coltivazione” o “nello
svolgimento di un’attività minima, che gli Stati membri definiscono, sulle superfici agricole mantenute naturalmente in
uno stato idoneo al pascolo o alla coltivazione30”. Innovando rispetto al passato, la proposta auspica il superamento
del concetto di attività agricola circoscritto al semplice
“mantenimento della terra in buone condizioni agronomiche e ambientali” in favore di quelle iniziative (sia di coltivazione sia di allevamento) multifunzionali e diversificate,
concretamente dirette, seppur in misura minima, alla produzione, e per la cui definizione è previsto il rinvio alla
competenza regolatrice degli Stati membri31. Coinvolgimento quest’ultimo nel processo definitorio che rappresenta
una novità di non poco conto, dal momento che riconosce
(28) Sul tema della condizionalità, v. L. Russo, La condizionalità nella riforma degli aiuti diretti e nello sviluppo rurale, in F. Albisinni - A.
Sciaudone (a cura di), Il contenzioso sui regimi di pagamento in agricoltura, Napoli, 2008, p. 117; D. Bianchi, I nuovi strumenti della PAC:
condizionalità, modulazione e disciplina finanziaria, in E. Casadei - G. Sgarbanti (a cura di), Il nuovo diritto agrario comunitario. Riforma
della politica agricola comune. Allargamento dell’Unione e Costituzione europea. Diritto alimentare e vincoli internazionali, Milano, 2005,
p. 57-76; Id., La condizionalità dei pagamenti diretti o della responsabilità dell’agricoltore beneficiario dei pagamenti diretti nell’ambito
della PAC, in Dir. giur. agr. e amb., 2003, p. 597. L. Costato, Corso di diritto agrario italiano e comunitario, Milano, 2008, p. 142, sottolinea la necessità del collegamento posto dal reg. 1782/2003 (ora reg. 73/2009) tra il rispetto dei criteri di gestione obbligatori nell’esercizio dell’attività agricola e la percezione degli aiuti diretti.
(29) G. Canali, Impresa e forme di coordinamento in agricoltura: la via maestra per la competitività, in Agriregionieuropa, n. 5, anno 2
(2006), fa rilevare le gravi ricadute negative di questa misura di politica agraria, sottolineando come un altro fattore non trascurabile sia
rappresentato dall’età media dei conduttori delle aziende agricole, dal loro grado di formazione e dalla presenza o meno tra i loro familiari di un successore “giovane”.
(30) Continuano -ovviamente- a rientrare nel concetto di attività agricola l’allevamento o la coltivazione di prodotti agricoli, nonché la raccolta, la mungitura, l’allevamento e la custodia degli animali per fini agricoli.
(31) F. Albisinni, Le proposte della Commissione: una lettura in chiave giuridica, in F. De Filippis (a cura di), La nuova Pac 2014-2020.
Un’analisi delle proposte della Commissione, cit., p. 117, osserva come “si tratti di una novità importante, che investe la stessa struttura delle fonti, confermando la tendenza – anche in ambito europeo – verso una legislazione multilivello, nella quale diversi soggetti cooperano nel processo normativo, in una relazione che alla tradizionale dimensione gerarchica accompagna decisivi profili di competenza, declinati nell’ambito del canone di sussidiarietà”. L’Autore aggiunge a p. 118 che gli Stati membri sono chiamati a partecipare ad un
processo conformativo dislocato su più livelli attraverso integrazioni progressive, sancendo e valorizzando le possibili differenti declinazioni della definizione, pur unitaria.
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ai singoli Paesi aderenti all’Ue (ciascuno con la propria
agricoltura) la facoltà di individuare quali contenuti devono
possedere le attività per potere essere qualificate agrarie
nonché di garantire -nell’ottica della produzione- le peculiarità dei singoli territori e delle relative tecniche adottate.
Non è solo attraverso questa nuova definizione di agricoltura che la PAC post 2013 effettua una netta accentuazione dell’aspetto produttivo, ma, anche con la individuazione
dei c.d. agricoltori attivi32, quali destinatari delle risorse europee, torna a focalizzare l’attenzione sulla necessità di
produrre materie prime destinate all’alimentazione umana,
proponendo sostegni che, lontani dal riferimento storico, si
pongano nella prospettiva di un aiuto -almeno in parte- accoppiato ai risultati dell’attività agricola.
Più precisamente, saranno considerati soggetti beneficiari
coloro (persone o gruppi di persone fisiche o giuridiche)
che hanno un reddito annuale da attività agricola superiore
al 5% dei proventi totali ottenuti da tutte le altre attività economiche, escluse le sovvenzioni della PAC; fermo restando
-tuttavia- che tale previsione non si applica agli agricoltori
che hanno ricevuto meno di 5000 euro di pagamenti diretti
per l’anno precedente. Trattasi di criterio questo, oggettivo
e controllabile, che presuppone necessari accertamenti a
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livello amministrativo33, con il calcolo della percentuale di
aiuto comunitario sul reddito globale, e, dunque, sulla base
delle dichiarazioni dei redditi presentate.
La definizione che è stata -al momento- fornita degli agricoltori attivi, per quanto frutto di una importante intuizione,
presenta -tuttavia- elementi di criticità che meritano correttivi. L’insoddisfazione deriva non soltanto dal fatto che tale
formulazione esclude pochissimi soggetti34, ma anche dalla
circostanza che sembra ancora una volta agevolare chi
non produce. Il rischio che si ripropone, infatti, è che i pagamenti disaccoppiati vengano nuovamente effettuati in favore dei beneficiari in assenza di elementi comprovanti l’effettivo svolgimento di un’attività agricola35 e solo sulla base
degli aiuti percepiti36, premiando così le rendite e le dimensioni a scapito del lavoro e degli investimenti.
Beneficiari dovrebbero essere soggetti che ne hanno bisogno e che, senza queste risorse, sarebbero impossibilitati
a continuare a produrre beni destinati all’alimentazione. In
tale prospettiva, potrebbero essere considerati active farmers sia coloro che svolgono concretamente un’attività
produttiva, sia quegli imprenditori che vivono prevalentemente di attività agricola e che, in una fase storica di volatilità dei prezzi, si troverebbero in passivo senza la garanzia
(32) In tal senso, v. N. Lucifero, Agricoltori “attivi” e attività agricola nella prospettiva della riforma della PAC, in L. Costato, P. Borghi, L.
Russo, S. Manservisi (a cura di), Dalla riforma del 2003 alla PAC dopo Lisbona. I riflessi sul diritto agrario alimentare e ambientale, Atti
del Convegno di Ferrara del 6-7 maggio 2011, Napoli, 2011, p. 398, precisa che -per quanto riguarda gli obiettivi- la nuova PAC sembra
volersi porre nella direzione del sostegno sia al reddito sia ai beni pubblici che gli agricoltori forniscono alla collettività, privilegiando così
quei soggetti imprenditoriali orientati al mercato e operanti sul territorio che, pure mediante forme di aggregazione ed integrazione, in
modo professionale creano reddito e producono alimenti per la società.
(33) Sul versante delle trattative per la revisione delle proposte di riforma, gli Stati membri, le istituzioni ed i portatori di interesse hanno
puntato alla semplificazione, considerato che la individuazione ed il riconoscimento di un agricoltore come attivo presupporrebbe -alla
luce delle proposte di riforma- l’effettuazione di controlli sul livello degli aiuti percepiti e l’incrocio di questo dato con quello dei redditi
complessivi, con complicazioni di non poco conto.
(34) Stante che, in Italia, l’88,5% dei beneficiari riceve meno di 5.000 euro di pagamenti diretti, la deroga fino a questo importo consente, di fatto, alla maggior parte degli agricoltori part-time o pensionati di non restare esclusi. Qualche caso di esclusione potrebbe riguardare gli agricoltori con aziende di medio-grandi dimensioni (superiori ai 15-20 ettari) che potrebbero avere un reddito dominicale e agrario inferiore al 5% dei redditi totali. E’ questo il caso degli agricoltori part-time (professionisti, imprenditori) che percepiscono elevati redditi da altre attività economiche anche se, costituendo una società agricola, potrebbero rimediare e rientrare tra i beneficiari.
Gli unici che resteranno realmente esclusi sono gli enti non agricoli come scuole, campeggi, aeroporti, circoli sportivi e ferrovie che,
disponendo di superfici ammissibili, erano diventati beneficiari della PAC soprattutto nei paesi del Nord Europa che avevano adottato la
regionalizzazione dal 2005.
(35) Anche la Corte dei Conti UE, in un parere ufficiale (1/2012) illustrato a fine aprile al Parlamento europeo, ha formulato profonde riserve sulla circostanza che la riforma della PAC post 2013 possa consentire di raggiungere gli obiettivi annunciati, soprattutto in termini di
semplificazione e riduzione dei costi amministrativi. La magistratura contabile europea ha sottolineato la riproposizione del problema
emerso fin dai primi anni di applicazione del disaccoppiamento e concretantesi nella non sempre felice destinazione degli aiuti agricoli
che, sganciati dalla produzione, molte volte finiscono per perdere qualsivoglia legame con l’attività agricola stessa. E’ emerso, infatti, a
titolo esemplificativo, come sia stato eseguito, pur in assenza di elementi comprovanti l’effettivo svolgimento di un’attività agricola, un
pagamento non giustificato in favore di una società a responsabilità limitata di proprietà di un’amministrazione locale per oltre 530 ettari di terreni destinati a prato e a pascolo. La stessa Corte dei conti europea, anni fa, denunciò -in fase di ricognizione- addirittura l’erogazione di aiuti Pac a favore di scarpate ferroviarie, circoli di equitazione e campi da golf.
(36) Potrebbero rischiare di perdere la qualifica di agricoltore attivo e, dunque, i sussidi, quei soggetti per cui l’attività agricola è diventata talmente marginale da far sì che gli aiuti costituiscano meno del 5% del reddito globale, a prescindere da come venga condotta l’azienda. Pur potendo i proventi derivanti dall’attività agricola costituire una minima parte del reddito di un imprenditore, questo, comunque,
non proverebbe che quell’attività non venga svolta correttamente, contribuendo concretamente alla produzione. Rischierebbero di perdere i benefici anche coloro i quali, dedicandosi alla trasformazione ed alla commercializzazione dei loro prodotti, sono riusciti a ridurre
a meno del 5% del loro reddito globale il peso degli aiuti, ovvero proprio gli agricoltori più attivi e meritevoli di tutti. Anche in questo caso,
comunque, sarà facile risolvere il problema, ricorrendo a prestanome o intestando l’azienda a familiari inoccupati.
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di una certa quantità di risorse (seppur minime, considerato che i pagamenti di base sono sempre più bassi e irrilevanti tanto da avere una scarsissima incidenza sulle dinamiche economiche reali).
Rispetto alle proposte di riforma37, dunque, si potrebbero
ipotizzare criteri migliori e più selettivi da definire -in virtù
del principio di sussidiarietà- a livello nazionale38, pur se
entro i più generali parametri fissati in ambito europeo, al
fine di potere concretamente distinguere chi vive di agricoltura, facendone la propria attività professionale ed assumendosi il rischio di impresa, e chi, invece, si trova a possedere terreni come elemento meramente collaterale della
propria esistenza. Nella prospettiva della flessibilità e,
stante la forte differenziazione delle normative europee,
non si può non demandare tale definizione agli Stati membri39 che potranno adattarla alle singole realtà territoriali ed
alle proprie specificità40 (magari ispirandosi a criteri già esistenti e condivisi, quali quelli che, in Italia, individuano lo
Iap). In questa direzione, si ricorda, si era già orientato il
legislatore europeo che, con l’art. 28 del regolamento CE
n. 73/2009 sui requisiti minimi per il percepimento degli
aiuti diretti, aveva riconosciuto ai singoli Stati membri la
possibilità di stabilire adeguati criteri oggettivi e non discriminatori41 per garantire che non venissero concessi pagamenti diretti a una persona fisica o giuridica le cui attività
agricole costituissero solo una parte irrilevante delle sue
iniziative economiche globali o la cui attività principale o il
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cui obiettivo sociale non fosse l’esercizio di un’attività agricola.
Altra soluzione per definire la platea degli agricoltori attivi
potrebbe essere quella di eliminare la deroga per i soggetti
al di sotto dei 5.000 euro di aiuti o magari lasciarla solo per
la montagna, e aumentare la percentuale degli aiuti sul
reddito complessivo. E ciò, fermo restando che qualunque
proposta selettiva, anche se sostenuta da motivazioni convincenti, innescherà sempre forti resistenze rivolte al mantenimento dello status quo.
Ad ogni buon conto, in attesa di una definizione più chiara,
gli agricoltori attivi non possono che essere imprenditori
operosi, professionali42 e dotati di specifiche conoscenze, la
cui attività debba -comunque- consistere in un facere e che
siano capaci -nell’ottica di un’agricoltura competitiva- di promuovere e sviluppare le zone rurali dedicandosi alla produzione di alimenti ma anche di beni e servizi pubblici ambientali (tutela del paesaggio, salvaguardia della biodiversità,
stabilità del clima, etc.). Senza volere prescindere dalle innumerevoli incertezze che ruotano intorno alla individuazione degli active farmers, questi ultimi potrebbero così aggiungersi al capitolo delle qualifiche soggettive43 degli imprenditori agricoli individuate nel corso del tempo, anche in funzione delle misure di sostegno europee previste in loro favore.
Ulteriore requisito necessario per potere accedere all’assegnazione dei titoli della Pac post 2013 e per ricevere i pagamenti è l’avvio, nel 201144, di almeno un titolo all’aiuto,
(37) L’idea è una lista “al negativo” (da redigersi a cura di ogni singolo Stato membro) ovvero un elenco delle caratteristiche che permetterebbero di escludere un produttore dall’essere considerato attivo e, di conseguenza, beneficiario degli aiuti. In questa direzione, l’onere della prova ricadrebbe sullo stesso imprenditore, chiamato così a dimostrare di essere un vero e proprio agricoltore; il che permetterebbe agli Stati di liberarsi dai costi connessi all’onere della prova, trasferendoli in capo ai potenziali beneficiari. Sono esclusi dai pagamenti diretti, una lista “nera” di soggetti quali: aeroporti, servizi ferroviari, opere idrauliche, servizi immobiliari, terreni sportivi e aree
ricreative permanenti. Gli Stati membri potranno ampliare la lista nera aggiungendovi altre attività economiche, con la conseguenza di
una notevole flessibilità nell’individuazione del concetto di “agricoltore attivo” ovvero dei soggetti cui spettano i pagamenti diretti.
(38) Tra i tanti criteri proposti e ritenuti plausibili, la residenza presso l’azienda agricola o la presenza di macchine agricole non sono stati
ritenuti sufficienti e/o pertinenti; parimenti, hanno incontrato non poche resistenze, soprattutto dal punto di vista dei controlli, il quantitativo minimo di ore di lavoro per definire un’attività agricola (che, peraltro, secondo la proposta iniziale della Commissione Europea,
saranno i governi nazionali a dovere indicare), nonché il capitale investito e l’esperienza pratica.
(39) In Italia (ma, non solo), non esiste -ad oggi- una normativa nazionale esplicita che riconosca il diritto di pagamento a coloro il cui
principale interesse è l’attività agricola e che sostengono il rischio economico delle iniziative svolte sul terreno dichiarato, privilegiando
-piuttosto- i proprietari fondiari che possiedono ettari ammissibili all’aiuto.
(40) La diversità economica di ciascuno Stato membro deve essere presa in considerazione anche per ciò che attiene alla redistribuzione delle risorse finanziarie che deve essere progressiva, limitata e non deve rompere gli equilibri interni all’UE.
(41) Opzione questa che, però, come è ben noto, non è stata mai applicata a livello nazionale poiché gli ampi dibattiti si sono conclusi
nel senso che era troppo complicato individuare un criterio (partita IVA, iscrizione all’INPS o altro) che potesse accontentare tutti e assicurare una più efficiente allocazione degli aiuti UE.
F. Adornato, La Politica agricola comune verso il 2020:tra mercati globali e sistemi territoriali, cit., p. 10, rileva che il criterio della superficie per la ripartizione degli aiuti è fortemente penalizzante e che altri parametri di riferimento potrebbero essere, tra gli altri, quello del
lavoro, del valore aggiunto, del contributo ambientale delle coltivazioni, degli investimenti, delle innovazioni e della ricerca.
(42) Nel nostro Paese, l’agricoltore attivo è l’imprenditore agricolo professionale, singolo o associato, nelle forme individuate dalla normativa nazionale vigente sulla base della incidenza sia del tempo dedicato al lavoro agricolo sul lavoro complessivo sia del reddito agricolo sul reddito totale da lavoro. Su tale figura imprenditoriale, v. A. Jannarelli, Commento all’art. 1 d.lgs. 99/2004, in Le nuove leggi civili commentate, 2004, p. 858-870.
(43) Sul tema, v. E. Casadei, Le qualifiche soggettive, in Trattato breve di diritto agrario italiano e comunitario, diretto da L. Costato, 3^
ed., Padova, 2003, p. 229-236; L. Costato, Qualifiche soggettive e riformismo legislativo, in Riv. dir. agr., I, 2004, p. 485.
(44) Un proprietario che ha affittato terra e titoli nel 2011 e non ha attivato nemmeno un titolo nel 2011, secondo la proposta di regolamento, non avrà accesso ai nuovi titoli nel 2015.
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per evitare che coloro i quali abbiano in questi anni esercitato solo la funzione di proprietari terrieri possano essere
incoraggiati a diventare agricoltori nel 2015, al fine di essere così ritenuti beneficiari del regime di sostegno. I nuovi titoli all’aiuto relativi al pagamento di base saranno poi assegnati in relazione al numero di ettari ammissibili posseduti
dal beneficiario al 15 maggio 2015, in quanto fino a quella
data i titoli saranno ininfluenti ai fini della nuova PAC45.
In considerazione della perdita nell’ultimo decennio di circa
tre milioni di aziende agricole “vere e proprie” nel territorio
dell’Unione, la strategia di crescita della PAC post 2013 ha
inteso puntare, oltre che sugli actives farmers, anche sui
giovani imprenditori che possono rappresentare un elemento fondamentale per il rilancio dell’agricoltura e del settore agroalimentare. Le proposte per la PAC del futuro prevedono, nell’ambito del primo pilastro, di destinare parte
dei pagamenti diretti ai soggetti di età inferiore ai 40 anni
che per la prima volta si insediano in agricoltura46 e che,
dunque, hanno esigenze di liquidità più pressanti. Ma non
solo, poiché -anche nel quadro dei programmi per lo sviluppo rurale- è contemplato come nei singoli Psr regionali
possa essere previsto un sotto-programma specifico per i
giovani agricoltori47, con aumento dei sostegni in loro favore e/o del livello di cofinanziamento di parte comunitaria.
Per quanto l’interesse dimostrato dalla Commissione per
gli agricoltori di età inferiore ai 40 anni rappresenti certamente un dato positivo, tuttavia, probabilmente, la nuova
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PAC, muovendo dagli innumerevoli benefici effetti che la
loro presenza può rappresentare per un’agricoltura più
competitiva, anziché limitarsi ad una serie di misure specifiche, dovrebbe -piuttosto- orientarsi a riconoscere loro una
priorità di accesso (legata all’età e non solo al primo insediamento) a tutte le misure di aiuto. Una politica realmente
interessata alle giovani imprese non può, invero, interessarsi esclusivamente della fase dell’insediamento, dovendo intervenire con un sostegno concreto nell’intero percorso imprenditoriale (dagli investimenti alla formazione, all’innovazione, alla qualità, all’aggregazione di filiera). Ma non
solo, si ha l’impressione che il modesto pagamento ad hoc
previsto nel primo pilastro non possa risultare determinante per un giovane che voglia accostarsi all’agricoltura e/o
incidere in maniera significativa sulla redditività della potenziale attività agricola. La sensazione è che questo aiuto
costituisca solo un rafforzamento -peraltro, di entità piuttosto limitata- del contributo di primo insediamento di cui al
secondo pilastro, con la conseguenza che, probabilmente,
solo incrementando il valore del beneficio, la misura potrebbe acquistare una più concreta efficacia.
La Commissione ha, altresì, proposto di concedere un contributo fisso, non subordinato alle regole di condotta ambientale, ai piccoli produttori48; il che potrebbe indurre alla
facile critica che questa misura possa in qualche modo incentivare a restare piccoli, con il rischio di agevolare il proliferare di micro-appezzamenti di terra che, peraltro, po-
(45) F. De Filippis –A. Frascarelli, Il nuovo regime dei pagamenti diretti, in F. De Filippis (a cura di), La nuova Pac 2014-2020. Un’analisi
delle proposte della Commissione, cit., p. 36, osservano sul punto che questo ha consentito di sbloccare il mercato degli affitti per questi due anni (2012-2013), esaminando sul punto varie possibilità. Una ipotesi che non crea alcun problema è quella di un proprietario
puro che, avendo nel 2011 affittato tutti i suoi terreni, non avrà accesso all’assegnazione dei nuovi titoli, potendo così continuare ad affittare i suoi terreni, senza che la nuova PAC eserciti alcuna influenza nei suoi confronti.
Un proprietario “misto” che nel 2011 abbia in parte coltivato i suoi terreni e in parte li abbia affittati, se ha presentato la domanda unica in
questo anno, avrà accesso all’assegnazione dei nuovi titoli per la parte dei terreni che ha coltivato, senza avere poi alcun interesse ad affittare i propri terreni per potere disporre nel 2015 del numero massimo di ettari ammissibili. Un terzo caso riguarda la situazione di stallo che
si potrebbe verificare anche nella compravendita dei terreni, da parte di un proprietario “misto”: egli, infatti, potrebbe avere interesse a rinviare la transazione, per attendere l’assegnazione dei nuovi titoli e vendere, successivamente, terra e titoli. Un ragionamento analogo
potrebbe essere fatto dal proprietario che abbia intenzione di affittare i terreni nel 2015 o prima; anche in questo caso il proprietario potrebbe avere interesse a rinviare l’affitto, per attendere l’assegnazione dei nuovi titoli, in modo da affittare, successivamente, terra e titoli.
Per evitare la situazione di stallo, coloro che hanno i requisiti per l’assegnazione dei titoli, potrebbero trasferire il conseguente diritto a
ricevere i titoli all’aiuto ad un altro agricoltore, attraverso un contratto firmato anteriormente al 15 maggio 2015. In altre parole, chi ha
diritto a ricevere i titoli nel 2015, perché ha fatto la domanda nel 2011, potrebbe trasferire il suo diritto, ovvero il suo status, ad un altro
agricoltore. Così chi affitta o compra un terreno prima del 2015 potrebbe acquisire anche questo status, in modo da poter fare egli stesso la domanda di assegnazione dei titoli nel 2015, pur non avendo attivato un titolo nel 2011.
(46) La riforma ha ritenuto indispensabile il sostegno ai giovani in agricoltura soprattutto in un settore dove circa il 7% dei lavoratori ha
meno di 40 anni. La proposta è -in questa ottica- di integrare il pagamento di base accordato ai giovani al loro primo insediamento da
un ulteriore contributo del 25% per i primi cinque anni di attività. Il detto finanziamento proverrà fino al 2% dalla dotazione nazionale e
sarà obbligatorio per tutti gli Stati membri. Questo incentivo si aggiunge alle altre misure a disposizione dei giovani agricoltori nel quadro dei programmi di sviluppo rurale.
(47) All’interno del sottoprogramma per i giovani possono essere indicativamente previsti contributi per investimenti materiali, per azioni
di trasferimento di conoscenze e/o di informazione, per servizi di consulenza, di sostituzione, di assistenza alla gestione dell’azienda,
per investimenti in attività extra agricole. Inoltre, è contemplata l’inclusione di sostegni ad iniziative di cooperazione (tra due o più soggetti della filiera, e non solo agricoli, organizzazioni di produttori e interprofessionali, strutture di collaborazione a rete, gruppi di partenariato europeo), attraverso cui i giovani potrebbero promuovere e realizzare progetti per l’innovazione, la produttività e la sostenibilità.
(48) Gli Stati -probabilmente, utilizzando fino al 10% del massimale nazionale annuale- finanzieranno un pagamento annuale per i piccoli agricoltori che detengano titoli all’aiuto assegnati nel 2015 e che, entro il 15 ottobre dello stesso anno, chiedano di partecipare al suddetto regime semplificato che, peraltro, sostituisce tutti i pagamenti diretti. L’importo massimo dell’aiuto sarà da 500 € a 1.250 € annui.
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trebbero essere posseduti non da veri agricoltori. Tale contributo fisso, al contrario, dovrebbe servire per fare crescere le piccole aziende ed essere erogato, dunque, solo in
presenza di chi realmente si dedica all’attività agricola, anche part-time.
La valorizzazione degli operatori agricoli è una strategia indispensabile poiché, senza imprese agricole “vere” e vitali,
il rischio è la drastica riduzione di attività produttive, di produzioni di qualità (e, dunque, meno industria alimentare),
di attività di servizio, pure di natura ambientale, nonché
dello sviluppo rurale.
3.- (segue) Differenziazione della produzione e consolidato
ruolo dell’impresa aggregata nel sistema agroalimentare
In questo momento storico caratterizzato da una forte volatilità dei mercati e da una notevole concorrenza sull’offerta
delle materie prime, l’agricoltore è l’anello debole della filiera. Le imprese agricole raramente riescono ad acquisire
una consistente quota di mercato e ad influire sul prezzo
dei prodotti a differenza di quelle di trasformazione e di distribuzione che, viceversa, detengono un maggiore potere
economico. Il che è imputabile al carattere fortemente concorrenziale del settore agricolo in cui realtà aziendali dalle
dimensioni molto ridotte non riescono a mantenere al loro
interno i vantaggi di efficienza derivanti dallo svolgimento
dell’attività primaria, trasferiti prevalentemente al settore
della distribuzione che incamera la quota maggiore del
prezzo finale del prodotto alimentare. Gli addetti alla distribuzione, anche attraverso la capacità di elaborare elementi
volti a prevedere e comprendere il comportamento dei consumatori, di cui si tende a pilotarne gli orientamenti, riescono -infatti- a lucrare direttamente gli aumenti dei prezzi ed
a dislocare le eventuali flessioni al settore dell’industria ma
ancor di più a quello agricolo che è il più a monte della filiera. Il mancato ammodernamento per decenni delle strutture aziendali49 ha giocato poi un ruolo decisamente critico,
in quanto solo le imprese di più grandi dimensioni e più or-
19
ganizzate hanno la forza economica per ricercare nuove
opportunità competitive, per adottare innovazioni tecnologiche e per inserirsi, attraverso efficaci strategie produttive,
nelle filiere agroalimentari, con una progressiva diminuzione dei costi di transazione interni.
Stante la fisiologica debolezza strutturale dei produttori
della materia prima agricola, questi hanno tentato nel tempo di elaborare ed adottare nuove strategie di filiera tra cui
la differenziazione dei prodotti e la concentrazione dell’offerta, al fine di conseguire un maggior potere di mercato50 e
di partecipare così in maniera consistente e non più marginale alla creazione della catena del valore.
Il sistema agroalimentare ha, per l’appunto, basato le proprie capacità competitive prevalentemente sulle produzioni
tradizionali, tipiche e di qualità che, pur costituendo una
strategia imprescindibile per le imprese agricole, non trovano sul mercato il giusto riconoscimento economico. Attraverso gli strumenti di garanzia della qualità il produttore ha
realmente la possibilità di segmentare il mercato alimentare, differenziando i prodotti (perché biologici o legati ad
una specifica origine geografica) da quelli di massa, accrescendone il valore aggiunto. E’ pur vero, però, che i sistemi
per trasferire le informazioni sulla qualità al consumatore
(rintracciabilità, certificazione, etichettatura) e di effettuare,
dunque, scelte coerenti con le loro esigenze, rappresentano servizi ed attività ulteriori che si traducono inevitabilmente in costi51 e conseguenti aumenti del prezzo dei prodotti che finiscono per incidere, per un verso, sul produttore, e, per altro, sul consumatore, anelli rispettivamente iniziale e finale della filiera oltre che i più deboli.
La differenziazione del prodotto, pur essendo praticamente
necessaria, non è -evidentemente- condizione sufficiente
per accrescere il potere di mercato degli operatori agricoli,
non garantendo loro una adeguata remunerazione a favore
-in particolare- della grande distribuzione organizzata. I
vantaggi della garanzia di qualità potranno restare internalizzati solo se i produttori agricoli provvederanno ad associarsi per concentrare la loro offerta allo scopo di controllare il prezzo di uno o più prodotti, controbilanciando il potere
(49) E. Montresor, L’impresa aggregata: una risposta ai problemi dell’agricoltura italiana, in Agriregionieuropa, n. 8, anno 3 (2007), osserva che le strutture aziendali non sono state ammodernate per molteplici ragioni: per la mancanza di norme in materia di successione
ereditaria che tengano conto delle specificità delle aziende agricole; per insufficienti prospettive occupazionali e di reddito per i giovani;
per le elevate quotazioni dei terreni nel mercato fondiario che impediscono l’ampliamento delle superfici attraverso l’acquisto o l’affitto.
Ed ancora, per l’impatto fortemente protezionistico delle politiche comunitarie che spesso hanno determinato “la ricerca di flessibilità nell’utilizzazione del capitale umano (pluriattività) e nell’organizzazione dei processi produttivi (contoterzismo)”.
(50) A. Frascarelli, Differenziazione, tutela della qualità e concentrazione dell’offerta: come riprendersi il valore, in Agriregionieuropa, n.
15, anno 4 (2008), specifica, alla nota 2, che il potere di mercato indica la capacità di un’impresa di controllare il prezzo di uno o più prodotti in un determinato mercato. G. Zucchi, Produzioni tipiche e sviluppo, in Agriregionieuropa, n. 15, anno 4 (2008), spiega lo stesso
concetto nei seguenti termini: “creare condizioni di mercato imperfetto attraverso diversificazioni di processo e di prodotto, non facilmente imitabili, che possano conseguire prezzi migliori per realizzare differenziali assimilabili al concetto di quasi rendita o, addirittura, di
rendita”.
(51) Le imprese agricole devono tentare di perseguire nel medio e lungo termine, soprattutto nel caso di produzione di materie prime o
prodotti scarsamente differenziabili, una strategia di leadership che consenta loro di competere sulla base dei costi di produzione (e/o
di trasformazione) dei loro prodotti. Secondo M. E. Porter, Il vantaggio competitivo, Edizioni di Comunità, Milano, 1993, passim, una
impresa può competere seguendo una strategia di leadership dei costi, o incentrandosi sulla differenziazione dei prodotti oppure sviluppando una delle due, ma rispetto a un solo segmento di mercato piuttosto che per tutto il mercato.
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di mercato degli acquirenti nonché per ridurre i costi di informazione e di certificazione cui si è fatto pocanzi riferimento. L’aggregazione delle imprese rappresenta, pertanto, la risposta più rapida ed efficace, sia sotto il profilo tecnico che economico, ai problemi strutturali delle aziende
agricole per lo sviluppo di nuove strategie orientate alla
competitività52. L’aggregazione può svolgersi secondo modalità diverse ed interessare, ad esempio, solo alcuni ambiti dell’azienda (produzione, trasformazione, commercializzazione o anche esclusivamente condivisione di alcune
idee imprenditoriali) oppure assumere configurazioni più
articolate; può realizzarsi in maniera più o meno strutturata
(accordi scritti, collaborazioni, fusioni53 e in diverse forme
giuridiche che vanno dalla società agricola semplice a
quella per azioni, ferma restando -in ogni caso- una netta
separazione tra gli aspetti di tipo patrimoniale, che restano
alle singole aziende, e l’attività d’impresa che fa capo alla
nuova società costituita o all’accordo siglato.
Nel settore agricolo -oggi più che in passato- si rivelano
sempre più indispensabili forme efficaci di concentrazione
dell’offerta e/o di coordinamento orizzontale e verticale che
risultano, peraltro, essere funzionali alla strategia della dif-
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ferenziazione dei prodotti nell’ottica di una maggiore competitività delle imprese. Invero, se i marchi sono dei trasformatori o dei distributori, è conveniente lo sviluppo di un
adeguato coordinamento verticale, risultando parimenti utile -al fine di contrastarne il potere contrattuale- anche forme di coordinamento orizzontale dei produttori. A maggior
ragione, nelle produzioni DOP e IGP, sono indispensabili
strutture di stretta cooperazione per impostare e gestire
con esiti positivi le fasi della commercializzazione. Infatti, è
proprio in questo momento che si registrano gravi carenze
strutturali, stante che quasi mai le imprese di trasformazione hanno dimensioni tali54 e/o risorse sufficienti per potere
gestire con successo e continuità una efficace politica di
vendita, pure sui mercati esteri.
In particolare, se la competizione si basa essenzialmente
sui prezzi, è al contenimento di questi ultimi che deve essere preordinata una efficiente cooperazione non solo aziendale ma a livello di filiera. Le imprese di un determinato
comparto e territorio sono chiamate tutte insieme a sviluppare le possibili sinergie per perseguire dimensioni di scala
idonee a contenere il più possibile i prezzi55 dei fattori di produzione e dei servizi, riducendo contestualmente i costi56.
(52) Lo sviluppo di un modello aggregato consentirebbe non solo la crescita dimensionale delle aziende (incompiuta in Italia, nonostante i numerosi interventi di riordino fondiario), ma, soprattutto, la crescita imprenditoriale dei produttori ai quali offre molteplici vantaggi
come, ad esempio, una maggiore capacità di diversificare, di innovare e di entrare in nuovi mercati; una efficiente organizzazione della
manodopera; un aumento della redditività e dei fatturati con riduzione dei costi di produzione; una propensione dei figli a rimanere in
azienda. L’aggregazione con finalità esterna persegue l’obiettivo di realizzare il controllo diretto del proprio mercato di riferimento, attraverso -ad esempio- la trasformazione della produzione agricola e l’accorciamento della filiera. Quella con finalità interna tende, invece,
solo al raggiungimento di una maggiore efficienza, tecnica ed economica, dei processi interni (migliore organizzazione del lavoro, gestione più efficiente dei rapporti con i fornitori).
(53) Normalmente, gli accordi scritti sono utilizzati per aggregare singole attività o processi di entità limitata, come, ad esempio, la gestione
comune di mezzi meccanici, l’acquisto di mezzi tecnici, l’impianto e la gestione di nuove coltivazioni. Le collaborazioni tra imprese agricole
si realizzano, invece, con la creazione di una nuova società o di un consorzio che si affianca alle singole aziende per lo svolgimento di determinate attività quali la trasformazione, la commercializzazione, la realizzazione di servizi, la valorizzazione. In tal caso, le singole aziende
mantengono pienamente la loro autonomia economica e giuridica, rimanendo verso gli interlocutori esterni referenti per tutte le attività, tranne che per quelle specifiche confluite nell’aggregazione. Infine, le fusioni si realizzano con la creazione di una nuova società che sostituisce
le singole imprese agricole, sia giuridicamente che economicamente, determinando una integrazione completa per cui tutti i processi decisionali sono devoluti alla società la quale diventa l’unico referente nei confronti di tutti i soggetti interlocutori terzi (privati e pubblici).
(54) Le dimensioni ridotte delle imprese possono rappresentare, per un verso, un punto di forza per il controllo attento della qualità delle
produzioni; per altro, invece, un punto di debolezza nello svolgimento della fase a valle della produzione, determinante -però- per il successo dell’intera filiera.
(55) F. Pecci, Conoscere come si formano i prezzi nella catena alimentare, in Agriregionieuropa, n. 27, anno 7 (2011), specifica come non
sia agevole la formazione dei prezzi nella catena alimentare, trattandosi di un meccanismo complesso che dipende da fattori diversi: le
specificità intrinseche dei prodotti (conservabilità, deperibilità, stagionalità) che ne condizionano l’offerta, la struttura del mercato (il grado
di concorrenzialità presente in ogni fase della catena e il numero di intermediari), così come l’impatto delle politiche pubbliche in atto.
(56) A. Zaghi – P. Bono, La distribuzione del valore nella Filiera agroalimentare italiana, in Agriregionieuropa, n. 27, anno 7 (2011), fanno
rilevare come contribuiscano in maniera rilevante alla formazione dei prezzi alimentari al consumo anche i costi sostenuti dagli attori della
filiera agroalimentare nel reperire i beni e servizi offerti da attori esterni. Si tratta, ad esempio, di operatori che svolgono funzioni relative
alla fornitura di mezzi tecnici per l’agricoltura; additivi; ingredienti e preparati per l’industria alimentare; energia elettrica e altri servizi
(acqua, gas); tecnologie e beni strumentali (macchinari); servizi di trasporto e/o altri servizi (comunicazione, promozione, consulenziali,
certificazioni, etc). Altro attore esterno è la pubblica amministrazione che, a fronte dei servizi offerti (infrastrutture, sicurezza, giustizia etc.)
costituisce un costo per la filiera agroalimentare (imposte dirette e indirette) che, ovviamente, finisce con il riflettersi sul prezzo finale dei
prodotti alimentari. Peraltro, sottolineano gli Autori, è proprio con riferimento a quest’ultimo attore esterno che si evidenziano le principali criticità come nel caso del sistema infrastrutturale, con costi chilometrici in Italia sensibilmente più elevati di quelli dei principali Paesi
UE o sul fronte energetico, con un costo italiano dell’energia elettrica ad uso industriale superiore del 36% alla media europea. Un recupero di efficienza su tale fronte si tradurrebbe, quindi, in una riduzione dei costi esterni sostenuti dalle imprese dell’agroalimentare.
In concreto, una maggiore efficienza nei costi esterni ed interni delle imprese della filiera agroalimentare e nell’ambiente competitivo in
cui operano potrebbe liberare risorse in grado sia di ridurre i prezzi al consumo sia di sostenere i ridotti utili degli operatori.
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Ma, oltre alla necessaria politica dei prezzi, la concentrazione dell’offerta deve contemplare anche le strategie di marketing dipendenti da molteplici fattori quali le condizioni socioeconomiche, l’evoluzione della domanda, la segmentazione
del mercato. La commercializzazione dei prodotti di qualità
dipende, ad esempio, dalla peculiarità di un determinato territorio, dalle dimensioni dell’offerta, dalle caratteristiche di
clienti potenziali. Prodotti in quantità limitate potrebbero, invero, essere collocati sul mercato con la sola vendita diretta57; altri necessitano di un aumento delle quantità vendute e,
dunque, mirano ad un allargamento dei mercati e conseguentemente di una adeguata organizzazione commerciale
(grossisti, distributori, esportatori, uffici di rappresentanza).
Altri, ancora, hanno bisogno di restare ancorati al consumo
locale poiché la vendita fuori dal territorio necessiterebbe di
una promozione che non potrebbe essere affidata alla singola impresa ma che dovrebbe essere di competenza pubblica
al fine di sfruttare i vantaggi della reputazione collettiva58.
L’attuale indirizzo strategico della PAC post 2013 è volto a favorire lo sviluppo delle OP in tutti i settori produttivi, per cui gli
agricoltori, a qualunque filiera appartengano, dovrebbero potersi riunire in strutture aggregate perché sia favorita una migliore ripartizione del guadagno all’interno della catena di produzione. Sembra possa trattarsi dello strumento più adeguato
21
per rafforzare il potere contrattuale degli operatori agricoli
lungo la filiera, tanto è vero che le dette organizzazioni dovrebbero essere sostenute con un impegno finanziario non
solo in fase di costituzione ma anche nel corso della loro gestione, con conseguente necessaria previsione di una programmazione nazionale in tal senso. Tuttavia, questo non
può essere certamente sufficiente per risolvere i problemi che
si presentano all’interno della filiera e che ancora si pretende
possano essere disciplinati dalle regole generali in materia di
concorrenza, quando -viceversa- appare ovvio che in agricoltura non sempre possono trovare applicazione i principi di carattere generale. Non può -infatti- considerarsi corretta quella
dinamica di concorrenza in cui si trovano a confrontarsi centinaia di migliaia di agricoltori con poche centinaia di soggetti
acquirenti sul mercato. Probabilmente, i rapporti all’interno
della filiera e il problema dell’aggregazione dell’offerta non
avrebbero dovuto essere affrontati con misure di sostegno,
bensì attraverso la modifica della regolamentazione esistente
che, peraltro, non avrebbe comportato neanche costi di bilancio. Il mutamento del contesto normativo a livello comunitario
avrebbe potuto rappresentare l’occasione per adeguare anche le leggi nazionali59 e, più in generale, per mettere in atto
azioni tali da favorire una nuova e più efficace organizzazione60 nell’ambito della filiera agroindustriale.
(57) La filiera corta o circuito breve, oltre a ridurre drasticamente i costi delle intermediazioni, riconosce –per un verso- agli agricoltori la
possibilità di assegnare il giusto prezzo alle produzioni; per altro, consente ai consumatori di soddisfare la crescente domanda di prodotti agroalimentari naturali e di elevata qualità, con una convenienza maggiore rispetto ai canali tradizionali e con un impatto minore
sull’ambiente.
(58) G. Belletti – A. Marescotti, Approcci alternativi per la regolazione e la tutela dei nomi geografici: reputazioni collettive e interesse pubblico, in Agriregionieuropa, n. 15, anno 4 (2008).
(59) Occorre ricordare che, sull’argomento, esistono sostanziali differenze tra le norme europee e quelle nazionali. Nella legislazione
europea, ad esempio, mancano le organizzazioni comuni e di unioni tra OP, le quali sono, invece, disciplinate nella normativa nazionale. A tale riguardo, l’OCM unica prevede l’istituzione della AOP per i settori dell’ortofrutta e del latte; tra AOP e OP non c’è una gerarchia
di ruoli, ma si stabilisce una relazione di sinergia: l’AOP svolge gli stessi compiti della OP, procedendo in tal senso allorquando ciò risulti conveniente, perché lo svolgimento in forma aggregata garantisce risultati superiori a quelli che sarebbero stati conseguiti qualora le
azioni fossero state svolte da un’unica OP. Nella legislazione italiana, invece, l’aggregazione delle OP in OC comporta una separazione ed una graduatoria di ruoli, esercitando, le seconde, funzioni di ordine superiore che generalmente le singole OP non sono in grado
di implementare. In particolare, si ricordano quella di coordinare le attività delle OP, di svolgere la rappresentanza con le istituzioni nazionali ed europee, di promuovere e realizzare servizi per il miglioramento qualitativo e per la valorizzazione del prodotto, di creare società di servizi per azioni di supporto alle Op socie.
Una seconda rilevante distinzione riguarda l’obbligo di commercializzazione. Nel nostro Paese, le OP sono riconosciute come tali solo
quando commercializzano direttamente il prodotto dei soci, pur sussistendo qualche circoscritta eccezione, in virtù della quale è ammesso che il produttore agricolo possa vendere in proprio una parte minoritaria della produzione ottenuta. Nell’Unione europea, invece, l’eccezione è l’obbligo della commercializzazione da parte dell’OP ed è prevista esclusivamente per il settore ortofrutticolo.
Ragione questa che ha determinato la necessità di introdurre in Italia la nuova figura della OP non commerciale in occasione dell’applicazione del pacchetto latte. Le nuove disposizioni specifiche introdotte nel 2012 per tale settore stabiliscono che una “organizzazione
di produttori può negoziare, a nome degli agricoltori aderenti, per la totalità o una parte della loro produzione congiunta, i contratti per
la consegna di latte crudo da parte di un agricoltore ad un trasformatore” (articolo 126 quater).
Altra differenza è che, al momento, la legislazione europea è di tipo verticale, tendendo ad assecondare le specificità settoriali; mentre,
quella nazionale ha natura orizzontale e si applica in maniera indistinta a tutti i diversi settori di attività. Il pacchetto di riforme della PAC
in discussione sta procedendo verso l’attenuazione di questa differenza, nel senso che anche al livello europeo sta emergendo un
approccio che ignora le specificità settoriali.
Infine, la legislazione europea in materia di organizzazione economica è orientata al “cosa fare”, limitandosi ad elencare le funzioni delle
OP, come la pianificazione della produzione, la stabilizzazione dei prezzi, le azioni per preservare e migliorare l’ambiente, le misure per
valorizzare la qualità. Quella nazionale tende, invece, ad occuparsi pure del “come fare”, prevedendo, ad esempio, rigidi strumenti come
le intese di filiera, i contratti quadro, i contratti tipo: tutti dispositivi la cui concreta applicazione nella realtà dei rapporti contrattuali italiani degli ultimi anni è stata completamente disattesa.
(60) G. Petriccione – R. Solazzo, Le Organizzazioni dei produttori nell’agricoltura italiana, in Agriregionieuropa, n. 30, anno 8 (2012).
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Nella direzione di incentivare l’aggregazione tra imprese si
era già mosso il legislatore italiano con la emanazione,
dapprima, del d.lgs.vo 99/2004 e poi, nel 2005, del d.lgs.vo
n. 102, che ha dettato numerose semplificazioni per le organizzazioni di produttori61. Nonostante la normativa abbia
stabilito articolate regole per il riconoscimento ed il funzionamento di questi organismi economici, la formazione in
Italia di un sistema organizzato di operatori nel settore
agroalimentare non ha finora raggiunto i livelli auspicati.
Si potrebbe ipotizzare una revisione dell’attuale normativa
in materia con interventi tesi a rafforzare il ruolo delle Op
attraverso la previsione di nuove funzioni da assegnare loro, la possibilità di accedere a incentivi, nonché l’individuazione di criteri e modalità che tengano conto dei caratteri
specifici dei diversi settori produttivi. Parimenti, si renderebbe necessario prevedere interventi che, in linea con le
proposte del Parlamento europeo sull’Ocm unica attualmente in discussione, favoriscano la costituzione di Aop,
come strumento per raggiungere un’effettiva concentrazione della produzione, consentendo loro, però, di poter usufruire del principio dell’erga omnes, senza il quale non sarebbe possibile esercitare un reale governo dell’offerta.
Del resto, nella direzione di incrementare l’efficacia delle
azioni per rafforzare le misure di organizzazione e concentrazione produttiva si è orientato anche il Mipaaf che, con
l’approvazione della disciplina sulle relazioni commerciali
per la cessione dei prodotti agricoli e agroalimentari (articolo 62 del decreto sulle “Liberalizzazioni”62, ha tentato di
migliorare la trasparenza dei rapporti lungo la filiera, rendendo obbligatori i contratti scritti tra le singole parti. Il che
non può non implicare un’opportuna formalizzazione di tale
previsione nell’ambito degli accordi collettivi63 che le Op e
le Aop concludono, in rappresentanza dei propri associati,
con gli altri soggetti della filiera in un contesto di relazioni
di tipo interprofessionale, poiché -diversamente- l’efficacia
di tali strumenti rischierebbe di restare vanificata.
Oltre a regole ben congeniate, vi è la necessità di mettere
in campo delle misure di accompagnamento tali da creare
22
un clima favorevole per la nuova istituzione, l’evoluzione e
l’efficace operatività delle organizzazioni economiche in
campo agroalimentare. Si dovrebbe, in concreto, attivare
un iter politico e legislativo che, muovendo dall’analisi dell’esperienza degli ultimi anni e dall’individuazione delle
cause dell’insuccesso, consenta di mettere a fuoco limitate, ma incisive modifiche. Nell’attuare questo processo, sarebbe fondamentale servirsi concretamente dell’esperienza
di chi opera nella realtà del mercato agroalimentare e conosce le problematiche legate alla istituzione nonchè alla
quotidiana efficienza di una OP. Altre forme per modernizzare il funzionamento della filiera agroindustriale in Italia
ed emancipare il ruolo della componente agricola potrebbero essere, ad esempio, l’istituzione della figura di un mediatore tra agricoltori ed acquirenti, allorquando sorgano
conflitti; la predisposizione di contratti tipo che possano essere utilizzati nei diversi settori e nelle più svariate situazioni; una guida per le buone pratiche contrattuali da utilizzare
nella stesura degli accordi, da tenere in considerazione
nella gestione delle relazioni economiche e da impiegare
durante la fase di verifica del rispetto degli impegni presi;
l’istituzione di una commissione interprofessionale per le
pratiche contrattuali. Si tratta di opzioni tutte i cui possibili
vantaggi o meno potranno, comunque, essere effettivamente verificati solo a seguito di una consultazione ad ampio spettro dei soggetti privati e istituzionali coinvolti attivamente sull’intero territorio nazionale in funzione di una reale concentrazione dell’offerta.
4.- La responsabilità sociale (individuale e collettiva) dei
produttori agricoli anche in funzione della sicurezza degli
approvvigionamenti
E’ importante che gli agricoltori attivi, singoli e/o associati,
valorizzati dalla nuova PAC, si impegnino anche ad assumere -nell’esercizio concreto dell’attività agricola- un comportamento socialmente responsabile64, nella consapevo-
(61) Sull’argomento, v. L. Paoloni, Commento all’art. 6 d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99, in Le nuove leggi civ. comm., anno XXVII, n. 4,
Cedam, 2004, p. 912 e ss.
(62) Si tratta del Decreto Legge n. 1 del 2012, convertito in Legge n. 27 del 2012, nel quale trovano applicazione, nello specifico settore,
regole e princìpi già consolidati negli altri ambiti dei rapporti commerciali. Nella legge 17 dicembre 2012 n. 221 di conversione in legge,
con modificazioni, del decreto legge 18 ottobre 2012 n. 179, recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese con l’art. 36 bis
(Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione dei prodotti agricoli e agroalimentari ) è stato modificato il comma 1 dell’art.
62 nei termini seguenti: a) al primo periodo le parole “a pena di nullità “sono soppresse”; b) “l’ultimo periodo è soppresso”.
(63) L’accordo di giugno 2013 ha previsto che le Op saranno autorizzate a negoziare contratti collettivi di vendita a nome dei propri membri per i settori dell’olio d’oliva, dei seminativi, delle carni bovine e del latte (come già contemplato nel Pacchetto latte). Per queste contrattazioni, in alcuni casi, è prevista la deroga alle regole europee in materia di concorrenza; inoltre, la Commissione potrà autorizzare
le organizzazioni a gestire quantità del prodotto da immettere sul mercato in caso di crisi.
(64) Sul tema, v. Commissione delle Comunità Europee (2001) Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, COM(2001) 366 def., Bruxelles, dove la responsabilità sociale viene definita come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”;
Commissione delle Comunità Europee (2002), Comunicazione della commissione relativa alla “Responsabilità sociale delle imprese: un
contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile” COM(2002) 347 def.; Consiglio dell’Unione Europea (2002), Risoluzione del Consiglio
sul seguito da dare al libro Verde sulla responsabilità sociale delle imprese, GUCE n. 86 C del 10 aprile 2002, pp. 3-4. A distanza di
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lezza che il successo, oltre a fondarsi sul profitto, dipende
dalla capacità e volontà di promuovere modelli di sviluppo
sostenibili e compatibili, pure alla luce delle complesse relazioni che si vengono ad instaurare con gli altri operatori
della filiera (fornitori, lavoratori, investitori, istituzioni pubbliche, comunità locale, clienti), ciascuno portatore di autonomi interessi65.
Quello della responsabilità sociale è un tema quanto mai
trasversale, indeterminato sul piano giuridico e soggetto a
scelte dinamiche di individuazione degli obiettivi e degli
equilibri da raggiungere di difficile definizione.
Si tratta di un concetto maturato nel contesto di una società -come la nostra- che, per lungo tempo, non ha avuto
problemi di approvvigionamento delle risorse alimentari66.
In una visione tradizionale, dunque, è stato ed è considerato socialmente responsabile colui il quale persegue la qualità del prodotto e che tiene conto dell’impatto che il processo produttivo svolto potrebbe avere sull’ambiente e sulla collettività67; valori aggiunti questi che -ad oggi- sono
sempre più richiesti dai consumatori, consapevoli delle loro
scelte, soggetti attivi68 nel momento stesso in cui decidono
di informarsi e di controllare ciò che acquistano. E così,
l’impresa che voglia assumere una condotta socialmente
23
responsabile può, ad esempio, decidere volontariamente69
di adottare una strategia di prodotto volta ad assicurare requisiti di qualità, sicurezza, trasparenza nelle informazioni,
nonchè tipicità e, dunque, rispetto del patrimonio agroalimentare, enogastronomico e agro-zootecnico di riferimento
dell’azienda. Altra importante applicazione nel settore
agroalimentare può consistere nel valorizzare il rapporto
con il territorio70 e le risorse della relativa comunità in una
dimensione che consenta alle imprese di meglio radicarsi
nel mercato locale per poi potersi proiettare in una prospettiva che superi le limitate realtà aziendali. Ma si può anche
optare per l’utilizzazione al meglio delle risorse umane, accrescendo le competenze e la sicurezza dei lavoratori,
nonché adottando una politica di gestione che tenga conto
della integrazione degli immigrati, delle pari opportunità,
della qualità del lavoro stesso. In buona sostanza la responsabilità sociale costituisce a tutti gli effetti una strategia di differenziazione71, capace di far sì che un’impresa diventi unica nel proprio settore, con caratteristiche specifiche riconosciute e richieste dai consumatori.
Si ritiene, tuttavia, che il concetto di responsabilità sociale
sia suscettibile di una interpretazione evolutiva determinata
dalle nuove esigenze messe in luce dalla PAC post 2013.
dieci anni dalla pubblicazione del Libro Verde, la recente Comunicazione 681(2011) “Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14
in materia di responsabilità sociale delle imprese” della Commissione Europea ha ribadito la estrema importanza della responsabilità
sociale, definendola per la prima volta come “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società” e rinnovando l’impegno comunitario in materia.
(65) L. Briamonte, La responsabilità sociale nel sistema agroalimentare: quali prospettive?, in Agriregionieuropa, n. 20, anno 6 (2010), fa
rilevare come un’impresa socialmente responsabile adotti strategie che consentano un migliore soddisfacimento delle esigenze dei propri stakeholders, andando oltre gli standards definiti dagli obblighi di legge e, dunque, coniugando le aspettative dell’imprenditore con
quelle degli altri soggetti coinvolti nella vita dell’impresa. L’Autrice precisa che la responsabilità sociale si configura in maniera diversa
a seconda del tipo di impresa e del settore interessato, in quanto strettamente connessa alle caratteristiche degli stakeholders che si
relazionano con l’azienda, al luogo ed al momento storico nel quale essa opera.
(66) Così, cfr. F. Giarè, Responsabilità sociale e paesi in via di sviluppo, in Agriregionieuropa, n. 22, anno 6 (2010).
(67) G. Cassani, La responsabilità sociale: sfide e opportunità per le PMI del sistema agroalimentare, in Agriregionieuropa, n. 28, anno
8 (2012), ha evidenziato che, per delineare la complessa natura della responsabilità sociale, i principi volontari più riconosciuti e adottati a livello internazionale sono quelli dettati dalle Linee Guida OCSE, dal Global Compact, dalle Linee Guida ISO 26000, dal Global
Reporting Initiative (GRI). Sono tutti il risultato di lunghi confronti che ripetono, peraltro, quegli elementi che si rifanno al concetto di triple bottom line (sostenibilità economica, sociale e ambientale) volti a sottolineare la loro imprescindibilità all’interno della Responsabilità
sociale.
(68) G. Trincia, Il Consumatore attivo, Guida ai servizi di interesse pubblico e alla tutela dei propri diritti, Milano, 2008.
(69) Volontarietà non significa -comunque- spontaneità, poiché la dimensione sociale dell’impresa, più che una scelta, appare oggi una
necessità imposta dalla globalizzazione dei mercati, dai nuovi sistemi di valori emergenti, dalla pervasività delle tecnologie nonchè dalle
stesse sfide ambientali. Altra caratteristica è la permanenza, non potendo la responsabilità sociale dell’impresa essere considerata un
fenomeno passeggero, stante che i consumatori sono sempre più critici ed i loro acquisti non si basano più esclusivamente sul rapporto tra qualità e prezzo; inoltre, essa non è una semplice politica settoriale di beneficenza, ma un modello di “governance” ampliata che
attribuisce a chi dirige l’impresa responsabilità di natura fiduciaria, non solo nei confronti della proprietà, ma in generale nei confronti di
tutti gli stakeholders.
(70) La responsabilità sociale del territorio implica come non sia più la singola impresa a relazionarsi con gli altri soggetti ma sia la comunità locale, ovvero -per l’appunto- il territorio ad essere assunto come nucleo centrale di un sistema di relazioni volto a coniugare istanze economiche con uno sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale ed ambientale. In particolare nei Paesi in via di sviluppo la responsabilità sociale del territorio, centrata sulle persone e sui processi endogeni, potrebbe rappresentare una corretta prospettiva di lavoro,
potendo sicuramente costituire una opportunità di sviluppo in termini sociali ed economici.
(71) Rientrano in una politica di responsabilità sociale anche strumenti quali l’adozione di un codice etico, la redazione di un bilancio
sociale, la compilazione di un bilancio ambientale che contribuiscano tutti a consentire un miglior radicamento dell’impresa sul territorio,
a rinsaldare il rapporto di fiducia con i consumatori, ad attivare meccanismi di controllo sulla catena di fornitura, a garantire un più equo
meccanismo di ripartizione dei guadagni tra gli operatori lungo la filiera, a rafforzare l’immagine dell’impresa stessa.
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Infatti, da una prima disamina delle proposte, emerge, quale dato tutt’altro che trascurabile, la mancanza di qualsivoglia richiamo alla sicurezza alimentare intesa nel senso
della sicurezza igienico-sanitaria dei prodotti72; tema -viceversa- ampiamente presente nelle premesse dei regolamenti di riforma della PAC di fine ed inizio secolo emanati
sia in materia di sviluppo rurale sia di aiuto unico. Viceversa, la food security, ovvero la sicurezza degli approvvigionamenti, per molto tempo assente nella politica europea,
concentrata sull’opposta esigenza di limitare le produzioni
eccedentarie, torna ad essere valorizzata73 come una delle
finalità più rilevanti da perseguire74. E ciò anche per rimediare alle non poche distorsioni determinate dal disaccoppiamento e dalla liberalizzazione degli scambi agricoli che,
considerati inizialmente come una sfida ed un’opportunità
per gli agricoltori, si sono rivelati -poi- privi di quella funzione stabilizzatrice che ci si attendeva, dimostrando che i
mercati agricoli non sono in grado di autoregolamentarsi e
che l’affidamento esclusivo alle forze del mercato non è -in
questo settore- la soluzione adatta sia sul piano economico sia dal punto di vista strategico. Tanto è vero che l’obiettivo della food security è divenuto missione primaria dei
produttori agricoli nello svolgimento dello loro attività75, in
maniera tale che tutti gli individui abbiano la possibilità di
accedere a cibo sufficiente, oltre che sicuro e nutriente, per
24
potere condurre una vita attiva e sana.
Nulla esclude -dunque- che, in questa nuova visione della
Pac verso il 2020, la strategia della responsabilità sociale
riguardi anche la stabilità dell’accesso al cibo, per cui i singoli imprenditori agricoli siano tenuti ad adottare una condotta orientata ad una adeguata e sostenibile gestione delle risorse naturali (suolo, acqua, aria e vegetazione)76, con
l’utilizzo di tecnologie sempre meno inquinanti e conseguente innalzamento del livello di qualità della vita, seppur
questo possa implicare un aumento dei costi aziendali. La
perdita di produzione, infatti, è strettamente correlata con il
degrado del suolo e l’inquinamento delle acque77 che, se
presenti, impedirebbero non solo il benessere ma, addirittura, la sopravvivenza di piante e animali con rischi -oltre
tutto- per l’intero ecosistema. E’ per questo che le imprese,
per soddisfare i fabbisogni alimentari della collettività, devono produrre nella piena salvaguardia dell’ambiente circostante (quale componente essenziale del legame con il territorio di cui le stesse sono parti integranti), nei cui confronti sono chiamate a realizzare una politica ispirata ai principi
di prevenzione e precauzione78. Siffatte condotte virtuose79,
deontologicamente improntate a standards etico-sociali80,
finiscono poi -inevitabilmente- per essere rafforzate da
quelle regole rimediali e di tipo afflittivo che riaffermano il
ruolo dell’ordinamento giuridico e la sua funzione di tutela,
(72) P. Borghi, Sicurezza alimentare e commercio internazionale, in A. Germanò, E. Rook Basile, A. Massart (a cura di), Atti del VII convegno mondiale UMAU, Prodotti agricoli e sicurezza alimentare, Pisa-Siena, 5-9 novembre 2002, p. 449 e ss., osserva come la food safety
rappresenti un elemento costitutivo essenziale della security, oltre che “una delle principali ansie che assillano il legislatore comunitario”.
(73) In questa prospettiva è possibile leggere la fine dei regimi delle quote di produzione fissate dalla nuova PAC, per le quote latte, alla
data del 31.03.2015; per lo zucchero, il 30 settembre 2017; per i vigneti, l’accordo prevede la fine al regime dei diritti di impianto al 31
dicembre 2015, con l’introduzione di un regime di autorizzazioni per i nuovi impianti di viti dal 2016.
(74) L’espressione “sicurezza degli approvvigionamenti” utilizzata nell’art. 39 TFUE ha una portata generale e può essere riferita al raggiungimento di un’autosufficienza nell’approvvigionamento di prodotti agricoli destinati sia all’alimentazione sia ad usi diversi. Cfr. sull’argomento, F. Adornato, Agricoltura, politiche agricole e istituzioni comunitarie nel Trattato di Lisbona: un equilibrio mobile, in Riv. dir.
agr., 2010, p. 261 e ss.; F. Albisinni, Istituzioni e regole dell’agricoltura dopo il Trattato di Lisbona, ibidem, p. 206 e ss.; M. D’Addezio,
Quanto e come è rilevante l’agricoltura nel Trattato di Lisbona?, ibidem, p. 248 e ss.; L. Costato, Il nuovo Titolo dedicato all’Agricoltura
nel TFUE, in Riv. dir. agr., 2011, I, p. 119 e ss.; L. Paoloni, La food security nei programmi della Pac, in Dalla riforma del 2003 alla PAC
dopo Lisbona. I riflessi sul diritto agrario alimentare e ambientale, cit., p. 315 e ss.
(75) Nel testo italiano delle proposte il riferimento alla “sicurezza alimentare globale” è ambiguo e non distingue fra sicurezza degli approvvigionamenti (food security) e sicurezza igienico sanitaria (food safety). Nel documento inglese, invece, il richiamo alla food security chiarisce
espressamente che con le proposte di riforma della Pac si chiede all’agricoltura di fornire prodotti agricoli nonché di produrre alimenti.
(76) L. Paoloni, I nuovi percorsi della food security: dal “diritto al cibo adeguato” alla “sovranità alimentare”, in Dir. giur. agr. alim. e amb.,
2011, n. 3, p. 159.
(77) A ciò si aggiunga che l’effetto della scarsità idrica, del cambiamento climatico e delle infestazioni di agenti patogeni potrebbero ridurre il livello di produzione.
(78) La responsabilità sociale delle imprese presuppone l’esistenza di norme cogenti sul risarcimento del danno ambientale, ma tali disposizioni costituiscono soltanto lo schema di fondo su cui si innesta la decisione dell’impresa di operare al di là degli stretti requisiti imposti dal diritto. Agire in maniera socialmente responsabile significa ridurre intenzionalmente il rischio ambientale della singola impresa, e,
dunque, anche il rischio di una successiva responsabilità risarcitoria. In questa direzione appaiono significative le disposizioni, di derivazione comunitaria, contenute nel Codice dell’Ambiente (artt. 301 e ss.)
(79) Nel corso degli ultimi anni, anche a livello di politiche pubbliche degli Stati nazionali, si è sviluppato un dibattito sulla promozione di
iniziative di responsabilità sociale attraverso strumenti giuridicamente vincolanti che consentano di raggiungere standards minimi nei
settori più di rilievo (leggi sulle imprese, regolamentazione per fondi pensioni, leggi sul reporting sulla responsabilità sociale, penalizzazioni per inadempienze).
(80) V. Buonocore, Etica degli affari e impresa etica, in Giur. comm., 2004, I, p. 181, esalta la funzione ausiliaria dell’etica nella gestione
delle imprese e del mercato. G. Doria, Le prospettive della legge civile, in Riv. dir. civ., 2011, p. 361 e ss., osserva come l’ordine economico, il mercato ed il diritto non possano tendenzialmente ritenersi scevri da condizionamenti etici.
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coniugando le regole dell’etica con l’apparato sanzionatorio predisposto dal diritto81.
Non soltanto sono necessari da parte degli imprenditori
agricoli comportamenti finalizzati ad un utilizzo razionale
delle risorse nell’esercizio dell’attività agraria, ma anche
nella scelta delle strategie da adottare nell’ottica della diversificazione. La politica competitiva degli ultimi anni,
adottata da molti Stati, ha -invero- contribuito a modificare i
processi produttivi, destinati spesso ad “altre” iniziative, allo scopo di trovare condizioni di mercato più appetibili da
un punto di vista economico. L’utilizzo della produzione
agricola mondiale per fini non alimentari (energie rinnovabili, biocombustibili), riducendo la disponibilità della stessa
per gli utilizzi tradizionali, ne è un esempio e potrebbe rappresentare un ulteriore fattore di tensione.
In questa prospettiva, è importante -dunque- che l’attività
imprenditoriale si faccia carico della realizzazione di esigenze legate allo sviluppo economico e produttivo oltre
che dei più generali interessi della collettività, assolvendo,
così, all’esigenza di funzionalizzazione dell’iniziativa economica al perseguimento di obiettivi di utilità sociale.
E’ auspicabile che la politica della responsabilità sociale
venga adottata sia da multinazionali, tra cui le stesse catene della grande distribuzione organizzata alimentare82, sia
da piccole e medie imprese, consapevoli del fatto che, per
garantirsi la propria sopravvivenza, debbano essere inglobati nelle proprie finalità istituzionali non solo obiettivi economici, ma pure sociali, etici ed ambientali, a conferma ulteriore del ruolo multifunzionale assegnato al settore agricolo ed alle attività connesse. Del resto, sono proprio le
piccole e medie imprese a trarre la loro forza dalle peculiarità geografiche, storiche, culturali che servono a distinguere le une dalle altre e che, pertanto, hanno bisogno di soluzioni che tengano conto e valorizzino per l’appunto detti
elementi. E ciò, ovviamente, fermo restando che la piccola
25
impresa agricola, nell’adottare una politica anche di responsabilità sociale, dovrà contare sul supporto di realtà
più vicine al territorio (enti locali, associazioni, organizzazioni di settore). La responsabilità sociale, poi, non attiene
soltanto alle possibili azioni che ogni singola impresa può
adottare, ma fa -altresì- riferimento alla capacità di “fare rete83” con gli altri attori della filiera agroalimentare84 al fine di
superare gli ostacoli derivanti dalla piccola dimensione delle imprese agricole. In tal modo, la responsabilità da individuale diventa collettiva, determinando il passaggio dal “fare” al “fare insieme”, in un’ottica di trascinamento, di competitività integrata e dinamica in cui l’impresa agricola si
trova in una rete di rapporti che influenzano le sorti dell’azienda e, a loro volta, ne risultano influenzati85.
La responsabilità in questione potrebbe rappresentare una
concreta possibilità per lo sviluppo delle aree rurali e delle
imprese agricole, anche se -a parte alcune realtà più avanzate- nella maggior parte dei contesti produttivi agricoli
mancano le informazioni, gli strumenti e, talvolta, la volontà, necessari per consentire agli imprenditori di assumere
condotte improntate a principi etico-sociali. Per quanto
possa costituire un elemento strategico per la realizzazione del connubio tra crescita economica e coesione sociale
che genera sviluppo e benessere, il rischio concreto è che,
fondandosi su comportamenti volontari e non resi cogenti
dal diritto, resti una mera dichiarazione di intenti. L’assenza
di specifiche previsioni normative che indichino le linee guida e le condotte imprenditoriali, nonché i criteri per apprezzare e misurare tali atteggiamenti, determina che l’approccio a questo tema si traduce in una semplice proclamazione di codici astratti di comportamento, senza alcuna ricaduta concreta sui modelli attuali di impresa. Ed è certamente su tali aspetti che dovrà innestarsi una delle sfide
più suggestive e complesse per il futuro legislatore nazionale e comunitario.
(81) M. Barberis, Etica per i giuristi, Roma-Bari, 2006, passim, precisa che gli studi giuridici stanno conoscendo un’autentica svolta etica,
almeno dal punto di vista formale, con la tendenza delle stesse fonti legislative a richiamare regole etiche di comportamento. L’etica è,
in linea di principio, l’elemento integratore delle attività del legislatore, la cui opera rimane, tuttavia, essenziale per garantire le regole
del gioco del mercato, al fine di assicurare l’informazione, la trasparenza e, dunque, transazioni efficienti.
(82) La Grande distribuzione organizzata, nella rete di rapporti che instaura nel percorso di filiera, non può non perseguire -tra gli obiettivi della responsabilità sociale- quello di minimizzare i conflitti con gli stakeholders. I consumatori, infatti, esigeranno -a prezzi accessibili- forniture assortite, sicure e di qualità; le amministrazioni pubbliche riporranno nella GDO aspettative in materia di occupazione,
governo degli spazi urbani e qualità della vita della popolazione; le istituzioni creditizie, sia perché fornitrici di servizi sia come finanziatori al consumo, interferiranno nelle scelte di management.
(83) G. Maccioni, Il Contratto di rete e le reti di imprese: work in progress anche per il coordinamento tra imprese del settore agro energetico e imprese del settore agroalimentare, in M. R. D’Addezio (a cura di), Agricoltura e contemperamento delle esigenze energetiche
ed alimentari, Atti dell’incontro di studi tenutosi a Udine 12 maggio 2011, Giuffrè, 2012, p. 83 e ss.
(84) L’impresa agricola “in rete” si caratterizza per la presenza di un imprenditore che attiva relazioni virtuose esterne all’azienda al fine
di incrementare -oltre che la dotazione tecnologica della sua azienda- anche le proprie conoscenze; di pianificare le proprie strategie; di
controllare i risultati raggiunti e confrontarsi in maniera professionale con altre imprese, non solo italiane.
(85) P. Pulina, Etica e responsabilità sociale delle imprese della grande distribuzione alimentare, in Agriregionieuropa, n. 20, anno 6
(2010), fa rilevare come una impresa, nel perseguire la massimizzazione del profitto, non possa deludere le aspettative dei vari stakeholders (fornitori, lavoratori, investitori, etc.) con il rischio di creare -oltre tutto- diseconomie esterne di natura ambientale, economica e
sociale; diversamente, il rischio potrebbe essere quello di subire boicottaggi dei propri prodotti, il mancato rinnovo di contratti di fornitura, conflitti sindacali, indisponibilità di risorse nei mercati finanziari, la compromissione di relazioni sociali ed istituzionali.
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5.- Altre riflessioni su effetti positivi e criticità della nuova
PAC
Per quanto gli strumenti della vecchia politica di garanzia
(prezzi fissati preventivamente, dazi, sussidi all’esportazione, quote, etc.) abbiano nel corso del tempo mostrato tutti i
loro limiti e non siano più applicabili per il futuro, tuttavia,
resta sempre attuale l’obiettivo della stabilizzazione dei
prezzi e dei mercati.
Le proposte formulate delineano una riforma che, se approvata, conserverebbe molto dell’impianto delle politiche attuali, pur se con qualche significativa (ma non stravolgente)
innovazione, senza, però, almeno ad una prima riflessione,
correggere quelle distorsioni che nell’ultimo decennio hanno inficiato il rapporto dell’impresa con il mercato.
La nuova PAC sembra mirare ad obiettivi ambiziosi, più
coerenti con gli scenari di riferimento ed all’altezza delle
nuove sfide globali, soprattutto allorquando promuove la figura degli active farmers, incentivi in favore dei giovani
agricoltori e/o delle piccole e medie imprese, sostenendo
tutte le possibili forme di aggregazione sia verticale sia
orizzontale. In sostanza, l’intenzione è quella di premiare
gli agricoltori che si organizzano per migliorare il funzionamento del mercato e la stabilizzazione dei prezzi agricoli
anche attraverso il cofinanziamento obbligatorio dei programmi operativi delle organizzazioni di produttori
Quel che è certo è che la politica agricola del futuro (che,
oggi, è politica agroalimentare) non può più limitarsi a dare
attenzione ai processi produttivi nell’intento di raggiungere
la maggiore efficienza possibile ma deve, soprattutto in un
contesto di risorse pubbliche in continua diminuzione, individuare priorità avuto riguardo ai modelli di impresa86 cui
fare riferimento, ai prodotti da promuovere e secondo quali
26
modalità (quanto e come), nonché alla loro immissione sul
mercato nazionale ed internazionale. Ed anche se la sfida
principale è quella di assicurare la capacità produttiva dell’agricoltura, migliorando contestualmente la competitività
delle imprese, vi è -altresì- la precisa consapevolezza che i
sostegni agli operatori del settore non possono più essere
indifferenziati, ma legati all’effettivo vantaggio che gli stessi
forniscono con la produzione di beni e/o servizi pubblici
aventi, pur senza essere adeguatamente remunerati sul
mercato, un valore fondamentale per la collettività (paesaggio agrario, biodiversità, lotta al cambiamento climatico,
conservazione dell’ambiente, sviluppo rurale, salubrità degli alimenti, benessere degli animali).
La competitività delle aziende agricole, tramite l’orientamento al mercato ed il sostegno al reddito, da un lato; e il
rafforzamento della condizionalità del primo pilastro87 (greening) nonché della componente ambientale nella politica di
sviluppo rurale88, dall’altro, sono -per l’appunto- obiettivi
strategici della nuova PAC, seppur tra loro apparentemente
contradditori. L’obiezione che si potrebbe muovere, infatti, è
che le finalità ambientali arrecherebbero pregiudizio a sfide
altrettanto importanti rappresentate dal crescente fabbisogno alimentare mondiale, dalla volatilità dei prezzi e dalla
contrazione dei redditi. Trattasi di rilievo questo privo, tuttavia, di reale fondamento poiché -in realtà- la competitività e
la sostenibilità ambientale sono condizioni entrambe indispensabili e sinergiche, da considerare come opportunità
da gestire in maniera equilibrata. Del resto, la funzione pubblica dell’agricoltura è un argomento strategico per tentare
di mantenere una dotazione finanziaria adeguata alla Pac
dei prossimi anni, anche alla luce del fatto che il concetto
stesso di “bene comune89” si è evoluto nel tempo e, soprattutto in un momento di crisi economica quale è quello attua-
(86) M. Campli, Serve una strategia per l’agroalimentare italiano, in Agriregionieuropa, n. 1, anno 1 (2005).
(87) I vincoli imposti dal greening determinerebbero per gli imprenditori un aumento dei costi di produzione e, quindi, una riduzione della
competitività delle imprese, anche perché si dubita fortemente che l’aiuto che l’azienda riceverà sia in grado di compensare i costi aggiuntivi che dovrà sostenere per fare ciò che le viene richiesto (modificare i propri comportamenti rispetto a quelli determinati esclusivamente sulla base di interessi privati al fine di produrre benefici ambientali in favore della collettività). Come se ciò non bastasse, le attività di
monitoraggio e di gestione delle misure sembrano condurre ad un appesantimento del carico burocratico per le aziende, in controtendenza con il dichiarato intento di voler semplificare e ridurre i costi per la gestione privata e pubblica dell’intervento comunitario. Una soluzione alternativa potrebbe essere quella di ottemperare i vincoli della diversificazione, non su base aziendale, ma territoriale. Ad esempio,
si potrebbe prevedere di attribuire a consorzi di bonifica (o enti territoriali similari) il compito di programmare gli impegni della diversificazione in relazione alle esigenze definite nell’interesse dell’intero territorio rurale. Data la frammentazione e la polverizzazione fondiaria
che contraddistingue la nostra realtà aziendale, appare infatti difficile riuscire a garantire una destinazione ambientale appropriata su basi
aziendali; viceversa, un ente territoriale può individuare le aree che sono più consone per la destinazione ambientale in un quadro armonico e coordinato. In questa ipotesi non verrebbe meno l’impegno per la singola azienda, che verrebbe assolto attraverso un appropriato modello di gestione e compensazione appositamente predisposto dal consorzio. Questa scelta agevolerebbe le attività di controllo,
ridurrebbe i costi di gestione e darebbe sicuramente un contributo positivo in termini di efficienza e di efficacia della misura.
(88) Per quanto la sua struttura resti sostanzialmente invariata nei suoi tratti essenziali, la nuova PAC si caratterizza, inoltre, per un più
intenso rapporto sinergico delle componenti del primo e del secondo pilastro che, a sua volta, viene inserito in quadro strategico comune in cui potere al meglio coordinare la sua azione con altri fondi dell’Unione Europea.
(89) A. Germanò, Dalla multifunzionalità ai beni “comuni”, in Agricoltura e “beni comuni”, Atti del convegno IDAIC, Lucera-Foggia, 2728.10.2011, Milano, 2012, 118; Jannarelli, I “beni comuni” tra vecchi e nuovi paradigmi, in Agricoltura e “beni comuni”, cit., 10.
Sull’argomento dei beni comuni, in generale, v. V. Shiva, Il bene comune della terra, Milano, 2005; Marella, Il diritto dei beni comuni. Un
invito alla riflessione, in Riv. crit., dir. priv., 2011, 103; E. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, 2011; Lucarelli, Beni comuni.
Dalla teoria all’azione politica, Napoli, 2011; S. Rodotà, Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in Oltre il pubblico e
il privato. Per un diritto dei beni comuni, 2012, 315.
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le, non solo l’ambiente rientra in tale categoria ma pure fattori come la stabilizzazione del reddito, la coesione sociale,
nonché le condizioni di vita della popolazione possono esservi ricompresi. In questa ottica, non avrebbe rilevanza
pubblica la superficie agricola in sé e per sé (né tantomeno
il possesso e/o la proprietà della stessa), bensì il modo con
cui essa viene utilizzata ed il comportamento virtuoso tenuto dagli agricoltori che giustificherebbero (questi sì) entrambi il sostegno disaccoppiato. Ciò non toglie, tuttavia, che
sempre avuto riguardo al sostegno al reddito dei produttori,
dalle proposte di riforma emerge la previsione di un aumento dell’aiuto accoppiato, anche parziale, in precise circostanze di emergenza e/o per perseguire, ad esempio, il
mantenimento di attività produttive in aree in cui queste non
sarebbero più economicamente giustificate; nonché per garantire le filiere considerate maggiormente strategiche e,
soprattutto, coloro che producono beni alimentari maggiormente allocabili sul mercato. L’utilizzo virtuoso di tali risorse
in grado di perseguire obiettivi utili dal punto di vista collettivo dipenderebbe -comunque- dalla capacità di effettuare
scelte efficaci, concretantesi nella selezione di specifici territori, comparti e/o sistemi imprenditoriali, e, dunque, dovrebbe essere gestito a livello nazionale90 in un’ottica di regolazione dei mercati più flessibile.
Oltre ad agire sulle misure di funzionamento del mercato
che dovrebbero operare in una situazione di normale andamento dei prezzi, la riforma si è proposta di dettare misure innovative rivolte a rafforzare il ruolo degli agricoltori
27
lungo la filiera, colmando -altresì- il vuoto lasciato dallo
smantellamento dei vecchi interventi di mercato. A tal proposito, costituisce un punto fermo la previsione di una “rete
di sicurezza” che possa consentire di affrontare in maniera
tempestiva ed efficace le situazioni di crisi e le oscillazioni
dei redditi dei soggetti della filiera agroalimentare, anche in
risposta alla forte volatilità dei prezzi dei prodotti agricoli. E
così per quanto riguarda in particolare la gestione delle crisi, la Commissione si è orientata verso il finanziamento di
misure alternative, come l’assicurazione agevolata91 o la
costituzione di fondi mutualistici92, per fronteggiare rischi legati alle calamità atmosferiche, alle fitopatie oppure alla instabilità del reddito. In realtà, non appare condivisibile la
posizione secondo cui le misure di mercato “devono oggi
essere sostanzialmente … una rete di sicurezza, alla quale
ricorrere solo in caso di crollo dei prezzi” (v. par. 2 della
Comunicazione, 4° co., p. 4). Intervenire esclusivamente
nelle situazioni di estrema volatilità dei prezzi e della domanda, nonché nelle sempre più frequenti situazioni di calamità naturali (ferma restando l’esigenza di opportuni controlli per evitare facili speculazioni), non sembra -infatti- essere la soluzione più giusta per sostenere gli operatori del
settore e per stabilizzare i mercati. Trattasi di misure che per certi versi- si rivelano contrarie all’art. 39 del TFUE nella parte in cui prevede la necessità di garantire i redditi degli agricoltori, dal momento che questi ultimi potranno concretamente trarre dalla rete di sicurezza (se mai utilizzata!)
prezzi a dir poco irrisori93. Probabilmente, una soluzione
(90) Così, cfr. F. Adornato, La Politica agricola comune verso il 2020:tra mercati globali e sistemi territoriali, cit., p. 10.
(91) Dovrebbe prevedersi la possibilità di gestire a livello nazionale – attraverso uno specifico programma autonomo con separato budget finanziario – queste misure che necessitano di ampia mutualità anche per prevenire l’antiselezione dei rischi.
Una previsione in questo senso eviterebbe distorsioni della concorrenza sia sul mercato assicurativo che su quello agricolo. La possibilità di stipulare contratti di assicurazione su base nazionale e non regionale consente l’applicazione della misura in tutte le Regioni (e
non solo in quelle oggi a maggiore diffusione delle assicurazioni) sulla base delle richieste degli agricoltori e non di una gestione amministrativa dell’intervento, favorendo lo sviluppo di una cultura della gestione del rischio che è considerata dalla stessa Commissione
come utile a salvaguardare i redditi. D’altra parte la diffusione su base nazionale consente alle compagnie di assicurazione una migliore assunzione dei rischi, diversificata per produzioni e territori, e quindi le condizioni normative ed economiche delle polizze potranno
essere più favorevoli agli agricoltori.
(92) I fondi mutualistici possono essere uno strumento integrativo e di stimolo alla concorrenza del mercato assicurativo, per estendere
il numero degli agricoltori coperti dai rischi e abbassare sia i costi delle assicurazioni che le perdite dei fondi. Nel settore assicurativo il
divario di potere contrattuale fra singolo agricoltore che assicura le sue produzioni e compagnia di assicurazione è particolarmente evidente, quindi il contributo per i contratti assicurativi non solo non dovrebbe essere erogato direttamente alle compagnie (come già previsto dal reg. Ce 73/2009 e ribadito nella proposta), ma dovrebbe espressamente prevedersi che possa essere versato ad associazioni di agricoltori che contrattano collettivamente per conto dei loro associati, oltre che ai singoli agricoltori che stipulano polizze individualmente.
La modifica avrebbe inoltre l’effetto di semplificare l’iter amministrativo di erogazione dei contributi, che deve necessariamente essere
tempestivo, per rispettare i tempi contrattuali di pagamento dei premi alle compagnie e quelli connessi per l’erogazione dei risarcimenti agli agricoltori danneggiati. Il riequilibrio contrattuale collegato alla contrattazione collettiva si tradurrebbe in minori costi e migliori condizioni per gli agricoltori e, quindi, in un aumento dell’efficacia della misura. L’esperienza italiana, basata sulle agevolazioni erogate a
carico del Fondo di solidarietà nazionale (da ultimo il d.lgs.102/2004), incentrata sulla diffusa aggregazione delle imprese agricole nei
consorzi di difesa ha dato risultati positivi sia in termini di diminuzione dei costi assicurativi sia sotto il profilo della diffusione di polizze
innovative, multirischio e pluririschio, che hanno ormai superato percentualmente le monorischio sulla grandine (Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, 2011).
(93) L. Costato, Regime disaccoppiato, Trattato di Lisbona e obiettivi della Pac verso il 2020, cit., p. 20, sottolinea acutamente come l’incertezza dei prezzi provocherà, come è già avvenuto in passato, abbandoni di coltivazione da parte di molti agricoltori che approfitteranno del decoupling; il che “contrasta con l’asserita volontà di mantenere una sufficiente popolazione rurale, che si vorrebbe quasi trasformare in guardiana del territorio pagata dalla collettività”.
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più idonea, oltre che rispondente alle finalità di cui al suindicato art. 39, potrebbe essere quella di prevenire e gestire
le crisi, prevedendo altre forme di garanzia da realizzarsi,
ad esempio, attraverso acquisti per la costituzione di scorte strategiche94, entro precisi limiti stabiliti di volta in volta.
In sostanza, ma è solo una ipotesi, attraverso lo stoccaggio strategico teso a fare fronte alle cicliche crisi alimentari
si contribuirebbe a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti che è una delle principali sfide che la Commissione intende affrontare con la riforma95. Bisognerà attendere
la definitiva approvazione della PAC post 2013 e, soprattutto, gli esiti applicativi della riforma per potere fare un bilancio e verificare concretamente quali effetti positivi e/o criticità potranno derivarne.
ABSTRACT
Le proposte legislative per la nuova PAC, al fine di correggere le distorsioni di mercato e gli eccessi del disaccoppiamento nonché di ristabilire un legame tra gli aiuti economici e l’indispensabile requisito della produzione, hanno ridisegnato aspetti tecnici estremamente rilevanti per gli agricoltori. In particolare, si è ritenuto indispensabile mantenere il tessuto imprenditoriale agricolo per non disperdere
quello straordinario patrimonio, economico e sociale, di cui
l’agricoltura può giovarsi nell’accesso ai mercati comunitari
ed internazionali. E così, la nuova PAC sembra volere recuperare il collegamento tra il sistema dei pagamenti ed il
requisito della produzione dei beni alimentari, garantendo
gli aiuti a chi effettivamente vive dei proventi derivanti dall’attività primaria e non finanziando più il mero possesso di
terreni agricoli. Non si intende puntare solo sui c.d. active
farmers, ma anche sui giovani agricoltori che rappresentano un elemento fondamentale per il rilancio dell’agricoltura
e del settore agroalimentare; sulle piccole e medie imprese, sostenendo tutte le possibili forme di aggregazione sia
28
verticale sia orizzontale. Anche se la sfida principale è
quella di assicurare la capacità produttiva dell’agricoltura,
vi è -oltre tutto- la precisa consapevolezza che i sostegni
agli operatori del settore non possono più essere indifferenziati, ma legati all’effettivo vantaggio che gli stessi responsabilmente forniscono con la produzione di beni e/o
servizi pubblici aventi un valore fondamentale per la collettività (conservazione dell’ambiente, lotta al cambiamento
climatico, tutela della biodiversità, etc.).
The legislative proposals for the new Pac, in order to correct market distortions and excesses of decoupling as well
as to re-establish a link between economic aid and the indispensable requirement of production, have reshaped the
technical aspects extremely important for farmers. In particular, it was considered essential to maintain the entrepreneurial agriculture not to disperse the extraordinary
legacy, economic and social, of which agriculture can take
advantage of access to Community and international markets. And so, the new Pac seems to want to recover the
link between the payments system and the requirement of
production of food, providing aid to those who actually live
off the income from primary and no financing plus the mere
possession of agricultural land. It is not intended to focus
only on the actives farmers, but also on young farmers who
are a key element for the revival of agriculture and agrifood sector, small and medium-sized enterprises, supporting all possible forms of aggregation both vertically and
horizontally. Although the main challenge is to ensure the
productive capacity of agriculture, there is all-over-the precise awareness that supports operators in the sector can
no longer be undifferentiated, but are linked to the actual
advantage that they provide responsibly with the production of goods and / or public services with a fundamental
value for the community (environmental conservation, climate change, protection of biodiversity, etc.).
(94) A proposito della utilità delle scorte strategiche, v. L. Costato, Regime disaccoppiato, Trattato di Lisbona e obiettivi della Pac verso
il 2020, cit., in particolare al par. 6.
(95) La Commissione, al riguardo, ha affermato che “è essenziale che il settore agricolo europeo mantenga e rafforzi la sua capacità di
produzione rispettando nel contempo gli impegni assunti dall’UE nell’ambito delle relazioni commerciali internazionali e della coerenza
delle politiche per lo sviluppo. Soltanto un settore agricolo forte permetterà all’industria alimentare, caratterizzata da un’elevata competitività, di mantenere una posizione importante nel sistema economico e commerciale dell’UE (che è il primo esportatore mondiale di
prodotti agricoli, per lo più trasformati e ad alto valore aggiunto)”.
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Commenti
L’insostenibile leggerezza delle
versioni linguistiche:
condizionamento e confezionamento dei prodotti DOP e IGP nel recente regolamento UE n. 1151/2012
Paolo Borghi
Vi è, tra gli argomenti che più appassionano gli studiosi del
diritto alimentare, sicuramente quello della protezione dei
segni distintivi, e in particolare delle DOP e delle IGP come
diritti IP tipici dei prodotti alimentari. E tra le vicende che, in
questo specifico settore, più hanno suscitato interesse negli ultimi anni, altrettanto sicuramente vi è quella relativa al
condizionamento degli alimenti a DOP o a IGP, alla sua effettuazione entro i confini della zona geografica delimitata,
e alla sua rilevanza ai fini della tutela del nome geografico.
Le vicissitudini sono note, e non occuperemo troppo spazio in questa Rivista per ricostruirle lungamente1. Ci limiteremo qui a una breve sintesi.
Il pomo della discordia sono alcune operazioni finali, preparatorie del consumo, che tipicamente alcune imprese alimentari (della grande distribuzione, ad esempio, oppure
della cosiddetta “quarta gamma”) svolgono al fine di vendere il prodotto in condizioni di alimento pronto, e che, nella prassi, sono complessivamente chiamate “condizionamento” (es. affettatura, grattugiatura, lavaggio, taglio, imbottigliamento, ecc.). L’originaria disciplina delle DOP e
delle IGP, dettata con il reg. (CEE) 2081/92, ma anche
molte delle normative nazionali sulle DOC dei vini, non
menzionavano tali operazioni; in particolare, nulla dicevano
sulla possibilità o meno di effettuarle anche al di fuori della
zona geografica delimitata, e delle conseguenze di ciò sul
diritto all’uso della DOP o della IGP. Parallelamente, il più
delle volte i “disciplinari di produzione” non se ne occupavano affatto.
Qualche primo esempio di introduzione di limiti e condizioni di tal genere riguardò, storicamente, l’ambito dei vini2.
Benché oggi una tale possibilità sia considerata la regola3,
nel quadro giuridico vigente per il settore vitivinicolo negli
anni ’90 del secolo scorso la Corte di giustizia CE in un primo tempo giudicò le norme nazionali che introducevano limiti di tal genere incompatibili con il diritto comunitario: è
nota la cosiddetta “prima sentenza Rioja”4 avente ad oggetto una pronuncia pregiudiziale su un regio decreto spagnolo che attribuiva la “denominacion de origen calificada”
al vino prodotto nella regione Rioja, a condizione che esso,
oltre ad essere ottenuto in quella regione dalla spremitura
delle uve ivi prodotte, fosse anche imbottigliato nella stessa zona; se viceversa quel vino fosse stato esportato sfuso
e imbottigliato altrove, non lo si sarebbe potuto commercializzare utilizzando la DOC. Ad avviso della Corte, una tale
previsione della normativa nazionale spagnola si traduceva
in una restrizione al commercio intracomunitario priva di
giustificazioni, in quanto “non era stato dimostrato che l’imbottigliamento del vino nella regione di produzione fosse
un’operazione che gli conferiva caratteristiche particolari
ovvero un’operazione indispensabile alla conservazione
delle caratteristiche specifiche da esso acquisite”.
Qualche anno più tardi, e dopo più meditata riflessione, la
medesima Corte5 smise di domandarsi se l’imbottigliamento in loco incidesse sempre e necessariamente, in concreto, sulle “caratteristiche particolari” del prodotto, e diede invece rilievo a tutt’altro profilo: i Giudici di Lussemburgo si
avvidero che la protezione della denominazione è soprat-
(1) Sul tema si può rinviare a F. Albisinni, Il Frascati, il Chianti e la via della Svizzera. Vini doc, imbottigliamento in zona di produzione e
libertà dei commerci, in Dir. giur. agr. alim. e dell’amb., 1999, p. 517 ss.; D. Bianchi, In vitro veritas, ovvero, dell’imbottigliamento obbligatorio dei vini di qualità nella regione di produzione alla luce della giurisprudenza e legislazione comunitaria, in Dir. giur. agr. alim. e
dell’amb., 2001, p. 24 ss.; M Borraccetti, Trasformazione di un prodotto e suo confezionamento nel rispetto delle denominazioni d’origine, in Riv. dir. agr., 2003, II, pp. 447 ss.; F. Capelli, Il condizionamento dei prodotti contrassegnati con «DOP» e «IGP» secondo le nuove disposizioni inserite nel regolamento CEE n. 2081/92 sulle denominazioni di origine, in Dir. com. e scambi internazionali, 2003, pp.
105 ss.; S. Rizzioli, Il condizionamento dei prodotti con denominazione di origine, in Riv. dir. agr., 2003, II, pp. 458 ss.;
(2) Si v., ad esempio, il caso del Frascati, per il quale il d.m. 28 luglio 2000, in GU n. 184 dell’8 agosto 2000, ha provveduto ad introdurre l’obbligo di imbottigliamento in zona.
(3) Oggi, infatti, è espressamente previsto che il disciplinare di produzione dei vini possa contenere l’obbligo di effettuare il condizionamento all’interno della zona geografica delimitata o in una zona situata nelle immediate vicinanze (obbligo che, quindi, se non previsto
in modo espresso, non esiste), ma di ciò dev’essere fornita una motivazione: cfr. l’art. 8 del reg. (CE) n. 607/2009.
(4) Sent. 9 giugno 1992, in causa C-47/90, Delhaize et Le Lion, in Racc., 1992, pag. I-3669.
(5) Sent. 16 maggio 2000, in causa C-388/95, Regno del Belgio/Regno di Spagna, in Raccolta, 2000, p. I-3123.
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tutto tutela del segno distintivo, diritto IP del quale l’ordinamento protegge i titolari da ogni sfruttamento abusivo, per
difendere anche la reputazione acquisita dal prodotto, evitando così persino l’astratta possibilità che insorgano (a
causa dell’imbottigliamento fuori zona) differenze circa la
qualità di ogni unità di prodotto. In altre parole, regole di
produzione come quelle considerate, che subordinano la
possibilità di utilizzare il segno geografico all’effettuazione
in zona anche delle operazioni di condizionamento, malgrado si traducano in potenziali restrizioni all’esportazione,
hanno secondo la Corte una giustificazione di diritto UE
consistente nella necessità di garantire la reputazione
commerciale del prodotto (e con essa il valore commerciale del segno) contro rischi anche soltanto potenziali di variazioni nelle caratteristiche organolettiche – che potrebbero ad esempio divenire meno costanti – e di conseguente
svalutazione del diritto di proprietà intellettuale (o “industriale” o “commerciale” che dir si voglia) sul segno. Non
occorre quindi, secondo il revirement Giudice comunitario,
che vi sia una concreta, attuale e dimostrata incidenza negativa sulle caratteristiche del prodotto.
La stessa Corte fece poi applicazione del ragionamento anche fuori dalla materia vitivinicola: esso si affermò nella giurisprudenza e legislazione comunitarie relative a tutte le indicazioni geografiche, per le quali fu apertamente riconosciuto
che il condizionamento all’interno della zona geografica delimitata può essere legittimamente imposto da un disciplinare
come presupposto per l’uso del segno geografico6.
Soprattutto, però, la Corte diede il “la” al legislatore dell’UE. Quest’ultimo, a scanso di equivoci, interveniva con il
reg. (CE) n. 692/2003, integrando il reg. n. 2081/92 proprio
(ma non solo) in tema di contenuto del disciplinare. Per effetto della modifica del 2003, l’art. 4, paragrafo 2, la lettera
e), del reg. n. 2081/92 riportò, pertanto, l’esplicito riconoscimento della possibilità di inserire espressamente nel disciplinare “gli elementi relativi al condizionamento, quando
l’associazione richiedente determina e giustifica che il condizionamento deve aver luogo nella zona geografica delimitata per salvaguardare la qualità, assicurare la rintracciabilità o il controllo”. Pur sapendo che l’inserimento di
una simile prescrizione non era affatto vietata dalle norme
del 1992 (le quali indicavano i contenuti obbligatori e immancabili del disciplinare, ma non precludevano la possibi-
30
lità di inserire anche prescrizioni diverse e ulteriori, qualora
se ne dimostrasse la necessità o l’utilità), il Consiglio UE7,
prendendo atto che il silenzio della norma (benché corrispondente a una chiara assenza di divieto) era fonte di
dubbi interpretativi e di altri possibili futuri contrasti giurisprudenziali, decideva ad abundantiam di chiarire che, sì,
una tale prescrizione nel disciplinare era legittima.
Il testo della novellata disposizione, tale e quale, veniva
trasfuso anche nella “nuova” disciplina di DOP e IGP, introdotta con il reg. (CE) n. 510/2006, emanato per modificare
tutt’altri aspetti della materia (in specie l’ampiezza delle
possibilità di registrazione di DOP e IGP di Paesi terzi, alla
luce delle condizioni – troppo strette, secondo il Panel del
WTO – di equivalenza e reciprocità che la normativa originaria del 1992 poneva), eliminando possibili profili di contrasto con l’accordo TRIPS. In sostanza, il regolamento del
2006 aveva tutt’altro target, e tutt’altra ragion d’essere,
mentre l’aspetto relativo al condizionamento non fu più toccato: esso pareva ormai costituire un punto fermo e acquisito, legislativamente (oltre che dalla Corte) chiarito sin dal
2003, e da conservare.
E’ forse opportuno a questo punto tornare sulla nozione di
“condizionamento”, per rimarcare che essa è assai più ampia di quella di “confezionamento”. Quest’ultimo può essere tutt’al più considerato una delle operazioni (normalmente l’ultima in ordine temporale) che rientrano nel primo; ma
non vi è coincidenza.
La materia delle indicazioni geografiche è stata infine nuovamente – per la terza volta in nove anni – oggetto di intervento legislativo, con il recente reg. (UE) n. 1151/2012 del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 novembre
2012, “sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari”. Un atto che riprende senza sostanziali cambiamenti i
capisaldi della disciplina pregressa (la nozione di DOP e di
IGP, i requisiti di tutela, il ruolo del disciplinare, la procedura di riconoscimento, ecc.), tentando di riunire in un unico
testo norme precedentemente sparpagliate in provvedimenti differenti; che prova (con modifiche di poca sostanza
e di scarse speranze) di recuperare una funzione alle specialità tradizionali garantite (un vero “flop”, sin dall’epoca
della loro configurazione come “attestazioni di specificità”,
nel reg. 2081/92); che introduce una regolamentazione per
alcune indicazioni facoltative di qualità, come la famigerata
(6) Fu il caso del disciplinare del Prosciutto di Parma DOP, che subordinava l’uso della denominazione all’affettamento e confezionamento nella zona di produzione; sulla base di ciò, il Consorzio di tutela ha potuto vietare ad una catena britannica della grande distribuzione di usare il nome protetto su prosciutto acquistato intero, poi affettato fuori zona e ivi inserito in vaschette di plastica dallo stesso
distributore: si v. la sentenza della Corte di giustizia del 20 maggio 2003, in causa C-108/01, Consorzio del prosciutto di Parma c. Salumificio S. Rita c. Asda Stores, in Racc., 2003, pag. I-5121. Altrettanto, è stato ritenuto legittimo imporre l’effettuazione della grattugiatura del Grana Padano, per venderlo già grattugiato in confezioni sigillate, della zona delimitata, in quanto solo tale condizionamento in
loco consente “ai beneficiari della denominazione d’origine interessata di conservare il controllo di una delle presentazioni del prodotto
sul mercato” permettendo di “meglio salvaguardare la qualità e l’autenticità del prodotto, nonché, di conseguenza, la reputazione della
denominazione d’origine, di cui i beneficiari assumono, pienamente e collettivamente, la responsabilità”: così si esprimeva la sentenza
20 maggio 2003, in causa C-469/00, Ravil sarl c. Biraghi spa, in Racc., 2003, pag. I-5053, punti 48 e 50.
(7) Era il Consiglio a legiferare, essendo i regolamenti in tema di DOP e IGP, prima del Trattato di Lisbona, adottati con la procedura
speciale agraria prevista per l’adozione di misure di politica agricola comune.
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espressione “prodotto di montagna”8, o come una possibile
nuova menzione “Prodotto dell’agricoltura delle isole”, non
ancora consentita ma rimessa alla valutazione di opportunità della Commissione europea9; e che, infine, apporta significative novità in tema di obblighi degli Stati membri in
materia di controlli10. Un regolamento – ancora – che doveva, nelle intenzioni del legislatore dell’UE, costituire il primo
atto di un intervento normativo a trecentosessanta gradi
sul tema della qualità dei prodotti agricoli e alimentari, con
le radici affondate nel survey condotto dalla Commissione
tramite il Libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli del
200811, e con le sue ramificazioni non solo in tema di diritti
IP (con il regolamento n. 1151/2012, appunto), ma anche
in tema di norme di commercializzazione e requisiti qualitativi dei prodotti agricoli (cui doveva essere dedicato un ulteriore apposito regolamento, recante modifica del reg.
(CE) n. 1234/2007, la cui proposta però giace senza che si
sia tuttora giunti ad una approvazione definitiva), e in tema
di sistemi di certificazione volontaria e di etichettatura dei
prodotti DOP e IGP (su cui la Commissione si è limitata a
pubblicare “orientamenti sulle buone pratiche”).
Ebbene, tralasciando il resto di quello che doveva ambiziosamente chiamarsi “pacchetto qualità” (e che si è ridotto,
almeno per ora, a un unico atto vincolante dell’UE), nel codificare il testo della disciplina delle DOP e delle IGP entro
il nuovo quadro normativo, il legislatore europeo interviene
oggi con l’art. 7, par. 1, lett. e), del reg. (UE) n. 1151/2012,
stabilendo (sorpresa!) che il disciplinare può contenere anche “informazioni relative al confezionamento, quando il
gruppo richiedente stabilisce in tal senso e fornisce sufficienti motivazioni specifiche per prodotto per cui il confezionamento deve aver luogo nella zona geografica delimitata per salvaguardare la qualità, garantire l’origine o assicurare il controllo” (corsivo nostro, n.d.r.).
Si parla – nel caso il corsivo fosse sfuggito – di “confezionamento”; non più di “condizionamento”. Sarà anche il frutto di una svista, di una “leggerezza” dei servizi di traduzione della Commissione, ma il risultato non è di poco conto:
appare in gran parte, se non in toto, posto nel nulla l’appro-
31
do della citata giurisprudenza della Corte di giustizia, che
aveva risolto, nel modo poc’anzi illustrato e dopo lungo travaglio, i dubbi concernenti l’obbligo di “condizionamento”
nella zona di produzione. E parimenti si pone nel nulla (anzi, forse si segna un passo indietro) l’opera del legislatore
che, a più riprese, prima del regolamento del 2012 aveva
fatto sostanzialmente la stessa cosa, sempre parlando di
“condizionamento”.
L’art. 7 del nuovo reg. (UE) n. 1151/2012, testualmente,
sembra dunque autorizzare oggi l’introduzione nel disciplinare di soli obblighi di confezionamento in loco; e non pare
che consenta più, viceversa, di scrivere nei disciplinari di
produzione prescrizioni obbligatorie relative a tutte le altre
operazioni preparatorie del prodotto finito che vanno sotto
il nome di “condizionamento”.
Anzi, la disciplina di questo specifico aspetto del tema delle DOP e IGP appare oggi, almeno a livello interpretativo,
probabilmente ancor più restrittiva di quanto non fosse prima del reg. n. 692/2003. L’originario art. 4 del reg. n.
2081/92 prevedeva alcuni elementi necessari del disciplinare (ossia, obbligatoriamente presenti); l’opinione corrente, dottrinale e giurisprudenziale, era che tale elencazione
fosse tassativa (sicché tutti gli elementi dovevano essere
presenti, nessuno escluso) ma non esaustiva: era possibile, cioè, ai soggetti richiedenti la registrazione di una DOP
o di una IGP, inserire altre regole e prescrizioni, alla sola
condizione di rispettare i principi generali della materia e
del diritto comunitario. Tant’è che la Corte di giustizia, persino nella prima sentenza “Rioja” con cui si era espressa in
termini negativi, non aveva però mai affermato l’illegittimità
in sé dell’introduzione, nel disciplinare, di una prescrizione
obbligatoria in più rispetto a quelle di cui al regolamento,
solo perché non prevista dal suo art. 4. A maggior ragione,
la Corte non lo aveva fatto nelle pronunce successive sul
tema, nelle quali la ratio decidendi è sempre stata l’esistenza (o meno) di ragioni giustificative nei principi del diritto dell’UE; ovvero, rovesciando il ragionamento, l’assenza
di profili di contrasto con i principi generali12. Tant’è che l’intervento del legislatore servì non tanto a rendere legittime
(8) Una menzione che già il legislatore francese aveva tentato di introdurre nell’ordinamento d’oltralpe, incorrendo nella censura della
Corte di giustizia, con la nota sentenza 7 maggio 1997, in cause riunite C-321/94, C-322/94, C-323/94 e C-324/94, Pistre, in Racc.,
1994, p. I-2360 ss.
(9) La Commissione è chiamata a presentare, entro il 4 gennaio 2014, una relazione al Parlamento europeo e al Consiglio sull’opportunità di creare tale nuova indicazione, da utilizzare soltanto per descrivere i prodotti destinati al consumo umano elencati nell’allegato I
del trattato, le cui materie prime provengano dalle isole e, nel caso di prodotti trasformati, purché anche la trasformazione avvenga in
zone insulari se ciò incide in modo determinante sulle caratteristiche particolari del prodotto finale. Detta relazione potrà essere corredata da proposte legislative intese a riservare l’indicazione facoltativa di qualità “prodotto dell’agricoltura delle isole”.
(10) Di particolare rilievo dopo la seconda pronuncia Parmesan: sent. 26 febbraio 2008, in causa C-132/05.
(11) Si tratta del Libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli: norme di prodotto, requisiti di produzione e sistemi di qualità, COM(2008)
641 definitivo, pubblicato il 15 ottobre 2008 dalla Commissione europea.
(12) Tanto nella seconda sentenza Rioja, quanto nelle pronunce Prosciutto di Parma e Grana Padano (sopra citate), la Corte ha sempre
argomentato (a) dando implicitamente per presupposto che non vi fosse nulla di illegittimo nell’introdurre nel disciplinare la prescrizione
del condizionamento in loco, (b) statuendo che essa producesse inevitabilmente un “controllo” dei produttori sull’offerta del prodotto, e
in particolare sulle esportazioni (con conseguente effetto equivalente a una restrizione quantitativa), ma che (c) l’effetto restrittivo (pur
incorrendo, in astratto, nel divieto di cui all’art. 34 dell’odierno TFUE) rientrasse nelle deroghe giustificative di cui all’art. 36 dell’odierno
TFUE, in quanto necessario per assicurare tutela ai particolari diritti IP oggetto della disciplina.
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tali prescrizioni (posto che esse illegittime non lo erano state mai), ma solo a chiarire, quasi in via di interpretazione
autentica, che esse non dovevano considerarsi incompatibili con altre norme o principi.
Oggi, il nuovo tenore testuale del dettato normativo, e in
particolare il fatto che vi sia espressamente consentito solo
inserire prescrizioni sul “confezionamento” potrebbe avere
una portata restrittiva: l’interprete potrebbe cioè ritenere
che l’esistenza di un esplicito rinvio al solo confezionamento, in sostituzione del preesistente richiamo al condizionamento, renda illegittima l’introduzione nel disciplinare di
prescrizioni obbligatorie relative a quest’ultimo; e ciò sia in
base a un criterio ermeneutico logico (se il legislatore
avesse voluto consentire anche previsioni relative al più
ampio “condizionamento”, lo avrebbe dichiarato), sia e soprattutto in base a un criterio di interpretazione in chiave
storico-evolutiva: se il legislatore ha eliminato la già esistente menzione espressa del “condizionamento” per sostituirvi quella del “confezionamento”, è lecito pensare che
solo quest’ultimo – e non più il primo – possa essere imposto dai disciplinari come condizione per l’uso legittimo della
DOP o dell’IGP.
Non resta che pensare a un grossolano – quanto grave –
errore di traduzione, considerato che nelle versioni inglese,
spagnola, olandese e polacco, ricorrono rispettivamente i
termini “packaging”, “envasado”, “verpakking” e “pakowania” (corrispondenti a “confezionamento” o a “imballaggio”,
analogamente a quanto dispone il testo italiano), mentre la
versione francese, quella portoghese e quella tedesca appaiono più vicine al testo italiano della normativa previgente
e ai principi espressi dalla Corte, parlando rispettivamente
di “conditionnement”, di “acondicionamento” (dunque, condizionamento) e di “Aufmachung” (letteralmente: “formato”
del prodotto, locuzione che probabilmente può essere riferita non solo al formato in senso estetico, come tipologia e
forma della confezione, ma forse anche alla più ampia e
generica modalità di presentazione sul mercato, comprensiva delle condizioni fisiche in cui il prodotto è venduto: grattugiato, affettato, tagliato a pezzetti, imbottigliato, ecc.).
Non avrebbe senso fare altri confronti linguistici; né avrebbe senso verificare se statisticamente prevalgano le traduzioni che parlano di condizionamento o quelle che ragionano di confezione e imballaggio: il fatto che, comunque, numerose e importanti versioni linguistiche utilizzino un determinato concetto è sufficiente a dare sostegno alla conseguente interpretazione. E’ disarmante, però, rendersi conto
di quanto – malgrado il diritto sia essenzialmente costruito
mediante il linguaggio – sempre più spesso a tutti i livelli
sia trascurata l’attenzione alla precisione linguistica, fenomeno che in sede europea è inevitabilmente aggravato
dalle difficoltà oggettive di tradurre ogni testo giuridico in
oltre venti lingue ufficiali, spesso assai diverse tra loro. Ed
è avvilente che l’interprete debba impiegare energie per
cercare il significato meno distruttivo del sistema, meno incoerente con l’evoluzione giurisprudenziale e normativa, ricorrendo ad argomenti non sempre probanti (il confronto
32
con le altre versioni linguistiche della norma), salvo doversi
talvolta rassegnare all’impossibilità di trovarlo.
Per assurdo, la novità – ma preferiamo dire: la svista – rischia ora di rendere incompatibile a posteriori con il dettato
legislativo una serie di disciplinari di DOP e IGP già registrate, contenenti le famigerate prescrizioni sul condizionamento in loco. Essi, tuttavia, è arduo immaginare che siano
dichiarati affetti da illegittimità sopravvenuta, considerando
che all’epoca della loro approvazione vi era perfetta compatibilità con le disposizioni a quel tempo vigenti. Di fatto,
la modifica (forse involontaria) della norma finirà per applicarsi soltanto ai nuovi riconoscimenti.
Che dire? Una eccessiva approssimazione, una “leggerezza” dei traduttori, rischia di riportare al punto di partenza, o
persino di far regredire, anni e anni di costruzione giurisprudenziale e legislativa.
ABSTRACT
PDOs and PGIs foods conditioning operations, and the duty to carry them out inside the “defined geographical area”
(particularly, the right to expressly provide for it into the
“specification”, as a condition to allow a legitimate use of
the concerned PDO or PGI), have been one of the most interesting and exciting topics for food law scholars in last
years. EC jurisprudence has evolved from an earlier negative opinion in the ‘90s of the last century, to a later positive
opinion in the s.c. 2nd “Rioja” judgment (of 16th May 2000,
case C-388/95), whose themes have been used, and better defined, in two subsequent judgments (“Prosciutto di
Parma” of 20th May 2003, case C-108/01, and “Grana
Padano”, or “Ravil sarl vs. Biraghi”, of 20th May 2003, case
C-469/00), accompanied by some legislative reform,
namely the modification of the former PDOs and PGIs discipline, by virtue of EC Regulation No. 692/2003. The new
rules of 2003 have then been repeated as such also later,
when the entire original discipline of PDOs and PGIs have
been replaced by EC Regulation No. 510/2006.
Now, the new EU Regulation No. 1151/2012, on quality
schemes for agricultural products and foodstuffs, seems to
have nullified – at least in the Italian version, as well as in
some other versions: e.g. in the English, Spanish, Dutch
and Polish ones – all the jurisprudential and legislative
evolution above, since its Article 7 only allows the “groups”
applying for registration to impose (as a condition for a legitimate use of the geographical indication) to carry out the
packaging (and not other “conditioning” operations such
as, for example, slicing, grating, shredding, bottling, etc.).
On the other hand, other versions of the 2012 Regulation
expressly refer to the conditioning operations: for example,
the French and the German ones respectively mention the
“conditionnement” and the “Aufmachung”, which are somewhat broader notions, closer to the wording of the repealed
discipline. Perhaps it’s been a mere problem of translation,
but potentially having serious economic consequences.
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Prodotti alimentari
o agroalimentari?
Il TAR del Lazio, giudice del mercato e
law maker, smentisce il MIPAAF e l’AGCM
Ferdinando Albisinni
1.- Il legislatore distratto genera regolatori inconsapevoli
Circa un anno fa, nel commentare l’art. 62 del d.l. 1/20121,
da poco convertito in legge, avevamo avuto modo di sottolineare la palese non coincidenza fra la rubrica dell’articolo,
riferita alla “cessione dei prodotti agricoli e agroalimentari”,
ed il primo comma del medesimo articolo (variamente richiamato nei commi successivi), che detta disposizioni in
materia di “prodotti agricoli e alimentari”2.
La differenza non era (e non è) di poco conto, considerato
che sulla base di precisi ed inequivoci disposti normativi, le
perimetrazioni giuridiche dei prodotti alimentari e di quelli
agroalimentari non coincidono. Tant’è che – ai sensi dell’art. 33 del Decr. Leg.vo 30 luglio 1999, n.3003 sull’organizzazione del governo, testo vigente4 – il Mipaaf è competente in materia di trasformazione e cessione dei prodotti
33
agricoli ed agroalimentari, ma non in materia di prodotti alimentari tout court, mentre per converso, ai sensi del medesimo Decr. Leg.vo 30 luglio 1999, n. 300, sopracitato, è attribuita al Ministero delle Attività produttive, oggi Ministero
dello Sviluppo Economico 5, la competenza sui prodotti
agro-industriali, con espressa eccezione dei prodotti agricoli e di prima trasformazione per i quali la competenza è
attribuita al Mipaaf.
Avevamo anche sottolineato la rilevanza delle formule utilizzate nella rubrica di una disposizione legislativa, siccome aventi contenuto precettivo, e non solo meramente
orientativo, come più volte confermato dalla giurisprudenza
di legittimità anche specificamente in materia di prodotti alimentari6, e dalla stessa Corte costituzionale7.
Il Mipaaf e l’AGCM, peraltro, in sede di successiva adozione dei regolamenti di attuazione8 ed istruttori9, hanno entrambi totalmente trascurato l’evidente aporia tra rubrica e
testo dell’articolato, ed hanno assunto quale area applicativa delle nuove disposizioni l’intero perimetro dei prodotti
“alimentari”.
Di talché il Mipaaf, con il proprio regolamento applicativo,
premesso che lo stesso si applica “alle relazioni commerciali in materia di cessioni di prodotti agricoli e alimentari”10,
all’art. 2, rubricato “definizioni”, ha così disposto:
“1. Ai fini del presente decreto, si intende per:
a) prodotti agricoli: i prodotti dell’allegato I di cui all’articolo 38, comma 3, del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea;
(1) Art. 62 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, L. 24 marzo 2012, n. 27. Sulle nuove disposizioni v. A.Artom, Disciplina delle
relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari, in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 2-2012, 42;
R.Tommasini, La nuova disciplina dei contratti per i prodotti agricoli e alimentari, in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 4-2012, 3;
M.Giuffrida, I Contratti di filiera nel mercato agroalimentare, in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 3-2012, 3; A. Jannarelli, La
strutturazione giuridica dei mercati nel sistema agroalimentare e l’art. 62 della legge 24 marzo 2012 n.27: un pasticcio italiano in salsa
francese, in Riv.dir.agr., 2012, I, 545; A. Germanò, Sul contratto di cessione di prodotti agricoli e alimentari, in Dir.giur.agr.alim.amb.,
2012, 379; F. Albisinni, Cessione di prodotti agricoli e agroalimentari (o alimentari?): ancora un indefinito movimento, in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 2-2012, 33.
(2) F. Albisinni, Cessione di prodotti agricoli e agroalimentari (o alimentari?), cit.
(3) Riforma dell’organizzazione del Governo, a norma dell’articolo 11 della L. 15 marzo 1997, n.59.
(4) Quale modificato dall’art. 6-bis del D.L. 12 giugno 2001, n. 217, convertito con modificazioni dall’art. 1 della L. 3 agosto 2001, n. 317,
e dal D.L. 18 maggio 2006, n, 181, Disposizioni urgenti in materia di riordino delle attribuzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri, convertito con modificazioni, dall’art. 1 della L. 17 luglio 2006, n. 233.
(5) Ai sensi dell’art. 1, comma 12, del D.L. 18 maggio 2006, n. 181, cit.
(6) V. Cass. civ., sez. I, 8 aprile 1998, n. 3654, e Cass. civ., sez. II, 14 gennaio 2009, n.753; e v., in altri ambiti disciplinari, Cass. pen.,
sez. III, 23 novembre 2001, Cass. pen., sez. IV, 5 luglio 2002; Cass. civ., sez. I, 17 settembre 2003, n. 13661; Cass. civ., sez. III, 14
marzo 2006, n. 5474; Cass. civ., sez. lav., 7 aprile 2010, n. 8257.
(7) V. Corte cost. 23 novembre 2007, n. 387, che ha dichiarato incostituzionale la norma introdotta dall’art.4-quinquiesdecies del D.L 30
dicembre 2005 n. 272, nel testo integrato dalla legge di conversione 21 febbraio 2006 n. 49, “nella parte in cui definisce la rubrica dell’art. 116 d.p.r. 9 ottobre 1990 n. 309, utilizzando la formula «livelli essenziali relativi alla libertà di scelta dell’utente e ai requisiti per
l’autorizzazione delle strutture private», anziché «libertà di scelta dell’utente e requisiti per l’autorizzazione delle strutture private»”.
(8) D.M. Mipaaf 19 ottobre 2012, n. 199, Regolamento di attuazione dell’articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1; su cui v. A.
Germanò, Ancora sul contratto di cessione di prodotti agricoli e alimentari: il decreto ministeriale applicativo dell’art. 62 del d.l. 1/2012,
in Dir.giur.agr.alim.amb., 2012, n.9.
(9) Delibera AGCM 6 febbraio 2013, n.24220, rubricata “Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di disciplina delle relazioni
commerciali concernenti la cessione di prodotti agricoli e alimentari”. Per una lettura fortemente critica delle scelte operate dall’AGCM v.
A. Jannarelli, La delibera dell’Autorità Garante della Concorrenza e dei mercati del 6 febbraio 2013, n.24220, in Riv.dir.agr., 2013, II, 32.
(10) Art. 1 D.M. Mipaaf 19 ottobre 2012, n. 199, cit.
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b) prodotti alimentari: i prodotti di cui all’articolo 2 del regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo
e del Consiglio del 28 gennaio 2002; …”.
Le definizioni così enunciate dal Mipaaf, singolarmente:
- quanto ai “prodotti agricoli” per un verso restringono il
perimetro applicativo rispetto a quello che ne deriverebbe dalla retta applicazione dei principi del nostro ordinamento in materia, lì ove identificano i prodotti agricoli
esclusivamente con quelli di cui all’Allegato I al TFUE,
così escludendo dall’area applicativa dell’art. 62 una serie di prodotti che sono invece tipicamente agricoli per
l’ordinamento nazionale ai sensi dell’art. 2135 cod.civ.
(anzitutto il legno); e per altro verso lo estendono ad
esempio a “Residui e cascami delle industrie alimentari”,
inclusi nell’Allegato I del TFUE11 ma che certo non rientrano nella perimetrazione e nella ratio dell’art. 2135
cod.civ.;
- quanto ai “prodotti alimentari”, estendono l’area applicativa a tutti i prodotti di cui all’art. 2 del Regolamento n.
178/2002 e dunque a tutti i prodotti destinati ad essere
ingeriti da esseri umani, trascurando l’esistenza nel nostro ordinamento di un’espressa e risalente perimetrazione disciplinare dei “prodotti agroalimentari”, identificati
dal richiamato decreto legislativo n. 300/1999 sull’organizzazione del Governo come “i prodotti di prima trasformazione che sono in diretta connessione con tali prodotti
[quelli agricoli, appunto]” quali “definiti dal paragrafo 1
dell’articolo 32 del trattato che istituisce la Comunità europea, come modificato dal Trattato di Amsterdam”12.
L’approccio adottato dal Mipaaf, in evidente assenza di
qualsivoglia attenzione a profili sistematici di coerenza con
il nostro ordinamento, tradisce la purtroppo consueta (e più
volte sperimentata) assenza di consapevolezza circa il
complesso rapporto che si pone in un sistema multilivello
quale quello europeo, ove fonti comunitarie e nazionali sono chiamate ad operare in un meccanismo di complessa
integrazione, ed esprime una logica di soggezione, che in
anni recenti ha troppo spesso indotto regolatori e interpreti
nazionali ad operare nel senso di un meccanico inserimen-
34
to nel nostro tessuto normativo di definizioni e paradigmi
maturati con finalità, logiche, ed ambiti applicativi tutti diversi13.
Sorprende che analogo approccio sia stato, dopo alcuni
mesi, confermato anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che dovrebbe, per sua natura,
composizione ed organizzazione, proporre letture più articolate del rapporto fra fonti nazionali e fonti europee.
L’AGCM, invero, nella delibera recentemente assunta in
argomento14, richiamato il D.M. Mipaaf, si è limitata a dare
atto che il proprio regolamento sulle procedure istruttorie si
applica ai “prodotti agricoli e alimentari”15, senza porsi il
problema, decisivo, della identificazione dei prodotti in riferimento ai quali esercitare le proprie competenze; competenze attribuite all’Autorità direttamente dalla legge e non
dal Decreto ministeriale di attuazione16.
Di più, l’AGCM, nel definire l’area di esercizio delle competenze ad essa assegnate, l’ha limitata “alle relazioni economiche tra gli operatori della filiera connotate da un significativo squilibrio nelle rispettive posizioni di forza commerciale, ai sensi dell’art. 1 del decreto ministeriale di attuazione”17, in tal modo introducendo un ulteriore elemento di
grave incertezza, essendo esperienza comune, proprio nei
procedimenti innanzi all’AGCM, la difficoltà di individuare in
modo oggettivo e non contestabile l’elemento del “significativo squilibrio” e così l’esistenza di “una posizione dominante all’interno del mercato nazionale o in una sua parte
rilevante” ex lege n. 287/199018 ovvero di “uno stato di dipendenza economica nella quale si trova … una impresa
cliente o fornitrice” ex lege n. 192/199819.
In tal modo l’Autorità ha adottato linee guida, che appaiono
in manifesto contrasto con una delle qualificanti novità introdotte dall’art. 62 del D.L. n. 1/201220, lì ove questo ha tipizzato come illeciti per sé taluni comportamenti nell’ambito delle cessioni di prodotti agricoli e agroalimentari (o alimentari), escludendo la necessità degli ulteriori presupposti e condizioni richiesti dalla legislazione generale in materia di antitrust o di subfornitura21.
(11) Al punto 24.01.
(12) Così l’art. 33, comma 3, lett. c) del citato Decr. Leg.vo 30 luglio 1999 n.300.
(13) In argomento, per ulteriori indicazioni in generale e con specifico riferimento all’ammissibilità o meno di segni regionali di qualità dei
prodotti alimentari, sia consentito rinviare al mio Continuiamo a farci del male: la Corte costituzionale e il Made in Lazio, in
Dir.giur.agr.alim.amb., 2012, 105.
(14) V. supra nota 9.
(15) Così l’art.2, rubricato “Ambito di applicazione” della delibera AGCM 6 febbraio 2013, n.24220, cit.
(16) V. il comma 8 dell’art. 62 del citato d.l. n. 1/2012, che direttamente attribuisce all’AGCM la “vigilanza sull’applicazione delle presenti
disposizioni e sull’irrogazione delle sanzioni ivi previste”.
(17) Così, testualmente, l’art. 2 della Delibera AGCM 6 febbraio 2013, cit. [corsivo agg.].
(18) Art.3, lett.a), Legge 10 ottobre 1990, n. 287, Norme per la tutela della concorrenza e del mercato.
(19) Art.8, comma 1, Legge 18 giugno 1998, n. 192, Disciplina della subfornitura nelle attività produttive.
(20) Come ha sottolineato in punto A. Jannarelli, La delibera dell’Autorità Garante, cit., p.35, la delibera dell’AGCM, non solo “è sorprendentemente riduttiva circa la sfera applicativa dell’art. 62 e dei compiti assegnati in quella disposizione all’AGCM”, ma è addirittura “decisamente restrittiva rispetto alla [formula] contenuta nel decreto ministeriale di attuazione”.
(21) In argomento, per ulteriori indicazioni sui presupposti degli illeciti individuati dall’art. 62, sia consentito rinviare al mio Cessione di
prodotti agricoli e agroalimentari (o alimentari?), cit.
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2.- Legislatore ordinario e delegato: il canone di incomunicabilità
Quasi che non fosse sufficiente la confusione indotta dall’incerta formulazione della norma primaria e dalla disattenta regolazione secondaria del Mipaaf, nei mesi successivi
all’emanazione dell’art. 62, il legislatore ordinario, il legislatore delegato, e gli Uffici legislativi dei Ministeri interessati,
hanno tutti alacremente contribuito ad elevare il tasso di incertezza definitoria ed applicativa.
Il Parlamento, con legge del dicembre 201222, in sede di
conversione di uno dei tanti decreti legge “omnibus” sull’economia adottati nel corso dell’anno, ha rimosso la previsione di nullità contenuta nel testo originale dell’art. 6223,
mantenendo però l’obbligatorietà del ricorso alla forma
scritta e la previsione di sanzioni amministrative in caso di
contravvenzione “agli obblighi di cui al comma 1”; obblighi
la cui imperatività è risultata pertanto confermata24.
Sicché, la rimozione ad opera del legislatore ordinario della
previsione espressa di nullità testuale non ha in ipotesi determinato un’inequivoca esclusione di qualsivoglia nullità, ma ha lasciato aperta la possibilità di configurare una fattispecie di nullità virtuale ex art. 1418 cod.civ. per violazione di norme imperative25, con conseguente rilevabilità della stessa ex art. 1421
cod. civ., d’ufficio e da parte di chiunque vi abbia interesse.
Ne deriva che, nell’oggi, l’imprenditore, che venda e consegni prodotti agricoli o alimentari ad altro imprenditore senza
stipulare un contratto scritto analiticamente redatto secondo
le prescrizioni di legge, pur non essendo più soggetto ad
una nullità testuale, si trova esposto al rischio di un’eccezione di nullità virtuale per violazione di norme imperative da
parte dell’acquirente inadempiente; eccezione che potrebbe
precludere il ricorso ad un’azione contrattuale, costringendo
il venditore a promuovere un’azione per arricchimento senza titolo, con la quale richiedere non il prezzo oralmente
convenuto ma soltanto il minor importo fra il danno emergente (con esclusione del profitto sperato) e l’arricchimento
patrimoniale effettivamente conseguito dall’acquirente26.
D’altro canto – in contrapposta prospettiva ed a conferma
delle gravi incertezze derivanti dall’approccio distratto e asistematico del legislatore – occorre considerare che la previsione delle sanzioni amministrative di cui al comma 5 del-
35
l’art. 62 non costituisce indice sicuro della nullità virtuale per
violazione di norme imperative di contratti stipulati in violazione del comma 1, ma potrebbe essere interpretata anche
in senso opposto al riconoscimento della nullità, alla stregua
dell’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui: “Nel sancire la nullità del contratto per contrasto con
norme imperative, l’art. 1418 c.c. fa salvo il caso in cui “la
legge disponga diversamente”. Ne consegue che tale nullità
va esclusa sia quando risulta espressamente prevista una
diversa forma di invalidità (es., annullabilità) sia quando la
legge assicura l’effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi diversi, quali la decadenza da benefici fiscali e creditizi (es., art. 28 della legge n. 590 del 1965).”27.
In esito ai ripetuti interventi del legislatore ordinario, la perdurante previsione di sanzioni amministrative in caso di violazione dei requisiti formali fissati dal comma 1 dell’art. 62, per
un verso potrebbe essere dunque intesa come indice di nullità virtuale per violazione di norme imperative dei contratti stipulati in violazione delle richiamate disposizioni, ma per altro
verso, all’opposto, potrebbe essere interpretata nel senso di
escludere tale nullità proprio in ragione dell’esistenza di rimedi diversi a presidio delle finalità perseguite dalla legge.
Per contrasto – quanto alle tecniche legislative adottate in
altre ipotesi, comparabili a quella qui in esame – va ricordato che, in tema di rapporti fra imprese, la legge in tema
di subfornitura nelle attività produttive, pur prevedendo la
nullità del contratto di subfornitura non stipulato per iscritto,
ha fatto salvo il diritto del subfornitore al pagamento delle
prestazioni già effettuate ed al risarcimento delle spese sostenute in buona fede28; e che, in tema di rapporti fra imprese e consumatori, il Codice del consumo, nello stabilire
la nullità di clausole che possono pregiudicare il consumatore, ne ha chiarito la natura di nullità relativa, disponendo:
“La nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore”29.
In assenza nell’art.62 di disposizioni analoghe a quelle soprarichiamate, la stessa individuazione di fattispecie di
possibile nullità virtuale e gli esiti applicativi di questa, rimangono dunque fortemente incerti.
Si aggiunga che l’area applicativa delle disposizioni in discorso (e quindi anche quella della possibile sanzione di invalidità) è stata rideterminata, sempre nel dicembre 2012,
dalla richiamata legge n. 221/2012, che ha escluso i contrat-
(22) Legge 17 dicembre 2012, n. 221, che ha convertito con modifiche il decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179.
(23) V. l’art. 36-bis del d.l. n. 179/2012 cit., inserito dalla Legge di conversione n. 221/2012 cit.
(24) V. il testo vigente dell’art. 62, comma 5, d.l. n. 1/2012.
(25) Per virtuale intendendo – secondo un diffuso orientamento della dottrina – un’ipotesi di nullità diversa da quella testuale derivante
da un’espressa disposizione di legge che la preveda. In argomento v. R.Sacco, Il contratto, in Trattato dir. da Vassalli, VI, 2, Torino,
1975, 526; R.Tommasini, Nullità, in Enciclopedia del Diritto, XXVIII, Milano, 1978, 878; M.Bianca, Il contratto, Milano, 2000, 618; R.De
Nova, Il contratto contrario a norme imperative, in Riv. critica dir. priv., 1985, 436; N.Irti, Introduzione allo studio del diritto privato, Milano, 2003.
(26) Ex art. 2041 cod.civ.; cfr., fra le tante, Cass. civ., 27 ottobre 1981, n. 5616.
(27) Cosi Cass. civ. Sez. III, 5 aprile 2003, n. 5372 (fattispecie in tema di decadenza dai benefici previsti dalla vigente legislazione in materia di formazione e di arrotondamento di proprietà contadina), in Giur. It., 2004, 1624, con nota di I.Canfora; in senso conf. v. di recente Cass. civ. Sez. VI, 14 dicembre 2010, n. 25222.
(28) V. l’art. 2, comma 1, ultimo periodo, della Legge 18 giugno 1998, n. 192.
(29) V. l’art. 36, comma 3, del Codice del Consumo (Decr. Leg.vo 6 settembre 2005, n. 206).
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ti fra imprenditori agricoli dall’ambito applicativo dell’art. 6230.
Una disciplina disegnata per tipologia oggettiva dei prodotti, quale quella di cui all’art. 62, è stata dunque spostata
nell’ambito di una disciplina disegnata insieme per prodotti
e per soggetti, con una chiara differenza di segno, pur in
presenza dei medesimi oggetti, fra i contratti di cui è parte
un’impresa commerciale (assoggettati al nuovo regime) ed
i contratti stipulati fra imprese agricole (esclusi dal nuovo
regime); contratti, questi ultimi, fra i quali rientrano fattispecie rilevanti di accordi all’interno delle filiere produttive (basti pensare ai contratti fra allevatori od a quelli fra vivaisti e
coltivatori); con ciò introducendo ulteriori elementi di incertezza soggettiva, oltre che oggettiva, in riferimento a soggetti che svolgono una pluralità di attività.
Sotto più profili, insomma, l’additiva e non sistematica tecnica legislativa adottata dal legislatore del 2012, prima con
il decreto legge n. 1/2012 e poi con la legge n. 221/2012,
non ha certo giovato a garantire agli operatori del mercato
l’essenziale requisito della certezza nell’ambito dei rapporti
fra imprese.
In prosieguo, l’incertezza definitoria ed applicativa, lungi
dal risolversi, si è ulteriormente accresciuta, in esito all’intervento del legislatore delegato ed al mancato coordinamento fra gli uffici legislativi dei diversi ministeri, in vario
modo investiti di competenze di intervento regolatorio sulle
attività delle imprese nel mercato in esame.
Il legislatore delegato, nel novembre 201231, in sede di
esercizio della delega32 per l’attuazione della direttiva n.
2011/7/UE33 sui ritardi di pagamento nelle relazioni commerciali, è intervenuto a modificare il precedente decreto
legislativo n. 231/200234, ma ha totalmente omesso di coordinare le nuove disposizioni generali introdotte dal decreto
delegato con le specifiche disposizioni introdotte pochi mesi prima dall’art. 62, e questo nonostante la legge delega35
ben consentisse (anzi imponesse) un siffatto coordinamento normativo, lì ove rinviava alla direttiva n. 2011/7/UE, che
espressamente consente agli Stati membri di mantenere in
vigore o adottare disposizioni più favorevoli al creditore di
quelle necessarie per conformarsi alla direttiva36.
Ne è emerso un conflitto interpretativo esplicito (meglio:
una dichiarata incomunicabilità) fra gli uffici legislativi dei
Ministeri interessati.
36
L’Ufficio legislativo del Ministero dello Sviluppo Economico,
con nota del 27 marzo 201337, ha concluso che, “sia in applicazione del generale criterio della successione di leggi
nel tempo, sia in applicazione del criterio di prevalenza del
diritto europeo su norme nazionali incompatibili”, si deve ritenere che “l’articolo 62, comma 3, del decreto legge 24
gennaio 2012, n. 1, convertito dalla legge 24 marzo 2012,
n. 27, è stato abrogato tacitamente ed oggi non è più in vigore. Di conseguenza, neppure possono altresì trovare applicazione i successivi commi 7, 8 e 9 del medesimo articolo (gli ultimi due, limitatamente ai riferimento alla fattispecie
di cui al comma 3), in quanto concernono sanzioni ormai
prive della relativa fattispecie, alla stregua dei principi costituzionali di legalità e riserva di legge”38.
Con posizione frontalmente opposta, l’Ufficio legislativo del
Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, con
nota del 2 aprile 201339, valorizzando il criterio di specialità
quale limite all’applicazione del generale principio della successione delle leggi nel tempo, e sottolineando la facoltà
concessa dalla direttiva europea agli Stati membri di mantenere o adottare disposizioni di maggior favore per i creditori, ha concluso per la perdurante “piena efficacia e vitalità
della normativa speciale in tema di cessione dei prodotti
agricoli ed agroalimentari, di cui al ripetuto art. 62”40.
Ad oltre un anno dall’adozione della nuova disciplina, gli
obiettivi della certezza, chiarezza e stabilità nelle relazioni
commerciali, che l’art. 62 intendeva realizzare, erano dunque ben lungi dall’essere raggiunti, e l’esito concreto è stato piuttosto quello di un’accresciuta incertezza e conflittualità.
3.- La via giudiziale
Era agevole prevedere che non sarebbe rimasta senza effetti tale diffusa e ripetuta disattenzione dei regolatori (a livello primario e secondario) nei confronti della sistematicità
e coerenza del quadro disciplinare.
La controversia è puntualmente insorta in sede giudiziale e
con grande tempestività il TAR del Lazio (icasticamente
denominato in un Convegno di alcuni anni fa come “Autorità delle Autorità”, in ragione della sua competenza a deci-
(30) Art. 36, comma 6-bis, del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179, inserito dalla citata legge di conversione n. 17 dicembre 2012, n. 221.
(31) D.Lgs. 9 novembre 2012, n. 192, Modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231.
(32) Delega conferita dall’art. 10 della legge 11 novembre 2011, n. 180, Norme per la tutela della libertà d’impresa. Statuto delle imprese.
(33) Direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali (rifusione).
(34) D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali.
(35) V. l’art. 10 della legge n. 180/2011, cit.
(36) V. art. 12.3. della direttiva 2011/7/UE cit.
(37) Nota Min. Svil. Econ., Uff. Legislativo, prot. n. 0005401 del 26 marzo 2013.
(38) Così la nota Min. Svil. Econ., ult. cit.
(39) Nota Mipaaf, Uff. Legislativo, prot. n. 0003470 del 2 aprile 2013.
(40) Così la nota Mipaaf, ult. cit.
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dere sui provvedimenti delle Amministrazioni ed Autorità
centrali) è intervenuto a ristabilire una chiarezza disciplinare oltre che amministrativa, con una pronuncia che per il
suo impianto ricorda i grand arrêtés della Cour de Cassation francese e che si autodefinisce espressamente con
una formula, quella della “decisione interpretativa di rigetto”, abituale nella giurisprudenza costituzionale pur se vista
con dichiarato sfavore da autorevole dottrina41, ma certamente inconsueta nella giurisprudenza amministrativa.
4.- Il caso
La ricorrente è società operante nel settore della produzione e distribuzione di integratori alimentari, la quale – premesso che i prodotti da essa commercializzati sono prodotti alimentari ai sensi del Regolamento (CE) n. 178/200242,
ma non sono prodotti agroalimentari – ha censurato il D.M.
Mipaaf attuativo del 19 ottobre 2012, nella parte in cui questo ha dichiarato applicabili a tutti i prodotti alimentari, e non
ai soli prodotti agroalimentari, la nuova disciplina sulla
forma e sul contenuto dei contratti di cessione e sui termini
di pagamento, introdotta dall’art. 62.
La ricorrente ha fatto valere motivi di ordine sistematico,
quanto alla ratio ed alle finalità della nuova normativa, e
profili legati alla competenza del Mipaaf, da ritenersi limitata alla sola commercializzazione di prodotti agricoli ed
agroalimentari, ma non estesa a comprendere i prodotti alimentari tout court.
Il TAR del Lazio, con ampia ed assai motivata analisi43, formalmente ha respinto il ricorso, ma nella sostanza ne ha
accolto appieno l’impianto, pronunciando una decisione,
che formalmente è “di rigetto dell’impugnativa”, ma lo è in
quanto “interpretativa”, laddove l’interpretazione è nel senso che l’art. 62 e la decretazione Mipaaf del 19 ottobre
2012 devono essere letti in senso coerente all’impianto sistematico ed alle competenze del Ministero, al di là della
lettera delle formule utilizzate.
In via preliminare il Tribunale risolve il conflitto interpretativo insorto fra gli uffici legislativi del Ministero dello Sviluppo
37
Economico e del Ministero delle Politiche Agricole, quanto
alla vigenza o meno dell’art. 62, dopo l’entrata in vigore del
Decr. Leg.vo 9 novembre 2012 n. 192 di disciplina dei termini di pagamento nelle transazioni commerciali44.
Il TAR accoglie le tesi del Mipaaf sulla perdurante vigenza
dell’art. 62, siccome lex specialis rispetto alla successiva
lex generalis costituita dal Decr. Leg.vo n. 192/2012, anche
alla stregua delle indicazioni sistematiche ricavabili dalla
Direttiva 2011/7/UE, quanto alla facoltà degli Stati membri
di adottare o introdurre disposizioni più favorevoli al creditore.
Sicché – ad avviso del Tribunale e diversamente da quanto
sostenuto dal Ministero dello Sviluppo Economico – non
sussiste alcun contrasto della disciplina speciale su modalità e termini di pagamento introdotta dall’art. 62 con le disposizioni di fonte comunitaria, né tale disciplina può ritenersi superata dal successivo Decr. Leg.vo n. 192/2012,
atteso che questo, in ragione della sua natura di attuazione
di una direttiva comunitaria aperta ad una pluralità di declinazioni quanto a tipologie, oggetti ed aree dei diversi rapporti commerciali, non esclude la permanenza di discipline
speciali purché più favorevoli ai creditori (quale è appunto
il caso della disciplina introdotta dall’art.62).
In questa prospettiva di risistemazione ordinante, nella
quale collocare disposizioni che per sé stesse non si caratterizzano per coerenza e sistematicità, lo stesso pasticciato intervento operato dal legislatore ordinario nel dicembre
2012 con la legge di conversione del d.l. n. 179/201245, viene ricondotto dal Giudice amministrativo in una dimensione
di sistema, poiché – come sottolineato nella sentenza – la
modifica parziale dell’art. 62 con l’abrogazione della sanzione espressa di nullità, essendo intervenuta nel dicembre 2012, dunque in epoca successiva all’entrata in vigore
del Decr. Leg.vo n. 192/201246, suona espressa conferma
della ritenuta permanenza nell’ordinamento dell’art. 62 nella parte non modificata47.
Accertata la perdurante vigenza della norma, il Giudice
amministrativo muove dalla non coincidenza fra prodotto
agroalimentare e prodotto alimentare, e rileva che “Il prodotto “agroalimentare” … rappresenta un sotto-insieme del
(41) V. le pagine assai critiche di C.Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1967, VII ed., II vol, p. 1066, il quale conclude: “E’ quindi da concludere che le sentenze interpretative di rigetto siano da evitare, perché, oltre all’anomalia che presentano di dispositivi che
rinviano alla motivazione per la determinazione del loro contenuto, sono fonte di incertezza nell’applicazione delle leggi alle quali si riferiscono”.
(42) E’ il notissimo Regolamento (CE) n. 178/2002, del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 28 gennaio2002, che stabilisce i principi
e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo
della sicurezza alimentare; abitualmente denominato General Food Law, a sottolineare la sua natura di corpus sistematico di riferimento dell’intera legislazione alimentare europea.
(43) V. infra il testo completo della decisione.
(44) V. supra, par.2
(45) V. supra, nota 22.
(46) Pubbl. sulla G.U. n. 267 del 15 novembre 2012, ed entrato in vigore il 30 novembre 2012.
(47) Sicché, con una singolare eterogenesi dei fini (e grazie alla lettura ordinante del Giudice amministrativo), il disattento legislatore del
dicembre 2012, se non ha risolto il quesito circa la persistenza o meno di una nullità virtuale dopo l’abrogazione della nullità testuale,
avrebbe però concorso ad assicurare la perdurante vigenza dell’art. 62 nel suo complesso.
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prodotto “alimentare, nel senso che rientrano in tale ultima
nozione tutti i prodotti dell’agricoltura destinati all’alimentazione umana”, precisando che “laddove venga impiegata la
locuzione “prodotto alimentare”, essa – in assenza di diversa specificazione o precisazione – comprende senz’altro
anche il prodotto “agroalimentare”; mentre tale ultima indicazione, ex se riguardata, deve intendersi estesa esclusivamente ai prodotti dell’agricoltura, destinati all’alimentazione umana”48.
Tale premessa (pacifica per chi si occupa della materia,
ma totalmente trascurata sia dal Mipaaf che dall’AGCM)
guida l’interprete giudiziale nell’individuazione della “delimitazione contenutistica della previsione di legge” attraverso
il superamento della “imprecisione terminologica”49 dell’utilizzo nel testo dell’art. 62 della locuzione “alimentare”, laddove “con maggiore appropriatezza il Legislatore avrebbe
potuto indicare i prodotti “agroalimentari”50.
Il Giudice richiama le competenze del Mipaaf, limitate ai prodotti agricoli ed agroalimentari, sottolinea che la limitazione
dell’area applicativa della nuova disciplina ai soli prodotti
dell’agricoltura destinati all’alimentazione umana trova conferma, oltre che nel generale impianto e nelle finalità dell’art.
62, nello stesso comma 4 di tale articolo, che nell’individuare i prodotti alimentari deteriorabili fa riferimento a prodotti
tutti rientranti nella richiamata categoria dei “prodotti dell’agricoltura destinati all’alimentazione umana”, e conclude
che l’area applicativa della nuova disciplina deve intendersi
limitata ai soli prodotti agroalimentari, vale a dire ai soli prodotti alimentari derivanti dalla produzione agricola, con conseguente esclusione dei prodotti alimentari non riconducibili
alla più specifica categoria dei prodotti agroalimentari, quali
– nel caso di specie – gli integratori prodotti dalla ricorrente.
Sotto il profilo sistematico, tale conclusione risulta rafforzata dall’impianto del parere pronunciato dal Consiglio di Stato in sede consultiva sul testo regolamentare predisposto
del Mipaaf; parere adottato muovendo dal presupposto che
“il regolamento disciplina esclusivamente i rapporti tra gli
38
imprenditori presenti nel settore agroalimentare” e che le
obbligazioni contrattuali in discorso coinvolgono “soggetti
della filiera agroalimentare italiana”51.
Sicché, come sottolinea la decisione in commento: “I puntuali riferimenti ai prodotti ed al settore agroalimentari che
permeano l’illustrato parere consentono di escludere, con
ogni evidenza, che la portata applicativa dell’esaminato testo regolamentare sia stata dal Consiglio di Stato intesa
come suscettibile di estensione ai prodotti alimentari non
agroalimentari”52.
Emerge in tal modo – nella ricostruzione operata dal Giudice amministrativo – una complessiva disciplina di filiera sistematicamente orientata e strutturata, e l’espressione “filiera agroalimentare italiana”, ben indagata nelle analisi degli economisti53, ma sin qui tradottasi sul piano giuridico in
interventi numerosi ma spesso occasionali e tra loro non
compiutamente coordinati54, acquista un preciso contenuto
precettivo, siccome idonea a perimetrare una filiera di relazioni di impresa, che integra in un unico contesto la fase
agricola, quella di trasformazione e quella di commercializzazione, assegnando a questa filiera regole proprie55.
Muovendo dal contenzioso insorto sulla perimetrazione dell’area applicativa dell’art. 62, e ricercando la soluzione in una
dimensione sistemica, la decisione in commento coglie
l’emergere di un disegno, in cui le regole del produrre e del
commercio si avviano – con consapevolezza crescente – a
comporre un diritto del sistema agroalimentare, dotato di
precetti e di principi, non riducentesi alla legislazione alimentare od alla semplice disciplina igienico-sanitaria dei prodotti
per sé considerata, ma inteso ad individuare, rappresentare
sinteticamente, e regolare, l’origine del produrre (l’agricoltura), il percorso (l’industria alimentare), ed il risultato (il prodotto alimentare e la sua immissione al consumo), e così l’intera filiera in cui si articola il sistema agroalimentare56.
Insieme ne risulta il riconoscimento, in chiave moderna ed
originale, di quella specialità dell’agricoltura che la nostra
Costituzione ed il Trattato istitutivo della Comunità Econo-
(48) Così al punto 1 della sentenza.
(49) Così definita nella sentenza.
(50) Così al punto 4 della sentenza.
(51) Così al punto 5 della sentenza.
(52) Così al punto 5 della sentenza [corsivo agg.].
(53) V., per tutti, V.Saccomandi, Istituzioni di economia dei prodotti agricoli, Milano, Reda, 1991.
(54) In argomento, per ulteriori indicazioni e analisi della successione di interventi legislativi ed amministrativi, sia consentito rinviare al
mio Sistema agroalimentare, in “Digesto Discipline privatistiche – Aggiornamento”, Torino, Utet, 2009, 479.
(55) Come ha efficacemente sottolineato Luigi Costato sin dalla prima edizione del Compendio di diritto alimentare, Cedam, Padova,
2002, a p. 11, la dimensione sistemica del diritto alimentare dell’oggi rimanda per sua natura all’idea di filiera, definita “riprendendo la
definizione riportata da un economista [V. Saccomandi, op.ult.cit.], l’insieme degli agenti che direttamente o indirettamente operano lungo l’itinerario economico di un prodotto dallo stato iniziale della produzione a quello finale” [corsivo agg.], con la precisazione, che sintetizza l’esperienza degli ultimi decenni che hanno visto la fase fondativa del sistema di diritto alimentare europeo e che ben si attaglia
anche alla vicenda legislativa, amministrativa e giudiziale oggetto della sentenza qui in commento: “Se si considerano, poi, anche gli
elementi esterni alla filiera ma che influiscono sul risultato finale attraverso regole, condizionamenti o incentivi, la definizione di filiera
globale si ripropone come quella appena fornita, precisando che “l’insieme degli agenti” comprende quelli economici, amministrativi e
politici” (L.Costato, op.loc.ult.cit. - corsivo agg.).
(56) Sulle linee evolutive lungo le quali si va articolando la disciplina, di fonte nazionale ed europea, si rinvia al mio Sistema agroalimentare, cit.
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mica Europea (già nel suo testo originale, ed oggi, con
identiche formule, il TFUE) hanno da tempo riconosciuto
non in chiave di privilegio o di esenzione rispetto alle generali regole di impresa, ma in chiave di specialità in ragione
della funzione primaria assegnata alla filiera agroalimentare: quella di assicurare a tutti l’accesso ad un cibo sano, in
quantità sufficiente, ed a prezzi accessibili57.
5.- I giudici amministrativi come law makers nei rapporti
d’impresa.
Nel merito, la decisione del TAR Lazio propone risposte
chiare a tutto campo, non limitandosi alla sola individuazione dell’area applicativa della disciplina (prodotti alimentari
o agroalimentari), ma intervenendo con un’opera di ricostruzione sistematica dell’intera disciplina di filiera.
Significative in punto le considerazioni conclusive espresse
nel punto 6 della decisione, lì ove il Giudice amministrativo,
con motivazione sintetica ma efficace ed esaustiva, respinge il secondo motivo di ricorso, con il quale era stata dedotta un’illegittima limitazione della libertà negoziale delle
imprese, con asserita violazione dei principi di cui agli artt.
2, 3, e 41 cost.
Si tratta di considerazioni proposte in obiter, atteso che la
dichiarata non applicabilità dell’art. 62 ai prodotti alimentari
non costituenti prodotti agroalimentari (quali, nel caso di
specie, gli integratori prodotti e distribuiti dalla ricorrente)
definisce compiutamente la questione posta dalla ricorrente,
escludendola dall’applicazione della disciplina in discorso.
Il secondo motivo di ricorso, proposto in via gradata, poteva quindi dirsi tecnicamente assorbito, non essendo rilevante per sé ai fini del decidere, attesa l’idoneità della decisione sul primo motivo a definire ogni motivo di concreto
interesse ad agire della ricorrente.
Il Collegio ha tuttavia ritenuto di soffermarsi anche su tale
motivo a dichiarati “fini di completezza nella ricognizione del
sottoposto thema decidendum”58. In questa prospettiva appare palese che il thema decidendum assunto dal Giudice
amministrativo non è la singola fattuale questione di interesse dello specifico ricorrente, ma piuttosto la posizione di un
complessivo quadro disciplinare sistematicamente orientato.
39
Risulta confermata in particolare la nozione di filiera agroalimentare quale canone ordinante di portata generale.
Il neo-formalismo59 applicato alle pratiche negoziali del settore, e quella che il Collegio individua come “l’introdotta tracciabilità delle transazioni riguardanti gli indicati generi merceologici”60 sono dichiarati conformi ai principi a presidio della libertà di iniziativa economica e dell’eguaglianza dei consociati,
non in ipotesi in ragione dell’eventuale individuazione di contraenti deboli bisognosi di peculiari tutele (come nel caso delle norme in materia di tutela dei consumatori o di rapporti di
subfornitura), ma in ragione di considerazioni sistemiche
quanto ai valori ed interessi che la legislazione del settore
agroalimentare deve nel suo insieme realizzare.
In questa prospettiva risulta esemplare ed illuminante l’utilizzazione (che appare non casuale) di un’espressione,
“tracciabilità”, largamente presente nel dibattito di questi
anni, sia in tema di sicurezza alimentare, che in tema di sicurezza finanziaria ed economica61.
La duplice esigenza, esplicitamente individuata dal Giudice
amministrativo, “di garantire implementati margini di sicurezza alimentare (veicolati dalla percorribilità della filiera e
dalla individuabilità della fonte di produzione)” e “di assicurare un più puntuale e verificabile concorso alle esigenze
finanziarie statali”62, riportano ai generali temi della sicurezza alimentare, nella duplice declinazione di food safety e di
food security, e dunque a profili che sono squisitamente
propri delle politiche di mercato63.
Il Giudice amministrativo, di tal guisa, adempie appieno al
compito di ius dicere con riferimento al caso concreto ad
esso sottoposto, ma nel far ciò assume congiuntamente una
più ampia responsabilità: quella di operare come law maker
nei rapporti di impresa, disegnando la trama ed esplicitando
i principi e i valori, nel cui ambito tali rapporti devono svilupparsi, così collocandosi nella dimensione dello ius dicere tra
iurisdictio ed imperium che era propria del magistrato nel
diritto romano e che è stata a lungo negata in epoca moderna a far tempo dall’enunciazione del primato della legge.
In altre parole: la decisione propone non un giudice del
caso singolo, ma un giudice regolatore, che nel sistema dell’oggi della regolazione del mercato, caratterizzato dal
decadimento della legge e dalla frammentazione del sistema delle fonti precettive ed insieme dal moltiplicarsi dei
(57) Secondo la ben nota definizione formulata dalla FAO nel World Food Summit del 1996: “Food security exists when all people, at all
times, have physical and economic access to sufficient safe and nutritious food that meets their dietary needs and food preferences for
an active and healthy life.”.
(58) Così al punto 6 della sentenza.
(59) Sul neo-formalismo, in riferimento specifico alle scelte operate con l’adozione dell’art. 62, v. i rigorosi rilievi di A. Jannarelli, La strutturazione giuridica dei mercati nel sistema agroalimentare, op. cit., e Id., La delibera dell’Autorità Garante della Concorrenza, op. cit.
(60) Così al punto 6 della sentenza [corsivo agg.].
(61) Per ulteriori riferimenti in argomento sia consentito rinviare al mio Soggetti e oggetti della sicurezza, non solo alimentare, in Europa,
prima e dopo Lisbona, in “Agricoltura e in-sicurezza alimentare, tra crisi della Pac e mercato globale”, a cura di E-Rook Basile e A.Germanò, Milano, Giuffré editore, 2011, 197.
(62) Così al punto 6 della sentenza.
(63) Temi che, pur fra incertezze e timidezze, stanno ricomparendo anche nelle più recenti scelte di riforma della PAC; sul punto sia consentito rinviare al mio Sicurezza alimentare e approvvigionamento a livello UE, in Sicurezza energetica e sicurezza alimentare nel sistema UE, a cura di E. Rook-Basile e S. Carmignani, Milano, Giuffrè ed., 2013, 21.
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centri di regolazione, ormai multilivello e multispecie64, costituisce una sorta di centro necessario di sintesi e di addensamento delle scelte di governo.
In questo senso, la crescente conformazione dell’attività di
impresa – avvenga essa con strumenti legislativi o amministrativi, con l’intervento di strutture pubbliche tradizionali o
di autorità indipendenti, operanti in una dimensione domestica, europea o internazionale – anche all’interno dei rapporti tradizionalmente “privati” tra le parti, chiama il contenzioso amministrativo ad un ruolo che non è più soltanto
quello, tradizionale, di solutore dei conflitti fra singolo e P.A.,
ma quello, di portata qualitativamente (oltre che quantitativamente) assai diversa, di ricostruttore del quadro regolatorio che l’azione di governo (amministrativa e legislativa)
pone alle imprese.
In questa prospettiva il Giudice amministrativo è solo apparentemente chiamato a risolvere controversie e ricorsi fra
l’impresa ricorrente e la P.A.
In realtà, l’oggetto del decidere, il thema decidendum –
quale emerge dalla motivazione della sentenza in commento – non è una pretesa del privato verso la P.A.
Non si chiede in ipotesi di dichiarare illegittima un’ordinanza
di demolizione o un diniego di benefici od aiuti finanziari.
Ciò che si intende ottenere attraverso il ricorso giurisdizionale (e che costituisce il contributo originale di decisioni
quale quella qui in commento) è piuttosto la posizione di un
assetto, che regoli i rapporti tra le imprese, prima ancora
che i rapporti delle imprese con la P.A.
In altre parole: la richiamata “frammentazione del sistema
delle fonti precettive”65 sta portando con sé il recupero
(necessario) di un centro di consolidamento di ciò che è
frammentato, e dunque porta all’esperienza di giudici come
law makers66.
Il tema è da tempo oggetto della riflessione degli studiosi di
diritto comparato e di assetti istituzionali ed ordinamentali,
ed è ormai entrato a pieno titolo nella nostra riflessione di
diritto interno67; con ciò ponendo l’ulteriore, collegato, profilo, assai controverso in questi anni, della differente legitti-
40
mazione dei giudici nei sistemi di common law che vedono
giudici politicamente designati ed in qualche misura politicamente responsabili, e nel nostro sistema che vede giudici reclutati su base burocratica ed esclusi da meccanismi di
responsabilità politica.
Nel versante del diritto dell’economia e dei mercati – quale
è ormai da anni il diritto agroalimentare, in esito all’irrompere della regolazione di fonte comunitaria e internazionale –
tutto ciò appare con esemplare chiarezza.
Il governo dei mercati agroalimentari è stato a lungo condotto attraverso determinazione autoritativa dei prezzi, erogazione di aiuti finanziari, limitazioni alla produzione68, cioè
con strumenti tipici di una direzione centralizzata e burocratica delle singole scelte d’impresa e dei fattori di determinazione dei livelli dei prezzi e delle produzioni.
L’irrompere delle regole di fonte WTO (e comunque il crescente credito di un approccio fortemente orientato verso la
autodeterminazione dei mercati)69, intese a rimuovere interventi diretti sui livelli dei prezzi e delle produzioni, ha indotto a ricercare nuovi strumenti intesi a favorire la realizzazione degli obiettivi perseguiti70; strumenti individuati anzitutto
all’interno del quadro disciplinare dell’attività di impresa nel
mercato, e dunque attraverso una valorizzazione dello strumentario giuridico, che nel neoformalismo trova espressione esemplare.
Ma il ricorso al neoformalismo nella regolazione dei rapporti fra imprese porta con sé l’esigenza di una coerenza sistematica della regolazione71; coerenza che la frammentazione
legislativa e la pluralità e sovrapposizione delle fonti difficilmente riescono ad assicurare.
Da qui il ricorso al contenzioso giudiziale quale necessario
centro di sintesi ordinante, ed il connesso emergere – in
particolare nel nostro sistema giuridico – del ruolo del giudice amministrativo quale law maker nei rapporti privati fra
imprese, siccome giudice dell’attività della P.A. rivolta in
misura crescente a regolare i rapporti fra imprese, oltre che
i rapporti delle imprese con la P.A.
(64) Come ben sottolinea S.Amorosino, Evoluzioni recenti della legalità amministrativa, in corso di pubbl., che ho potuto leggere per la
cortesia dell’A., cui si rinvia per ulteriori indicazioni e riferimenti.
(65) V. S.Amorosino, op.ult.cit.
(66) Si fa qui riferimento, in termini generali, al ben noto saggio del giurista scozzese Lord Reid, The Judge as Law Maker, in Journal of
the Society of Public Teachers of law, vol. 12 (1972).
(67) In argomento la letteratura è vastissima; molto sinteticamente e solo per ulteriori indagini si rinvia qui a M.Cappelletti, Giudici legislatori ?, Milano Giuffré, 1984; N.Irti, L’età della decodificazione, Milano Giuffré, 1979; S. Cassese, I Tribunali di Babele - I giudici alla
ricerca di un nuovo ordine globale, Donzelli, Roma, 2009; ed alle analisi proposte in Governo dei giudici: la magistratura tra diritto e politica, a cura di E. Bruti Liberati-A.Ceretti-A.Giasanti, Milano, 1996, spec. p. 192.
(68) V. in punto le ben note vicende delle quote latte e dei diritti di impianto dei vigneti.
(69) Ai fini di queste note si prescinde da ogni considerazione sull’efficacia e ragionevolezza di scelte siffatte, e si prende comunque doverosamente atto dell’attuale prevalenza in sede europea ed internazionale di orientamenti che negano legittimità ad interventi sui prezzi
e sulle produzioni, accomunando il settore agroalimentare a settori di attività economica aventi caratteristiche ben diverse.
(70) Laddove, come è noto, gli obiettivi assegnati alla politica agricola comune sono rimasti immutati dall’art. 39 dell’originario TCEE
all’art. 39 dell’odierno TFUE.
(71) Per una lettura critica delle scelte operate dal legislatore e dai regolatori secondari v. A. Jannareli, La strutturazione giuridica dei mercati nel sistema agroalimentare, op. cit.; e Id., La delibera dell’Autorità Garante della Concorrenza, op. cit.
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6.- Dal sindacato di legalità al sindacato sulle regole: la pluralità delle fonti genera nuovi paradigmi.
Un’ultima considerazione: il giudice amministrativo, all’interno di questo percorso, in misura crescente affianca al tradizionale sindacato di legalità dell’atto amministrativo, un sindacato sulle regole, di fonte non solo amministrativa o regolamentare, ma anche legislativa.
Esemplari in punto le considerazioni esposte ai punti 1 e 4
della motivazione, lì ove si rileva la distonia fra epigrafe e
disposto dell’art. 62, e le conclusioni esposte al punto 5 della
motivazione ove si perviene ad una lettura ricostruttiva dell’art. 62, che porta a riferire la “disciplina delle transazioni
commerciali “normata” dall’art. 62 del decreto legge 1/2012”
“esclusivamente ai negozi giuridici aventi ad oggetto prodotti “alimentari” derivanti dalla produzione agricola (e, conseguentemente, … ai soli prodotti “agroalimentari”)”72.
Appare evidente da tali argomentazioni che la controversia
giudiziale decisa con la sentenza in commento solo convenzionalmente investe un provvedimento amministrativo
(il DM Mipaaf 19 ottobre 2012, n.199)73, laddove l’effettivo
oggetto di sindacato e di decisione è la norma legislativa
introdotta dall’art. 62.
Il sindacato sulle regole non può però essere esercitato con
lo strumento tradizionale della decisione di annullamento, e
salvo che il giudice non ritenga di rimettere in via esclusiva
ogni sindacato sulle leggi alla Corte costituzionale (quale
Giudice delle leggi, appunto), impone la ricerca di nuovi
strumenti di giustizia.
Da qui il ricorso alla formula, inconsueta per decisioni
emesse da giudici diversi dalla Corte costituzionale, della
sentenza “interpretativa di rigetto”74.
Va detto che la formula, pur inconsueta, non è ignota alla
più recente giurisprudenza amministrativa. Una ricerca
testuale sul sito della giustizia amministrativa75, ha consentito di individuare due decisioni di Tribunali amministrativi
regionali ed una del Consiglio di Stato.
Con sentenza, emessa dal TAR Piemonte nel 201276, il giudice amministrativo ha respinto il ricorso proposto dal titolare di un’azienda agricola agrituristica avverso la delibera
con cui il Comune della zona aveva approvato il regolamento per il transito sulla pista agro-silvo-pastorale di accesso
ad un alpeggio. Il ricorrente aveva censurato in particolare
la previsione contenuta nel regolamento comunale, che
richiedeva una previa autorizzazione per poter transitare
sulla strada, ed aveva invocato a sostegno della censura
una legge regionale che consente ai proprietari e a chi ha
41
“motivati scopi professionali” di transitare con veicoli a
motore sulle piste agro-silvo-pastorali, in deroga al generale divieto di percorsi con mezzi motorizzati. Il Tribunale
amministrativo ha ritenuto che il regolamento comunale
dovesse essere interpretato nel senso che l’autorizzazione
andava in ogni caso concessa ai soggetti individuati dalla
legge regionale, sicché tale autorizzazione doveva ritenersi
meramente ricognitiva dell’esistenza del diritto al passaggio
in presenza dei presupposti fissati dalla legge regionale,
con esclusione di qualsivoglia pregiudizio per i ricorrenti. Il
TAR ha pertanto respinto il ricorso con sentenza interpretativa di rigetto, ritenendo che il pregiudizio lamentato dal
ricorrente non fosse sussistente, in esito alla corretta interpretazione del regolamento comunale, quale enunciata
nella sentenza.
Il Consiglio di Stato, con decisione sempre del 2012, emessa
in sede di appello avverso la richiamata sentenza del TAR
Piemonte77, pur riformando la sentenza di primo grado nel
merito (ritenendo che la richiesta di autorizzazione, prevista
dal regolamento comunale, costituiva per il ricorrente un illegittimo onere non previsto dalla legge regionale), non ha censurato sotto il profilo processuale il ricorso da parte del giudice di primo grado ad una sentenza “interpretativa di rigetto”
emessa con procedimento logico “interpretativo di rigetto”78;
sicché l’ammissibilità del ricorso a tale innovativo modello
decisorio è stata validata dal giudice amministrativo d’apice.
Particolarmente interessante in punto un’altra sentenza,
emessa nel 2010 dal TAR Lazio79, con cui il giudice amministrativo, con sentenza interpretativa di rigetto, ha respinto il
ricorso del proprietario di un fabbricato avverso una delibera comunale, quanto all’inclusione o meno fra le strade da
intendersi cedute al patrimonio stradale comunale di una
certa strada privata aperta al pubblico transito. L’aspetto
peculiare di questo caso si manifesta già dal ricorso, nel
quale il privato ricorrente aveva esplicitamente chiesto in via
principale una sentenza interpretativa di rigetto. In particolare il ricorrente aveva chiesto di accertare che, al di là delle
tesi manifestate da altri proprietari di immobili confinanti con
la strada (tesi non espresse in modo esplicito dal Comune,
ma comprese nel novero delle interpretazioni astrattamente
possibili), la delibera doveva essere interpretata nel senso di
includere la strada privata in esame tra quelle cedute al
patrimonio comunale. Solo in via subordinata, il ricorrente
aveva chiesto di annullare la delibera comunale, per l’ipotesi che essa dovesse essere interpretata in senso diverso
rispetto a quello sostenuto in via principale in ricorso. Il
Giudice amministrativo, con analitica motivazione, ha con-
(72) Così al punto 5 della sentenza.
(73) Cit. supra, nota 8.
(74) Così al punto 6 della sentenza.
(75) www.giustiziaamministrativa.it – ricerca condotta il 30 settembre 2013.
(76) TAR Piemonte, sez. II, 9 febbraio 2012, n. 191/2012.
(77) Consiglio di Stato, sez. III, 18 ottobre 2012, n. 5363/2012.
(78) Così al punto 4 della sentenza del Consiglio di Stato, ult.cit.
(79) TAR Lazio, Sez. II-ter, 29 novembre 2010, n. 34398/2010.
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fermato l’interpretazione della delibera comunale sostenuta
dal ricorrente, concludendo che la strada in discorso rientrava fra quelle che ai sensi della delibera dovevano intendersi cedute al patrimonio comunale. Sicché il giudice ha
respinto il ricorso sul piano formale80 dichiarandolo infondato perché la delibera comunale non aveva il contenuto
paventato dal ricorrente, ma con ciò stesso ha nella sostanza accolto il ricorso, definendo con efficacia di giudicato nel
senso auspicato dal ricorrente l’assetto di rapporti fra i soggetti che a vario titolo vantavano diritti sulla strada.
Sicché già nel 2010 il TAR del Lazio ha anticipato l’apparente paradosso di una sentenza che, come quella qui in commento del 201281, formalmente respinge il ricorso, con decisione “di rigetto”, ma nella sostanza lo accoglie.
E’ un modello decisorio, al quale ci aveva introdotto la Corte
costituzionale già negli anni ’60 del secolo passato82, ma
che in prima lettura sembrerebbe incongruo per un giudice
di annullamento quale quello amministrativo.
In realtà quest’ultima esperienza giudiziale sembra iscriversi a pieno titolo in un fenomeno più ampio, strettamente collegato alla pluralità e frammentazione delle fonti, e ad un’articolazione del rapporto fra fonti declinata non più in termini
gerarchici ma in termini di primazia.
Come è noto, il rapporto fra norme interne e norme comunitarie è stato risolto in via ordinaria non con l’istituto dell’abrogazione o della dichiarazione di illegittimità83, ma
dichiarando l’obbligo di giudici ed amministratori nazionali
di disapplicare direttamente le norme interne (anche legislative) in contrasto con quelle comunitarie e di adottare fra
le varie interpretazioni possibili della norma di diritto interno
quella più coerente con la disciplina comunitaria84.
Lo spazio per pronunce interpretative, siano esse di rigetto
o di accoglimento, emesse da giudici anche non apicali e
diversi dal Giudice delle leggi, trova dunque un precedente
di sistema all’interno della struttura plurale dell’ordinamento
giuridico dell’oggi.
In questo disegno la sentenza in commento sembra collocarsi a pieno titolo, confermando linee evolutive già note ed
insieme anticipando soluzioni e paradigmi originali quanto
42
al ruolo assegnato alla giustizia amministrativa nella disciplina dei mercati.
ABSTRACT
Art. 62 of D.L. No 1 of January 24, 2012, introduced strict formal requisites for commercial contracts on agriculture and
agri-food products (terms of payment, clauses, use of written
contracts, and so on). The words used in the text of law left
uncertain whether such new provisions should be applied to
all food products or only to agri-food products (i.e. to the food
products which derive from agricultural products, and not to
food having industrial character). Both the Italian Agricultural
Ministry and the Italian Anti-trust Authority adopted administrative regulations applying the new law, assuming that the
new rules should be applied to all sort of food products,
whether or not obtained from agricultural products.
A producer of industrial products, assuming that the new rules
should not be applied to industrial food products, introduced
the case before the Administrative Tribunal of Rome, asking
for a decision which should cancel the administrative regulation adopted by the Italian Agricultural Ministry, as long as it
declared the new rules applicable to any sort of food products.
The Administrative Court, with the judicial decision here
published, rejected this interpretation and affirmed that art.
62 and the administrative regulations adopted by the
Agricultural Ministry must be interpreted as applicable only
to agri-food products.
The decision appears to be highly relevant, both for the
merits of the case (as it excludes from the application of the
new rules a significant area of products), and for the judicial
tool adopted (as the Court delivers a decision, which formally rejects the petition, but substantially validates the interpretation claimed by the plaintiff).
As a result, trough the adoption of innovative judicial tools
and reasoning, administrative courts confirmed their prominent role in the Italian legal system as law makers in the field
of market regulations, generally and with specific reference
to agri-food market.
(80) Così il dispositivo, sent.ult.cit.
(81) Pronunciata, come quella del 2010 cit. supra – si rileva per inciso – dalla medesima Sez. II-ter del TAR Lazio.
(82) V. supra la nota 41 quanto alle motivate critiche di C.Mortati sull’adozione di tale strumento da parte della Corte costituzionale.
(83) Salve le peculiari ipotesi derivanti dall’applicazione dell’art. 117, comma 1, cost. nuovo testo; sul quale si rinvia, per ulteriori indicazioni a F.Albisinni, Continuiamo a farci del male, cit.
(84) La vicenda è notissima, a partire dal caso Simmenthal, deciso dalla Corte di giustizia con sentenza del 28 giugno 1978, C- 106/77.
Per una lettura che rinvia al ruolo dei giudici in spazi giuridici comunicanti e non gerarchicamente ordinati, e per ulteriori riferimenti, v.
S. Cassese, I Tribunali di Babele, op. cit., pp. 44 ss.
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43
La sentenza del T.A.R. Lazio
T.A.R. Lazio – Roma, Sez. II ter, 17 luglio 2013, n. 7195 –
Pres. Filippi - Est. Politi – Chefaro Pharma Italia s.r.l. (avv.ti
Vaiano e Izzo), contro: Ministero delle Politiche Agricole e
Forestali (Avv.ra dello Stato)
Prodotti agricoli, alimentari e agroalimentari –
Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti alimentari ed agroalimentari
La locuzione “prodotto alimentare”, in assenza di diversa
specificazione o precisazione, comprende anche il prodotto
“agroalimentare”; mentre tale ultima indicazione, ex se
riguardata, deve intendersi estesa esclusivamente ai prodotti dell’agricoltura destinati all’alimentazione umana.
La disciplina delle transazioni commerciali, “normata” dall’art. 62 del decreto legge 1/2012, va riferita esclusivamente ai negozi giuridici aventi ad oggetto prodotti “agroalimentari”, vale a dire prodotti “alimentari” derivanti dalla produzione agricola.
(Omissis)
FATTO*
Espone l’odierna ricorrente – operante, fra l’altro, nel settore della produzione e distribuzione di integratori alimentari
– che tali prodotti hanno trovato disciplina nel Decreto
Legislativo 21 maggio 2004 n. 169 (di attuazione della
Direttiva comunitaria 2002/46/CE), con il quale sono state
dettate le norme relative alla produzione, al confezionamento, all’etichettatura, alla pubblicità, alla purezza delle
fonti di vitamine e minerali.
Il Decreto in questione, in particolare, ha confermato, anche
formalmente, il carattere “alimentare” degli integratori e
l’inassimilabilità di essi ai medicinali.
Peraltro, in ragione della ritenuta ascrivibilità dei prodotti in
questione alla nozione di “alimento” di cui al Regolamento
CE 178/2002, gli integratori alimentari sono interessati dall’attuazione delle disposizioni dettate dal decreto legge 24
gennaio 2012 n. 1 (convertito in legge 24 marzo 2012 n.
27), di cui alla decretazione ministeriale oggetto della presente impugnativa.
In particolare, l’art. 62 del decreto legge 1/2012, recante
Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione
di prodotti agricoli ed agroalimentari, ha stabilito che i contratti relativi a tali prodotti, ad eccezione di quelli conclusi
con il consumatore finale, debbono essere necessariamente stipulati in forma scritta e devono indicare, pena la nullità del contratto stesso, la durata, le quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento.
* I corsivi sono nel testo originale della sentenza.
Diversamente rispetto a quanto stabilito dalla citata disciplina, le prassi commerciali nel settore non contemplavano la
conclusione per iscritto del contratti e prevedevano tempi di
pagamento più lunghi.
Nell’escludere che gli integratori alimentari siano assimilabili
ai “prodotti agricoli” ed ai “prodotti agroalimentari” (per come
definiti dalla vigente disciplina comunitaria), parte ricorrente
assume che il Legislatore sia incorso in un refuso, atteso che:
- se la rubrica dell’art. 62 in questione si riferisce ai soli prodotti “agricoli ed agroalimentari”
- diversamente, nel testo della previsione legislativa si fa
riferimento ai prodotti “alimentari”
con riveniente difficoltà interpretativa in ordine all’esatto
ambito di applicazione della disposizione di che trattasi.
Il decreto attuativo previsto dall’art. 11-bis del decreto legge
1/2012, lungi dal dirimere le ambiguità ermeneutiche rivenienti dalla norma primaria, ha operato un riferimento ai “prodotti
agricoli” (di cui all’Allegato 1 dell’art. 38, comma 3, del TFUE)
ed ai “prodotti alimentari” (di cui all’art. 2 del Regolamento CE
178/2002): per l’effetto dovendo intendersi le relative disposizioni estese anche agli integratori alimentari.
Alla luce dell’interesse alla sollecitazione del sindacato giurisdizionale riveniente dalla contestata applicazione delle
disposizioni del decreto legge 1/2012 anche al settore merceologico da ultimo indicato, parte ricorrente ha articolato,
con il presente mezzo di tutela, le seguenti doglianze avverso il gravato decreto ministeriale:
1) Violazione e falsa applicazione dell’art. 62 del decreto
legge 24 gennaio 2012 n. 1, convertito in legge 24 marzo
2012 n. 27. Eccesso di potere per illogicità manifesta, sproporzione e difetto dei presupposti. Violazione dell’art. 33 del
D.Lgs. 300/1999 e dell’art. 17 della legge 400/1988.
L’illegittimità dell’impugnato decreto risiederebbe, secondo
la prospettazione di parte ricorrente, nel non aver compreso che l’ambito oggettivo di applicazione delle norme dettate dall’art. 62 del decreto legge 2/2012 avrebbe dovuto
essere circoscritto ai soli contratti sottoscritti per la cessione dei prodotti agroalimentari.
Nel ribadire come tale delimitazione sia esplicitata dalla
rubrica della norma, Chefaro Pharma soggiunge come la
difformità lessicale (prodotti agricoli ed agroalimentari; prodotti alimentari) risultante dalla disposizione legislativa in
rassegna avrebbe dovuto essere risolta nel senso dalla
medesima parte auspicato, in quanto:
- la normativa in questione ha carattere speciale (e sarebbe, per l’effetto, insuscettibile di estensione applicativa a
tutti i prodotti alimentari)
- il rinvio alla nozione di “alimento”, per come individuata dal
Regolamento comunitario 178/2002, sarebbe inappropriato, atteso che quest’ultimo reca la disciplina sulla sicurezza
alimentare;
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- la competenza del Ministero delle Politiche Agricole,
Alimentari e Forestali riguarda esclusivamente la commercializzazione dei prodotti agricoli ed agroalimentari come
definiti dal paragrafo 1 dell’art. 32 del Trattato.
2) Violazione e falsa applicazione, sotto diverso profilo, dell’art. 62 del decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, convertito
in legge 24 marzo 2012 n. 27. Eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti e disparità di trattamento. Violazione degli artt. 2, 3 e 41 della Costituzione.
L’estensione al mercato degli integratori alimentari della
normativa di cui all’art. 62 dell’epigrafato decreto determinerebbe, ad avviso di parte ricorrente, una illegittima incisione del mercato stesso, senza che al riguardo ricorrano
esigenze di protezione del contraente debole (rinvenibili,
invece, nel mercato dei prodotti agroalimentari).
Inoltre, la regolamentazione coattiva delle condizioni contrattuali costituirebbe uno strumento potenzialmente lesivo
della libertà di iniziativa economica e della sua autonomia.
Conclude parte ricorrente insistendo per l’accoglimento del
gravame, con conseguente annullamento dell’atto oggetto
di censura.
L’Amministrazione intimata, costituitasi in giudizio, ha eccepito l’infondatezza delle esposte doglianze, invocando la
reiezione dell’impugnativa.
Il ricorso viene ritenuto per la decisione alla pubblica udienza del 26 giugno 2013.
DIRITTO
1. La delibazione della controversia impone una previa ricognizione del quadro normativo di riferimento.
In primo luogo, va osservato che il comma 1 dell’art. 62 del
decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1 (Disposizioni urgenti per
la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 24 marzo 2012 n. 27, ha previsto che
“i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei prodotti agricoli e alimentari, ad eccezione di quelli conclusi con il consumatore finale, sono stipulati obbligatoriamente in forma scritta e indicano la durata, le quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento. I contratti devono essere informati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività
delle prestazioni, con riferimento ai beni forniti”.
Tale formulazione normativa consegue alle modificazioni
apportate all’originario testo della disposizione per effetto
dell’art. 36-bis del decreto legge 18 ottobre 2012 n. 179
(convertito, con modificazioni, in legge 17 dicembre 2012 n.
221), che ha da essa espunto le parole «a pena di nullità».
Ciò osservato, va dato atto – omogeneamente a quanto
dalla parte ricorrente rilevato nell’atto introduttivo – della difforme indicazione appalesata dal riportato disposto normativo rispetto all’epigrafe dello stesso art. 62 (intitolata
“Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari”).
Si osserva, poi, che il successivo comma 4 specifica che
“Per «prodotti alimentari deteriorabili» si intendono i prodot-
44
ti che rientrano in una delle seguenti categorie:
a) prodotti agricoli, ittici e alimentari preconfezionati che
riportano una data di scadenza o un termine minimo di conservazione non superiore a sessanta giorni;
b) prodotti agricoli, ittici e alimentari sfusi, comprese erbe e
piante aromatiche, anche se posti in involucro protettivo o
refrigerati, non sottoposti a trattamenti atti a prolungare la
durabilità degli stessi per un periodo superiore a sessanta
giorni;
c) prodotti a base di carne che presentino le seguenti caratteristiche fisico-chimiche: [omissis]”.
La previsione di cui al comma 11-bis dell’art. 62 (secondo
cui “Con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, da emanare entro tre mesi dalla data di pubblicazione della legge di conversione del presente decreto, sono
definite le modalità applicative delle disposizioni del presente articolo”), ha trovato attuazione con l’emanazione del
D.M. 19 ottobre 2012 n. 199.
L’art. 1 del decreto in questione ne precisa l’ambito di applicazione con riferimento “ai contratti di cui all’articolo 62,
comma 1 e alle relazioni commerciali in materia di cessioni
di prodotti agricoli e alimentari, la cui consegna avviene nel
territorio della Repubblica italiana, con particolare riferimento alle relazioni economiche tra gli operatori della filiera connotate da un significativo squilibrio nelle rispettive posizioni
di forza commerciale”.
Il successivo art. 2 ha, poi, stabilito (comma 1) che “Ai fini
del presente decreto, si intende per:
a) prodotti agricoli: i prodotti dell’allegato I di cui all’articolo
38, comma 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea;
b) prodotti alimentari: i prodotti di cui all’articolo 2 del regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del
Consiglio del 28 gennaio 2002”.
Il comma 3 dell’art. 38 del TFUE rinvia, quanto all’individuazione dei prodotti cui si applicano le disposizioni degli articoli da 39 a 44 inclusi, all’elenco che costituisce l’Allegato I.
La lettura dell’Allegato consente di appurare che non tutti i
prodotti agricoli ivi elencati sono destinati all’alimentazione
umana (e, rientrano, quindi, nel novero dei prodotti definibili “agroalimentari”); essendo in esso ricompresi prodotti
(“Piante vive e prodotti della floricoltura”: cap. 6; “Tabacchi
greggi e non lavorati. Cascami di tabacco”: cap. 24;
“Sughero naturale greggio e cascami di sughero; sughero
frantumato, granulato o polverizzato”: cap. 45) evidentemente non preordinati a tale finalità.
Con il Reg. (CE) 28 gennaio 2002 n. 178/2002 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare)
sono stati stabiliti “i principi generali da applicare nella Comunità e a livello nazionale in materia di alimenti e mangimi in generale, e di sicurezza degli alimenti e dei mangimi
in particolare” (art. 1, comma 2).
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Il successivo art. 2, nel dettare la definizione di “alimento”, ha
stabilito che, “ai fini del presente regolamento si intende per
‘alimento’ (o ‘prodotto alimentare’, o ‘derrata alimentare’)
qualsiasi sostanza o prodotto trasformato, parzialmente trasformato o non trasformato, destinato ad essere ingerito, o di
cui si prevede ragionevolmente che possa essere ingerito,
da esseri umani”.
Già da questa ampia definizione è dato inferire, con carattere di immediata intuitività, che nella nozione di “alimento”, in
relazione alla finalizzazione contenutistica esplicitata dal
legislatore europeo, non sono esclusi – né ad essi viene
riservata differenziata considerazione – i prodotti “agroalimentari”, ovvero i prodotti dell’attività agricola destinati alla
alimentazione umana.
Il prodotto “agroalimentare”, anzi, rappresenta un sotto-insieme del prodotto “alimentare”, nel senso che rientrano in tale
ultima nozione tutti i prodotti dell’agricoltura destinati all’alimentazione umana.
Non è invece sostenibile l’affermazione speculare, ovvero
che tutti i prodotti dell’attività agricola sono necessariamente
anche prodotti alimentari.
Ne consegue che, laddove venga impiegata la locuzione
“prodotto alimentare”, essa – in assenza di diversa specificazione o precisazione – comprende senz’altro anche il prodotto “agroalimentare”; mentre tale ultima indicazione, ex se
riguardata, deve intendersi estesa esclusivamente ai prodotti dell’agricoltura destinati all’alimentazione umana.
2. Ciò preliminarmente chiarito, osserva il Collegio che parte
ricorrente ha depositato in giudizio, in data 16 aprile 2013,
una nota dell’Ufficio Legislativo del Ministero dello Sviluppo
Economico, nella quale si sostiene che la norma di cui all’art.
62 del decreto legge 1/2012 sarebbe stata “superata” per
effetto dell’entrata in vigore del D.Lgs. 9 novembre 2012 n.
192 (di attuazione della Direttiva 2011/7/UE), recante una
disciplina asseritamente “più stringente” rispetto a quella precedente di cui al D.Lgs. 231 del 2002.
2.1 Nell’osservare come la normativa da ultimo intervenuta
abbia dettato “una disciplina generale in materia di termini di
pagamento per tutte le transazioni commerciali” (con distinzione per i contratti tra imprese e quelli tra imprese e P.A.),
con la nota ministeriale in rassegna si assume che le disposizioni di cui al D.Lgs. 192/2012 abbiano determinato la tacita abrogazione della previgente disciplina di cui all’art. 62 del
decreto legge 1/2012; ulteriormente ponendosi in evidenza il
contrasto che tale ultima disposizione nazionale, comunque,
rivelerebbe rispetto alla normativa comunitaria in attuazione
della quale è stata introdotta la sopravvenienza normativa di
che trattasi.
Ne consegue che, secondo il MISE, “sia in applicazione del
generale criterio della successione delle leggi nel tempo, sia in
applicazione del criterio di prevalenza del diritto europeo su
norme nazionali incompatibili”, l’art. 62 del decreto legge
1/2012 sarebbe stato tacitamente abrogato dalla successiva –
e più generale – normativa dettata dal D.Lgs. 192/2012 (altrimenti imponendosi la disapplicazione dello stesso articolo di
legge per contrasto con il sopravvenuto diritto europeo).
2.2 L’illustrata sistematica interpretativa ha indotto parte
45
ricorrente (cfr. memoria depositata il 23 maggio 2013) a sollecitare la declaratoria di improcedibilità per cessazione della
materia del contendere della presente controversia, appunto
sul presupposto che la (sostenuta) abrogazione (per sopravvenuta incompatibilità) dell’art. 62 del decreto legge 1/2012
avrebbe determinato la derivata inefficacia del D.M. 19 ottobre 2012 (impugnato con il ricorso in esame).
L’interesse sostanziale della parte – connotato da posizione
marcatamente oppositiva rispetto alla norma della quale, con
il presente mezzo, è stata avversata la legittimità – troverebbe, infatti, integrale soddisfacimento per effetto della sollecitata pronunzia di cessata materia del contendere, atteso che
ad essa sarebbe ineludibilmente sottesa la declaratoria di
(tacita) abrogazione della normativa primaria e della conseguente disciplina attuativa che parte ricorrente ha inteso contestare.
2.3 L’interpretazione fornita da Ministero dello Sviluppo
Economico, come sopra propugnata dall’odierna ricorrente,
va peraltro confrontata con il convincimento, radicalmente
opposto, sulla questione espresso dal Ministero delle
Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, con nota dell’Ufficio
Legislativo in data 2 aprile 2013.
Nell’escludere che “l’art. 62 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1,
convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012, n. 27,
… sia stato in alcun modo inciso né dalla entrata in vigore
del D.Lgs. n. 192/2012, né dalla Direttiva 2011/7/UE”, il MIPAAF ha rilevato che “la previsione normativa di cui all’art.
62 del D.L. n. 1/2012, avendo ad oggetto la “Disciplina delle
relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari”, si pone in un rapporto di evidente
specialità rispetto alla previsione di carattere generale della
normativa di cui al D.Lgs. 9 novembre 2012 n.192, recante
modifiche al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, relativo alla “Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla
lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, atteso che la “cessione del prodotto agricolo ed agroalimentare” costituisce “niente altro che una specificazione
del genere relativo alle ‘transazioni commerciali’ in senso lato intese, all’interno del classico rapporto di species a genus”.
Se “il criterio della specialità viene a porsi quale limite alla
applicazione del generale principio della successione delle
leggi nel tempo secondo il consolidato canone “lex posterior
generalis non derogat legi priori speciali”, allora, secondo la
predetta Autorità ministeriale “il principio contenuto in una
normativa speciale … risulta insuscettibile di essere abrogato tacitamente o implicitamente da una norma generale”: con
la conseguenza che la disposizione contenuta nell’art. 62 del
D.L. n. 1/2012 “non può ritenersi abrogata dalla successiva
normativa – di carattere generale – di cui al D.Lgs. n.
192/2012”.
Né, d’altro canto, sussisterebbe alcun contrasto tra la norma
di cui al citato art. 62 del D.L. n. 1/2012 ed il diritto comunitario, atteso che lo stesso legislatore europeo, “nel disciplinare la materia relativa alla “lotta contro i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali” (Direttiva 2011/7/UE del
Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 febbraio 2011)”
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ha, espressamente, fatto “salva la possibilità che il legislatore interno mantenga, ovvero, adotti disposizioni di maggior
favore per i creditori”.
In tal senso, l’art. 12, comma 3, della Direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, ha consentito agli Stati membri di “mantenere in
vigore o adottare disposizioni più favorevoli al creditore di
quelle necessarie per conformarsi alla presente Direttiva”;
omogeneamente dovendo darsi atto che l’art. 11, comma 2,
del D.Lgs. 9 ottobre 2002 n. 231 – non modificato, sul punto,
dal D.Lgs. 9 novembre 2012 n. 192 – ha fatto “salve le vigenti disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore”.
Nel rilevare che ulteriori elementi di conforto per la tesi della
persistente vigenza dell’art. 62 sono addotti dalle modificazioni allo stesso apportate per effetto dell’entrata in vigore
del decreto legge 18 ottobre 2012 n. 179 (per le quali, cfr.
supra, sub 1.), convertito in legge successivamente all’introduzione del D.Lgs. 9 novembre 2012 n. 192 (del quale, per
l’effetto, viene ribadita l’esclusa vis abrogans rispetto alla
previgente legislazione), omogenee conclusioni sarebbero
ritraibili dal parere espresso dal Consiglio di Stato in data 27
settembre 2012 sullo schema di D.M., di concerto MIPAAF –
MISE, attuativo dell’art. 62 (in ordine al quale il Collegio si
riserva di soffermarsi infra, sub 5).
4. Se va dato atto, alla stregua delle condivisibili considerazioni espresse dal Ministero delle Politiche Agricole,
Alimentari e Forestali, della piena – e perdurante – vigenza
dell’art. 62 del decreto legge 1/2012 (con riveniente preclusione alla declaratoria di improcedibilità del gravame per
cessazione della materia del contendere, per come dalla
parte ricorrente sollecitata), viene allora in considerazione il
merito dell’odierna controversia.
Il nucleo assertivo della prospettazione di Chefaro Pharma
risiede, come si è avuto modo di riportare in narrativa, nella
sottolineata distonia lessicale fra l’epigrafe dell’art. 62 in questione (che si riferisce ai prodotti “agroalimentari”) ed il contenuto dispositivo della norma (che ha impiegato la diversa –
e più ampia – locuzione prodotti “alimentari”): assumendosi
l’illegittimità dell’applicativo decreto ministeriale del 19 ottobre 2012 (che ha mutuato la più estensiva nozione “prodotto
alimentare” al fine di disciplinare modalità, termini ed obblighi
inerenti alle transazioni preordinate alla relativa cessione),
nella parte in cui avrebbe contemplato – e disciplinato –
anche ambiti di interesse – afferenti, appunto, ai prodotti alimentari non “agroalimentari” – esulanti dal proprio ambito di
attribuzioni.
Se è obiettiva la difformità contenutistica che rende inassimilabili i prodotti “agroalimentari” rispetto a quelli “alimentari”
(nel senso che i primi vengono ad integrare un sottoinsieme
dei secondi, la più generale categoria estendendosi a ricomprendere i prodotti destinati all’alimentazione anche non provenienti da produzione agricola), nondimeno la distonia che
caratterizza l’intestazione della norma primaria (riferita ai
prodotti agroalimentari) rispetto al contenuto della stessa
(più latamente esteso ai prodotti alimentari) non può indurre
elementi di perplessità ermeneutica rispetto alla latitudine
46
attuativa dell’art. 62 – e, con essa, della decretazione ministeriale di che trattasi – che deve intendersi comprensiva
delle operazioni concernenti le cessione dei (soli) prodotti
agro-alimentari.
In tal senso, univocamente depone la lettura del comma 4
dello stesso art. 62, il quale precisa che “Per «prodotti alimentari deteriorabili» si intendono i prodotti che rientrano in
una delle seguenti categorie:
a) prodotti agricoli, ittici e alimentari preconfezionati che
riportano una data di scadenza o un termine minimo di conservazione non superiore a sessanta giorni;
b) prodotti agricoli, ittici e alimentari sfusi, comprese erbe e
piante aromatiche, anche se posti in involucro protettivo o
refrigerati, non sottoposti a trattamenti atti a prolungare la
durabilità degli stessi per un periodo superiore a sessanta
giorni;
c) prodotti a base di carne che presentino le seguenti caratteristiche fisico-chimiche:
[omissis]
d) tutti i tipi di latte”.
Tale precisazione normativa, con ogni evidenza, avvalora la
delimitazione contenutistica della previsione di legge ai soli
prodotti “agroalimentari” (ovvero, si ribadisce, ai prodotti dell’agricoltura destinati all’alimentazione umana”): dovendosi,
per l’effetto, ribadire come la locuzione “alimentare” impiegata nel testo dell’art. 62 (sia pure con imprecisione terminologica, in quanto con maggiore appropriatezza il Legislatore
avrebbe potuto indicare i prodotti “agroalimentari”) sia,
appunto, riferibile (esclusivamente) a tale ultimo genere merceologico.
5. Se, come dal Collegio sopra esposto, la non conformità fra
epigrafe e contenuto dell’art. 62 (sotto il profilo sopra indicato) è suscettibile di superamento laddove soccorra, come
indicato, una interpretazione di carattere logico-sistematico
che assevera la portata applicativa della norma primaria (e,
derivativamente, dell’impugnata decretazione ministeriale)
con riferimento ai soli prodotti agroalimentari, deve allora
escludersi che il mezzo di tutela all’esame riveli profili di condivisibile fondatezza.
La disciplina delle transazioni commerciali, “normata” dall’art. 62 del decreto legge 1/2012, infatti, va riferita esclusivamente ai negozi giuridici aventi ad oggetto prodotti “alimentari” derivanti dalla produzione agricola (e, conseguentemente, va riferita ai soli prodotti “agroalimentari”): venendo, all’interno di tale linea ermeneutica, a depotenziarsi i profili di
doglianza che parte ricorrente ha esplicitato nel non condivisibile convincimento che la norma primaria (ed il decreto
ministeriale gravato) abbiano inteso estendere la portata
attuativa delle previsioni di che trattasi anche ai prodotti alimentari di produzione non agricola (e, quindi, agli integratori
che Chefaro Pharma produce).
Tale assunto, invero, è smentito dalla ricostruzione normativa come sopra operata dal Collegio.
E riceve ulteriori elementi di conforto dalla lettura del parere
reso dal Consiglio di Stato a fronte della sottoposizione al
medesimo del testo regolamentare avverso il quale si appuntano le censure dedotte con il presente ricorso.
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La Sezione Normativa del Consiglio di Stato, in data 8 ottobre 2012, ha infatti rilevato – segnatamente per quanto concerne l’art. 1 del testo regolamentare all’esame – che:
- se il comma 1 dell’art. 1 introduce l’onere di stipulazione in
forma scritta dei contratti per la cessione dei prodotti agricoli ed alimentari;
- “il regolamento disciplina esclusivamente i rapporti tra gli
imprenditori presenti nel settore agroalimentare ed esclude
espressamente dal proprio campo di applicazione le relazioni del professionista con il consumatore finale”;
- “le obbligazioni contrattuali … in determinati casi, potrebbero comportare l’applicazione del diritto straniero, in luogo di
quello nazionale, ancorché nella concreta operazione di cessione siano coinvolti in modo rilevante soggetti della filiera
agroalimentare italiana …”.
I puntuali riferimenti ai prodotti ed al settore agroalimentari
che permeano l’illustrato parere consentono di escludere,
con ogni evidenza, che la portata applicativa dell’esaminato
testo regolamentare sia stata dal Consiglio di Stato intesa
come suscettibile di estensione ai prodotti alimentari non
agroalimentari.
Va, poi, ulteriormente considerato come il parere (sia pur
condizionatamente) favorevole espresso dalla Sezione
Normativa non si sia minimamente dato carico di esaminare
se la disciplina regolamentare sottoposta ad esame esulasse dall’ambito di attribuzioni del Ministero per le Politiche
Agricole, Alimentari e Forestali: elemento che, senza dubbio,
non sarebbe sfuggito all’attenzione laddove la disciplina
regolamentare avesse coinvolto profili di interesse – quali
quelli riguardanti i prodotti lato sensu alimentari non provenienti da produzione agricola – non rientranti nel plesso di
competenze istituzionalmente rimesso al MIPAAF.
Né, d’altro canto, è fondatamente sostenibile – pur ribadita la
già ripetuta imprecisione lessicale che caratterizza il testo
dell’art. 62 (e, derivativamente, la regolamentazione ministeriale attuativa) – che il Legislatore abbia inteso fornire una
disciplina per le transazioni aventi ad oggetto “tutti” i prodotti alimentari e non solo quelli che, promananti dall’esercizio
dell’attività “agricola”, più correttamente – e puntualmente –
devono (avrebbero dovuto) essere definiti “agroalimentari”.
Gli elementi interpretativi precedentemente esposti escludono la fondatezza di tale assunto; né è dato rinvenire argomenti di carattere interpretativo suscettibili di indurre un
diverso convincimento.
6. Se la portata “interpretativa di rigetto” che connota la presente decisione viene a collocarsi in un quadro di sostanziale omogeneità – quoad effectum – rispetto posizione dalla
parte ricorrente dedotta in giudizio (in quanto la realizzazione dell’interesse sostanziale del quale quest’ultima ha
assunto di essere portatrice coincide con l’esclusa applicazione della normativa de qua anche ai prodotti alimentari non
di produzione agricola; e, quindi, ai prodotti alimentari non
agroalimentari), ritiene il Collegio, a fini di completezza nella
ricognizione del sottoposto thema decidendum, precisare
quanto segue.
In primo luogo, nessuna incompatibilità caratterizza la discipli-
47
na nazionale rispetto al sovraordinato quadro comunitario di
riferimento; né la decretazione MIPAAF del 19 ottobre 2012, di
carattere attuativo dell’art. 62 del decreto legge 1/2012, è inficiata con riferimento ai dedotti profili invalidanti.
Se l’imprecisione lessicale della quale il Collegio ha avuto
modo di trattare mutua fondamento della locuzione impiegata dal Legislatore, la disciplina delle cessioni aventi ad oggetto prodotti agroalimentari (rectius: prodotti alimentari provenienti da produzione agricola) con ogni evidenza rientra nell’ambito delle attribuzioni istituzionalmente rimesse alla predetta Autorità ministeriale: per l’effetto dovendosi escludere
la consistenza del dedotto profilo di incompetenza del
Ministero ai fini in discorso.
In secondo luogo, gli elementi di adombrata illegittimità costituzionale della norma primaria rivelano non condivisibili elementi di rilevanza, atteso che le paventate limitazioni alla
libertà negoziale (con riveniente, asserita vulnerazione dei
principi di cui agli artt. 2, 3 e 41):
- non soltanto sono state significativamente depotenziate alla
luce della sopravvenuta espunzione, dall’originario testo dell’art. 62, dell’inciso “a pena di nullità”, che veniva nell’iniziale
formulazione della norma veniva a sanzionare le transazioni
effettuate secondo modalità difformi rispetto alle prescrizioni
di legge;
- ma, anche, in ragione dell’esclusa incompatibilità delle previsioni in questione con i principi a presidio della libertà di iniziativa economica e dell’uguaglianza dei consociati.
Sotto tale ultimo profilo, osserva il Collegio che l’introdotta
tracciabilità delle transazioni riguardanti gli indicati generi
merceologici realizza un duplice ordine di interessi, rappresentati:
- dall’esigenza di garantire implementati margini di sicurezza
alimentare (veicolati dalla percorribilità della filiera e dalla
individuabilità della fonte di produzione);
- e dall’opportunità di assicurare un più puntuale e verificabile concorso alle esigenze finanziarie statali, propiziato da
agevolate modalità di attuazione della pretesa tributaria nei
confronti della generalità degli obbligati (in attuazione del
principio solidaristico che ne integra un fondamentale presupposto giustificativo);
per l’effetto dimostrandosi omogenea all’attuazione dei
postulati costituzionali – certamente non recessivi rispetto ai
principi dalla parte ricorrente evocati – che presidiano le indicate finalità.
7. Nei limiti di cui sopra esclusa la fondatezza delle doglianze articolate con il presente gravame, dispone conclusivamente il Collegio il rigetto dell’impugnativa.
La peculiarità e novità della vicenda contenziosa, unitamente alla complessità del quadro normativo di riferimento, integrano giusti motivi per compensare fra le parti le spese di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione
Seconda Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, lo respinge.
(Omissis)
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Anno VII, numero 3 • Luglio-Settembre 2013
El concepto ‘declaración de reducción del riesgo de enfermedad’
prevista en el Reglamento (CE) nº
1924/2006: la sentencia “Green –
Swan” de 18 de julio de 2013
48
una breve reseña de dicho fallo); y “Green – Swan” De 18
de julio de 2013, asunto C299/12, que será objeto de
nuestro estudio.
II.- La sentencia “Deutsches Weintor” de 6 de septiembre
de 20124
II.1.- Antecedentes y cuestiones prejudiciales
Luis González Vaqué
I.- Introducción
El Reglamento (CE) nº 1924/20061, que establece las reglas y condiciones de uso de las declaraciones nutricionales y de propiedades saludables en los alimentos, es una
normativa compleja y de difícil interpretación [citaremos
como ejemplo de la consiguiente dificultad (¿imposibilidad?) de aplicación el artículo 4 relativo a los perfiles nutricionales2.
En este sentido, no resulta sorprendente que los órganos
jurisdiccionales de los Estados miembros recurran al TJUE
a fin de que vaya aclarando lo dispuesto y delimitando su
alcance. De momento, el Tribunal de Justicia (TJ) ya ha
dictado dos sentencias al respecto:
• “Deutsches Weintor” de 6 de septiembre de 2012, asunto
C-544/103 (puesto que se cita en diversos fundamentos jurídicos de la siguiente sentencia, incluiremos más adelante
Mediante esta sentencia el TJ respondió a la petición de
decisión prejudicial remitida por el Bundesverwaltungsgericht (Tribunal Federal de lo contencioso-administrativo de
Alemania) relativa a la interpretación de los artículos 2.2(5)
y 4.3(1) del Reglamento 1924/2006, en su versión modificada por última vez por el Reglamento nº 116/20105 a fin
de aclarar qué debe entenderse por declaración de propiedades saludables, así como la compatibilidad con el Derecho comunitario de una prohibición sin excepciones de incluir en el etiquetado de las bebidas alcohólicas declaraciones de ese tipo.
Dicha petición se presentó en el marco de un litigio entre
Deutsches Weintor eG, una cooperativa vitícola alemana6,
y los servicios encargados de controlar la comercialización
de bebidas alcohólicas en el Estado federado de RenaniaPalatinado (Land Rheinland-Pfalz), en relación con la calificación de un vino como «de fácil digestión» que alegaba
un grado de acidez reducido. La autoridad competente para el control del mercado de bebidas alcohólicas en Renania-Palatinado se opuso a la utilización del calificativo «bekömmlich» (de fácil digestión), puesto que consideraba
(1) Reglamento del Parlamento Europeo y del Consejo, de 20 de diciembre de 2006, relativo a las declaraciones nutricionales y de propiedades saludables en los alimentos.
(2) Cuyo bienintencionado objetivo (como se indica en el Considerando nº 11 del Reglamento 1924/2006) es «… evitar una situación
en la que las declaraciones nutricionales o de propiedades saludables oculten el estado nutricional general de un producto alimenticio,
lo que podría inducir a error a los consumidores al intentar tomar decisiones sanas en el contexto de una dieta equilibrada». Véanse,
sobre este tema, las numerosas preguntas parlamentarias a las que ha dado lugar, entre las que destacan las siguientes: E-010873/11
planteada por Kathleen Van Brempt a la Comisión el 23 de noviembre de 2011, con la que se trataba en particular de averiguar por
qué «dos años después [del] plazo [previsto], todavía no se ha[bía] presentado ninguna propuesta de establecimiento de perfiles nutricionales» (en su elocuentemente lacónica respuesta el Comisario Dalli se limitó a referirse a la contestación dada a la cuestión
E-009393/2011); y la citada pregunta E-009393/2011 de Gerben-Jan Gerbrandy, de 19 de octubre de 2011, mediante la cual interrogaba a la Comisión sobre si consideraba que el establecimiento de perfiles nutricionales podría ser beneficioso en términos de información para los consumidores y «en [tal] caso […], ¿tiene previsto presentar una propuesta de perfiles nutricionales?», así como «si la
Comisión piensa presentar una propuesta de perfiles nutricionales, ¿lo hará antes de finales de 2011, es decir, antes de la aprobación
prevista de la lista del artículo 13, apartado 1 [del Reglamento 1924/2006]» [en su respuesta Dalli escurría el bulto afirmando (?) que
no existe un nexo jurídico específico en el Reglamento 1924/2006 entre el establecimiento de perfiles nutricionales en virtud del artículo 4 (1) y la adopción de la lista de declaraciones de propiedades saludables permitidas según lo previsto en el artículo 13(3) de dicha
normativa comunitaria y, por lo tanto, hasta que no se establezcan los perfiles, pueden utilizarse las mencionadas declaraciones nutricionales y de salud sin tener en cuenta los perfiles en cuestión].
(3) Véase, sobre esta sentencia, el capítulo titulado “Concepto de declaración de propiedades saludables y régimen jurídico previsto
para su utilización en la comunicación comercial sobre productos alimenticios” del que es autora N.Iraculis Arregui, en L. Bourges “UE:
Sociología y Derecho alimentarios”, Aranzadi, 2013, 247-269.
(4) Véase la nota anterior.
(5) Reglamento (UE) de la Comisión, de 9 de febrero de 2010, por el que se modifica el Reglamento (CE) nº 1924/2006 del Parlamento
Europeo y del Consejo en lo relativo a la lista de declaraciones nutricionales.
(6) Deutsches Weintor eG es una cooperativa de viticultores establecida en Ilbesheim en el Estado federado de Renania-Palatinado de
la RFA (véase el fundamento jurídico nº 13 de la sentencia “Deutsches Weintor”).
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que constituía una declaración de propiedades saludables
a efectos de lo dispuesto en el artículo 2.2(5) del Reglamento 1924/2006, no autorizada respecto a las bebidas alcohólicas, de conformidad con el primer párrafo del artículo 4.3 del mismo Reglamento. Como subrayó el TJ, en el
fundamento jurídico nº 15 de la sentencia “Deutsches
Weintor”, «… las partes est[aban] en desacuerdo sobre la
cuestión de si el hecho de calificar un vino como de fácil
digestión, junto a la indicación de un contenido reducido
de acidez, es una declaración de propiedades saludables,
a efectos de lo dispuesto en el artículo 4, apartado 3, párrafo primero, del Reglamento nº 1924/2006, con carácter
general prohibida para las bebidas alcohólicas».
Tras diversas peripecias procesales, la citada cooperativa
Deutsches Weintor eG, interpuso un recurso de casación
contra una resolución del Oberverwaltungsgericht Rheinland-Pfalz (Tribunal Superior de lo contencioso-administrativo del Estado federado de Renania- Palatinado) ante el
Bundesverwaltungsgericht, que decidió suspender el procedimiento y plantear al TJ las siguientes cuestiones prejudiciales:
«1) ¿Requiere una declaración de propiedades saludables
a efectos de lo dispuesto en el artículo 4, apartado 3, párrafo primero, del Reglamento nº 1924/2006, en relación
con su artículo 2, apartado 2, punto 5, o a efectos de lo
dispuesto en su artículo 10, apartado 3, un efecto nutricional o fisiológico beneficioso que tenga por objeto una mejora duradera del estado físico o es suficiente un efecto
transitorio, limitado concretamente al período que comprende el consumo y la digestión del alimento?
2) En caso de que la mera afirmación de que existe un
efecto beneficioso transitorio pueda representar ya una declaración de propiedades saludables:
¿Es suficiente para afirmar que tal efecto se basa en la ausencia o el contenido reducido de una sustancia en el sentido del artículo 5, apartado 1, letra a), y del decimoquinto
considerando del Reglamento que en la declaración se señale simplemente que en el caso concreto los efectos generales de los alimentos de estas características, a menudo considerados perjudiciales, son reducidos?
3) En caso de respuesta afirmativa a la segunda cuestión:
¿Es compatible con el articulo 6 del Tratado de la Unión
Europea, apartado 1, párrafo primero, en su versión de 13
de diciembre de 2007 […], interpretado en relación con el
artículo 15, apartado 1 (libertad profesional) y el artículo 16
(libertad de empresa) de la [Carta de los Derechos Fundamentales de la Unión Europea], en su versión de 12 de di-
49
ciembre de 2007 […], prohibir de modo absoluto a un productor o distribuidor de vinos que haga publicidad de su
producto mediante una declaración de propiedades saludables como la controvertida en el litigio principal, incluso
cuando esta declaración sea cierta?»
II.2.- Fallo
En este caso, el TJ (Sala Tercera) declaró:
«1) El artículo 4, apartado 3, párrafo primero, del Reglamento (CE) nº 1924/2006 […], en su versión modificada
por última vez por el Reglamento (UE) nº 116/2010 […],
debe interpretarse en el sentido de que la expresión declaración de propiedades saludables incluye una indicación
como de fácil digestión, acompañada de la mención del
contenido reducido en sustancias que a menudo se consideran perjudiciales.
2) El hecho de que en el Reglamento nº 1924/2006, en su
versión modificada por el Reglamento nº 116/2010, se establezca la prohibición, sin excepción alguna, de que un
productor o distribuidor de vinos utilicen una declaración
como la controvertida en el litigio principal, aun cuando dicha declaración sea en sí misma cierta, es compatible con
lo establecido en el artículo 6 TUE, apartado 1, párrafo primero».
II.3.- Precisiones sobre el concepto de «declaración de
propiedades saludables»
Vale la pena recordar que el órgano jurisdiccional remitente pregunta específicamente si una indicación como «de
fácil digestión»7 podía calificarse como «declaración de
propiedades saludables», aun cuando no implicara que el
efecto nutritivo o fisiológico beneficioso que el vino en
cuestión podría producir condujera a una mejora duradera
del estado corporal. A este respecto, el TJ declaró que se
desprende del tenor del artículo 2.2(5) del Reglamento
1964/2006 que la «declaración de propiedades saludables», a efectos de lo dispuesto en dicha normativa comunitaria, se define a partir de la relación que debe existir entre un alimento o uno de sus componentes, por una parte,
y la salud, por otra. Siendo esto así, el TJ reconoció «que
dicha definición no proporciona precisión alguna respecto
al carácter directo o indirecto que debe revestir dicha relación ni tampoco respecto a su intensidad o duración»8, pero concluyó que, «en estas circunstancias, procede entender el término relación en sentido amplio»9.
(7) Véase el punto 38 de las Conclusiones del Abogado General Mazák, presentadas el 29 de marzo de 2012, en el que se menciona que
el órgano jurisdiccional remitente había indicado en la resolución de remisión que, de conformidad con las apreciaciones de uno de los
tribunales que habían intervenido en el litigio principal, el Verwaltungsgericht (Tribunal de lo contencioso-administrativo), la descripción en
cuestión (al contrario de la opinión de Deutsches Weintor eG) no la entendería un consumidor medio, bien informado y razonablemente
atento como referencia únicamente al bienestar general o a las características generales del vino descrito, tales como su sabor, sino como referencia a su acidez suave, que acentúa el efecto especialmente ligero del vino en el estómago y, por ende, su digestibilidad.
(8) Véase el fundamento jurídico nº 34 de la sentencia “Deutsches Weintor”.
(9) Ibidem.
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En este sentido, el TJ precisó que:
- por un lado, el concepto de «declaración relativa a la salud»10 debe referirse no sólo a una relación que implique
una mejora del estado de salud gracias al consumo de un
alimento, sino también a cualquier relación que implique la
ausencia o reducción de los efectos negativos o nocivos
para la salud que acompañan o suceden, en otros casos,
a dicho consumo y, por lo tanto, la simple conservación de
un buen estado de salud a pesar de dicho consumo potencialmente perjudicial11; y
- por otra parte, ha de considerarse que el concepto de
«declaración de propiedades saludables» no se refiere
únicamente a los efectos del consumo aislado de una cantidad determinada de un alimento que, normalmente, puede tener efectos únicamente temporales y transitorios, sino
también a los efectos de un consumo repetitivo, regular, e
incluso frecuente, de dicho alimento (efectos que, en cambio, no son necesariamente temporales y transitorios)12.
En efecto, según el TJ, se desprende de la interpretación
conjunta de los Considerandos primero13 y décimo14 del
Reglamento 1924/2006, que es evidente que las declaraciones para promocionar los alimentos en los que figuran,
señalando una ventaja nutricional o fisiológica o en cualquier otro aspecto de la salud con respecto a productos similares, orientan las decisiones de los consumidores: «…
decisiones15 [que] influyen directamente en la ingesta total
de nutrientes o de otras sustancias, lo que justifica, por lo
tanto, las restricciones impuestas en dicho Reglamento
por lo que se refiere al uso de esas declaraciones»16.
II.4.- La petición de decisión prejudicial planteada por el
Bundesgerichtshof (Alemania) el 4 de febrero de 2011 —
“Schutzverband der Spirituosen-Industrie eV/Sonnthurn
50
Vertriebs GmbH”
La jurisprudencia consagrada en la sentencia “Deutsches
Weintor” permitió archivar el asunto C-51/11 [petición de
decisión prejudicial planteada por el Bundesgerichtshof
(Alemania) el 4 de febrero de 2011, relativa a la «prohibición de mencionar declaraciones de propiedades saludables sobre las bebidas con una graduación superior al 1,2
% en volumen de alcohol» y al «alcance del concepto declaraciones de propiedades saludables» así como a la
«posible inclusión del eslogan publicitario wohltuend und
bekömmlich (saludable y beneficioso) en relación con un licor de hierbas que tiene una graduación del 27 % en volumen de alcohol»17 (véase el Auto de Presidente del Tribunal, de 6 de noviembre de 2012, en el que se hace referencia al desistimiento del citado Bundesgerichtshof al que
se había transmitido la sentencia “Deutsches Weintor” 18)].
III.- La sentencia “Green – Swan” de 18 de julio de 2013
III.1.- Antecedentes: de la signficativa obstinación de Green – Swan Pharmaceuticals a las cuestiones prejudiciales
El asunto C299/12 tenía por objeto otra petición de decisión prejudicial planteada en este caso al TJ por el Nejvyšší správní soud (República Checa), mediante resolución
de 10 de mayo de 2012, en el procedimiento entre Green
– Swan Pharmaceuticals CR, a.s. y el Státní zemědělská a
potravinářská inspekce, ústřední inspektorát (Inspección
central de la autoridad nacional de control agroalimentario)
en relación con la calificación de una comunicación que figura en el envase de un complemento alimenticio. El cita-
(10) Sic en el fundamento jurídico nº 34 de la sentencia “Deutsches Weintor”, aunque no hayamos sabido encontrar esta expresión en
el Reglamento 1924/2006.
(11) Véase la obra de N. Iraculis Arregui, citada en la nota 3, 260-262.
(12) Ibidem, 259-261.
(13) En el que, después de subrayar que el etiquetado y la publicidad de un número cada vez mayor de alimentos de la Comunidad
contiene declaraciones nutricionales y de propiedades saludables, se declara que, «a fin de garantizar un elevado nivel de protección
de los consumidores y de facilitar que éstos elijan entre los diferentes alimentos, los productos comercializados, incluyendo los importados, deben ser seguros y poseer un etiquetado adecuado» (la cursiva es nuestra); finalmente, el legislador comunitario hace referencia en dicho Considerando a una de las mayores causas de preocupación de los especialistas: «una dieta variada y equilibrada es un
requisito previo para disfrutar de buena salud, y los productos por separado tienen una importancia relativa respecto del conjunto de la
dieta».
(14) Atinadamente, en el Considerando nº 10 del Reglamento 1924/2006 se afirma, inter alia, que «los consumidores pueden percibir
los alimentos promocionados con declaraciones como productos que poseen una ventaja nutricional, fisiológica o en cualquier otro aspecto de la salud con respecto a productos similares u otros productos a los que no se han añadido estos nutrientes y otras sustancias». Según el legislador comunitario, «esto puede alentar a los consumidores a tomar decisiones que influyan directamente en su ingesta total de nutrientes concretos o de otras sustancias de una manera que sea contraria a los conocimientos científicos». Por ello y
«para contrarrestar este posible efecto indeseable, es adecuado imponer una serie de restricciones por lo que respecta a los productos acerca de los cuales se efectúan declaraciones» (ibidem).
(15) La cursiva es nuestra.
(16) Véase el fundamento jurídico nº 37 de la sentencia “Deutsches Weintor”.
(17) DO nº C 139 de 7 de mayo de 2011, pág. 12.
(18) Auto disponible en la siguiente página de Internet, consultada el 30 de julio de 2013: http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=132840&pageIndex=0&doclang=ES&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=4488915 .
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do Nejvyšší správní soud se interesó por la interpretación
de los artículos 2.2(6) y 28.2 del Reglamento 1924/2006,
en su versión modificada por el Reglamento 116/201019.
En principio, el litigio principal tuvo un origen que podríamos
calificar de banal: Green – Swan Pharmaceuticals comercializó en el mercado checo, antes del 1 de enero de 2005,
un complemento alimenticio denominado «GS Merilin»20. Dicho complemento se comercializaba con una indicación que
figuraba en su envase, según la cual «el preparado también
contiene calcio y vitamina D3, que ayuda a reducir un factor
de riesgo de aparición de osteoporosis y fracturas». Por lo
que se refiere a dicha indicación, la Inspektorát Státní
zemědělské a potravinářské inspekce (Autoridad nacional de control agroalimentario) estimó que la citada empresa había incluido declaraciones de propiedades saludables en el etiquetado del envase del citado complemento alimenticio, infringiendo lo dispuesto en el artículo
10.1 del Reglamento 1924/2006: «la antedicha autoridad
dedujo de ello que dicha sociedad había incurrido en la
infracción administrativa contemplada en el artículo 17,
apartado 2, letra b), de la Ley nº 110/1997 Sb.[sobre alimentos y productos del tabaco y por la que se modifican
y completan otras leyes relacionadas (zákon č. 110/1997
Sb., o potravinách a tabákových výrobcích a o změně a
doplnění některých souvisejících zákonů)]21, en su versión aplicable al litigio principal, y la condenó al pago de
una multa de un importe de 200.000 CZK»22. Al no estar
de acuerdo con la referida decisión de la Inspektorát
Státní zemědělské a potravinářské inspekce, Green –
Swan Pharmaceuticals presentó una reclamación en su
contra en la que alegó en particular que la comunicación
que figuraba en el etiquetado del complemento alimenticio “GS Merilin” no podía considerarse una declaración
en el sentido del Reglamento 1924/2006. No obstante,
mediante decisión de 14 de febrero de 2011, la Státní zemědělská a potravinářská inspekce, ústřední inspektorát
desestimó dicha reclamación.
A pesar de la inconsistencia de sus argumentos, Green –
Swan Pharmaceuticals interpuso un recurso contra esa última decisión ante el Krajský soud v Brnĕ (Tribunal regional de Brno). Sostenía, en particular, que el artículo 28.2
del Reglamento 1924/2006 se aplicaba al complemento
alimenticio “GS Merilin” porque esta disposición se refiere
a los productos en cuanto tales y no a las marcas registra-
51
das o a los nombres comerciales que designan a los referidos productos… «También invocó el artículo 2, apartado 2,
número 6, del mismo Reglamento señalando que, en el
caso de autos, la comunicación que figura[ba] en el envase del complemento alimenticio GS Merilin no hac[ía] mención a una reducción significativa de un factor de riesgo de
aparición de una enfermedad humana ni lo da[ba] a entender»23. De nuevo, mediante sentencia de 21 de septiembre
de 2011, el citado Krajský soud v Brnĕ desestimó el recurso de Green – Swan Pharmaceuticals. En efecto, dicho órgano jurisdiccional consideró –en nuestra opinión acertadamente- que la indicación que figuraba en el etiquetado
del envase del tantas veces citado complemento alimenticio era una declaración de propiedades saludables en el
sentido de lo dispuesto en el Reglamento 1924/2006 y
que, por lo que respecta a las declaraciones relativas a la
reducción de un riesgo de enfermedad, sólo aquellas que
hayan sido autorizadas por la Comisión, conforme a los requisitos previstos en el artículo 14 del mismo Reglamento,
pueden utilizarse en el etiquetado y en la presentación de
los alimentos.
Con legítima pero significativa tenacidad, Green – Swan
Pharmaceuticals interpuso un recurso de casación contra
la antedicha sentencia del Krajský soud v Brnĕ ante el
Nejvyšší správní soud, alegando, de nuevo, que el artículo
28.2 del Reglamento 1924/2006 permitía la comercialización del complemento alimenticio GS Merilin, dado que dicha disposición hacía referencia a los productos en cuanto
tales. A este respecto, la mencionada sociedad se basó en
unos argumentos bastante discutibles:
• la diferencia de redacción entre los artículos 28.2 y 1.3
del Reglamento 1924/2006, que se refiere a las marcas registradas o nombres comerciales que puedan interpretarse
como una declaración nutricional o de propiedades saludables: «de este modo, el complemento alimenticio GS Merilin no estaría sujeto al régimen del antedicho Reglamento
hasta el 19 de enero de 2022»24; y.
• que el Krajský soud v Brnĕ debería haber examinado si
la declaración que figuraba en el envase del complemento
alimenticio “GS Merilin” daba a entender que su consumo
reducía «significativamente» el riesgo de enfermedad, a la
luz del tenor del artículo 2.2(6) del Reglamento 1924/2006.
Como ya hemos dicho se trataba de una argumentción
muy endeble, ni siquiera imaginativa o audaz… En cual-
(19) Véase la nota 5.
(20) Marca nacional que se registró en la República Checa el 29 de octubre de 2003 (véase el fundamento jurídico nº 11 de la sentencia
“Green – Swan”).
(21) El mencionado artículo 17 establece que los operadores de empresas alimentarias incurrirán en infracción administrativa cuando:
«a) no cumplan su obligación de observar los requisitos en materia de seguridad alimentaria establecidos en las normas comunitarias
directamente aplicables que regulan los requisitos relativos a los alimentos, o b) mediante una conducta distinta de la prevista en la letra a), no cumplan la obligación establecida en las normas comunitarias directamente aplicables que regulan los requisitos relativos a
los alimentos» (véase el décimo fundamento jurídico de la sentencia “Green – Swan”).
(22) Véase el fundamento jurídico nº 12 de la sentencia “Green – Swan”.
(23) Ibidem, fundamento jurídico nº 14.
(24) Ibidem, fundamento jurídico nº 16.
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quier caso, el Nejvyšší správní soud decidió suspender el
procedimiento y plantear al TJ las siguientes cuestiones
prejudiciales:
«1) ¿Constituye la siguiente declaración de propiedades
saludables: “El preparado también contiene calcio y vitamina D3, que ayuda a reducir un factor de riesgo de aparición de osteoporosis y fracturas”, una declaración de reducción del riesgo de enfermedad en el sentido del artículo
2, apartado 2, número 6, del Reglamento […] nº 1924/2006
[…], aunque no indique expresamente que el consumo de
dicho preparado reduce significativamente un factor de
riesgo de aparición de la enfermedad mencionada?
2) ¿El concepto de marca registrada o de nombre comercial establecido en el artículo 28, apartado 2, del Reglamento […] nº 1924/2006 […], incluye también las comunicaciones comerciales realizadas en el envase del producto?
3) ¿Debe interpretarse la disposición transitoria establecida en el artículo 28, apartado 2, del Reglamento […] nº
1924/2006 […], en el sentido de que se refiere a (cualesquiera) alimentos existentes antes del 1 de enero de 2005,
o a alimentos designados con una marca registrada o un
nombre comercial y que existían en esa forma antes de
esa fecha?»
III.2.- Fallo
En respuesta a dichas cuestiones, el TJ (Sala Novena) declaró que:
«1) El artículo 2, apartado 2, número 6, del Reglamento
(CE) nº 1924/2006 del Parlamento Europeo y del Consejo,
de 20 de diciembre de 2006, relativo a las declaraciones
nutricionales y de propiedades saludables en los alimentos, en su versión modificada por el Reglamento (UE) nº
116/2010 de la Comisión, de 9 de febrero de 2010, debe
interpretarse en el sentido de que, para calificarse de declaración de reducción del riesgo de enfermedad, en el
sentido de dicha disposición, una declaración de propiedades saludables no debe necesariamente indicar expresamente que el consumo de una categoría de alimentos, un
alimento o uno de sus constituyentes reduce significativamente un factor de riesgo de aparición de una enfermedad
humana.
2) El artículo 28, apartado 2, del Reglamento nº 1924/2006,
en su versión modificada por el Reglamento nº 116/2010,
debe interpretarse en el sentido de que una comunicación
realizada en el envase de un alimento puede constituir una
marca registrada o un nombre comercial, en el sentido de
dicha disposición, siempre que esté protegida, en tanto que
tal marca o tal nombre, por la normativa aplicable. Corresponderá al órgano jurisdiccional nacional verificar, a la luz
del conjunto de elementos de hecho y de Derecho que caractericen el asunto sobre el que debe pronunciarse, si tal
(25) La cursiva es nuestra.
52
comunicación es realmente25 una marca registrada o un
nombre comercial de ese modo protegidos.
3) El artículo 28, apartado 2, del Reglamento nº
1924/2006, en su versión modificada por el Reglamento nº
116/2010, debe interpretarse en el sentido de que sólo se
refiere a los alimentos designados con una marca registrada o un nombre comercial que deba considerarse una declaración nutricional o de propiedades saludables en el
sentido de dicho Reglamento y que existían en esa forma
antes del 1 de enero de 2005.»
III.3.- Comentarios
A) La apreciación del Nejvyšší správní soud de los argumentos alegados en el litigio principal
Antes de seguir adelante, nos parece oportuno subrayar
que el órgano jurisdiccional remitente no se limitó a remitir
al TJUE las menciondas cuestiones prejudiciales, sino que
le informó sobre sus dudas relativas a las alegaciones objeto de debate en el litigio principal. El propio TJ resumió
dichas observaciones en los siguientes fundamentos jurídicos de la sentencia que nos interesa:
«17. El órgano jurisdiccional remitente considera que no
es esencial que la declaración de propiedades saludables
incluya el término significativamente u otro término de carácter similar para que sea considerada una declaración
de reducción del riesgo de enfermedad. En caso contrario,
la utilización de una formulación ligeramente diferente permitiría eludir la aplicación del artículo 14 del Reglamento
nº 1924/2006.
18. Asimismo, en opinión del órgano jurisdiccional remitente, desde el punto de vista del consumidor medio, un alimento con una declaración de propiedades saludables que
afirme o sugiera una influencia significativa en la reducción
del riesgo de sufrir una enfermedad no será percibido como muy superior a otro alimento con una declaración de
propiedades saludables que no incluya este matiz. En este
sentido, a su entender, el Registro de declaraciones nutricionales y de propiedades saludables relativas a alimentos, previsto en el artículo 20 del Reglamento nº
1924/2006, muestra que las declaraciones de propiedades
saludables relativas a la reducción del riesgo de enfermedad ya evaluadas por la Autoridad Europea de Seguridad
Alimentaria no contienen ni el término significativamente ni
ningún otro término con el mismo significado.
19. Por otra parte, el órgano jurisdiccional remitente considera que el artículo 28, apartado 2, del Reglamento nº
1924/2006 no es aplicable al asunto principal, ya que la
declaración en cuestión no es ni una marca registrada ni
un nombre comercial, en el sentido de dicha disposición.
El órgano jurisdiccional remitente añade que, aun suponiendo que esa disposición fuera aplicable, la interpreta-
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ción según la cual ésta excluye del ámbito de aplicación
del referido Reglamento a todos los productos existentes
antes del 1 de enero de 2005 carecería de sentido en la
medida en que el antedicho Reglamento regula el etiquetado de los alimentos.»
B) Sobre la noción de declaración de reducción del riesgo
de enfermedad
Por lo que se refiere a si el artículo 2.2(6) del Reglamento
1924/2006 debe interpretarse en el sentido de que, para
calificarse de «declaración de reducción del riesgo de enfermedad», en el sentido de dicha disposición, una declaración de propiedades saludables debe necesariamente
indicar expresamente que el consumo de una categoría de
alimentos, un alimento o uno de sus constituyentes reduce
«significativamente» un factor de riesgo de aparición de
una enfermedad humana, el TJ manifestó:
• que una «declaración de propiedades saludables», en el
sentido del artículo 2.2(5) del Reglamento 1924/2006, se
define a partir de la relación que debe existir entre un alimento o uno de sus componentes, por una parte, y la salud, por otra;
• que el citado artículo 2.2(5) no proporciona precisión alguna respecto al carácter directo o indirecto que debe revestir la mencionada relación ni tampoco respecto a su intensidad o duración, dando lugar a que el término «relación» deba entenderse en sentido amplio (véase el fundamento jurídico nº 34 de la sentencia “Deutsches Weintor”);
• que, entre las declaraciones de propiedades saludables,
el artículo 2.2(6) del Reglamento 1924/2006 define una
«declaración de reducción del riesgo de enfermedad» como «cualquier declaración de propiedades saludables que
afirme, sugiera o dé a entender que el consumo de una
categoría de alimentos, un alimento o uno de sus constituyentes reduce significativamente un factor de riesgo de
aparición de una enfermedad humana»26: «de la utilización
de los verbos sugiera o dé a entender se desprende que la
calificación de declaración de reducción del riesgo de enfermedad, en el sentido de la antedicha disposición, no
exige que tal declaración indique expresamente que el
consumo de un alimento reduce significativamente un factor de riesgo de aparición de una enfermedad humana [y,
por lo tanto] basta con que esta declaración pueda producir en el consumidor medio normalmente informado y razonablemente atento y perspicaz la impresión de que la reducción de un factor de riesgo es significativa27»28; y
• que la utilización de una formulación categórica según la
cual el consumo del alimento de que se trate reduce –o
53
contribuye a reducir– tal factor de riesgo puede suscitar en
el consumidor medio la impresión de una reducción significativa del referido riesgo.
Teniendo en cuenta estos aragumentos el TJ concluyó
que, «en estas circunstancias, tal como sugiere el órgano
jurisdiccional remitente, para que sea considerada como
una declaración de reducción del riesgo de enfermedad,
una declaración de propiedades saludables, como aquella
de que se trata en el asunto principal, no debe necesariamente contener la palabra significativamente o un término
con el mismo significado»29.
C) ¿Una comunicación comercial realizada en el envase
de un alimento puede constituir una marca registrada o un
nombre comercial en el sentido del artículo 28.2 del Reglamento 1924/2006?
Poco o nada podemos añadir a lo que el TJ expuso en la
sentencia que nos interesa sobre la segunda cuestión prejudicial.
Concretamente, el TJ partió de las siguientes premisas:
• conforme al artículo 28.2 del Reglamento 1924/2006, los
productos que lleven marcas registradas o nombres comerciales existentes antes del 1 de enero de 2005 que no
cumplan el antedicho Reglamento podrán seguir comercializándose hasta el 19 de enero de 2022;
• a tenor del artículo 1.2 de la citada normativa comunitaria
se aplicará a las declaraciones nutricionales y de propiedades saludables efectuadas en las comunicaciones comerciales, ya sea en el etiquetado, la presentación o la publicidad de los alimentos que se suministren como tales al
consumidor final30; y
• el artículo 1.3 establece que una marca registrada o un
nombre comercial, al igual que una denominación de fantasía, que aparezca en el etiquetado o en la presentación
de un alimento puede constituir una declaración de propiedades saludables.
Refiriéndose a las alegaciones al respecto de la Comisión
Europea, el TJ insistió en que, si bien las comunicaciones
comerciales no pueden, por regla general, considerarse
marcas registradas o nombres comerciales, tampoco puede excluirse que una comunicación de ese tipo realizada
en el envase de un alimento constituya al mismo tiempo
una marca registrada o un nombre comercial: «dicho esto,
tal comunicación sólo podrá ser constitutiva de esa marca
o ese nombre si está protegida, como tal, por la normativa
aplicable [aunque] corresponderá al órgano jurisdiccional
nacional verificar, a la luz del conjunto de elementos de
hecho y de Derecho que caractericen el asunto sobre el
(26) Véase la obra de N. Iraculis Arregui, citada en la nota 4, 255-256.
(27) La cursiva es nuestra.
(28) Véase el fundamento jurídico nº 24 de la sentencia “Green – Swan”.
(29) Ibidem, fundamento jurídico nº 25 (véase también el fundamento jurídico nº 26).
(30) Véase: E. Martínez Porrera, y C. Vidreras Pérez, “¿Todos contra el Reglamento (UE) nº 1924/2006 relativo a las declaraciones nutricionales y de propiedades saludables en los alimentos?”, BoDiAlCo, n° 3, 2013, 5-6.
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que debe pronunciarse, si tal comunicación es realmente31
una marca registrada o un nombre comercial de ese modo
protegidos»32.
En este contexto, aunque también carecemos de una información completa al respecto, nos limitaremos a señalar
que no nos parece que la declaración controvertida formara o pudiera formar parte de la marca del complemento del
que se trataba y, reiterando nuestro desconocimiento tanto
de la legislación checa como de los detalles que no figuran
en la sentencia, dudamos de la registrabilidad de la expresión «el preparado también contiene calcio y vitamina D3,
que ayuda a reducir un factor de riesgo de aparición de osteoporosis y fracturas» u otra similar…
D) La interpretación del artículo 28.2 Reglamento
1924/2006
El artículo objeto del presente apartado dispone que «los
productos que lleven marcas registradas o marcas existentes antes del 1 de enero de 2005 que no cumplan el presente Reglamento podrán seguir comercializándose hasta
el 19 de enero de 2022, fecha a partir de la cual se les
aplicarán las disposiciones del presente Reglamento». Mediante su tercera cuestión prejudicial, el órgano jurisdiccional remitente preguntaba al TJ si dicha disposición debe
interpretarse en el sentido de que se refiere a todos los alimentos existentes antes del 1 de enero de 2005 o bien a
los alimentos designados con una marca registrada o un
nombre comercial y que existían en esa forma antes de
esa fecha.
Tras recordar que el Reglamento 1924/2006 no tiene por
objeto los alimentos en sí mismo considerados, sino las
declaraciones nutricionales y de propiedades saludables
relativas a dichos alimentos, el TJ confirmó que, a tenor
del artículo 1.3 de dicha normativa comunitaria, «… una
marca registrada o un nombre comercial que aparezca en
el etiquetado, la presentación o la publicidad de un alimento, y que pueda interpretarse como una declaración nutricional o de propiedades saludables, podrá utilizarse sin
someterse a los procedimientos de autorización previstos
en el antedicho Reglamento siempre que esté acompañada por la correspondiente declaración nutricional o de propiedades saludables en el etiquetado, la presentación o la
publicidad que cumpla las disposiciones del referido Reglamento»33.
En este sentido, aceptando los argumentos aportados por
el Gobierno checo y la Comisión, el TJ declaró que el mencionado artículo 28.2, que establece una medida de inapli-
54
cación y transitoria, sólo se refiere a una marca registrada
o un nombre comercial que ya existiera antes del 1 de
enero de 2005 y que pueda considerarse una declaración
nutricional o de propiedades saludables en el sentido de
dicho Reglamento, de modo que «los alimentos designados con tal marca registrada o tal nombre comercial pueden continuar comercializándose hasta el 19 de enero de
2022»34.
IV.- Conclusión
No resulta aventurado afirmar que el Reglamento
1924/2006 acabará siendo (¿o ya es?) una de las normativas más conflictivas del hipertrofiado y conflictivo Derecho
alimetario de la UE.
Asi lo demuestran los recursos y la petición de decisión
prejudicial (además de las tres a las que ya nos hemos referido en el presente estudio) que, hasta la fecha, ha recibido el TJUE y que no nos parece oportuno enumerar en
esta ocasión35:
ABSTRACT
Regulation (EU) No 1924/2006 harmonises the provisions
laid down by law, regulation or administrative action in
Member States which relate to nutrition and health claims in
order to ensure the effective functioning of the internal market whilst providing a high level of consumer protection.
In 2012, the Nejvyšší správní soud (Czech Supreme Administrative Court) referred to the ECJ for a preliminary ruling several questions, asking, in particular, whether Article
2(2)(6) of Regulation No 1924/2006 must be interpreted as
meaning that, in order to be considered a reduction of disease risk claim within the meaning of that provision, a
health claim must necessarily expressly state that the consumption of a category of food, a food or one of its constituents significantly reduces a risk factor in the development of a human disease.
The 18 July 2013 the Court (Ninth Chamber) ruled that the
above mentioned Article 2(2)(6) must be interpreted as
meaning that, in order to be considered a reduction of disease risk claim within the meaning of that provision, a
health claim need not necessarily expressly state that the
consumption of a category of food, a food or one of its constituents significantly reduces a risk factor in the development of a human disease.
(31) La cursiva es nuestra.
(32) Véanse los fundamentos jurídicos nºs 31 y 32 de la sentencia “Green – Swan”.
(33) Ibidem, fundamento jurídico nº 35.
(34) Ibidem, fundamento jurídico nº 36 (véase también el fundamento jurídico nº 37).
(35) Véanse los datos facilitados al respecto por E. Martínez Porrera, y C. Vidreras Pérez, en la obra citada en la nota 30, 6-8.
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Riflessioni sulla nuova OCM unica
e sulle misure per fronteggiare le
crisi alimentari*
Gioia Maccioni
1.- Introduzione. Le ragioni di una riflessione
La riforma della PAC per il periodo 2014-2020, offre l’occasione per effettuare alcune riflessioni su di un ampio
quadro di interventi, nell’ambito dei quali svolge un ruolo
significativo il regolamento concernente la OCM unica,
che intende sostituire il reg. CE n. 1234/2007 e si dovrebbe applicare a partire dal 1° gennaio 2014: un testo costituito da 165 articoli ed 8 Allegati, che si mostra fino dall’inizio molto interessante e complesso1.
Dopo la prima intesa in Consiglio (sull’«orientamento generale»), realizzata tra i ministri agricoli dei 27, sono iniziati i c.d. «triloghi», vale a dire gli incontri Consiglio-Parlamento-Commissione svolti per trovare una sintesi che
consenta l’avvio della riforma con il nuovo processo decisionale, che deve mettere d’accordo Consiglio e Parlamento sul testo presentato dalla Commissione (che mantiene l’esclusiva dell’iniziativa legislativa). Gli incontri sulla
55
riforma sono cominciati in effetti solo l’11 aprile scorso.
All’interno della tessitura, i profili da approfondire sono
molti. E l’ampiezza delle tematiche impone di limitare l’indagine ad alcuni profili.
All’indomani della sua presentazione, nel percorso che si
va delineando, è sembrato opportuno tentare di individuare quali linee il legislatore intenda percorrere per “fronteggiare le crisi” soprattutto alimentari, per giungere a qualche indicazione riguardante la prospettiva di come “uscire
dalle crisi” nell’assieme considerato: lo scenario futuro non
sembra rassicurante, come confermano le riflessioni (non
solo giuridiche) degli ultimi anni.
Occorrerà anzitutto collocare gli istituti presi in esame nell’ordine (giuridico ed economico) mutato dopo Lisbona, tenendo conto degli elementi di innovazione2.
L’attuale conformazione del sistema dopo Lisbona - che
mette all’opera l’interprete in vista di un prossimo futuro permette di comprendere e porre a confronto alcuni riferimenti normativi rilevanti nella articolazione del discorso ed
uno strumentario di concetti, di meccanismi, di relazioni,
che stanno appassionando autorevoli studiosi, non solo
appartenenti all’area giusagraristica.
In tale prospettiva, persino dalla nostra rapidissima analisi
concernente la nuova OCM unica - ovvero guardando alle
regole, agli emendamenti già depositati e leggendo i documenti di lavoro istituzionali, nonché le prime riflessioni
pubblicate - si evince che occorreranno tempi piuttosto
lunghi per “ordinare” i nuovi assetti.
*È il testo, con alcune modifiche, dell’intervento presentato nell’ambito del convegno “Sicurezza energetica e sicurezza alimentare nel
sistema UE: profili giuridici e profili economici”, svoltosi a Siena il 10-11 maggio 2013, in Atti a cura di E. Rook Basile e S. Carmignani,
Milano, 2013, p. 171 ss. Il contributo si inserisce nel programma di ricerca di interesse nazionale, Prot. 2008EB2P8K_002, cofinanziata dal Miur nell’ambito del PRIN 2008, “L’agricoltura nel sistema della produzione di beni sicuri: alimento ed energia”.
(1) Cfr. la proposta di regolamento del 12 ottobre 2011, COM (2011) 626 def., recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti
agricoli (cd. regolamento OCM unica). Di estremo interesse anche le Proposte di emendamento, COM (2012) 535 final ed il Progetto di
Relazione COMAGRI del Parlamento UE (Relatore, On. Dantin) del 5 giugno 2012.
Insieme alla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sopracitata (c.d. regolamento Ocm unica), vanno tenuti in
considerazione: la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante norme sui pagamenti diretti agli agricoltori
nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune (COM (2011) 625 def.); la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR)
(COM (2011) 627 def.); la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sul finanziamento, sulla gestione e sul monitoraggio della politica agricola comune (COM (2011) 628 def.);la proposta di regolamento del Consiglio recante misure per la fissazione
di determinati aiuti e restituzioni connessi all’organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli (COM (2011) 629 def.); la proposta
di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica del regolamento (CE) n. 73/2009 in ordine all’applicazione dei
pagamenti diretti agli agricoltori per il 2013 (COM (2011) 630 def.); la proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio
che modifica il regolamento (CE) n. 1234/2007 in ordine al regime di pagamento unico e al sostegno ai viticoltori (COM (2011) 631 def.);
le relazioni sulle suddette proposte, presentate dai relatori presso la Commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale del Parlamento
europeo il 18 e 19 giugno 2012; i pareri del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale; la posizione adottata dalla Commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale del Parlamento europeo (visibile nel doc. A7-0209/2011 del 25 maggio 2011) nell’ambito
del processo di allineamento al Trattato di Lisbona; le audizioni del Commissario europeo per l’agricoltura e lo sviluppo rurale, Dacian
Ciolos, oltreché del Presidente della Commissione per l’agricoltura e lo sviluppo rurale del Parlamento europeo, Paolo De Castro, e degli eurodeputati italiani componenti della medesima Commissione, nonché le valutazioni ed i rilievi dei rappresentati nel corso del ciclo di
audizioni svolto dalla Commissione, che hanno consentito di acquisire utili elementi e di raccogliere le istanze del settore agricolo; interessante anche il documento XVIII, n. 61 dep. presso la Camera dei Deputati, contenente la sintesi del percorso in atto. Su queste tematiche, cfr. AA.VV, La nuova PAC 2014-2020. Un’analisi delle proposte della Commissione, a cura di F. De Filippis, Quaderni del Gruppo 2013, Roma, 2012, con interventi di Albisinni, Anania, Blasi, Boatto, Canali, Catania, Sotte, De Filippis ed altri.
(2) In tal modo, suggerisce di procedere F. Albisinni, Le proposte della Commissione: una lettura in chiave sistemica, in La nuova PAC
2014-2020, sopracit., p. 107 ss.
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Come in altre occasioni è stato rilevato, un complesso
scenario di riferimento costringe il giurista a districarsi tra
le fonti che declinano la più attuale dimensione della sicurezza alimentare. Dall’analisi emergono senza dubbio esigenze di coordinamento tra gli interessi in gioco, fondamentalmente se guardiamo alle molte “intersezioni” ed alle diverse prospettive verso cui tali esigenze si snodano,
riconducibili all’ambito giuridico, ma anche politico, ambientale, sociale3.
Nei documenti di lavoro e nelle proposte che accompagnano la nuova OCM unica viene evidenziato più di una
volta il carattere strategico che sta assumendo la questione della sicurezza alimentare in relazione all’evoluzione
dei mercati (anche internazionali). Si ragiona pertanto di
analizzare frequentemente e periodicamente la rispondenza degli strumenti di gestione via via predisposti rispetto ai
mutamenti in atto, al fine di rendere possibile il conseguimento degli obiettivi previsti dall’art. 39 TFUE. In tale direzione, non si esclude la possibilità, ad esempio, di costituire “riserve strategiche”.
2.- Ancora, sullo scenario dopo Lisbona, sui fondamenti
della sicurezza e sulla gestione della food crisis
Detto ciò, emergerebbe la necessità di tener in considerazio-
56
ne il quadro delle fonti4. Soltanto alla luce di esso, si possono prendere in considerazione le politiche prospettate e le
relative scelte. Nel suddetto quadro delle fonti, in vista degli
interessi da tutelare, non sono mancati alcuni significativi
precedenti nella direzione emersa dopo Lisbona. A questo
proposito, si deve segnalare almeno la tappa rappresentata
dal World Food Summit Plan of Action del 1996. Da quel
momento, si parla infatti anche di “access…to food” ; di ciò
che “dietary needs”; e di “preferences”.
Possono altresì essere posti in rilievo i cambiamenti che
mostrano una portata che trascende l’Europa. Come si
può leggere negli ultimi documenti programmatici dell’UE,
non si è in grado di sostenere una crescita europea sul
lungo termine senza integrarsi nell’economia mondiale.
E’ aumentata l’interdipendenza tra mercati collegati, quali
quello agricolo e quello dei trasformati, o dei prodotti derivati5. In più di una occasione, difatti, la riforma in atto non
trascura di ricordare il suo necessario “orientamento ai
mercati”.
Guardando agli inputs, provenienti dall’UE, diversi “passaggi normativi” possono rappresentare l’occasione per
segnalare le dinamiche da tenere in considerazione6.
Come è noto, nei Trattati risulta significativo il dettaglio
quanto la collazione delle norme che interessano, per le
rilevanti conseguenze da valutare sotto il profilo sistematico7.
(3) In argomento, sui compiti del giurista e sullo scenario, cfr. M. R. D’Addezio, Sicurezza e coordinamento delle esigenze alimentari
con quelle energetiche: nuove problematiche per il diritto agrario, in Agr.Ist.Merc., n.3/2011, p. 11 ss.; ID., Agricoltura e contemperamento, sopracit.
(4) Cfr. ex multis M. R. D’Addezio, Quanto e come è rilevante l’agricoltura nel Trattato di Lisbona?, in Riv.dir.agr., 2010, I, p. 248 ss.; F.
Albisinni, Istituzioni e regole dell’agricoltura dopo il Trattato di Lisbona, ibidem, p. 206 ss.; F. Adornato, Agricoltura, politiche agricole e
istituzioni comunitarie nel Trattato di Lisbona: un equilibrio mobile, ibidem, p. 261 ss.; P. Lattanzi, L’energia dopo Lisbona. Il superamento del paradosso energetico, ibidem, p. 457 ss.; A. Germanò E. Rook Basile, Diritto agrario, in Tr. dir. priv. dell’Unione europea, diretto da Ajani e Benacchio, Torino, 2006, spec.p. 321 ss. e p. 407 ss., dove affrontano i problemi della sicurezza alimentare, dei rapporti tra agricoltura, ambiente e mercati (precisando che molti profili non potranno che “essere considerati in modo integrato” , a p. 410).
Cfr. inoltre AA.VV., Cibo e conflitti, a cura di Pellecchia, ed. Plus, Pisa, 2010, dove si affrontano i temi “cibo e sicurezza”, “cibo e potere”, …e salute, …e tecnologie,…e territorio,e comunicazione,e religioni; L. Costato, I problemi giuridici della sicurezza alimentare, in
Econ. & dir. agroalim., 2007, p. 123 ss.; ID., Le biotecnologie, il diritto e la paura, in Riv. dir. agr., 2007, I, p. 95 ss.; A. Jannarelli, Gli attuali compiti delle scienze sociali di fronte alle trasformazioni del mondo agricolo italiano, in Agr. ist. merc., 2007, fasc.3 ed ancora L.
Costato, La situazione mondiale in materia di energia, materie prime, ambiente e alimentazione, ibidem; N. Ferrucci, L’agriturismo: icona della trasversalità dell’agricoltura tra impresa, alimentazione, ambiente, paesaggio, in Riv. dir. agr., 2007, fasc. spec., p. 679 ss.,
Ead., Produzione di energia da fonti biologiche rinnovabili (Il quadro normativo), in Riv. dir. agr., 2007, I, p.246 ss.; F. Adornato, Farina
o benzina ? Il contributo dell’agricoltura ad un nuovo modello di sviluppo, in Agr.Ist.Merc., 2008, p. 7 ss.; G. Strambi, La produzione di
energia da fonti rinnovabili: una nuova frontiera dell’agricoltura multifunzionale, in Dir. e pol. dell’UE, 2008, p. 46 ss.
(5) Cfr. M. R. D’Addezio, Sicurezza e coordinamento delle esigenze alimentari con quelle energetiche: nuove problematiche per il diritto
agrario, cit., p. 11 ss.; F. Adornato, La Politica agricola comune verso il 2020: tra mercati globali e sistemi territoriali, in Agr.Ist.Merc., n.
2/2011, p. 5 ss.; F. Albisinni, Prodotti alimentari e tutela transfrontaliera, in www.rivistadirittoalimentare.it., n. 2/2009, p. 15 ss.; L. Paoloni, L’impresa agricola nella transizione verso le energie rinnovabili, in Agr.Ist.Merc., n.1/2011, p. 25 ss.
In tal senso v. inoltre la Comunicazione. “Un partenariato per la democrazia e la prosperità condivisa con il Mediterraneo meridionale”,
COM (2011) 200 dell’8 marzo 2011 e la Comunicazione “Commercio, crescita e sviluppo. Ripensare le politiche commerciali e d’investimento per i paesi più bisognosi” del 27 gennaio 2012.
(6) Sugli “snodi” di Lisbona prima di Lisbona (come dice l’A.), vedi F. Albisinni, Istituzioni e regole dell’agricoltura dopo il Trattato di Lisbona, in Riv.dir.agr., 2010, I, p. 206 ss. in part. p. 223 ss.
(7) Lo rileva fin dall’inizio M. R. D’Addezio, più volte cit. guardando all’UE (cioè al TUE ed al TFUE) dopo Lisbona. Anzi, occorre dire
che al momento attuale, a questo livello di disciplina, non sembrano necessarie nuove disposizioni legislative in tema di security. In tal
senso, cfr. il Parere del Comitato economico e sociale europeo “Sicurezza degli approvvigionamenti nei settori agricolo e alimentare
nell’UE”, 2011/C54/04, pubbl. in GUUE del 19 febbraio 2011, C54/20.
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I nuovi Trattati (il TUE ed il TFUE) hanno introdotto più di
una novità, novità che possono coinvolgere o riguardare
l’agricoltura sotto vari profili, cui in questa sede si farà fugacemente cenno, rinviando ad altre riflessioni ed approfondimenti8.
A tratteggiare la compagine di questo livello di disciplina
interviene l’art. 39 TFUE, lett. c), che fa esplicito riferimento all’ esigenza di “stabilizzare i mercati”, ponendo
esso stesso l’agricoltura in una singolare posizione strategica. Muovendo dalle disposizioni dei Trattati, dovrebbero semmai essere valorizzati gli obiettivi della politica
agricola comune, immutati anche dopo la revisione di Lisbona, garantendo in primis la sicurezza alimentare (safety e security), prezzi ragionevoli, salvaguardando il
reddito degli agricoltori, stabilizzando i mercati (art. 39
TFUE).
Nelle presenti riflessioni, si vuole concentrare l’attenzione
sulla ri-formulazione dell’art. 3 TUE, che risulta indicativa,
in particolare dove il legislatore attribuisce un ruolo significativo all’Unione europea, affermando che essa si basa su
“una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei
prezzi” e su “un’economia sociale di mercato fortemente
competitiva” (paragrafo 1), “promuove la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli Stati membri” (paragrafo 3), e dove la norma aggiunge che, nel rispetto dei propri “valori ed interessi”, l’UE “contribuisce al
commercio libero ed equo” (paragrafo 5)9.
La formula “economia sociale di mercato” (contenuta nell’art. 3 TUE), quale “clausula generale”, potrebbe costituire
57
(secondo più di una autorevole opinione) una guide line
per “l’uscita di sicurezza” dalla crisi attuale10.
Dunque, alla luce dell’art. 3 TUE, delle altre componenti visibili nei “trattati” e della loro azione combinata, nell’UE
occorrerebbe prendere in considerazione varie declinazioni
dello sviluppo, che risultano essere ambientali, energetiche, alimentari, istituzionali e sociali11.
Le prospettive appaiono particolarmente stimolanti: la sicurezza appare un aspetto centrale nell’UE e richiede coordinamento e coerenza tra le politiche (ovvero tra Pac, politica energetica, politica di sviluppo, commerciale, regolamentazione, anche finanziaria, oltreché ricerca).
Si fa strada la consapevolezza che il mercato europeo non
può risolversi nella considerazione delle sole misure “intese a rimuovere barriere e vincoli all’operare dei protagonisti dell’economia, ma, per sua stessa natura, richiede in
positivo un insieme sistematico di regole, organizzato per
principi ed articolato in una dimensione unitaria e coesa”. Il
recupero delle ragioni e del ruolo del diritto così inteso
“non riguarda il solo settore agroalimentare, ma investe
l’intera dimensione dei mercati, regionali e globali” (come è
emerso nel recente caso della crisi finanziaria mondiale,
facilitata e – per certi versi – innescata, dall’assenza di
condivise e cogenti regole giuridiche dell’agire)12.
Nell’attuale fase, si sta diffusamente ragionando sul come
“riconciliare il mercato e la sua dimensione sociale”: non
foss’altro perché “la povertà, l’esclusione, la paura del futuro costituiscono ostacoli economici” per l’intera società;
di conseguenza, “ovunque” occorrerebbe impegnarsi in
(8) Ai fini del nostro ragionamento, vanno almeno rammentate le modifiche contenute nel Titolo I – Disposizioni comuni del TUE (artt.
1-8); nel Titolo I – Parte prima - Principi, Titolo I - Categorie e settori di competenza dell’Unione (spec. artt. 2-6, quest’ultimo riguardante la Carta dei diritti fondamentali) e nel Titolo II – Disposizioni di applicazione generale (art. 7 ss.) del TFUE; non si può trascurare la
novità rappresentata dal nuovo art. 168 TFUE, quella rappresentata dal nuovo art. 194 (Titolo XXI-Energia, TFUE), e si potrebbe proseguire (con riferimento soprattutto agli artt. 3 e 207 TFUE; all’art. 208 TFUE ecc.) Attualmente, molti tendono a porre gli accenti su
due corde, ovvero: sui diritti fondamentali, come strumenti costitutivi (fondanti) di uno spazio comune (l’Unione appunto) ed allo stesso tempo sulla trasversalità di diverse esigenze di tutela (cioè le esigenze di tutela dell’ambiente, dei consumatori, della salute).
Talune innovazioni avranno - di certo - un impatto significativo, tra esse: la trasversalità della protezione del consumatore a causa dell’
anticipazione nella parte prima del TFUE, quella sui principi, oppure l’esplicita attenzione dedicata all’ambiente; i contenuti dell’art.3
TUE, e poi le “Disposizioni comuni”, ove vengono declinati gli obiettivi della UE, ed ancora l’art. 168 TFUE concernente la protezione
della salute. Vedasi M. R. D’Addezio, Quanto e come, cit. In argomento sono poi intervenuti altri. Cfr. ad es. S. Carmignani, La tutela
del consumatore nel Trattato di Lisbona., in Riv.dir.agr., 2010, p. 290 ss., ove l’A. ribadisce che i diritti fondamentali (di cui all’art. 6
TUE) risultano “funzionali” alla creazione delle condizioni per la circolazione dei fattori produttivi.
(9) Il paragr. 5 dell’art. 3 TUE stabilisce: “Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi,
contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della
Carta delle Nazioni Unite”.
(10) Ex multis, cfr. G. Tremonti, Uscita di sicurezza, Milano, 2012.
(11) M. R. D’Addezio, Agricoltura ed energie rinnovabili: alcune osservazioni del giurista, intervento al convegno Il divenire del diritto
agrario italiano ed europeo tra sviluppi tecnologici e sostenibilità (Bologna-Rovigo, 25-26 ottobre 2012), cit., in corso di pubbl. in Atti
sviluppa il ragionamento, prendendo in esame i profili della sostenibilità; cfr. inoltre M. GIUFFRIDA, La produzione di energia da fonti
rinnovabili nel quadro della PAC dopo il Trattato di Lisbona, in Atti del convegno Dalla riforma del 2003 alla PAC dopo Lisbona. I riflessi
sul diritto agrario alimentare e ambientale, a cura di Costato, Borghi, Russo, Manservisi, Napoli, 2011, p. 151 ss. e pubbl. altresì in Riv.
dir. agr., 2011, I, p. 128 ss. ed ancora M. R. D’Addezio, Sicurezza degli alimenti: obiettivi del mercato dell’Unione europea ed esigenze
nazionali, in Riv.dir.agr., 2010, I, p. 379 ss., spec. p. 391.
(12) Cfr. i riferimenti ad Albisinni, e poi ad Adornato, Costato, D’Addezio, M. Giuffrida, effettuati nelle note prec.
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parternariati che garantiscano uno “sviluppo sostenibile e
solidale” per tutti, dalle “imprese, alle fondazioni ai fornitori
e clienti”13.
Pertanto, appare abbastanza singolare che il problema
della food security sia rimasto per diverso tempo assente
dai documenti europei, anche se è tornato alla ribalta come una delle essenziali finalità della Pac nella Comunicazione della Commissione del novembre del 2010 su “La
Pac verso il 2020”14; e poi da lì il riferimento è transitato
dal soft law, nelle proposte e nei nuovi regolamenti (ovvero nell’ hard law).
La solidarietà invero è un valore fondante dell’UE (art.3
TUE), si “inserisce tra i criteri guida dello sviluppo”, in modo da rendere compatibile lo sviluppo economico con i valori della persona, facendo venir meno la loro “opposizione
conflittuale”. Detto ciò, si dovrebbe passare da una dimensione passiva e di contrasto, ad un ruolo di promozione, in modo da assicurare la sintesi tra le esigenze15.
La proposta di regolamento qui presa in esame non trascura di rilevare che occorre formulare un quadro strategico
per la sicurezza alimentare (1° considerando), oltrechè una
norma di commercializzazione generale per garantire l’applicazione del reg. n. 178/2002 (50° considerando). Inoltre
essa precisa che il mercato unico implica di considerare il
“regime di scambi alle frontiere esterne dell’Unione”, in
quanto esso è destinato ad incidere sulla “stabilizzazione”
del mercato interno all’UE (94° considerando).
Nella medesima proposta si aggiunge che, tuttavia, “controllare i flussi (…) è una questione di gestione”, che va
58
trattata in modo “flessibile” (95° considerando): lo si fa affidando notevoli poteri alla Commissione (nel successivo
testo del progetto) .
Il regolamento in esame si colloca, come si diceva, in un
processo di riforma (anche istituzionale) assai ampio.
A questo proposito, sembra interessante mettere in luce
una Europa che si basa su una concezione non proprio eurocentrica, bensì rispettosa delle diversità, attenta ai sistemi di salvaguardia ed alle reti di relazioni, anche globali16.
L’orizzonte “policentrico” che si va delineando, si è in
qualche modo manifestato in questo ed anche in altri pacchetti di “proposte” che procedono più o meno parallelamente a quello oggetto delle presenti riflessioni (ad es. nel
pacchetto-qualità e nella disciplina dell’informazione e dell’etichettatura, contenuta nel reg. n. 1169 del 2011)17.
Ciononostante, questo interessante orizzonte, visibile anche nei Trattati, che dovrebbe essere valorizzato, appare
poco delineato in concreto nella disciplina, in quanto non
risultano ben esplicitate le relazioni e gli interventi, anche
con il resto del mondo, né tantomeno l’ obiettivo della sicurezza alimentare (in particolare se ragioniamo di food security).
Molte indicazioni contenute nei Trattati sono “giuridicamente vincolanti”, come tali “non possono essere escluse
dalla discussione”, o “sottovalutate” nel sistema che si va
delineando. “Il riduzionismo economico non solo mette
l’Unione europea contro i diritti fondamentali…ma contro
se stessa, contro i principi che dovrebbero fondarla e darle un futuro”18.
(13) In tal senso, tra i testi più significativi, cfr. la Comunicazione della Commissione COM (2010) 573 del 19 ottobre 2010, int. “Strategie per un’attuazione effettiva della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, dove si afferma che l’azione dell’UE in materia di
diritti fondamentali “si estende al di là delle politiche interne “; la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni int. “Verso un atto per il mercato unico. Per un’economia sociale di mercato altamente competitiva” del 27 ottobre 2010, COM (2010) 608 def. e la più recente Comunicazione int. “Commercio,
crescita e sviluppo. Ripensare le politiche commerciali e d’investimento per i paesi più bisognosi” del 27 gennaio 2012 , COM (2012)
22 def.
Vedasi per tutti l’analisi e l’impostazione suggerite da A. Jannarelli, Cibo e democrazia: un nuovo orizzonte dei diritti sociali, in Atti del
convegno (Pisa, 1-2 luglio 2011), “Il ruolo del diritto nella valorizzazione e nella promozione dei prodotti agro-alimentari”, a cura di M.
Goldoni e E. Sirsi , Milano, 2011, p. 33 ss.
(14) E’ una osservazione di L. Costato, Regime disaccoppiato, Trattato di Lisbona e obiettivi della Pac verso il 2020, in Agr.Ist.Mercati,
n.2/2011, p. 13 ss.
(15) Trattasi della direzione da seguire in Europa, secondo Vettori, Persona e mercato, Padova, 1996, facendo riferimento a Mengoni,
Barcellona, Baldassarre ed altri, pp. 3-7. Recentemente, S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, spec. p. 28 ss. guarda al
“passaggio dall’Europa dei mercati all’Europa dei diritti”, ricordando che già la Comunicazione della Commissione del 19 ottobre 2010
sulle “Strategie per una attuazione effettiva della Carta dei diritti fondamentali”, COM (2010) 573, affermava che l’azione dell’Unione “si
estende al di là delle politiche interne”, dunque “al di là” di diversi vincoli, del vincolo dello spazio ed anche al di là del vincolo del tempo, richiamando le generazioni future.
(16) Lo dimostrano, per prime, le scelte effettuate nel Preambolo e nei primi articoli del TUE, che fanno emergere la “tavola dei valori”
cui l’UE si ispira. La bibl. in argomento è molto vasta. V. per tutti Gambino, I diritti fondamentali dell’Unione europea fra “trattati” di Lisbona e Costituzione, in Federalismi.it, n.1/2010.
Su di una “giuridicità che rifiuta l’ossificazione”, v. l’impostazione di P. Grossi, La dimensione giuridica nello spazio globale, nel volume
intitolato appunto Paolo Grossi, a cura di Alpa, I Maestri del diritto, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 185 ss. Il corsivo è dell’A.; ID., Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, ibidem, p. 190 ss.
(17) Lo rileva F. Albisinni, Le proposte della Commissione: una lettura in chiave giuridica, in La nuova PAC 2014-2020, cit, p. 107 ss.,
che richiama anche i più importanti elementi di innovazione istituzionale volti ad incidere sull’impianto e sulla regolazione.
(18) Così, S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., pp. 38-40; ID., Editoriale, in Riv.crit.dir.priv., n.1/2011, p. 3 ss.
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A ben vedere, infatti, nessuna posizione interpretativa oggi
giunge a negare che si sta facendo strada l’idea di un assetto giuridico tendente a conciliare competizione economica e bisogni dell’uomo, essendo evidente nell’ “Europa
dei diritti (…) l’illegittimità di una prevalenza assoluta della
dimensione economica”19.
3.- Il percorso e l’assetto della riforma
Su questo impervio terreno di analisi occorre chiedersi
quale sia l’assetto del nuovo regolamento concernente la
OCM unica, in particolare in relazione al tema delle misure
per fronteggiare le crisi alimentari.
Stiamo assistendo alla composizione di un mosaico formatosi con l’aggiunta progressiva di varie tessere, del
quale si possono delineare vari passaggi20: ad esempio la
riforma del 2003 (reg. n. 1782/2003, che propone l’adozione di regole comuni europee), cui si potrebbe aggiungere
il “regolamento unico OCM “ (reg. n. 1234/2007, che non
si limita al formale riordino ed unificazione dei testi, bensì
piuttosto ad una regolazione del settore agroalimentare ed
al suo governo), soffermandoci sui loro contenuti, specie
se destinati ad influire sulle scelte successive 21.
Come si è detto, nella presentazione e nel primo considerando, la proposta di regolamento si collega ai contenuti
della Comunicazione della Commissione europea del 18
ottobre 2010, intitolata «La PAC verso il 2020: rispondere
alle future sfide dell’alimentazione, delle risorse naturali e
del territorio», che ha posto tra l’altro gli accenti sulla necessità di salvaguardare il potenziale agricolo europeo e
di riconoscere una adeguata remunerazione ai beni pubblici prodotti dal settore agricolo e dai territori rurali, nonché sulla necessità di garantire che la sicurezza e la qualità degli approvvigionamenti alimentari fossero incrementate e valorizzate22.
Tale Comunicazione già preludeva (un poco genericamente, come è stato subito notato) a strumenti capaci di fronteggiare l’instabilità dei mercati ed a “novità” idonee ad
59
orientare il settore verso una maggiore sostenibilità ambientale, un miglioramento della posizione degli agricoltori
nell’ambito delle varie filiere agroalimentari, nonché ad assicurare la semplificazione.
Nella recentissima decisione del Parlamento europeo del
13 marzo 2013 sull’avvio dei negoziati interistituzionali e
sul relativo mandato in merito alla proposta di regolamento
del Parlamento europeo e del Consiglio recante la organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli (OCM unica) emerge il quadro sinottico comprendente il testo della
proposta e gli emendamenti presentati: da tale quadro si
può evincere qualche spunto di riflessione.
Nel complesso, il regolamento intende confermare l’impostazione precedente (lo dice il 1° considerando), ma dal
numero degli emendamenti si può desumere immediatamente che vengono proposte molte correzioni.
Fin dall’inizio viene in evidenza la questione della sicurezza alimentare.
Il nuovo considerando 1 bis , che si affianca a quanto già
formulato, si riferisce all’attuazione del regolamento coerentemente con gli obiettivi di cooperazione, in particolare
“per quanto concerne la sicurezza alimentare”, e ciò in
modo da non compromettere la capacità di produzione alimentare e la sicurezza alimentare dei paesi in via di sviluppo”23. La garanzia di sicurezza e di sovranità alimentari
“dovrebbero essere (…) obiettivi fondamentali della PAC e
ciò richiede l’esistenza di strumenti di regolazione e di distribuzione della produzione“ appropriati (…), tali in ogni
caso da permettere di sviluppare la produzione e soddisfare il fabbisogno (v. il nuovo considerando 1 ter).
Invece, concretamente, il meccanismo del disaccoppiamento, introdotto con la riforma del 2003, volto a premiare anche chi non coltiva, sembra essere una tecnica ben
radicata ed adottata dal legislatore europeo per giustificare il progressivo abbandono di un sistema di sostegni all’agricoltura. Anzi, negli ultimi anni, questa impostazione sotto la pressione di una opinione pubblica (a dir poco) irritata, ed all’ombra della attuale spending revue (una parola d’ordine per tutti gli impegni di spesa pubblica) - ha
(19) Cfr. Vettori, Persona e mercato, cit., nell’Introduzione; più recentemente v. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., specialmente
quando guarda alla costruzione di una Europa che non può andare contro se stessa; ciononostante, “bisogna sempre insistere nel ricordare che l’orizzonte europeo non è solo quello del mercato e della concorrenza” (p. 39). Nella prospettiva indicata, prende in considerazione anche il significato e l’ampiezza del diritto al cibo, in termini di sicurezza, di accesso, di adeguatezza, che assumono particolare rilevanza, incontrano la dignità della persona, il rispetto della diversità culturale. Per l’attitudine ad essere riferimento di una serie
di diritti fondamentali, il diritto al cibo si presenta come “un forte strumento per contrastare ogni forma di riduzionismo, in particolare
quello che vuole trasformare le persone in consumatori passivi, anzi in ‘consumati’… “ (spec. pp. 127-130).
(20) Traccia le linee, in numerosi approfondimenti, M. R. D’Addezio, della quale si richiamano soltanto: Come e quanto è rilevante l’agricoltura nel Trattato di Lisbona?, cit., p. 259 ss.; Agricoltura e contemperamento delle esigenze energetiche ed alimentari, in Agricoltura
e contemperamento delle esigenze energetiche ed alimentari, a cura di Mariarita D’Addezio, Milano, 2012, p. 9 ss., ivi cfr. la nt. 2 per
ulteriori indicazioni bibl.
(21) F. Albisinni, La nuova OCM ed i contratti agroalimentari, in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 1/2013, p. 4 ss., indica la chiave
di lettura attuale, collegandosi ai precedenti.
(22) COM (2010) 672.
(23) Facendo riferimento alla Comunicazione della Commissione COM (2010) 127, int. “Un quadro strategico dell’UE per aiutare i paesi
in via di sviluppo ad affrontare i problemi della sicurezza alimentare”.
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già prodotto nell’UE una food insecurity che ha causato
aumenti dei prezzi della spesa alimentare24.
A ciò si aggiungano gli eloquenti risultati di alcune analisi:
lo sviluppo della crisi fa registrare solo in Europa 79 milioni di persone (e si tratta di un dato parziale, che tiene conto dei soggetti in qualche modo “visibili”) che vivono al di
sotto del livello di povertà. Mentre nell’ inverno 2010-2011,
16 milioni di cittadini europei hanno percepito aiuti alimentari da enti di beneficienza25.
Se si ritiene, come emerge dalla progettata riforma, che
non si possa abbandonare il disaccoppiamento, occorrerebbe affiancarlo ad alcuni interventi indispensabili per garantire, quanto meno ad un livello minimo, il rispetto degli
obiettivi dei Trattati UE e per proteggere l’attività primaria
almeno in vista del raggiungimento di alcune soluzioni utili
a tamponare le emergenze26.
Il primo intervento dovrebbe consistere, necessariamente,
nella ricostituzione, da parte dell’UE, di scorte strategiche
delle più importanti commodities per rendere sicuri gli approvvigionamenti ed avere a disposizione alcuni strumenti
per evitare eccessivi sbalzi di prezzo sul mercato. Sarebbe
anzi auspicabile che l’Europa potesse ridiventare uno dei
granai del mondo, per potersi permettere di avere una politica estera anche di sostegno ai paesi poveri (come stabiliscono i Trattati). Sembra, tra l’altro, di gran lunga una “soluzione migliore esportare cultura d’impresa e cibo che inviare soldati per placare rivolte e rivoluzioni, destinate a riprendere immediatamente dopo la partenza dei nostri militari” 27.
Occorrerebbe premunirsi contro le emergenze che determinano insicurezze negli approvvigionamenti. In senso
più ampio, si può dire che occorrerebbe anzitutto premunirsi mantenendo la possibilità di svolgere le attività quantomeno essenziali, garantendo la sicurezza attraverso incentivi ed opportune scorte28.
A ciò si aggiunga che negli ultimi tempi particolarmente
60
difficili, sui mercati destano sempre maggiore preoccupazione anche l’accesso privilegiato alle materie prime come
le restrizioni all’esportazione di certi paesi produttori, le
fluttuazioni dei prezzi, le crisi di fiducia dei consumatori: ci
sono “misure, che determinano distorsioni sui mercati globali e incertezze nei flussi regolari di prodotti di base”, ed
inoltre che “possono originare ripercussioni sia per i paesi
sviluppati che per quelli in via di sviluppo, in quanto praticamente nessuna economia è autosufficiente per tutte le
materie prime”29.
Il testo della proposta di regolamento preso in considerazione, recante l’organizzazione comune dei mercati dei
prodotti agricoli, contiene vari capitoli di disciplina, ovvero norme riguardanti il mercato interno, l’intervento pubblico, l’ammasso privato, i regimi di aiuto concernenti alcuni
settori, le norme applicabili alla commercializzazione ed
alle organizzazioni dei produttori, quelle relative agli scambi con i paesi terzi, le regole di concorrenza, le disposizioni generali.
In tale quadro, esso prevede strumenti tradizionali per stabilizzare i mercati agricoli dell’UE, quali l’intervento pubblico, l’ammasso privato e le restituzioni all’esportazione, di
cui avvalersi in caso di crisi. Ma propone anche misure eccezionali, di emergenza e aiuti a settori specifici.
L’ art. 56 della proposta di regolamento, introduce una
norma un po’ discutibile nell’ambito delle norme di commercializzazione dei prodotti, in quanto ai fini del regolamento si sceglie, in linea di principio, che “un prodotto è
conforme alla ‘norma di commercializzazione generale’ se
è di qualità sana, leale e mercantile” (1° comma). Tuttavia,
“si considera conforme alla norma di commercializzazione generale” il prodotto “conforme ad una norma in vigore
adottata da una delle organizzazioni internazionali elencate nell’allegato V” (3° comma), e cioè conforme a quanto
stabiliscono il Codex Alimentarius e la Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UNECE)30.
(24) E’ il giudizio di L. Costato, L’agricoltura, Cenerentola d’Europa, nella prolusione svolta in occasione dell’Inaugurazione del 260°
A.A., Accademia dei Georgofili, 16 aprile 2013, disponibile sul sito dell’Accademia. Per altri spunti, dello stesso A., Più agricoltura e meno disaccoppiamento, in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 1/2013, p. 1 ss. Vedasi inoltre A. Jannarelli, La nuova Food insecurity: una prima lettura sistemica, in Riv. dir. agr., I, 2010, p. 565 ss.
(25) Come emerge a chiare lettere dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2011 sul riconoscimento dell’agricoltura come settore strategico nel contesto della sicurezza alimentare.
(26) Così, L. Costato, L’agricoltura, Cenerentola d’Europa, sopra cit. Il corsivo è di chi scrive.
(27) In tal senso, cfr. ancora L. Costato, L’agricoltura, Cenerentola, cit. Bisognerebbe, pertanto, che l’agricoltura cessasse di venir considerata la “cenerentola nell’ambito delle politiche europee, riprendendo il ruolo fondamentale che le spetta se non altro per il fatto di
consentirci di sopravvivere e di praticare una politica estera di sostegno allo sviluppo sostenibile dei paesi poveri”. Volendo mostrare
qualche forma di ottimismo, si deve sperare che si stia ameno prendendo coscienza che il problema degli anni futuri sarà la food security, rassicurando al contempo i produttori europei per quanto riguarda i loro redditi (prosegue Costato). Il corsivo è di chi scrive.
(28) Lo dice, tra l’altro, il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema “Sicurezza degli approvvigionamenti nei settori
agricolo e alimentare nell’UE” (2011/C 54/ 04).
(29) In argomento, v. amplius la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sciale europeo e al Comitato delle regioni, int. “Affrontare le sfide relative ai mercati dei prodotti di base e alle materie prime” (COM, 2011,
25 def.).
(30) Nel commento di F. Albisinni, La nuova OCM, cit., p. 12, si precisa che i prodotti conformi alle norme adottate dalla Codex Alimentarius Commission e dall’Unece sono considerati d’ufficio conformi alle norme europee di commercializzazione e sono pertanto liberamente commerciabili in Europa, salvo che la Commissione Europea non decida di introdurre deroghe all’operare di tale disposizione. I
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4.-Le direttrici. La logica del “raggruppamento” e quella
delle “reti di sicurezza”
Passando dall’impostazione alle direttrici visibili nella proposta di regolamento ed alle discipline specifiche, dalla relazione che precede la proposta di regolamento emerge,
testualmente, che ci si propone di proseguire nella “direzione precedente”.
Non di meno, occorre por mano alla situazione di incertezza che si è determinata sui mercati, alle fluttuazioni dei
prezzi ed alla crescente diminuzione del potere negoziale
degli agricoltori.
Per rafforzare il potere sul mercato dei diversi attori economici, nel settore della produzione agricola destinata alla
catena di approvvigionamento alimentare, viene favorita
quella che viene chiamata, sempre nella relazione di accompagnamento alla OCM unica, la “logica del raggruppamento”, al fine, anzitutto, di incoraggiare lo sviluppo di
pratiche vantaggiose per tutti, ivi compresi i consumatori.
Si fa espresso riferimento ad un “incoraggiamento” da
parte dell’UE nei confronti delle organizzazioni dei produttori, loro associazioni e organizzazioni interprofessionali
per facilitare l’adeguamento dell’offerta alle esigenze del
mercato. Le novità, in questo ambito di disciplina, vere o
solo apparenti, meriterebbero ampio spazio di trattazione.
Nell’ambito delle direttrici espresse ed in seno al capitolo
intitolato “elementi giuridici della proposta” si sottolinea
anche la necessità di avvalersi di “reti di sicurezza”, con
meccanismi quali “l’intervento pubblico, l’ammasso privato, le misure eccezionali e di emergenza e gli aiuti a specifici settori, nonché agevolare l’attività cooperativistica attraverso le organizzazioni di produttori e le organizzazioni
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interprofessionali”.
Dalla lettera della relazione, sembra che il tema della stabilizzazione, risultando al centro del dibattito ed altresì
cruciale nel quadro complessivo delle misure previste, assuma toni un po’ declamatori.
Se non vogliamo rimanere alla superficie, andando un poco più fondo, la descrizione, in ordine alla declinazione
degli interventi, risulta piuttosto evanescente nell’affrontare le dinamiche conflittuali in atto e gli interessi in gioco31.
Come si è detto poc’anzi, si fa ad esempio espressamente
riferimento alla esigenza di “agevolare l’attività cooperativistica attraverso le organizzazioni di produttori e le organizzazioni interprofessionali”. La questione tocca il nodo
concernente la conflittualità esistente, mai sopita, tra le
cooperative agricole, soprattutto di trasformazione e commercializzazione, e le a.p.a., successivamente divenute
organizzazioni. La necessità di chiarire le rispettive funzioni, le capacità operative e gli strumenti utilizzabili mi pare
stenti a prendere corpo, almeno in questo momento ed in
questa sede, cioè nella relazione introduttiva32.
Come per rispondere a questa e ad altre obiezioni del medesimo tenore, si precisa che la proposta di regolamento
si basa sulle opzioni individuate nella Comunicazione intitolata “La Pac verso il 2020” e sulle sue scelte strategiche,proponendo solo alcuni correttivi (rispetto agli strumenti giuridici già sperimentati) ed avvalendosi di tali “reti
di sicurezza”33.
A ben guardare, nella folta congerie di indirizzi e di norme
redatte per rispondere alle esigenze indicate, sembra di
poter individuare una sorta di motivo ispiratore a comune,
ovvero un comune sotto-fondo, rappresentato dalla logica
delle “reti di sicurezza” (secondo qualcuno, si dovrebbe
possibili esiti in termini di sovranità agroalimentare europea sono significativi e vanno ben oltre i meccanismi istruttori e decisori europei tradizionali.
In altre parole: organizzazioni internazionali, che non rispondono a criteri di legittimazione democratica e di diretta sindacabilità, e la cui
accountability è stata in più occasioni valutata criticamente, potranno adottare norme, cui i cittadini europei saranno direttamente soggetti. La disposizione contenuta nella proposta di nuova Ocm unica, infatti, definisce regole di produzione normativa, che non passano
per un filtro necessario, né del Consiglio né del Parlamento Europeo, ma soltanto della Commissione. Ed ove la Commissione non ritenga di esercitare il proprio potere di deroga o di eccezione, le norme adottate dai richiamati organismi internazionali saranno di diretta applicazione in Europa. Mentre nel caso dell’esercizio dei poteri delegati, il Parlamento Europeo può – entro il termine fissato nell’atto legislativo di delega, sia pure a maggioranza assoluta dei propri membri – negare il consenso. In tal caso l’atto delegato non entra in
vigore; nel caso di mancato esercizio da parte della Commissione dei poteri delegati per l’eventuale introduzione di deroghe o eccezioni alle norme delle organizzazioni internazionali, il Parlamento non ha questo potere (sostiene Albisinni).
(31) Si afferma che nell’ultimo processo di riforma “la PAC è riuscita ad orientare maggiormente l’attività agricola al mercato sostenendo
al contempo il reddito dei produttori, a inglobare maggiormente gli aspetti ambientali e rafforzare il sostegno allo sviluppo rurale in
quanto politica integrata…” (per usare le medesime parole contenute nella relazione introduttiva). Per cui occorrerà fondamentalmente
cercare di valutare meglio le sinergie, ai fini di un maggior coordinamento.
(32) Su tali tematiche, v. l’opinione di A. Jannarelli, nell’ambito della relazione di sintesi al convegno svoltosi a Messina il 28-29 settembre 2012, sui Contratti del mercato agroalimentare, pubbl. in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 1/2013, p. 56 ss, spec. p. 57. Per
approfondimenti specifici nel medesimo fasc. della Rivista, vedasi Costato, Albisinni, Adornato, Borghi, Cuffaro, Sepe, Sirsi, Saja. Per
altri spunti ed ulteriori approfondimenti, vedasi: M. Giuffrida, I Contratti di filiera nel mercato agroalimentare, in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 3/2012, p. 3 ss., A. Germanò, Sul contratto di cessione di prodotti agricoli e alimentari, in Dir. giur. agr. alim. amb.,
2012, p. 381 ss.; ed ancora F. Albisinni, Cessione di prodotti agricoli e agroalimentari (o alimentari?): ancora un indefinito movimento,
in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 2/2012, p. 33 ss.; R. Tommasini, La nuova disciplina dei contratti per i prodotti agricoli e alimentari, in q. Riv., www.rivistadirittoalimentare.it, n. 4/2012, p. 3 ss.
(33) COM (2010) 672 def.
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parlare della “riduzione” alla logica delle reti di sicurezza),
che dovrebbe essere tuttavia meglio precisata se vuol essere un obiettivo ed un indice di verifica34.
Tale logica viene richiamata più volte, in via preliminare,
cioè in sede di proposta, “nella sua interezza”, per giustificare l’utilizzo di strumenti di mercato. Successivamente,
viene richiamata per giustificare gli emendamenti alla originaria disciplina, coinvolgendo “tutti i prodotti della OCM”
, tutti gli “operatori” ed i soggetti interessati.
In estrema sintesi, essa include strumenti di mercato, quali
l’intervento pubblico e l’aiuto all’ammasso privato ed è integrata da misure di gestione, volte alla regolazione dell’offerta. Dapprima è rivolta ad un gruppo ristretto di prodotti e
successivamente (in sede di modifica) a “tutti i prodotti dell’OCM”, include norme applicabili alla commercializzazione
e coinvolge anche le organizzazioni dei produttori.
E non si tratta di semplici affermazioni di principio prive di
conseguenze giuridiche, ma di premesse importanti per
ri-considerare una serie di misure e strumenti giuridici .
Trattasi di un approccio non del tutto nuovo, in qualche
modo visibile anche in precedenza, ad esempio nel reg. n.
1698/2005 per il governo dell’agricoltura35.
Il significato della formula e dell’approccio ha attratto l’attenzione di giuristi prestigiosi, che si sono occupati dei
“concetti più all’avanguardia”, delle “nuove trincee del diritto”. Invero, un siffatto richiamo consente di fare riferimento non all’immagine oggi particolarmente sgradita di
“scansione gerarchica” o di “filtro” tra fatti ed organizzazione delle regole di diritto; piuttosto, esso permette di richiamare un “sistema di regole non poste l’una sopra o
sotto l’altra, bensì sullo stesso piano, legate l’una all’altra
da un rapporto di reciproca interconnessione” . Si tratta di
regole che non possono trovare collocazione in un’unica
fonte suprema, ma devono essere situate in una realtà varia e mobile, il mercato36.
In altre parole, vengono messi a punto, probabilmente, alcuni paradigmi su cui riflettere, volti a indicare ragionevoli
tratti unificanti, intendendo sottrarre certi beni ad altre logiche, “alla sovranità nazionale, al dominio del mercato, alle
prepotenze individuali, perché possa goderne una pluralità, nella maggior parte dei casi indeterminata, di soggetti”.
62
Il punto pare essere essenziale, riguardando le modalità di
costruzione del nuovo sistema, e mettendo in luce la rilevanza dei “diritti non costruiti come titoli da scambiare sul
mercato”. Potrebbe quindi rappresentare un passaggio
che va nella giusta direzione37.
5.- Alcuni contenuti specifici
Occorrerà prendere in considerazione una compagine di
fili e non disposizioni isolate.
Gran parte dei provvedimenti previsti per fronteggiare le
diverse tipologie di crisi, sempre più frequenti e profonde dalle crisi di mercato, connesse alle fortissime fluttuazioni
dei prezzi che si sono verificate, alle crisi di fiducia dei
consumatori dovute ad emergenze relative alla sicurezza
degli alimenti -sono individuabili nella Parte V della nostra
proposta (quella intitolata “Disposizioni generali”)38.
Passando al dettato normativo ed ai contenuti delle norme, si può osservare che questa Parte V del regolamento
(“Disposizioni generali”) individua le due grandi aree d’intervento prescelte, oltre ai problemi definiti “specifici”.
Nel Capo I, in particolare, sono elencate le diverse tipologie di misure eccezionali previste nei tre casi di “crisi” considerati (artt. 154, 155, 156):
- 1. turbative di mercato;
- 2. perdita di fiducia dei consumatori in seguito a rischi per
la salute connessi anche a malattie di piante, animali;
- 3. problemi specifici.
Il Capo II si occupa delle “Comunicazioni e relazioni”. Il
Capo III disciplina la “Riserva per le crisi del settore agricolo”.
Ora, la Parte V del regolamento non è l’unica da prendere
in considerazione per cogliere le caratteristiche e le eventuali “novità” introdotte per la gestione delle crisi.
Tuttavia, la Commissione ha qui provveduto ad indicare
due aree specifiche d’intervento per le crisi che ha conosciuto nel recente passato, introducendo anche un ampio
contenitore e la possibilità di intervento nel caso di possibili
problematiche specifiche, che possono richiedere misure
di emergenza.
(34) A proposito di certi nuovi percorsi normativi intrapresi dal legislatore, v. le osservazioni critiche di M. R. D’Addezio, Agricoltura ed
energie rinnovabili: alcune osservazioni del giurista, intervento al convegno organizzato in onore del prof. Ettore Casadei (svoltosi a
Bologna-Rovigo il 25-26 ottobre 2012), “Il divenire del diritto agrario italiano ed europeo tra sviluppi tecnologici e sostenibilità”, in Atti, in
corso di pubbl.
(35) Lo segnala F. Albisinni, Distretti e sviluppo rurale: elementi per una lettura delle regole di diritto, in Agriregionieuropa, n.1/2010, p.
21 ss.
(36) Nel “plastico” del diritto globalizzato che si forma, diventano “tutti coautori, tutti protagonisti”. Così, P. Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, cit, spec. pp. 203-204, che confessa di essere stato sollecitato dalle opere di Cassese, Predieri, Morisi e molti altri
sul tema.
(37) Diversi paradigmi normativi oggi segnalano “il passaggio dalla partecipazione individuale a quella collettiva”, contribuendo alla costruzione di quel demos la cui mancanza ha fatto dubitare delle possibilità di dare all’UE un fondamento diverso da quello affidato alla
sola dinamica dei mercati. Cfr. S. Rodotà, op.ult.cit., pp. 30-33 e 136-137.
(38) L. Costato, La Pac verso il 2010, in Notiziario, a cura dell’Accademia dei Georgofili del 23 febbraio 2011, sollecita uno sviluppo di
tali strumenti e coerenza con le altre misure.
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Ad una prima valutazione, almeno ad avviso di un nutrito
numero di analisti, non sembra che si possano segnalare,
come ci si poteva attendere, risposte di spicco, di significativo rilievo per fronteggiare le crisi di mercato connesse
alla fluttuazioni dei prezzi39. In particolare, non si fa espresso riferimento alle crisi più specificamente connesse alla
sicurezza alimentare (security), se si escludono le disposizioni del Capo III, concernente una “Riserva per le crisi del
settore agricolo” (art.159)40.
Prendiamo in considerazione solo alcuni aspetti.
In certi casi, la Commissione avrebbe la facoltà di adottare
mediante atti di esecuzione – quindi direttamente – le misure di emergenza giustificabili per fronteggiare eventuali
emergenze, tuttavia soltanto nella «misura strettamente necessaria e per il periodo strettamente necessario». Questi
provvedimenti, per motivi di urgenza debitamente giustificati, possono anche essere «immediatamente applicabili». Si
tratta di una facoltà di intervento ampia, all’occorrenza anche tempestiva, e non rigidamente regolata nella norma41.
È esplicitamente prevista la possibilità per la Commissione
di sospendere in tutto o in parte, ad esempio, i dazi all’importazione, anche per determinati quantitativi e/o periodi, a
seconda dei casi (art.154). In pratica, gli strumenti più facilmente applicabili e potenzialmente più importanti sono –
oltre alla possibilità di modifica dei dazi all’importazione – i
diversi strumenti relativi all’intervento pubblico, all’aiuto all’ammasso privato, eventualmente anche qualche misura
specifica di intervento dal lato delle restituzioni all’esportazione, piuttosto che di gestione dei contingenti tariffari.
Al li là di ciò che afferma l’art.154, al primo paragrafo, dove
fa riferimento alle “minacce di turbativa del mercato causate da aumenti o cali significativi dei prezzi”, sia gli strumenti, che la logica del loro utilizzo, sembrano finalizzati, soprattutto, se non esclusivamente, alla necessità di inter-
63
vento per fronteggiare le riduzioni dei prezzi, mentre non
sembrano affrontati espressamente né il tema degli strumenti atti ad intervenire in caso di prezzi particolarmente
elevati, e quindi potenzialmente dannosi per i consumatori,
né viene menzionato il problema della sicurezza degli approvvigionamenti42.
La proposta di emendamento dell’art. 154 (Misure per
contrastare le turbative del mercato) interviene sull’ampliamento della misura a tutti i prodotti della OCM, sopprimendo l’originaria menzione restrittiva43.
Riguardo alle misure espressamente previste per far fronte
alla eventuale perdita di fiducia dei consumatori (di cui all’art.155 successivo), per lo più dovuta a problemi di tipo sanitario, esplicitamente concernenti “rischi per la salute pubblica, per la salute degli animali o per la salute delle piante”,
è interessante notare che la proposta di regolamento limita
le possibilità di intervento a settori ben individuati44. Ad essi
si aggiungerebbe il settore delle “carni equine” (secondo la
proposta di emendamento). Nonostante tale emendamento,
come si può facilmente notare, nel testo dell’art.155 non sono presenti riferimenti alle produzioni vegetali per le quali
non sembra dunque possibile utilizzare le misure indicate.
La circostanza ha sollevato più di una perplessità. In particolare, i settori trascurati potrebbero rientrare tra le «misure eccezionali di sostegno», lasciando alla Commissione la
possibilità di utilizzare gli strumenti di volta in volta giudicati
più appropriati.
Tant’è che una delle prime proposte di emendamento dell’art. 155, paragrafo 2, comma 2°, ha previsto una estensione delle misure di cui al paragrafo 1, lettera b) dell’art. 155
del regolamento a “tutti i prodotti agricoli”.
L’aspetto forse più interessante contenuto nella proposta, in
particolare nel Capo III di disciplina, per la gestione delle
crisi è la costituzione di un apposito strumento finanziario
(39) Cfr. AA.VV., La nuova PAC 2014-2020. Un’analisi delle proposte della Commissione, cit.
(40) Nella relazione introduttiva, invece, si poneva in evidenza che la riforma della PAC non deve limitarsi a provvedere per una parte
piccola dell’economia, essendo una politica di “importanza strategica per la sicurezza alimentare, l’ambiente e l’equilibrio del territorio”.
(41) Con specifico riferimento alle eventuali turbative di mercato (art. 154), cioè a quei fenomeni causati «da aumenti o cali significativi
dei prezzi sui mercati interno o esterno, o da qualsiasi altro fattore che si ripercuote sul mercato», la Commissione ha la facoltà di intervenire, anche con procedura d’urgenza, nella “misura necessaria e per il periodo necessario”, ampliando o modificando l’applicazione
di tutti gli strumenti di intervento sui mercati previsti dal regolamento.
Criticamente, sull’argomento cfr. F. Albisinni, La nuova OCM, cit, p. 4 ss.; inoltre cfr. G. Canali, L’OCM unica e le misure di mercato, in
La nuova PAC più volte cit, p. 72 ss.
(42) In questo senso sembrano orientati anche i considerando nn. 19-21, che precedono il regolamento, ponendo gli accenti più che altro sui poteri della Commissione e sulle esigenze degli operatori. Vedasi in part. il 19° considerando che recita: “ In considerazione delle diverse situazioni esistenti nell’Unione per il magazzinaggio delle scorte d’intervento e al fine di consentire un accesso adeguato degli operatori all’intervento pubblico, è opportuno delegare alla Commissione il potere di adottare determinati atti, in conformità dell’art.290 del Trattato (…)”.
(43) Cfr. il documento contenente le proposte di emendamento predisposto dal Relatore Michel Dantin del 5 giugno 2012.
(44) Si fa riferimento al seguente elenco:
– carni bovine,
– latte e prodotti lattiero-caseari,
– carni suine,
– carni ovine e caprine,
– uova,
– carni di pollame.
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con una specifica dotazione, al quale si può direttamente
accedere in caso di necessità; si tratta della «Riserva per le
crisi nel settore agricolo» (art. 159), per la quale si sarebbe
proposto un accantonamento pari a 3,5 miliardi di euro.
Tali risorse possono essere destinate, sempre dalla Commissione, in base alle necessità, ad una delle tre aree di
intervento che possano eventualmente prevederne l’uso; in
specie, oltre alle misure appena descritte (cioè turbative di
mercato, perdita di fiducia dei consumatori a causa di problemi di natura sanitaria, o altri problemi specifici), si possono attivare anche misure straordinarie di intervento pubblico (ritiri dal mercato) e aiuto all’ammasso privato come
le restituzioni all’esportazione.
Le misure di sostegno descritte sono state valutate, pochi
mesi orsono, in sede di Consiglio. Per quanto riguarda la
disposizione relativa alle turbative del mercato, è stata
espressa la necessità di una chiara definizione di ciò che
costituisce una crisi e maggiori assicurazioni che ci si avvarrà di tali misure solo in situazioni realmente eccezionali,
adottando una chiave di lettura (semmai) restrittiva. Tuttavia, la maggioranza si è pronunciata a favore, almeno, di
un’estensione del campo di applicazione a tutti i settori.
Alla luce dei cambiamenti e della cornice concettuale sopradescritta, tendenzialmente, la nuova OCM unica dovrebbe rendere sistematica la possibilità di rivolgersi a
tutti i settori ed anche di costituire organizzazioni di produttori e organizzazioni interprofessionali utili a migliorare
la programmazione dell’offerta e regolarizzare il mercato.
La parte V del regolamento non è l’unica a prevedere misure che, direttamente o indirettamente, possano permettere di intervenire nel caso di crisi, e in particolare nel caso
di problemi di mercato. Come si diceva, infatti, sono state
menzionate diverse aree di intervento e diverse forme di
organizzazioni di imprese (Op, Oi, reti di imprese e forme
di cooperazione tra imprese), con modalità talvolta diverse
da settore a settore, comunque volte al fine di intervenire
per far fronte a problemi di mercato.
In alcuni casi viene esplicitata la funzione di “prevenzione e
gestione della crisi”. In altri casi non è così. Vi è da dire che,
pur non trattandosi di misure che hanno un impatto diretto
sulla gestione delle crisi di mercato, è comunque importante
ricordare che le Op e le Oi, nella misura in cui riescono a
perseguire efficacemente la finalità di adeguare l’offerta alle
mutevoli condizioni della domanda di mercato – sia in termini
di quantità che di qualità – da sempre, rappresentano per sé
64
stesse uno strumento di prevenzione delle crisi45.
Nei programmi operativi delle Op ortofrutticole viene in luce, ad esempio, l’obiettivo di “prevenzione e gestione delle
crisi” e, tra gli strumenti possibili sono menzionati i ritiri dal
mercato attuati dalla Op, la raccolta verde o la mancata
raccolta, attività di promozione e comunicazione, iniziative
di formazione, assicurazione del raccolto, sostegno per le
spese amministrative di costituzione di fondi di mutualizzazione. Sono inoltre specificate alcune altre condizioni.
Similmente, sono state previste misure che possono trovare applicazione nel caso di crisi o per prevenire le stesse o
i loro effetti negativi nel settore vitivinicolo quali, ad esempio, la vendemmia verde (con riduzione a zero delle rese
per le superfici interessate dalla misura), fondi di mutualizzazione, assicurazione del raccolto46.
In argomento, devono ancora convergere diversi livelli di
produzione normativa, sopranazionali e nazionali, linee
guida ed incipit pubblici e privati, oltre, ovviamente, al quadro dell’implementazione.
ABSTRACT
The new ordinary procedure under the Lisbon treaty (former “codecision” procedure) is applied for the first time for
a CAP reform.
Confirming and specifying some elements that were present
in the EC legislation, the main concepts of the reform proposals have been supported by the Council and the European
Parliament, such as: 30% of greening of direct payments, a
fairer distribution of the CAP support between Member
States, as well as between Regions, sectors and farmers,
several aspects related to the improvement of the rural development policy and more effective market mechanisms.
These decisions represent “the EU’s response to the challenges of food safety, climate change, growth and jobs in
rural areas. The CAP will play a key part in achieving the
overall objective of promoting smart, sustainable and inclusive growth” (said Dacian Cioloş, European Commissioner
for Agriculture and Rural Development). But in recent
times, the prevailing doctrine looking at new crisis management tools will be put into place: for example provision of a
crisis reserve (including a general emergency clause). Furthermore the public debate is centred around some questions: what tools do we need for tomorrow’s CAP?
(45) In tale direzione appaiono orientati diversi riferimenti, contenuti negli art. 106 ss. della proposta di regolamento (Capo III, Organizzazioni di produttori e loro associazioni, organizzazioni interprofessionali e organizzazioni di produttori).
(46) Mentre nel caso della vendemmia verde il contributo non può superare il 50% dei costi diretti per l’eliminazione dei grappoli e della
perdita del reddito, nel caso dei fondi di mutualizzazione l’aiuto può essere concesso solo sotto forma di un contributo temporaneo e
decrescente finalizzato a coprire le spese amministrative di tali fondi; nel caso dei sostegni per l’assicurazione del raccolto, invece, il
contributo può essere pari all’80% dei premi versati per far fronte a calamità naturali, e al 50% nel caso di assicurazione contro gli effetti di condizioni climatiche avverse o danni causati da animali, fitopatie o infestazioni parassitarie. Cfr. G. Canali, op. ult.cit, pp. 83-88.
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Geographical Indications and
Trademarks: space for coexistence as an equitable solution
Elena Tiberti
This Article examines potential conflicts between Geographical Indications (GIs) and trademarks. These perceived conflicts between rights protected under these two
related but distinct classes of Intellectual Property Rights
(IPRs) is at the core of the international debate on the
proper protection of GIs. The first section of the article sets
out the background to the conflict and explains the current
state of the law. The article then examines the ways conflicts are managed in the European Union (EU) and the
United States Of America (US). These positions are of particular interest as the positions of the EU, which tends to
precedence GIs and the US, which tends to give precedence to trademarks, are at the core of the international
debate. The article shows however that courts in both the
EU and the US have allowed the coexistence of both forms
of IP. This is in line with a WTO Panel decision which, it
can be argued, gave coexistence a qualified green light.
The articles concludes that coexistence should be endorsed as the most equitable and legally sound solution for
any conflicts between GIs and trademarks but leaves open
the question as to whether specific new rules are required.
1.- The Conflict
Even if both GIs and trademarks are employed with the
purpose of building reputation and goodwill, there are important differences between these two forms of intellectual
property1.
The term ‘Geographical Indications’ (GIs) entered the terminology of international intellectual property (IP) law by its
inclusion in the Agreement on the Trade-Related Aspects
of Intellectual Property Rights (TRIPS) of the World Trade
Organization (WTO), signed as part of the Uruguay Round
in 1994. TRIPS indicates GIs as a separate branch of intellectual property. As a consequence GIs are entitled to
worldwide protection by virtue of the agreement. GIs have
three basic functions2. They provide information about: the
65
name of a product; the geographical origin of the product;
a given quality, reputation, or characteristics attributable to
a geographical area. The use of a geographical indication
permits the consumer to associate a name or other sign to
directly unobservable attributes of a product. GIs are instruments of Public Law since each and every producer
which is located in the area to which the geographical indication refers and which products meet certain quality standards or other requirements, has the right to use the said
indication for the products originating in the said area. A GI
appreciated in the market represents an advantage for producers authorized to use it, since it creates accumulated
goodwill. Without such protection, it would be hard for such
producers to benefit from maintaining the quality or other
properties of their products and they would have limited incentive to invest for that purpose.
Countries protect GIs in different ways. An indication can
be protected at the international level through bilateral
agreements, multilateral treaties, or other agreements, or
on the national level, through legislation or jurisprudence.
At the international level the TRIPS Agreement provided
the ‘minimum’ standards of protection for GIs in all WTO
Members and requires national laws to support that protection. It creates a two-level system of protection: the basic
protection applicable to GIs associated with all products in
general; and additional protection applicable only for GIs
denominating wines and spirits. Article 1.1 of the TRIPS
Agreement leaves it up to the Members to establish the appropriate method of implementing the provisions of the
Agreement (including the provisions on GIs) within their
own legal framework. Various are the modalities that have
been developed in national law for the protection of GIs: for
instance, the protection for geographical indications available in the U.S. is conferred in a variety of ways, including
unfair competition law, federal (such as trademark law) and
state statutes and regulations. In other countries, such as
the EU, there are also sui generis regulations especially for
GIs in the foodstuffs, wines and spirit sectors3.
Trademarks are signs, which are used in order to distinguish the goods or services of one undertaking from the
goods or services of another undertaking. The main function of a trademark (although not the only one) is to distinguish the goods and/or services for which the trademark is
used. Only trademarks that are distinctive can perform that
function. The TRIPS Agreement does not give any indication under what circumstances a sign has to be considered
distinctive in respect of certain goods or services. However, it is commonly accepted that, in order to be considered
distinctive, signs used as trademarks must not be descrip-
(1) The information used in this section draws heavily on WIPO, ‘Standing Committee on the Law of Trademarks, Industrial Designs
and Geographical Indications’, Fifth Session, Geneva, 11-15 September 2000.
(2) See, e.g., F. Givers, Conflicts Between Trademarks and Geographical Indications. The point of View of the international Association
for the Protection of Industrial Property (AIPPI), Symposium on the International Protection of Geographical Indications, Melbourne, 5-6
April, (1995: Geneva, WIPO), pp. 148-9.
(3) The EU is currently considering introducing a single GI sui generis system for non agricultural GIs.
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tive or deceptive. Even if trademarks are intended to represent interests that go beyond those of the single producer,
they have to be considered instruments of Private Law
since quality inspections are organized within the company,
the owner has the exclusive right on the sign and is entitled
to prevent unauthorized parties from using that trademark,
which is identical or confusingly similar for goods or services identical or similar to those for which the trademark is
protected.
GIs and trademarks are different legal categories of distinctive signs. Conflicts as to the right to the exclusive use of a
distinctive sign usually arise where there are different parties claiming entitlement to such use. There are various
mechanisms designed to avoid conflicts. The principle of
territoriality means that identical trademarks used for identical goods or services can coexist in different territories.
However, the globalization of trade lead to a significant
erosion of the principle of territoriality and calls for new solutions. The principle of specialty means that similar or
identical trademarks can coexist as long as they are used
on different goods or services. Under the principle of priority, the exclusive right to a trademark is attributed to the
first who registered or used it. These principles are supplemented by rules that allow honest and concurrent use of
trademarks, or the use of family names, usually to the extent that such use is not misleading or deceptive. Different
from trademarks, GIs are not arbitrarily chosen, but refer to
a specific geographical area in relation to the products that
originate there from. It is possible that different geographical regions have the same name and are the place of origin for the same kind of products. A conflict of such nature
would be a problem of homonymous geographical indications, a theme that the Article does not analyse.
The situation is different where different parties use one
and the same sign as a trademark and as a GI for the
same product. What needs to be determined is who
should be entitled to use that sign, what should be the conditions of such use and if one right should prevail over the
other or should both rights coexist.
As GIs and trademarks are protected in different ways
within the different countries, this creates space for different solutions for a possible conflict between them. Countries protecting GIs under sui generis legislation create the
possibility for subsequent GIs to prevail over prior trademark, and in certain circumstances coexistence between
the two rights is envisaged. Countries protecting GIs within
their trademark regimes tend to favour the ‘First in Time,
First in Right’ principle which affords protection to the first
sign registered whether trademark or GI. For the purpose
of this Article the legislation of EU and the U.S. will be
66
analysed, as their positions are at the opposite side of the
spectrum in the international debate on the protection of
GIs.
2.- EU protects GIs through a sui generis system. Three
different schemes exist: for agricultural products, for wines
and for spirits.
Regulation (EU) No 1151/20124 deals with possible cases
where conflict could arise between a trademark and a geographical name, seeking to strike the right balance between both IP rights. Conflicts arising when a trademark
that includes a geographical name clashes with a protected GI or a protected designation of origin are regulated in
Article 14 that distinguishes between three situations: the
simplest case is the first one, referred to in Article 14.1.
Any application for a conflicting trademark for the same
type of product made after the date of application for protection of the geographical name at EU level will be refused. In this case, the regulation gives priority to the geographical name. The second case, referred to in Article
14.2, provides for coexistence in certain cases. However, a
conflicting trademark can only continue to be used, in accordance with EU law, if:
- the trademark was applied for, registered or established
by use in good faith before the date of protection in the
country of origin or the date of submission to the Commission of the application for registration of the protected geographical indication or protected designation of origin;
- there are no grounds for invalidity or revocation of the
trademark under applicable EU legislation.
The third case is different. As a general rule, under the EU
regime, the registration of a conflicting trademark does not
prevent registration of the geographical name as a GI. Only in one circumstance, referred to in Article 14.3, is the application to register the geographical name refused. This is
if, in the light of the trademark’s reputation and renown and
the length of time it has been used, registration of a geographical name would be liable to mislead the consumer
as to the true identity of the product. In all other cases, the
name can be registered notwithstanding the existence of
the registered trademark.
In the common wine market regulations, the conflict between trademarks and wine GIs are also resolved by way
of giving supremacy to GIs. According to the Wine Regulation5, an identical or similar trademark to a wine GI may not
be used for wines or other beverages if they are likely to
confuse or mislead consumers as to the nature, composition, origin or characteristics of the product. In other words,
(4) Regulation (EU) No 1151/2012 of the European Parliament and of the Council of 21 November 2012 on quality schemes for agricultural products and foodstuffs on the protection of Geographical Indications and Designation of Origin for agricultural products and foodstuffs.
(5) Council Regulation (EC) No 479/2008 of 29 April 2008 on the common organization of the market in wine.
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if there is a likelihood of confusion by the consumers between a trademark and a GI, the trademark cannot be
used. On the other hand, even if consumers believe a
product bearing a GI to be a product of a certain producer,
this trademark cannot be invoked against the use of the GI
on wines that are eligible to use it. An exception is made
for well-known registered trademarks for wine. Such a
trademark may continue to be used, provided that it was
registered 25 years before the GI was recognised in the
country of origin and it has been used without interruption
and corresponds to the identity of its original holder or
provider of the name.6
GIs, as they are known in EU, are not well understood in
the U.S. Currently, the U.S. uses its administrative trademark structure to register GIs, rather than using a sui
generis system. The ratio behind this type of protection is
that GIs are viewed as a subset of trademarks. The same
governmental authority, the United States Patent and
Trademark Office (USPTO), processes applications for GIs
and other types of intellectual property.
The U.S. trademark/GI system provides the trademark or
GI owner with the exclusive right to prevent the use of the
mark/GI by unauthorized parties when such use would likely cause consumer confusion, mistake or deception as to
the source of the goods/services. In this way, a prior right
holder has priority and exclusivity over any later users of
the same or similar sign on the same, similar, related, or in
some cases unrelated goods/services where consumers
would likely be confused by the two uses. This is what is
commonly called the ‘First in Time, First in Rights (FITFIR)
Principle’.
The FITFIR principle represents the official U.S. position on
the conflicts between trademarks and GIs. This Principle is
endorsed, for instance, in a series of Free Trade Agreements (FTAs). The US-Chile FTA applies the principle stating that ‘In general, we applaud the application of the “FITFIR” principle to trademarks and geographical indications.
This may serve as a useful precedent’7 The US-Australia
FTA clearly applies this principle in Article 17.2(4): ‘Each
Party shall provide that the owner of a registered mark
67
shall have the exclusive right to prevent all third parties not
having the owners’ consent from using in the course of
trade identical or similar signs, including geographical indications, for goods or services that are related to those
goods or services in respect of which the owner’s mark is
registered, where such use would result in a likelihood of
confusion’8
3.- Space for Coexistence
The different perspectives of EU, which tends to give
precedence GIs, and the U.S., which tends to give precedence to trademarks could be easily considered inconsistent, but this Article aims to demonstrate that a point of
connection between the different perspectives is yet be
reached: the coexistence of a trademark with a GI had
found space in both nationals and international courts as a
solution for conflicts between these two types of IPR and
could be fairly considered the most reliable way to follow in
the finding of an area of compromise in the international
debate.
The EU clearly establishes the possibility of the coexistence
between trademarks and GIs. The European Court of Justice (EJC) expressed itself on the matter in the 2009 case
of Bavaria NV and Bavaria Italia S.r.l v Bayerischer Brauerbund9 holding that prior registered trademarks may coexist
with the subsequently registered GI. The cases involved the
Dutch company Brauerei Bavaria NV, one of the biggest
producers of beer, that used the designation ‘Bavaria’ since
1925, and became the proprietor and the user of many international trademarks, which contained, together with other expressions or figurative elements, the name ‘Bavaria’.
In 2001, Bayerischer Brauerbund, a long standing association of Bavarian brewers10 registered the GI ‘Bayerisches
Bier’ to the Bayerische Brauerbund eV (the Bavarian Brewers Association) of Munich. 11 After the registration the
Bavarian Brewers’ Association proceeded against Bavaria
NV in Italy, seeking to prevent the Dutch company from using the designation ‘Bavaria’ in that country. The Turin Court
(6) This provision goes also under the name ‘Lex Torres’ as it was introduced to solve the conflict concerning the ‘Torres’ trademark: a
Spanish undertaking, Miguel Torres SA was the proprietor of TORRES in Portugal since 1962. Subsequently, in the 1990s the Portuguese government registered ‘Torres’ and ‘Torres Vedra’ as GIs, pursuant to Regulation 2392/89 on wine labelling, for a valley north
of Lisbon which the government claimed was a traditional wine growing region. The consequence of this would have been the cancellation of the trademark. After intensive lobbying the European Commission amended the Regulation so that the trademarks were allowed
to coexist with wine from the Torres Vedras region.
(7)The US-Chile FTA Report of the Industry Sector Advisory Committee on Consumer Goods (ISAC-4) February 2003 at Para V(c).
(8) Australia – United States Free Trade Agreement (AUSFTA), 18 May 2004.
(9) Case C-343/07 Bavaria NV and Bavaria Italia S.r.l v Bayerischer Brauerbund , ECJ, 2 July 2009.
(10)The statutes of the Bavarian Brewers Association (Bayerischer Brauerbund) dated back to 1917; and it had been the proprietor of
the registered collective trademarks ‘Bayrisch Bier’ and ‘Bayerisches Bier’ since 1968.
(11) Art 1 of Regulation (EC) No. 1347/2001 registered the name ‘Bayerisches Bier’ as a PGI and recital 3 in the preamble to that Regulation stated that PGI and the trademark ‘Bavaria’ would not misled the public as to the identity of the product, which is the standard
embodied in Art. 14(3) of the Regulation (EC) No. 2081/92.
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of Appeal, referred to the ECJ the question as to whether
the fact that the GI had been granted protection after the
registration of the trademark meant that the Dutch company
might nevertheless continue using the marks. 12 In July
2009, the ECJ affirmed the principle of coexistence, holding
that trademarks of third parties in which appears the word
‘Bavaria’, that would have been registered prior to the date
on which the application for registration of the GI ‘Bayerischer Bier’ was filed, could continue to exist: ‘As the registration of the GI was interpreted as having no adverse impact upon the validity of the ‘Bavaria’ trademarks, coexistence as provided for in Article 14(2) of former Regulation
(EEC) No.2081/92 of 14 July 1992, could continue’.
In this case, the ECJ affirmed the possibility of coexistence
between these GIs and trademarks, establishing that the
mere existence of marks in the market which incorporates
the geographical name is not an indicator that the name is
unregistrable as GI.
In the U.S. the possibility of coexistence is not envisaged: as
explained above, the U.S. protect GIs within his trademark
system and the priority principle. Despite this formal position,
however, the principle of FITFIR has been questioned in a series of cases. In Grupo Gigante S.A de C.V. v. Dallo & Co.13,
for instance, it was stated that: ‘A fundamental principle of
trademark law is first in time equals first in right. But things
get more complicated when to time we add considerations of
place, as when one user is first in time in one place while another is first in time in a different place. The complexity swells
when the two places are two different countries...’
When coming to the conflict between a prior registered
trademark and a foreign GI seeking registration in the U.S.
the FITFIR principle can not clearly constitute the most equitable solution. The ‘Parma Sausage’ Case14 concerning
attempts to register PARMA ham easily defines the limits of
the FITFIR principle. Parma Sausage Products Inc, an
U.S. corporation, registered the name PARMA BRAND and
the related design in 1969, for ham. In 1984 Consorzio del
68
Prosciutto di Parma (an association founded in 1963 by
producers located in Parma, Italy who manufactured this
typical ham 15 and that included about 200 members
around the time of this dispute) applied for three certification marks, ‘Parma ham’, ‘Prosciutto di Parma’ and ‘Parma’
with the ducal crown design. Based on the principle of priority, the application was rejected.16 Subsequently, Consorzio challenged the prior registered trademark arguing
that PARMA BRAND was geographically deceptive because the respondent used the mark with intent to deceive
the public into believing that its products originated in Parma, Italy. The U.S. Trademark Trial and Appellation Board
(TTAB) analysis portrays the merits on each side. On the
one hand, Parma ham has been produced and commercialised in Italy since the late 19th century. Attempts to establish the ham’s reputation in the U.S. however were
stopped by an unexpected obstacle as, due to an occurrence of African swine flu in the late 1960s, the U.S. Government banned the importation of pork products from Italy
since 1989. On the other hand, the respondent’s company
was started in the mid-1950s and the proprietor was an
Italian native from Parma that used the designation in honour of his hometown (even if all the products were made in
the U.S. from the U.S.-sourced meat). The Board established that the time on which geographic deceptiveness
should have been proven was the date of registration, in
this case August 26, 1969. Therefore as of this date, the
mark was not deceptive and the Board concluded that in
these circumstances, it would be more equitable to favour
the respondent. The post-script to this case is that the Consorzio did manage to register their marks (see for e.g.
PROSCIUTTO DI PARMA –Reg.No.2014629- and PARMA
HAM –Reg. No. 2014628-; the basis was the use in commerce and incontestability after a five year period) while
the respondent’s mark continues to exist on the register
(PARMA BRAND –Reg. No. 0875721) providing de facto
coexistence.
(12) The Bavarian Brewers Association also brought suit in Germany. A second question was referred to the ECJ, and considered concurrently, in Case C-120/08 Bavaria NV v Bayerischer Brauerbund eV: the referring court asked whether Art.14 (1) of Regulation (EC)
No. 510/2006 applies in the case where the protected indication has been validly registered in accordance with the simplified procedure
under Art.17 of Regulation (EEC) No. 2081/92 of 14 July 1992.
(13) Grupo Gigante S.A de C.V. v. Dallo & Co. 391 F.3d 1088, 1093 (9th Cir.2004). This is a case between a large Mexican grocery
chain that has long used the mark, but not in the US, and a small American chain that was the first to use the mark in the US, but did
so, long after the Mexican chain began using it, in a locally where shoppers were familiar with the Mexican mark. The question here
was the application of a famous-mark exception to the principle of territoriality. The District Court held that the Mexican grocery was entitled to a declaratory judgment that it had a valid, protectable interest in the Gigante name. Nevertheless, the court held that laches (a
delay of four years in suiting for infringement the opposing company) barred the Mexican grocery from enjoining the American chain
from using the mark at their two existing stores.
(14) Consorzio del Prosciutto di Parma v. Parma Sausage Products 23 USPQ 2d 1894 (1992 TTAB); 1992 WL 233379 (Trademark Tr. &
App. Bd.) 1.
(15) The ham’s distinctiveness is claimed to be due to the air drying technique used in this region. ‘The air here is unique, dry and sweetsmelling with aromatic breezes from the Apennine Mountains creating perfect environmental conditions for a natural “drying” of the
hams’. See http://www.prosciuttodiparma.com/eng/geography/tradition/ last visited the 8th of January 2013.
(16) Lanham Act 1946; 15 USC §1052(d). An application will be refused if it ‘(c)onsist of or comprises a mark which so resembles a mark
registered in the Patent and Trademark Office, or a mark or trade name previously used in the U.S. by another and not abandoned, as
to be likely, when used on or in connection with the goods of the applicant, to cause confusion, or to cause mistake, or to deceive’.
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This dispute manifestly illustrates that there are often legitimate interests on both sides of the divide and that despite
the official position on the relevance of the FITFIR principle,
in practice space already exist within the trademark system
to doctrinally developed safe spaces within the existing law
that permit coexistence of these different types of IPR.
4.- WTO Decisions which gave coexistence a qualified
green light in the international debate
In the 2004 WTO Case EC-Protection of Trademarks and
Geographical Indications for Agricultural Products and
Foodstuffs a WTO panel ruled in favour of the U.S. against
the EU finding that the EU’s system for registering geographical indications of EU producers made it difficult to
get protection for producers from the U.S. In many ways,
this case was the expression of continuing tensions between the EU and the U.S., as well as some other ‘New
World’ countries over their approaches to the protection of
geographic names as a sign of a product’s reputation and
quality, and their international registration17.
Despite the defeat of the EU on the administrative aspects of the EU Regulation, what is of far greater interest
is how the Panel ruled on the trademark claim.18 The provision under scrutiny was Article 14(2) of the EU Regulation. The U.S. argued that Article 14(2) of the Regulation
was in breach of Article 16.1 of the TRIPS Agreement19
because, allowing coexistence, does not ensure that a
trademark owner may prevent uses of GIs which would
result in a likelihood of confusion with a prior trademark.
According to the EU, Article 14(2) was justified as a permissible, limited exception under Article 17 of TRIPS
Agreement20. This because coexistence falls within the
example of ‘fair use of descriptive terms’ because GIs are
descriptive terms, even where they consist of a non-geographical name, and their use to indicate the true origin
of goods and the characteristics associated with that origin is ‘fair’.
The Panel began by the central issue of determining if
Article 14(2) of the Regulation was a limited exception
69
(within Article 17 TRIPS). The Panel was of the opinion
that the Regulation was limited as regards goods because only those that satisfied the GI definitions would
qualify. Therefore the exception would operate in limited
circumstances. Similarly rights were curtailed only
against certain third parties (registered GI users) and only those signs which were the subject of such registrations. The Panel also considered at length whether the
intrusion on the ‘likelihood of confusion’ standard was
limited. Two findings that were influential were the existence of provisions in the Regulation ensuring that where
the risk of confusion was high, the descriptive use exception would not apply21 and exclusive rights remaining intact against those who did use the sign but not as a GI, in
situations where confusion was likely. These cumulative
constraints led the Panel to conclude that this was a limited exception within Article 17 TRIPS.
When considering the legitimate interest of trademark
owners the Panel explicitly stated that coexistence under
Article 14(2) of the Regulation was not ‘fatal to the applicability of Article 17 given that, as a provision permitting
an exception to the exclusive right to prevent uses that
would result in a likelihood of confusion, it presupposes
that a certain degree of likelihood of confusion can be
permitted.’ Furthermore, the Panel confirmed that from
the more than 600 GIs registered (at that time) under the
Regulation over eight years, the complainants were able
to identify only four instances that would result in a likelihood of confusion. Finally the Panel turned to an interpretation of the legitimate interest of third parties. The
Panel agreed with EU that ‘third party’ includes users of
a GI in accordance with its registration and disagreed
with the US that ‘third party interests’ should include
trademark licensees. The Panel also interpreted the
word ‘legitimate’ in connection with third parties in TRIPS
Article 17 and found that the third party interests are ‘legitimate’ under the Regulation because the Regulation
has several conditions with respect to the term ‘geographical indication’22.
The Panel concluded that although coexistence was a violation of Article 16.1 TRIPS, the Regulation contained a
( 17) See E. Gambaro, N. Landi, Applicabilità dell’accordo trips alla violazione in atto del diritto di marchio, in Dir. Ind. (Il),
2005, n. 4, p. 355.
(18) The information used in this section draws heavily on Dev Gangjee, Quibbling Siblings: Conflicts between Trademarks and Geographical Indications, 82 Chicago-Kent Law Review (2007).
(19) Article 16.1 reads: ‘The owner of a registered trademark shall have the exclusive right to prevent all third parties not having the owner’s consent form using in the course of trade identical or similar signs for goods or services which are identical or similar to those in respect of which the trademark is registered where such use would result in a likelihood of confusion. In case of the use of an identical
sign for identical goods or services. A likelihood of confusion shall be presumed’.
(20) Article 17 reads: ‘Members may provide limited exceptions to the rights conferred by a trademark, such as fair use of descriptive
terms, provided that such exceptions take account of the legitimate interests of the owner of the trademark and of third parties.’
(21) Such as Articles 7(4) read with 12b(3) and Article 14(3) of Regulation 2081/92.
(22) The Regulation conditions the Panel referenced include the fact that the Regulation restricts the application of ‘geographical indication’ to a defined term in Article 2.2, there are additional conditions with respect to product quality, reputation and origin as well as labeling and misleading advertising directives.
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limited exception that satisfied the ‘legitimate interest’ proviso, thereby being justified by Article 17 TRIPS.23
The Panel in the WTO case above held that trademarks
and GIs can coexist under the TRIPS Agreement. The dispute also illustrated conflict between these rights on a theoretical level. The worldwide litigation between the American corporation, Anheuser-Busch, and the Czech company, Budejovicky Budvar, over the term ‘Budweiser’ provides
a concrete example of conflict on this issue.
In 1876 Anheuser-Busch began to manufacture beer for an
immigrant from Bohemia. In 1883 Anheuser-Busch acquired the right to use the name ‘Budweiser’. It was Anheuser’s intention that the American Budweiser be “similar
in quality, color, flavor and taste to the ‘Budweiser’ beer
then being made in Bohemia.”
Anheuser-Busch’s Budweiser beer in the 21st Century has
come to hold 45% of the American beer market and the
brand is the largest selling beer internationally. In 1895, the
Budejovicky Budvar brewery was founded in the town of
Ceske Budejovice, in South Bohemia. The town boasts a
seven hundred year history of brewing beer which is entwined with the town’s culture. Budejovicky Budvar started
using the names ‘Budvar’ and ‘Budweiser’ for the company’sbeer in 1895. Other breweries also existed in the town
at the time. Over time, Budejovicky Budvar acquired these
other breweries and eventually became the sole producer.
Disagreements over the exclusive rights to use the trademark of ‘Budweiser’ started when Anheuser-Busch and
Budejovicky Budvar began to export their like-named products. Some 100 legal challenges involving trademarks rights
have since been mounted in over 40 jurisdictions across the
globe in the century-long battle between these two brewers.
The court judgments delivered so far have resulted in a division of markets. Anheuser-Busch has been selling ‘Budweiser’ in some 16 countries and ‘Bud’ in another 15 countries. The company has a dominant market share in North
America and most of South America and Asia. Budejovicky
Budvar has ‘Budweiser’ and ‘Bud’ registered as trademarks
and appellations of origin in 28 European Countries and 37
non-European Countries. Rather exceptionally, however,
both brewers have the right to use ‘Budweiser’ and ‘Bud’ in
the United Kingdom, the second most important global
market for beer to Anheuser-Busch. The litigation in the
United Kingdom (UK) is of interest for the purpose of this
Article because British legislation prior to 1994 allowed for
competitors’ trademarks to coexist and in the most recent
British Budweiser dispute culminating in September of
2011, the ECJ held that the principle of honest coexistence
continues despite recent legislative changes in the UK
which had attempted to remove the principle.
While the Budweiser litigation continued between the com-
70
panies themselves, at the international level, the 2004
WTO, case discussed above, qualified coexistence as possible solution.
Both the EU and the U.S. claimed victory in the WTO dispute. On the one side, the WTO Dispute Settlement Body
(DSB) held that that Anheuser-Busch could continue to use
its “Budweiser” trademark in the EU. This was a success
for the U.S. since they prior registered trademarks enjoy
priority over subsequently registered GIs, which is complying with their national trademark law. On the other side, the
DSB also found, as explained above, that the EC Regulation 2081/92 complied with the TRIPS agreement and that
coexistence between a trademark and GIs is possible.
5.- Conclusions
The World Trade Organization Panel issued its report on
March 15, 2005 while the Doha talks began in November
of 2001. One might have expected that the outcome of the
case would set the stage for collaboration during the Doha
round of talks; however, this has not been the case. It does
not look like the Doha Round of negotiations will be concluded in the short term. In any event the uncertainty as to
what aspects of GIs were included in that Round has left a
series of questions unresolved. It is not easy to predict that
the various interested parties will find a consensus on new
GI norms in the near future.
The general disagreement on GIs seems to me to be more
theoretical than practical: the coexistence of a trademark
with a later GI has been provided for in both national and
international systems. This can be the basis for a solution
to the ideological conflict between these two types of IPR.
And given that the law is familiar with balancing hard cases
when norms do not always coincide, this approach could
be considered the most reasonable way to design an area
of compromise in the international debate.
What still needs to be clarified is the path for including the
principle of coexistence in binding norms. In fact, while coexistence is endorsed here, it poses its own set of puzzles for
traditional trademark doctrine. It is highly unlikely that the U.S.
would yield to a system that would place the two designations
at an equal stature; however, in accordance with the WTO
and EU position and the growing pressure of U.S. manufacturers, it is possible that the protection of GIs could include
the possibility of coexistence. This could set a solid protection
for GIs and would harmonize the international protection of
GIs to a desiderable level for a lot of ‘Old Worlds’ countries.
At present the best alternative seems to be the negotiation
of bilateral GI agreements. The US-EU Wine Agreement of
September 200524 for example, though not addressing all
(23) When the Panel’s report was released both the U.S. and EU claimed partial victory in the result and none of the parties appealed.
The U.S. ‘succeeded’ because the EU implementation of the policy was held to have violated the TRIPS Agreement. The EU ‘succeeded’ because the Panel endorsed the principle of ‘coexistence’ between trademarks and GIs in Article 14.2 of the Regulation.
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the issues of GIs, does indicate a way forward. The EU
has several such agreements and will no doubt continue
down this path.25
The U.S. could build a similar network through its own policy of bilateral and regional trade agreements. Relevant are
the words of the EU DG Agriculture: ‘As long as TRIPS
does not offer a satisfactory level of protection for GIs, it is
71
crucial to achieve a good outcome on GIs in bilateral free
trade agreements (FTAs)’.26 The U.S. and the EU agreed
on 13 February 2013 to push for the launch by the end of
June of negotiations to create an EU-U.S.FTA. It is clear
that if agriculture is to be included in the negotiations, GIs
will have to be addressed and so will happen for the conflicts between GIs and trademarks.
( 2 4 ) P 6 _ TA ( 2 0 0 5 ) 0 3 6 0 E U - U S W i n e A g r e e m e n t , E u r o p e a n P a r l i a m e n t r e s o l u t i o n o n t h e E U - U S w i n e a g r e e m e n t
<http://www.europarl.europa.eu/document/activities/cont/201004/20100427ATT73600/20100427ATT73600EN.pdf > (Last visited 15
February 2013)
(25) Since 2008 the EU is pursuing the development of FTAs with many of its key trading partners. These FTA include a chapter on the
protection of GIs. For more information on this topic see O’Connor, Richardson ‘The legal protection of Geographical Indications in the
EU’s Bilateral Trade Agreements: moving beyond TRIPS’
(26) DG AGRI Working Document on international protection of GIs: objectives, outcomes and challenges, 25 June 2012.
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72
AlimentarEuropeo
a cura di Laura Salvi
Non si configura inadempimento dello Stato a fronte di una
norma nazionale contrastante con il Diritto dell’UE, ma non
ancora entrata in vigore.
(Sentenza della Corte di giustizia del 18 luglio 2013, causa
C-313/11, Commissione c. Repubblica di Polonia – in
GUUE C 260 del 7.9.2013, pagg. 5-6)
La sentenza del 18 luglio scorso, nella causa C-313/11, è
stata pronunciata dalla Corte di giustizia UE all’esito di una
procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica di Polonia: l’asserito inadempimento da parte dello Stato rispetto agli obblighi ad
esso incombenti in virtù del diritto dell’UE sarebbe derivato
dalla violazione della normativa sull’autorizzazione all’immissione in commercio di alimenti e mangimi GM di cui al
reg. (CE) n. 1829/2003.
La vicenda nasceva dalla previsione, nell’articolo 15, par.
1, punto 4, della legge polacca sui mangimi [legge del 22
luglio 2006 (Dz. U. n. 144, posizione 1045), del divieto di
produrre, immettere in commercio e utilizzare nell’alimentazione animale in Polonia mangimi geneticamente modificati e OGM destinati ad essere utilizzati nei mangimi; tale
divieto, però, nel momento in cui ne veniva rilevata la contrarietà con il diritto dell’UE, non era ancora vigente (essendo stata prevista come data di entrata in vigore, dapprima il 22 agosto del 2008, e successivamente il 1° gennaio
2013). La Commissione, il 23 marzo 2007, inviava alla Polonia una lettera di messa in mora, contestandole di essere
venuta meno agli obblighi derivanti dal reg. (CE) n.
1829/2003 per aver previsto il suddetto divieto. Il 23 ottobre 2007, non ritenendo sufficientemente fondate le argomentazioni fatte valere dalla Polonia, la Commissione inviava alla stessa un parere motivato, intimando di adottare
le misure necessarie per conformarsi agli obblighi previsti
entro un termine di due mesi decorrenti dal ricevimento
dello stesso parere. Seguiva un’intensa corrispondenza,
che culminava con la decisione della Commissione di adire
la Corte di giustizia, non avendo la Polonia provveduto, nel
frattempo, a porre rimedio al contestato inadempimento.
Di fronte ai Giudici europei, la Commissione ha fatto anzitutto valere una violazione del principio di certezza del diritto, che sarebbe derivata, nel caso di specie, dalla mancata
abrogazione della previsione del divieto controverso, con
la conseguente creazione di una situazione di incertezza
giuridica per i produttori di mangimi interessati, posti costantemente di fronte all’incertezza dell’entrata o meno in
vigore del divieto e costretti ad attivarsi per individuare
nuove fonti di materia prime. La Commissione ha poi rimarcato che uno Stato membro viola il diritto dell’Unione
allorché conservi una disposizione di legge ad esso contraria, ancorché la disposizione in questione non sia attuata e
che esso non potrebbe giustificare l’inosservanza del diritto
dell’Unione adducendo il fatto che non ne è derivata nessuna conseguenza negativa, laddove emerga da svariati
documenti che il divieto controverso, una volta entrato in
vigore, darebbe origine a conseguenze siffatte1. La Polonia, dal canto suo, sottolineava che il mero fatto che il legislatore nazionale abbia adottato disposizioni di legge, che
però non sono vigenti nel momento in cui se ne contesta
formalmente la contrarietà rispetto al diritto dell’UE, non
vale a configurare una violazione di quest’ultimo; la normativa nazionale vigente al momento del ricorso, non prevedendo il suddetto divieto, avrebbe garantito in modo pieno
la possibilità di fabbricare, immettere in commercio e utilizzare nell’alimentazione animale mangimi Gm e Ogm destinati all’alimentazione animale; nel caso di specie, dunque,
non si sarebbe verificata alcuna violazione del principio di
certezza del diritto, anche perché la disposizione controversa, non solo non era stata concretamente attuata, ma
non era nemmeno entrata formalmente in vigore. Il Paese
faceva altresì valere che fino alla scadenza della vacatio
legis prevista per norma nazionale in questione (che è stata fatta slittare fino al 1° gennaio 2013, con previsione, poi,
(1) La Commissione ha poi argomentato che la misura nazionale oggetto di contestazione doveva essere valutata alla luce delle disposizioni di cui al reg. n. 1829/2003, che costituisce misura di armonizzazione completa nel settore dei mangimi geneticamente modificati
e degli OGM destinati ad essere utilizzati nell’alimentazione animale, e non, invece, alla luce delle disposizioni del diritto primario; essa, quindi, ha sollevato dubbi in merito alla possibilità che lo Stato membro potesse sollevare le eccezioni enunciate all’articolo 36
TFUE, non avendo esso, comunque, dimostrato il ricorrere delle condizioni atte a consentire tale deroga; in ogni caso, poi, secondo la
Commissione il divieto in questione era da considerarsi manifestamente sproporzionato. La Commissione si è anche spinta a precisare
che, nel caso di specie, neppure sarebbe stato possibile per lo Stato membro avvalersi della procedura d’urgenza prevista all’articolo
34 del regolamento n. 1829/2003, che fa rinvio al procedimento da seguire previsto dal regolamento n. 178/2002, qualora esista un
grave rischio per la salute umana, la salute degli animali o l’ambiente: questo poiché l’adozione delle relative misure d’urgenza è riservata alla Commissione, e uno Stato membro sarebbe autorizzato ad emanare misure provvisorie di tutela solo in caso di inerzia di tale
istituzione (cfr. punti da 25 a 35 della motivazione).
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di un’ulteriore proroga fino al 1° gennaio 2017) il divieto in
essa sancito era suscettibile di subire una modifica o
un’abrogazione da parte del legislatore polacco (così come
in effetti era stato dallo stesso annunciato); di conseguenza, secondo la Polonia, la procedura di infrazione avviata
dalla Commissione si era fondata su violazioni solo eventuali ed ipotetiche2.
Le argomentazioni fatte valere dalla Polonia sono state accolte dalla Corte di giustizia. Questa ha anzitutto affermato
che il mero fatto dell’adozione e della pubblicazione della
disposizione in questione (l’art. 15, par. 4, della legge polacca sui mangimi) non è suscettibile di configurare a carico dello Stato un inadempimento per violazione del reg.
(CE) n. 1829/2003. I Giudici, richiamando la giurisprudenza sul punto, ricordano che l’esistenza di un inadempimento deve essere valutata in relazione alla situazione dello
Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato, non rilevando i mutamenti
intervenuti in seguito; nel caso di specie, atteso che alla
data del 23 dicembre 2007 (a due mesi dall’invio del parere inviato dalla Commissione), la suddetta previsione non
era entrata in vigore, la contestazione mossa alla Polonia
era infondata, e il contestato inadempimento, conseguentemente, nemmeno avrebbe dovuto costituire oggetto di ricorso giurisdizionale3. Del pari accolta l’argomentazione
della Polonia secondo cui non sarebbe stata in alcun modo
pregiudicata la certezza del diritto per effetto della misura
nazionale in questione; secondo i Giudici, la Commissione
si sarebbe limitata a richiamare una giurisprudenza relativa
a circostanze del tutto differenti da quelle sussistenti in
concreto nella vicenda, senza invece dimostrare il ricorrere
della violazione di tale principio nelle specifiche circostanze del caso di specie4. Ciò rilevato, e senza procedere all’esame delle ulteriori censure mosse dalla Commissione,
la Corte ha respinto il ricorso: nessun inadempimento si
sarebbe configurato da parte della Polonia, atteso che la
disposizione nazionale in contrasto con la normativa europea in materia di alimenti e mangimi GM non era in vigore
al momento della formale contestazione dell’inadempimento dal parte della Commissione.
Nel constatare che il ricorso giurisdizionale era di fatto pri-
73
vo di oggetto – e pur non spingendosi, pertanto, ad un esame approfondito nel merito della vicenda – la Corte è comunque intervenuta a chiarire un aspetto fondamentale relativo ai presupposti richiesti per l’avvio e l’espletamento di
una procedura di infrazione e di un eventuale successivo
ricorso giurisdizionale: affinché possa configurarsi in capo
ad uno Stato membro un inadempimento rispetto agli obblighi ad esso incombenti in virtù del Diritto dell’UE è necessario che la contestata norma nazionale sia, non solo
concretamente attuata, ma anche, e ancor prima, vigente
nell’ordinamento nazionale.
Ancora sull’interpretazione della disciplina in materia di indicazioni nutrizionali e sulla salute di cui al regolamento
(CE) n. 1924/2006.
(Sentenza della Corte del 18 luglio 2013, causa C-299/12,
Green – Swan Pharmaceuticals CR, a.s. c. Státní
zemĕdĕlská a potravinářská inspekce, ústřední inspektorát
– in GUUE C 260 del 7.9.2013, pagg. 17-18)
La Corte di giustizia, con la pronuncia resa il 18 luglio 2013
nel procedimento C-299/12, torna a pronunciarsi sul tema
delle indicazioni nutrizionali e sulla salute, dopo che nel
settembre 2012, con la sentenza Deutsches Weintor5, la
stessa aveva chiarito la portata della nozione di “indicazione sulla salute” di cui al reg. (CE) n. 1924/2006.
A fronte del rinvio pregiudiziale operato dal giudice ceco il
18 giugno 20126, i giudici della Corte sono stati chiamati a
fornire l’interpretazione di alcune delle disposizioni di cui al
suddetto regolamento: l’articolo 2, par. 2, punto 6, ove si
definiscono «indicazioni relative alla riduzione di un rischio
di malattia» come «qualunque indicazione sulla salute che
affermi, suggerisca o sottintenda che il consumo di una categoria di alimenti, di un alimento o di uno dei suoi componenti riduce significativamente un fattore di rischio di sviluppo di una malattia umana», e l’articolo 28, par. 2, ove si
prevede che «I prodotti recanti denominazioni commerciali
o marchi di fabbrica esistenti anteriormente al 1° gennaio
(2) Cfr. punti da 36 a 42 della motivazione.
(3) Cfr. punti da 43 a 47 della motivazione. La Corte ha altresì affermato: «Il ricorso della Commissione potrebbe essere coronato da
successo solamente se il regolamento n. 1829/2003 avesse obbligato la Repubblica di Polonia ad osservare taluni obblighi anche prima della data del 12 agosto 2008. Nel contesto della presente controversia, siffatti obblighi avrebbero comportato, segnatamente, che
gli Stati membri fossero tenuti ad astenersi dall’adottare normative idonee a produrre effetti negativi contrari agli obiettivi di tale regolamento anche prima della loro entrata in vigore […]. È giocoforza constatare, tuttavia, che la Commissione non ha affatto fondato i motivi dedotti a sostegno del suo ricorso sull’esistenza degli obblighi direttamente risultanti dal citato regolamento» (v. punto 48 della motivazione).
(4) Cfr. punti 49, 50 e 51 della motivazione. La Corte, peraltro, ha messo in rilievo come la Commissione avrebbe potuto invocare a sostegno del proprio ricorso la violazione da parte della Polonia di altri obblighi derivanti dal diritto dell’UE, come quelli discendenti in capo agli Stati, in generale, in virtù del principio di leale cooperazione di cui all’art. 4, par. 3, TFUE.
(5) Sentenza del 6 settembre 2012, in causa C-544/10, Deutsches Weintor eG c. Land Rheinland-Pfalz.
(6) In GUUE C 273 del 8.09.2012, pag. 6.
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2005 e non conformi al presente regolamento possono
continuare ad essere commercializzati fino al 19 gennaio
2022»7.
La controversia in sede nazionale originava dall’asserita
violazione da parte della Green – Swan Pharmaceuticals
dell’art. 17, par. 2, della legge nazionale n. 110/1997 Sb.
sui prodotti alimentari e i tabacchi, il quale impone agli
operatori alimentari il rispetto delle prescrizioni per la sicurezza degli alimenti dettate a livello comunitario. L’autorità
per il controllo agroalimentare della Rep. Ceca, infatti, contestava alla società di aver impiegato sulla confezione dell’integratore alimentare GS Merilin (immesso in commercio
prima del gennaio 2005) la seguente comunicazione commerciale: «il preparato contiene inoltre calcio e vitamina
D3, che aiutano a ridurre il rischio di sviluppare osteoporosi e fratture». L’autorità riteneva che tale comunicazione integrasse i requisiti di un’indicazione sulla salute, e in particolare di un’“indicazione relativa alla riduzione di un rischio
di malattia”; si sarebbe configurata, di conseguenza, una
violazione dell’art. 10, par. 1, del reg. (CE) 1924/2006, che
consente l’utilizzo di indicazioni sulla salute solo laddove
esse rispondano ai requisiti previsti dalla normativa comunitaria e siano autorizzate conformemente alla stessa.
La decisione dell’autorità di controllo era stata impugnata
dalla società, prima dinanzi alla Corte regionale, e poi davanti alla Suprema Corte amministrativa di Brno: la ricorrente faceva valere che la suddetta comunicazione non poteva essere considerata come una “indicazione sulla salute” ai sensi del regolamento n. 1924/2006, e che nel caso
di specie dovesse, in ogni caso, trovare applicazione l’art.
28, par. 2, del regolamento. In particolare, secondo la ricorrente, la comunicazione apposta sull’etichetta dell’integratore non faceva in alcun modo riferimento ad una “significativa riduzione” di un fattore di rischio di sviluppo di una
malattia, così come invece richiederebbe l’art. 2, par. 2,
punto 6, del regolamento ai fini della qualificazione di un’indicazione come “indicazione relativa alla riduzione di un rischio di malattia”. La posizione del giudice ceco, sia in primo che in secondo grado, era invece nel senso di ritenere
non necessario l’impiego del termine “significativamente”,
o altro termine equivalente, ai fini della qualificazione di
una dicitura come “indicazione relativa alla riduzione di un
rischio di malattia”8; il giudice nazionale, inoltre, ritenendo
che la comunicazione controversa non costituisse né un
marchio di fabbrica, né una denominazione commerciale,
74
negava l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 28, par. 2, e
l’inoperatività della relativa misura transitoria.
Il giudice ceco decideva, comunque, di sospendere il procedimento e di chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale e di stabilire: 1) se costituisca
un’indicazione relativa alla riduzione di un rischio di malattia, ai sensi dell’art. 2, par. 2, punto 6, l’indicazione sulla
salute «Il preparato contiene inoltre calcio e vitamina D3,
che aiutano a ridurre il rischio di sviluppare osteoporosi e
fratture», sebbene da essa non risulti espressamente che il
consumo di detto prodotto riduca significativamente un rischio di sviluppare tale malattia umana; 2) se la nozione di
“denominazione commerciale o di marchio di fabbrica” di
cui all’art. 28, par. 2, comprenda anche le comunicazioni
commerciali riportate sulla confezione del prodotto; 3) se
la misura transitoria di cui a quest’ultima disposizione possa essere interpretata nel senso che essa si riferisce a (tutti) gli alimenti esistenti prima del 1° gennaio 2005, oppure
nel senso che essa si riferisce agli alimenti protetti da un
marchio di fabbrica o da una denominazione commerciale
e che esistevano già in quanto tali prima di tale data.
La Corte, nell’affrontare la prima delle questioni pregiudiziali, esordisce ricordando che il “rapporto” tra un alimento
e la salute che è alla base della definizione di “indicazione
sulla salute”, ex art. 2, par. 2, punto 5, del reg. n.
1924/2006, va inteso in senso ampio, non essendo prescritto alcunché circa il carattere diretto o indiretto del rapporto, né circa la sua intensità o durata9; ne deriva che la
riduzione del fattore di rischio di sviluppo di una malattia
umana cui fa riferimento l’art. 2, par. 2, punto 6 non debba
essere necessariamente “significativa” affinché un’indicazione possa essere qualificata come “indicazione relativa
alla riduzione di un rischio di malattia”; secondo i Giudici
europei «è sufficiente che tale indicazione possa produrre,
nel consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, l’impressione che tale riduzione sia significativa», il che sarebbe comprovato dall’utilizzo nella norma dei verbi “suggerisca o sottintenda”. Alla
prima questione pregiudiziale sottoposta dal giudice nazionale viene perciò data risposta negativa, confermando la
posizione dello stesso giudice del rinvio10.
La Corte di giustizia UE ha invece risposto positivamente
al secondo quesito pregiudiziale sottopostole, con cui veniva chiesto «se la nozione di “denominazione commerciale
o di marchio di fabbrica” di cui all’articolo 28, paragrafo 2,
(7) Quest’ultima disposizione configura una deroga rispetto alla regola di cui all’art. 10, par. 1, dello stesso regolamento, per cui le indicazioni sulla salute sono in linea di principio vietate, a meno che non siano conformi ai requisiti previsti nello stesso regolamento e non
siano state autorizzate a norma del regolamento medesimo (dalla Commissione su parere dell’EFSA) ed incluse in un elenco specifico.
(8) Una siffatta interpretazione, secondo il giudice nazionale, da un lato scongiurerebbe il rischio che un operatore possa agevolmente
sfuggire all’applicazione dell’obbligo di autorizzazione, ex art. 14 del regolamento, semplicemente impiegando un’espressione in cui
non compaia la suddetta parola, dall’altro troverebbe conferma nella circostanza per cui in nessuna delle indicazioni nutrizionali e sulla
salute inserite nel Registro comunitario (istituito ex art. 20 del reg. n. 1924/2006) è possibile rinvenire un riferimento al termine “significativamente” o a termini equipollenti.
(9) Cfr. sentenza Deutsches Weintor eG, cit., punti da 34 a 36.
(10) Vedi punti da 22 a 26 della motivazione.
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del regolamento (…) n. 1924/2006 (…), comprenda anche
le comunicazioni commerciali riportate sulla confezione del
prodotto». Viene sottolineato, infatti, che sebbene le comunicazioni di carattere commerciale non possano, normalmente, essere considerate come marchi di fabbrica o denominazioni commerciali, non può escludersi che una siffatta comunicazione, riportata sulla confezione di un prodotto alimentare, costituisca nel contempo un marchio di
fabbrica o una denominazione commerciale, purché in
queste ipotesi essa sia tutelata, in quanto tale, ai sensi della legislazione applicabile; circostanza, questa, che deve
essere verificata dal giudice nazionale, alla luce di tutti gli
elementi di fatto e di diritto del caso11.
Infine, sulla terza questione pregiudiziale, relativa all’operatività della misura transitoria di cui all’art. 28, par. 2, del
reg. 1924/2006, i Giudici hanno precisato che tale previsione si riferisce soltanto a un marchio di fabbrica o a una denominazione commerciale esistenti prima del 1° gennaio
2005, e che possono essere considerati un’indicazione nutrizionale o sulla salute ai sensi dello stesso regolamento;
ad essere oggetto della misura derogatoria e transitoria di
cui alla disposizione sono, dunque, i soli prodotti alimentari
recanti siffatto marchio di fabbrica o siffatta denominazione
commerciale esistenti in tale forma prima del 1° gennaio
2005 (e pertanto commerciabili fino al 19 gennaio 2022); e
questo perché, precisa la Corte, «il regolamento n.
1924/2006 ha come oggetto, non i prodotti alimentari stessi, ma le indicazioni nutrizionali e di salute riguardanti tali
prodotti»12.
Con tale pronuncia la Corte aggiunge un altro tassello all’opera di interpretazione della disciplina sui claims nutrizionali e salutistici13, confermando l’orientamento ad una
lettura estensiva del campo di applicazione del reg. (CE) n.
1924/2006, alla luce del fondamentale – e percepito come
preminente – valore della tutela del consumatore di prodotti alimentari.
Tutela brevettuale (di prodotto e di procedimento), accordo
TRIPs e natura delle competenze dell’UE in materia di
“aspetti commerciali della proprietà intellettuale”.
(Sentenza della Corte di giustizia - Grande Sezione, del 18
75
luglio 2013, causa C-414/11 Daiichi Sankyo Co. Ltd e Sanofi-Aventis Deutschland GmbH c. DEMO Anonymos Viomichaniki kai Emporiki Etairia Farmakon – in GUUE C 260
del 7.9.2013, pag. 6)
La pronuncia che la Corte di giustizia, riunita in Grande sezione, ha pronunciato il 18 luglio 2013 nella causa C414/11, verte su una vicenda riguardante la brevettabilità
dei prodotti farmaceutici; ciò nondimeno essa pare qui meritevole di attenzione perché interviene a chiarire, in generale, la portata di alcune delle disposizioni contenute nell’Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (TRIPs), precisando altresì la natura
delle relative competenze dell’Unione europea. In merito a
quest’ultmo profilo, in particolare, i Giudici sono stati chiamati ad stabilire in che misura l’Accordo TRIPS, che è stato è stato concluso dalla Comunità e dagli Stati membri
nell’esercizio di una competenza ripartita, rientri ancora
nell’ambito di competenza degli Stati, atteso che a partire
dal Trattato di Lisbona “gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale”, in virtù dell’art. 207, par. 1, TFUE, rientrano nell’ambito della politica commerciale comune, su cui
l’Unione si vede riconosciuta competenza esclusiva ex art.
3, par. 1, lett. e), TFUE.
La pronuncia trae origine da un rinvio pregiudiziale d’interpretazione operato dal giudice ellenico nell’ambito di un
procedimento nazionale che vede contrapposte le società
Daiichi Sankyo e Sanofi-Aventis, da un lato, e la società
DEMO AVEE Farmakon, dall’altro, e vertente sulla commercializzazione da parte di quest’ultima di un farmaco generico avente per principio attivo una sostanza coperta da
diritti di brevetto della Daiichi Sankyo. Nel 1986 questa società aveva ottenuto, in Grecia, un brevetto nazionale per
un composto chimico utilizzato come principio attivo in trattamenti antibiotici (il levofloxacina emiidrato); la protezione
di cui al brevetto aveva ad oggetto sia il prodotto (il principio attivo), che il relativo procedimento di fabbricazione e
la durata di tale protezione, inizialmente in scadenza al
2006, era stata prorogata mediante un certificato protettivo
complementare (CPC)14 ed era cessata definitivamente nel
2011. Il medicinale originale, costituito dal suddetto principio attivo (e denominato «Tavanic»), era distribuito in Grecia dalla Sanofi-Aventis, cui era stata concessa licenza sul-
(11) Cfr. punti da 27 a 32.
(12) Cfr. punti da 33 a 37.
(13) Con riferimento alla materia delle indicazioni nutrizionali e sulla salute di cui al reg. 1924/2006 sono attualmente pendenti dinanzi ai
giudici dell’UE due procedimenti: un primo procedimento (Plantavis GmbH e NEM c. Commissione e EFSA, causa T-334/12) origina da
un ricorso, presentato il 25 luglio 2012 dalla Plantavis GmbH, diretto ad ottenere l’annullamento dei divieti previsti dal regolamento
(CE) n. 1924/2006, in combinato disposto con il regolamento (UE) n. 432/2012 della Commissione e con l’elenco comunitario delle indicazioni nutrizionali e sulla salute ammesse e non ammesse; un ulteriore procedimento è stato invece instaurato su domanda di pronuncia pregiudiziale proposta il 24 dicembre 2012 dal Bundesgerichtshofs tedesco (causa C-609/12), che ha chiesto alla Corte di giustizia di stabilire «se gli obblighi di informazione previsti dall’articolo 10, paragrafo 2, del regolamento n. 1924/2006 dovessero essere
rispettati già nel 2010».
(14) In forza del regolamento (CEE) n. 1768/92 del Consiglio, del 18 giugno 1992, sull’istituzione di un certificato protettivo complementare per i medicinali.
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la scorta di un’autorizzazione all’immissione in commercio
rilasciata dall’autorità pubblica greca nel 1999. In seguito,
nel 2008 e nel 2009, le competenti autorità greche avevano concesso alla DEMO AVEE autorizzazione all’immissione in commercio di un medicinale generico contenente lo
stesso principio attivo (il «Talerin»).
La Daiichi Sankyo e la Sanofi-Aventis erano ricorse al Tribunale di primo grado di Atene affinché questo ordinasse
alla DEMO la cessazione di ogni attività di commercializzazione del suddetto medicinale generico o di qualsiasi altro
prodotto farmaceutico costituito dal medesimo principio attivo, oltre che l’emanazione di una serie di altre correlate
misure. La questione di fondo del procedimento nazionale
era se il brevetto della Daiichi Sankyo includesse solo il
procedimento di fabbricazione del principio attivo del prodotto farmaceutico, oppure anche il principio attivo in sé
(ossia il prodotto farmaceutico). Il brevetto della Daiichi
Sankyo, rilasciato nell’ottobre 1986, non avrebbe inizialmente protetto il principio attivo in sé, stante la non brevettabilità dei prodotti farmaceutici in Grecia prima del 7 ottobre 199215. Nel 1994, però, era entrato in vigore l’Accordo
TRIPs; questo, all’articolo 27 prevede la brevettabilità delle
“invenzioni, di prodotto o di procedimento, in tutti i campi
della tecnologia, che siano nuove, implichino un’attività inventiva e siano atte ad avere un’applicazione industriale”,
e all’articolo 70, segnatamente al par. 2, stabilisce la creazione di obblighi in capo al membro interessato in relazione a tutti gli oggetti esistenti alla data dell’applicazione dell’Accordo e che sono protetti in detto membro a tale data.
Si trattava, dunque, di stabilire se i diritti di brevetto della
Daiichi Sankyo, limitati fino al 1992 al procedimento di fabbricazione del prodotto farmaceutico in questione, potessero estendersi anche a siffatto prodotto a partire dall’entrata
in vigore dell’Accordo TRIPs.
Il giudice nazionale decideva di sospendere il procedimento e operare un rinvio pregiudiziale d’interpretazione alla
Corte di giustizia; in sostanza, ad essere chiesto ai Giudici
dell’UE è, da un lato, se un brevetto ottenuto a seguito di
una domanda rivendicante l’invenzione sia del procedimento di fabbricazione di un prodotto farmaceutico, sia del
prodotto farmaceutico in quanto tale, ma che è stato rilasciato soltanto per il procedimento di fabbricazione, debba
nondimeno essere considerato come esteso all’invenzione
76
del prodotto farmaceutico ai sensi dell’Accordo TRIPs ed a
partire dalla sua entrata in vigore; dall’altro, se quest’ultimo
Accordo, essendo stato concluso dalla Comunità europea
e dagli Stati membri nell’ambito di una competenza “ripartita”, rientri ancora oggi nell’ambito delle competenze degli
Stati membri, o sia invece riconducibile, alla luce dell’art.
207, TFUE, alla competenza esclusiva dell’Unione.
Rigettata, anzitutto, l’eccezione di irricevibilità sollevata
dalla società DEMO – che sosteneva essere venuto meno
l’oggetto del procedimento principale per via dell’intervenuta scadenza del brevetto di base e del CPC della Daiichi
Sankyo16 – la Corte di giustizia affronta la prima questione
pregiudiziale, ossia se l’articolo 27 dell’Accordo TRIP rientri
o meno in un settore nel quale gli Stati membri rimangono
competenti in via principale, con le conseguenze che ne
derivano in termini di possibilità dei giudici nazionali di riconoscere un’efficacia diretta a tale disposizione, alle condizioni previste dal diritto nazionale. Le parti in causa, e i governi nazionali degli Stati intervenuti nel procedimento, sostenevano che le disposizioni dell’Accordo TRIPs in tema
di brevettabilità riguardano solo indirettamente gli scambi
internazionali, avendo ad oggetto più il diritto sostanziale
dei brevetti che non gli aspetti commerciali della proprietà
intellettuale di cui all’articolo 207 TFUE e, rientrando, perciò, nelle competenze ripartite (concorrenti) in materia di
mercato interno in forza degli articoli 114 e 118 TFUE. La
Commissione, per contro, affermava la competenza esclusiva dell’Unione in materia di brevettabilità, giacché l’Accordo TRIPs verte su “aspetti commerciali della proprietà
intellettuale”, che rientrano nell’ambito della politica commerciale comune ai sensi dell’art. 207, par. 1, TFUE.
A fronte di tali argomentazioni la Corte ricorda, anzitutto,
che la questione della ripartizione delle competenze fra
l’Unione e gli Stati membri con riferimento alla materia in
questione deve essere esaminata sulla base del Trattato
attualmente vigente e, dunque, alla luce dell’attuale art.
207 TFUE17. I Giudici rilevano, poi, che tra le norme adottate dall’Unione in materia di proprietà intellettuale solo quelle che presentano un nesso specifico con gli scambi commerciali internazionali possono rientrare nella nozione di
“aspetti commerciali della proprietà intellettuale” di cui alla
suddetta disposizione e, quindi, nell’ambito della politica
commerciale comune; tra queste figurano, senza dubbio,
(15) La Grecia, nel 1986, ha ratificato la Convenzione sulla concessione di brevetti europei (la Convenzione di Monaco del 1973), introducendo in relazione ai prodotti farmaceutici la riserva prevista all’art. 167, per cui ogni Stato contraente poteva riservarsi la facoltà di
disporre che i brevetti europei su prodotti chimici, farmaceutici o alimentari come tali, non avessero effetto o potessero essere annullati
conformemente alle disposizioni vigenti per i brevetti nazionali, rimanendo impregiudicata la protezione conferita dal brevetto relativamente al procedimento di fabbricazione o di utilizzazione di un prodotto chimico o di fabbricazione di un prodotto farmaceutico o alimentare; tale riserva, su previsione dello stesso art. 167 della Convenzione, era venuta a scadenza il 7 ottobre 1992. Sulla scorta di tale previsione la legge nazionale greca n. 1733/1987 sulla brevettabilità di prodotti, procedimenti o applicazioni industriali, aveva stabilito
che sui prodotti farmaceutici si potessero ottenere brevetti nazionali solo ai fini di tutela dell’invenzione di un procedimento di fabbricazione degli stessi; la brevettabilità dei prodotti farmaceutici in sè è stata riconosciuta in Grecia, perciò, soltanto a partire dal 1992, dunque, allo scadere della suddetta riserva e della conseguente restrizione normativa imposta a livello nazionale.
(16) Cfr. punti da 34 a 39 della motivazione.
(17) V. punti da 45 a 48 della motivazione
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le disposizioni di cui all’Accordo TRIPs, il quale si inscrive
nel processo di liberalizzazione degli scambi internazionali
e il cui obiettivo è quello di rafforzare e armonizzare la tutela della proprietà intellettuale su scala mondiale, riducendo
le distorsioni nel commercio internazionale. Poiché le previsioni di tale Accordo presentano un nesso specifico con
gli scambi internazionali, esso rientra nell’ambito della politica commerciale comune e della competenza esclusiva
dell’Unione18. Alla luce di tale conclusione, la Corte non ha
nemmeno affrontato il profilo concernente la possibilità dei
giudici nazionali di riconoscere un’efficacia diretta all’art. 27
dell’Accordo TRIPs19.
Passando all’esame della seconda questione proposta, ossia se l’invenzione di un prodotto farmaceutico, quale il
composto chimico attivo di un medicinale, possa costituire
oggetto di brevetto ai sensi dell’articolo 27 dell’Accordo
TRIPs, la Corte osserva che secondo la stessa formulazione della norma qualsiasi invenzione, di prodotto o di procedimento, che sia nuova, implichi un’attività inventiva e sia
atta ad avere un’applicazione industriale può costituire oggetto di brevetto, alla sola condizione di rientrare in un
campo della tecnologia; poiché la farmacologia rientra in
un campo siffatto, l’invenzione di un prodotto farmaceutico
può costituire oggetto di brevetto; anzi – osserva la Corte –
dalla formulazione della disposizione dell’Accordo si ricava
che essa comporta l’obbligo di rendere brevettabili le invenzioni di prodotti farmaceutici, pur con le deroghe previste nella stessa disposizione, sicché «l’invenzione di un
prodotto farmaceutico come il composto chimico attivo di
un medicinale può […] costituire oggetto di brevetto alle
condizioni stabilite al paragrafo 1 del medesimo articolo»20.
Con la terza questione, infine, la Corte di giustizia è stata
chiamata a stabilire se un brevetto che è stato ottenuto a
seguito di una domanda rivendicante l’invenzione, sia del
procedimento di fabbricazione di un prodotto farmaceutico,
sia del prodotto farmaceutico in sé, ma che è stato rilascia-
77
to soltanto per detto procedimento di fabbricazione, debba
nondimeno essere considerato come esteso, a norma degli articoli 27 e 70 dell’Accordo TRIPs, e a partire dall’entrata in vigore di quest’ultimo, all’invenzione del prodotto
farmaceutico. La Corte rileva che il suddetto brevetto di base era stato rilasciato nel 1986, e che fino al 1992 (per via
della riserva formulata dalla Repubblica ellenica ai sensi
dell’articolo 167, par. 2, della Convenzione di Monaco sul
brevetto europeo) il brevetto nazionale della Daiichi Sankyo (tutelato da CPC dal 2006 al 2011), era inefficace rispetto all’invenzione del prodotto farmaceutico, e ciò malgrado la brevettabilità dei prodotti farmaceutici a partire
dall’8 ottobre 1992. Secondo la Corte, «non è possibile ritenere che la protezione degli oggetti esistenti prevista dall’articolo 70, par. 2, dell’Accordo TRIPS possa consistere
nel riconoscere a un brevetto effetti che esso non ha mai
avuto». Gli Stati – proseguono i Giudici – non possono essere obbligati a considerare i brevetti che erano stati rilasciati unicamente per i procedimenti di fabbricazione di tali
prodotti come comprendenti, in seguito all’entrata in vigore
del suddetto Accordo, le invenzioni dei prodotti in quanto
tali; quindi, «un brevetto che è stato ottenuto a seguito di
una domanda rivendicante l’invenzione sia del procedimento di fabbricazione di un prodotto farmaceutico sia del
prodotto farmaceutico in sé, ma che è stato rilasciato soltanto per detto procedimento di fabbricazione, non deve
essere considerato come esteso a norma degli articoli 27 e
70 dell’Accordo TRIPS, e a partire dall’entrata in vigore di
quest’ultimo, all’invenzione del prodotto farmaceutico»21.
Da tale pronuncia è dunque possibile ricavare alcune importanti statuizioni di principio con riguardo alla materia di
proprietà intellettuale (potenzialmente rilevanti, dunque,
anche per le “applicazioni” di tale materia nel settore
agroalimentare): in primo luogo, i profili concernenti la tutela dei brevetti, di cui all’art. 27 dell’Accordo TRIPs, rientrano nell’ambito della politica commerciale comune dell’Unione, dunque, nella competenza esclusiva della stessa; in
(18) Cfr. punti da 49 a 62 della motivazione. A diversa conclusione era invece giunto, nelle sue conclusioni del 31gennaio 2013, l’avvocato generale Cruz Villalón; premesse alcune considerazioni sulla natura e sul contenuto dell’Accordo TRIPs, egli aveva sostanzialmente considerato corrette le argomentazioni tanto delle parti e dei governi nazionali, quanto della Commissione e aveva suggerito di
concludere nel senso che l’articolo 27 dell’Accordo TRIPs non disciplina una materia rientrante negli “aspetti commerciali della proprietà intellettuale” ai sensi dell’articolo 207, paragrafo 1, TFUE; la disposizione dell’Accordo TRIPs, secondo l’avvocato, rientrerebbe, invece, in una materia in cui gli Stati continuano ad essere competenti, con i conseguenti effetti sulla competenza giurisdizionale ad interpretare la suddetta disposizione (veniva avallata l’applicabilità – sostenuta dalle parti in causa – di quella giurisprudenza comunitaria
che, collega la portata della competenza del giudice UE ad interpretare le disposizioni dei trattati internazionali alla competenza sostanziale dell’UE sulla materia di cui trattasi); v. punti 63 ss delle conclusioni.
(19) Si era invece soffermato ampiamente su tale profilo l’avvocato generale, concludendo che l’articolo 27 dell’Accordo TRIPs non può
vedersi riconosciuta efficacia diretta, non essendo una norma sufficientemente chiara e precisa, ossia non comportando «un obbligo
chiaro e preciso», con la conseguenza di non poter essere invocata direttamente dai singoli, né nei confronti delle autorità pubbliche,
né, come nella fattispecie, nei confronti di altri singoli (cfr., in particolare, punti da 100 a 104 delle conclusioni).
(20) Cfr. punti da 63 a 68 delle motivazioni.
(21) Cfr. punti da 70 a 83. Alle medesime conclusioni era giunto anche l’avvocato generale, il quale aveva affermato che «la sola entrata
in vigore di detto Accordo non ha comportato che coloro i quali detenevano in quel momento brevetti relativi al procedimento di fabbricazione di un prodotto farmaceutico in forza di una normativa che non consentiva di brevettare i prodotti farmaceutici in sé abbiano acquisito un brevetto sul prodotto stesso, nemmeno qualora essi abbiano presentato, al momento della domanda di brevetto per il procedimento, una domanda di brevetto per il prodotto medesimo» (v. in particolare, i punti 113 e 114 delle conclusioni).
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secondo luogo, un brevetto rilasciato prima dell’entrata in
vigore dell’Accordo TRIPs per il solo procedimento di fabbricazione di un prodotto non deve considerarsi esteso,
per effetto dell’entrata in vigore di tale Accordo, all’invenzione stessa del prodotto.
Precauzione, gestione del rischio e sindacato giurisdizionale.
(Sentenza della Corte di giustizia, causa C-609/11 P, Repubblica francese c. Commissione europea – in GUUE C
252 del 31.8.2013, pag. 11)
È dell’11 luglio scorso la sentenza della Corte di giustizia
resa nel procedimento C-609/11 P, avente ad oggetto l’impugnazione della sentenza del Tribunale dell’UE del 9 settembre 2011, in causa T-257/07, Francia c. Commissione.
Il procedimento davanti al Tribunale era stato instaurato a
fronte del ricorso proposto dalla Francia per ottenere l’annullamento del regolamento della Commissione n.
746/2008, con il quale è stato modificato il VII allegato al
regolamento n. 999/2001 del Parlamento europeo e del
Consiglio, recante disposizioni per la prevenzione, il controllo e l’eradicazione di alcune encefalopatie spongiformi
trasmissibili (TSE). Il regolamento n. 746/2008 era stato
emanato dalla Commissione dopo aver ottenuto dall’EFSA
dei pareri scientifici in merito ai rischi di trasmissibilità all’uomo delle TSE (diverse dalla BSE), e con esso, sostanzialmente, si era previste misure meno coercitive di quelle
dettate in precedenza, prefigurando in capo agli Stati un
più ampio margine di scelta circa le misure da adottare
qualora un gregge di ovini o di caprini fosse colpito da una
TSE diversa dalla forma della BSE, e estendendo le possibilità d’immissione in commercio per il consumo di carni di
animali facenti parte di un siffatto gregge. La Repubblica
francese, a sostegno del suo ricorso, aveva sollevato un
motivo unico, relativo alla violazione, da parte della Commissione, del principio di precauzione di cui all’art. 7 del
reg. (CE) n. 178/2002 e dell’obbligo di garantire un livello
elevato di tutela della salute, di cui all’art. 152, par. 1, TCE
(ora art. 168 TFUE) e all’art. 24 bis del regolamento
n. 999/200122.
Il Tribunale si era soffermato, in particolare, sulla precisazione della portata dell’operazione gestione del rischio, in
termini di determinazione del livello di “rischio accettabile”
78
e adeguamento delle misure adottate alla luce della mutata
percezione del rischio, e sulla definizione dei caratteri del
controllo giurisdizionale esercitabile rispetto a simili attività.
Sulla base del quadro così tracciato, il Tribunale era passato ad esaminare gli argomenti invocati dalla Repubblica
francese, la quale addebitava alla Commissione di aver
compiuto l’attività di gestione del rischio basandosi su
un’erronea interpretazione delle incertezze scientifiche
concernenti la trasmissibilità all’uomo delle TSE diverse
dalla BSE e su un’interpretazione distorta dei pareri scientifici forniti dall’EFSA, mancando altresì di considerare taluni dati scientifici a sua disposizione. In definitiva, dunque,
secondo la Francia, la Commissione aveva violato il proprio obbligo di garantire un livello elevato di protezione della salute umana nonché il principio di precauzione, poiché
nell’adottare le misure contestate essa si era fondata su un
duplice postulato relativo, da un lato, all’assenza di trasmissibilità all’uomo delle TSE e, dall’altro lato, all’affidabilità dei c.d. test di discriminazione atti a distinguere con certezza la scrapie dalla BSE (mentre i più recenti dati scientifici avrebbero fatto riferimento a rilevanti incertezze con riguardo a questi due postulati). Occorreva valutare, dunque, se la Commissione fosse legittimata ad adottare il regolamento controverso, in quanto quest’ultimo riduceva i
costi delle misure di prevenzione per la società, pur mantenendo un livello elevato di protezione della salute umana,
o se invece la Commissione, adottando detto regolamento,
avesse violato il principio di precauzione e l’obbligo di
mantenere un livello elevato di protezione della salute
umana, esponendo le persone a rischi che oltrepassano il
livello di rischio giudicato accettabile per la società.
Il Tribunale aveva respinto integralmente il ricorso, concludendo in questi termini: «la Commissione aveva potuto ritenere, senza commettere un errore manifesto di valutazione,
in base ai dati scientifici a sua disposizione, che l’aumento
del rischio, risultante dall’adozione delle misure contestate,
di esposizione dell’uomo alle TSE che colpiscono ruminanti
di piccola taglia non comporterebbe per la salute umana rischi che oltrepasserebbero il livello giudicato accettabile
per la società»; sicché «la Commissione, adottando le misure contestate [il regolamento n. 746/2008], non ha violato
il principio di precauzione né l’obbligo di mantenere un livello elevato di tutela della salute sancito dall’art. 152, n. 1, CE
e dall’art. 24 bis del regolamento n. 999/2001»23.
La Repubblica francese ha impugnato tale sentenza di
fronte alla Corte di giustizia chiedendone l’annullamento, e
(22) Questa disposizione, incorporata nel regolamento n. 999/2001 con il regolamento (CE) n. 1923/2006, prevede che le decisioni da
adottare per le modifiche degli allegati allo stesso regolamento,devono, tenendo conto dei dati scientifici esistenti, mantenere o aumentare, se è giustificato da un punto di vista scientifico, il livello di protezione della salute umana e animale garantito nella Comunità.
(23) Cfr. punti da 206 a 266 della sentenza del Tribunale. In particolare, secondo il Tribunale, la Commissione aveva correttamente dedotto dai pareri dell’EFSA che il rischio di trasmissibilità all’uomo delle TSE che colpiscono gli ovini o i caprini diverse dalla BSE fosse
estremamente basso; gli elementi scientifici che al momento dell’adozione delle misure contestate permettevano di sostenere tale trasmissibilità avevano, infatti, carattere limitato e poco rappresentativo e peraltro, si era osservato, la ricorrente non aveva dedotto degli
argomenti o degli elementi di prova tali da privare di plausibilità la suddetta valutazione della Commissione (v. punti 93 ss. della sentenza del Tribunale).
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adducendo a sostegno della sua richiesta quattro distinti
motivi. La Corte di giustizia ha però rigettato tutti i motivi
sollevati dalla Francia. Questa, in particolare, aveva fatto
valere che il Tribunale era incorso in un errore di diritto nel
ritenere che la Commissione non avesse violato il principio di precauzione e l’obbligo di garantire un elevato livello
di tutela della salute nell’adottare il regolamento n.
746/2008; secondo la ricorrente, le previsioni di tale regolamento (e le misure meno coercitive da esse prefigurate)
si sarebbero poste in contrasto con le disposizioni dell’articolo 24 bis del regolamento n. 999/2001, alla luce dell’obbligo, di cui all’art. 152, par. 1, TCE, di garantire un elevato
livello di protezione della salute umana. La Corte di giustizia, a tal riguardo, ha posto in rilievo che, sebbene la previsione di cui all’art. 24 bis sia stata prevista come garanzia
diretta a evitare che fossero adottate misure tali da ridurre
il livello di protezione della salute umana e animale nell’Unione, tale disposizione non ha come intento di escludere una qualsivoglia “mitigazione” delle misure di prevenzione adottate in precedenza. Nel caso di specie, precisa la
Corte, per via del mutato quadro scientifico di riferimento, e
la conseguente esigenza di riesame delle misure provvisorie di gestione del rischio adottate in un contesto di incertezza scientifica, la Commissione aveva giustificatamente
proceduto ad adottare nuove misure: queste, seppur “meno severe”, erano comunque atte a garantire un elevato livello di protezione della salute, rispettando, così, tanto il
principio di precauzione, quanto il principio di proporziona-
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lità24. Secondo i Giudici, neppure è contestabile al Tribunale di aver semplicemente presunto che gli elementi scientifici dedotti dalla Commissione per giustificare l’adozione
del regolamento n. 746/2008 comportavano un’evoluzione
del livello di rischio giudicato accettabile, tralasciando di
verificare direttamente se, per determinare il livello di rischio giudicato accettabile, la Commissione avesse tenuto
conto effettivamente della gravità e dell’irreversibilità degli
effetti nocivi delle TSE. Si è ricordato, infatti, che trattandosi di un settore ove le Istituzioni dell’Unione – il legislatore
dell’Unione, ma anche la Commissione, come nel caso di
specie – sono chiamate a compiere valutazioni complesse,
il sindacato giurisdizionale sull’esercizio di tali competenze
deve limitarsi ad esaminare se esso non sia inficiato da errore manifesto di valutazione o da sviamento di potere, o
se le Istituzioni non abbiano manifestamente oltrepassato i
limiti del loro potere discrezionale25.
Nel respingere l’impugnazione, e nel confermare integralmente la pronuncia del Tribunale, la Corte di giustizia si è
dunque allineata a un’ormai consolidata giurisprudenza (si
ricordino, fra tutte, le sentenze Pfizer e Alpharma, cause
T-13/99 e T-70/99, Monsanto Agricoltura Italia, causa
C-236/01, Malagutti-Vezinhet, T-177/02) che è intervenuta
a precisare i caratteri dell’attività di gestione del rischio riguardo a questioni di sicurezza sanitaria e alimentare, nonché la portata – e soprattutto i limiti – del sindacato giurisdizionale cui tale attività può essere sottoposta.
(24) V. punti da 131 a 136 della motivazione. La Corte ha richiamato e riportato testualmente le affermazioni del Tribunale secondo cui
«La legittimità dell’adozione di una misura preventiva meno coercitiva non si valuta in base al livello di rischio giudicato accettabile preso in considerazione per l’adozione delle iniziali misure preventive. L’adozione di iniziali misure preventive finalizzate a riportare il rischio ad un livello giudicato accettabile si effettua infatti sulla base di una valutazione dei rischi e, in particolare, della determinazione
del livello di rischio giudicato accettabile per la società. Se nuovi elementi modificano tale valutazione dei rischi, la legittimità dell’adozione di misure preventive meno coercitive va valutata tenendo conto di tali nuovi elementi e non sulla base degli elementi che hanno
determinato la valutazione dei rischi nell’ambito dell’adozione delle misure preventive iniziali. Solo qualora tale nuovo livello di rischio
oltrepassi il livello di rischio giudicato accettabile per la società, il giudice è tenuto a dichiarare una violazione del principio di precauzione» (punto 213 della sentenza del Tribunale).
(25) Cfr. punti da 142 a 146 della motivazione.
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