La formazione degli stati regionali nel XV secolo

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Questo materiale è riservato agli studenti regolarmente iscritti al corso di storia dell’Italia dal Medioevo al
Rinascimento del CPIA sede Petrarca di Padova. E’ strettamente personale e non riproducibile. I materiali – tratti in
parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVII Lezione: La formazione
degli stati regionali nel XV secolo.
Un sistema economico integrato: l'Europa del XV secolo
Nel 1400 l'Europa è da considerare come una comunità di soggetti legati da interessi simili. Fernand
Braudel applica un modello di sviluppo economico unitario definito "economia mondo": esso
presuppone, all'interno dello spazio territoriale, un'autosufficienza sostanziale nel soddisfacimento
dei bisogni e una domanda di beni e manufatti qualitativamente differenziata (esigenze diverse a
seconda delle classi sociali). Il modello di sviluppo per l'Europa dell'Età Moderna prevede un
allargamento della dimensione territoriale-economica comprendente tutto il Mediterraneo ma anche
paesi dell'Africa settentrionale.
Poli urbani di sviluppo e mercati.
Sempre secondo lo storico francese, grazie all'azione trainante di alcuni centri urbani ("poli") si
attua un'azione di spinta e di aggregazione di vari settori dell'economia, che s'impongono come
punti di convergenza del maggior numero di risorse produttive, grazie alle condizioni di operatività.
Fino alla metà del '400, accanto allo sviluppo tessile, vi sono i traffici commerciali; si può parlare di
capitalismo commerciale, consistente "nell'interporsi del mercante tra produttore e consumatore". I
mercanti sono dotati di cospicui mezzi finanziari e di credito oltre che di competenze merceologiche
e tecniche, sia in campo commerciale sia in campo giuridico e contabile. Si vedono emergere due
punti di riferimento per i traffici commerciali, il primo si identifica nelle città italiane del
Mediterraneo specializzate nel commercio con l'Oriente (spezie, cereali); il secondo nei centri
portuali del mar Baltico riuniti nell'Ansa germanica. I fattori politici contingenti contribuiscono
a complicare preesistenti equilibri socio-economici. La Guerra dei Cento Anni rende difficili gli
scambi attraverso le vie terrestri, permette a Bruges di affermarsi come prima città portuale, ma con
la caduta in disgrazia della dinastia Asburgo, succede Anversa, la quale si afferma come una delle
sedi delle prime Borse merci operanti sui mercati internazionali.
I traffici marittimi riguardano anche merci ingombranti come il frumento, il sale ed il legname. Per
altri beni ad alto valore unitario e di minore ingombro, le fiere internazionali sono per lungo tempo
punto di incontro (ogni 3 mesi mercanti cercano e trovano occasioni di scambio regolando tra loro i
saldi delle varie operazioni, qui nasce la lettera di cambio, uno strumento di credito che accomuna
tutta l'Europa. Le vie terrestri non sono agevoli, all'interno dell'Europa vi è pure una forte presenza
di fiumi e canali con non pochi ostacoli (dazi, pedaggi, costosi trasbordi); la via preferita rimane
quindi il mare, che permette un trasporto lento e rischioso, ma meno costoso.
Il lento formarsi di un efficiente mercato monetario.
Dalla metà del XIII secolo, la moneta penetra nella vita economica, come alcuni storici sostengono,
la prima moneta d'oro importante è il Genovino. La formazione di un mercato monetario è stata
tuttavia ritardata dalla insufficiente quantità di metalli preziosi monetabili in circolazione. L'oro e
l'argento servono per la fabbricazione di gioielli e tesori della chiesa. Dopo la metà del secolo, il
sistema bimetallico dell'Europa si irrobustisce. Le ricerche di nuovi giacimenti diventano più
fruttuose, si perfeziona l'applicazione di alcuni nuovi accorgimenti tecnici che caratterizzano
l'attività estrattiva del periodo. Le quantità aumentano: per l'argento grazie al migliore sfruttamento
delle risorse tedesche, austriache e ungheresi; per l'oro per l'azione dei portoghesi e per i primi
viaggi di Colombo. Ancora poco, tuttavia, di fronte alle sempre maggiori necessità del sistema
economico dell'Europa. L'organizzazione monetaria di tutti gli Stati era basata sulla distinzione tra
moneta reale e moneta di conto, tra le quali esiste un rapporto fissato dallo Stato. Risulta un Europa
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degli stati regionali nel XV secolo.
con molte monete che esperisce tentativi di dare stabilità al mercato internazionale del denaro. Nel
XV 11 sovrani e 74 città tedesche sottoscrivono un accordo che riesce a trasformare il fiorino
renano nell'unica moneta legale. Più difficile risulta, per il XV secolo, una valutazione della velocità
di circolazione della massa monetaria. Il '400 rappresenta un periodo di adattamento del
sistema economico europeo.
I mercanti-banchieri: i primi strumenti e le istituzioni del credito.
Protagonisti sono i mercanti-banchieri cioè soggetti economici non specializzati che aprono conti
correnti (facilitando i pagamenti, le riscossioni e le operazioni di giro per scritta cioè con l'iscrizione
delle partita nei libri contabili) e ricevono depositi; questa figura acquista così maggiore credibilità
professionale e sociale. Venezia, Genova, Barcellona, ma specialmente la Toscana testimoniano un
fiorire di attività in questo settore ed il progressivo perfezionarsi di strumenti creditizi e delle
tecniche ad essi connesse. Accanto alle famiglie di mercanti - banchieri una delle più antiche
istituzioni creditizie pubbliche è il Banco di San Giorgio fondato nel 1408 a Genova. Caratterizza la
metà del XV secolo il diffondersi del credito su pegno, gestito dai Monti di Pietà con finalità
prevalentemente assistenziali, fondato dai francescani, costituiscono un'alternativa ai prestiti usurari
per la popolazione povera. Si tratta di una istituzione prettamente italiana che ha il suo maggiore
punto di forza nei bassi tassi di interesse richiesti. Il capitale è il risultato di fonti proprie di entrata,
non onerose; solo un secolo più tardi alcuni di essi iniziano a raccogliere depositi, ma per un lungo
periodo senza corrispondere alcun interesse.
Andamento e distribuzione della popolazione.
La struttura demografica europea è giovane, la speranza di vita non superava i 40 - 45 anni. Carlo
M. Cipolla la valuta circa 30-35 milioni di abitanti intorno all'anno 1000, mentre calcola una
crescita fino a 80 milioni alla metà del '300, ma tra il 1347 - 1351 la peste nera riduce di quasi 1/3 la
popolazione e solo alla fine del 400 la popolazione totale sarebbe stata di nuovo intorno agli 80
milioni. Un movimento ascendente sembra iniziare solo dopo il 1450 con la ripresa del sistema
economico pesantemente condizionato dalla pestilenza che riduce la domanda e aumenta le risorse a
disposizione dei singoli quindi migliora le loro condizioni di vita. La popolazione europea aumenta
e si concentra sempre più nelle città (in media il 20% degli individui risiedeva nei centri urbani) per
ragioni di difesa e per la ricerca di attività lavorative più redditizie. Le direttrici dello spostamento
sono l'inurbamento dalla campagna e dai centri più piccoli verso i più grandi.
Consumi e investimenti.
La spesa globale è soprattutto di consumo ed è alimentata dalla domanda dei privati. La spesa
pubblica non si differenzia molto da quella privata. Le uniche infrastrutture per le quali gli stati
dimostrano una certa attenzione sono le vie ed i mezzi di comunicazione. Sono le necessità primarie
della popolazione che assorbono la quota più rilevante del reddito individuale. Alcune scelte dei
privati e dell'aristocrazia vedono convogliare i profitti verso spese per beni di lusso. 80% del reddito
risulta destinato ai beni primari e la domanda di questi beni è rigida ed aumenta proporzionalmente
all'aumentare del reddito (vestiario). Cereali e bevande energetiche sono alla base della dieta delle
classi povere. Sale e spezie hanno a loro volta una domanda rigida, anche se limitata a ridotte
quantità pro-capite.
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Il settore primario:
Il settore primario comprende l'agricoltura, selvicoltura e pesca L'agricoltura è l'occupazione
principale della popolazione e alla fine del Medioevo la terra è ancora la principale risorsa
dell'economia. Il clima e la geografia del continente definiscono delle varie aree:
- l'Europa Mediterranea accomuna ai cereali alcune colture specialistiche come la vite, ulivo, gelso,
canna da zucchero e cotone;
- nelle terre settentrionali e atlantiche si coltivano piante tessili come il lino e la canapa;
- nell'Europa centrale e orientale si coltivano soprattutto i cereali;
La popolazione verso la metà del '400 ricomincia ad aumentare e il disboscamento consente
l'estensione della superficie coltivata, incominciano le prime bonifiche. Si tratta di indicatori che
permettono di considerare il '400 periodo non di crisi ma di transizione positiva.
Il settore secondario.
Nel XV secolo si è nel pieno dell'epoca preindustriale. I prodotti del suole sono oggetto di
lavorazioni. La fabbricazione tessile e laniera impiega il maggior numero di addetti: le zone di
produzione più importanti sono l'Inghilterra e la Spagna ma i centri di trasformazione vedono al
primo posto le Fiandre e l'Italia Centro settentrionale. L'industria estrattiva e metallurgica fornisce
attrezzi da lavoro. Il mare offre risorse cui sono collegate attività di trasformazione e occasioni di
lavoro per le popolazioni più vicine ad esso: corallo, pesce e sale.
Le importazioni dall'Asia.
All'interno di "un'economia mondo" ipotizzata da F. Braudel esiste un particolare gruppo di beni, le
spezie, per il quale gli europei sono dipendenti dall'Asia. Questi commerci si attuano in due fasi: la
prima vede i mercanti asiatici consegnare i loro prodotti sulle rive dell'Oceano indiano agli arabi
che ne curano il trasporto fino al Mediterraneo. Veneziani e genovesi, e in misura minore
provenzali e catalani, sono stati e continuano ad essere intermediari tra Oriente ed Occidente
nel Mediterraneo. Venezia occupa una posizione di massimo mercato europeo delle spezie. Si
tratta di beni di lusso e costituiscono un bisogno la cui curva di domanda è tendenzialmente rigida. I
traffici internazionali, dopo la depressione, caduta Costantinopoli e la conquista dell'Egitto da parte
dei Turchi, attraggono interessi e capitali.
L'organizzazione della manodopera.
Industria domestica rurale: la famiglia agricola produce al proprio interno e non si rivolge al
mercato. Si tratta di produzioni di sussistenza, che occupano il nucleo familiare durante i periodi di
riposo del ciclo agrario, e di una industria familiare o domestica per autoconsumo.
Artigiani e corporazioni: nell'Europa urbana le principali attività economiche sono organizzate in
gruppi di mestiere, alla base di due principi comuni: l'eguaglianza e la solidarietà dei soci. Il
coordinamento delle singole produzioni arriva anche più in profondità prevedendo gli acquisti
collettivi di materie prime; il divieto della concorrenza interna; procedure prefissate per l'ingresso e
l'apprendimento dei singoli mestieri; misure assistenziali per gli iscritti al gruppo e forme di culto
religioso da svolgersi in comune. Si tratta di raggruppamenti che prendono il nome di corporazioni
o Arti in Italia, di gilde o mestieri in altre zone dell'Europa. Titolari delle botteghe o laboratori sono
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i maestri artigiani coadiuvati da apprendisti e garzoni, il cui ingresso nelle corporazioni è
controllato dall'élite dirigente. Le corporazioni garantiscono una qualità stabile del prodotto,
guardando con diffidenza qualsiasi innovazione, al punto da ritardare lo sviluppo tecnologico
ottenendo un vero e proprio protezionismo doganale. Si impegnano però alla salvaguardia del
sapere tecnico. Di norma, l'artigiano produce per il mercato, difficilmente per il magazzino
assumendosi comunque un minimo rischio di impresa.
Industria a domicilio: In molte regioni d'Europa gli artigiani collaborano a produzioni complesse,
che comprendono molti passaggi di semilavorati. L'artigiano viene ad essere dominato dal
mercante-imprenditore, proprietario delle materie prime e degli strumenti di lavorazione oltre al
prodotto finito. Retribuiti a cottimo, questi soggetti finiscono per assumere la figura di lavoranti a
domicilio. Si tratta di un sistema abbastanza flessibile, che richiede una buona conoscenza dei
mercati. Le retribuzioni vengono pagate con anticipi periodici e trasformano l'artigiano in salariato,
quindi il rapporto col datore di lavoro diventa esclusivo. La struttura dell'industria a domicilio non
muta nella sostanza quando la sua localizzazione diventa in parte o del tutto rurale. L'attività tessile
svolta nelle campagne permette un'integrazione del reddito familiare. Essa determina importanti
cambiamenti sociali in quanto inserisce la manodopera femminile.
Le innovazioni di processo.
Il '400 vede fiorire in Europa una serie di miglioramenti tecnici senza che vi sia una netta cesura
tra medioevo ed età moderna. Nel XV secolo la stampa a caratteri mobili aiuta enormemente la
crescita della cultura, ad essa è poi collegato l'aumento della domanda di carta. L'introduzione
della polvere da sparo e la sua applicazione alle armi da fuoco che comincia ad essere utilizzata in
battaglia in maniera significativa. Le industrie metallurgiche acquistano importanza strategica con
riferimento alla diffusione delle armi da fuoco. L'utilizzo della polvere da sparo offre un
miglioramento nell'industria estrattiva. Con l'aiuto delle prime pompe per l'aspirazione
dell'acqua e dei carrelli su rotaia, si arriva a maggiori profondità nelle miniere. Compaiono i
primi altiforni. Rimangono tradizionali i processi tessili e l'industria edilizia.
La formazione degli stati regionali nel XV secolo
Divenuti padroni delle città e del contado i signori ottennero anche il titolo per governare
legittimamente, titolo che fu conferito dall'imperatore o dal papa così che i Visconti divennero
duchi di Milano, i Gonzaga di Mantova, gli Estensi di Ferrara e i Medici di Firenze. Dalla Signoria
si era ormai passati al Principato. A partire dalla fine del '300 e per tutto il XV sec. protagonisti
della vita italiana furono 5 grandi Stati regionali: il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, la
Repubblica di Firenze, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli.
La vittoria degli Aragonesi
Il re Roberto d’Angiò detto il Saggio (Santa Maria Capua Vetere, 1277 – Napoli, 1343) designò
come suo erede il figlio Carlo di Calabria ma dopo la morte di quest'ultimo, il sovrano fu costretto a
lasciare il trono alla sua giovane nipote, Giovanna d'Angiò figlia di Carlo. Intanto si raggiunse un
primo accordo di pace tra Angioini e Aragonesi, detto la «Pace di Catania» l'8 novembre 1347. Ma
la guerra fra Sicilia e Napoli si sarebbe chiusa solo il 20 agosto 1372 dopo ben novanta anni, con il
Trattato di Avignone firmato da Giovanna d'Angiò e Federico IV d'Aragona con l'assenso di Papa
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Gregorio XI. Il trattato sanciva il riconoscimento reciproco delle monarchie e dei rispettivi territori:
Napoli agli Angioini e la Sicilia agli Aragonesi, estendendo il riconoscimento dei titoli regi anche
alle rispettive linee di successione.
L'erede di Roberto, Giovanna I di Napoli (1327-1382), aveva sposato Andrea d'Ungheria, duca di
Calabria e fratello del re d'Ungheria Luigi I, discendenti entrambi dagli angioini partenopei (Carlo
II).
Nel settembre 1345, Andrea fu assassinato nel castello angioino di Aversa da un gruppo di
congiurati. L'episodio scatenò violente reazioni da parte dei sostenitori di Andrea e gettò pesanti
sospetti sulla regina stessa, che in molti indicavano come la vera artefice e mandante dell'omicidio
del marito. Dell'evento delittuoso si occupò anche la corte pontificia, visto che il Regno di Napoli
rimaneva vassallo della Chiesa. Clemente VI pretese che si scovassero e punissero tutti i congiurati,
cosa che la stessa Giovanna aveva già disposto, non si sa se per amore di giustizia o per allontanare
da sé i sospetti. In ogni caso, i responsabili diretti della morte di Andrea d'Ungheria furono tutti
giustiziati. Per vendicarne la morte, il 3 novembre 1347 il re d'Ungheria scese in Italia con
l'intenzione di spodestare Giovanna I di Napoli. Benché il sovrano ungherese più volte avesse
preteso dalla Santa Sede la deposizione di Giovanna I, il governo pontificio, risiedente allora ad
Avignone e politicamente legato alla dinastia francese, confermò sempre il titolo di Giovanna
nonostante le due spedizioni militari che il re d'Ungheria intraprese in Italia. La regina di Napoli, da
parte sua, adottò come figlio ed erede al trono Carlo di Durazzo (nipote di Luigi I d'Ungheria),
finché anche Napoli non fu direttamente coinvolta negli scontri politici e dinastici che seguirono lo
Scisma d'Occidente: a corte e in città si contrapposero direttamente un partito filofrancese e un
partito locale, il primo schierato a favore dell'antipapa Clemente VII e capeggiato dalla regina
Giovanna I, il secondo a favore del papa napoletano Urbano VI che trovò il sostegno di Carlo di
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Durazzo e dell'aristocrazia Napoletana. Giovanna privò allora Carlo di Durazzo dei diritti di
successione in favore di Luigi I d'Angiò, fratello del re di Francia, incoronato re di Napoli (rex
Siciliae) da Clemente VII nel 1381. Egli, alla morte di Giovanna I (uccisa per ordine dello stesso
Carlo di Durazzo nel Castello di Muro Lucano nel 1382), scese però inutilmente in Italia contro
Carlo di Durazzo, e qui morì nel 1384. Carlo restò unico sovrano, e lasciò Napoli ai figli Ladislao e
Giovanna per recarsi quindi in Ungheria a rivendicarne il trono: nel regno transalpino venne
assassinato in una congiura.
Prima che i due eredi Ladislao e Giovanna raggiungessero la maturità, la città campana cadde in
mano al figlio di Luigi I d'Angiò, Luigi II, incoronato re da Clemente VII il 1º novembre 1389. La
nobiltà locale osteggiò il nuovo sovrano e nel 1399 Ladislao I (detto il Magnanimo 1376-1414)
poté rivendicare militarmente i suoi diritti al trono sconfiggendo il re francese.
Il nuovo re seppe restaurare l'egemonia napoletana nell'Italia meridionale intervenendo direttamente
nei conflitti di tutta la penisola: nel 1408, chiamato da papa Innocenzo VII per sedare le rivolte
ghibelline nella capitale pontificia, occupava buona parte del Lazio e dell'Umbria ottenendo
l'amministrazione della provincia di Campagna e Marittima, e occupando poi Roma e Perugia sotto
il pontificato di Gregorio XII. Nel 1414, dopo aver sconfitto definitivamente Luigi II d'Angiò,
ultimo sovrano a capo di una lega organizzata dall'antipapa Alessandro V e volta ad arginare
l'espansionismo partenopeo, il re di Napoli giungeva alle porte di Firenze. Con la sua morte tuttavia
non vi furono successori a continuare le sue imprese e i confini del regno tornarono entro il
perimetro storico; la sorella di Ladislao però, Giovanna II di Napoli (1373-1435), alla fine dello
scisma d'Occidente, ottenne il riconoscimento definitivo dalla Santa Sede del titolo regale per la sua
famiglia.
Succeduta a Ladislao nel 1414 la sorella Giovanna, il 10 agosto 1415 sposò Giacomo II di Borbone:
dopo che il marito tentò di acquisire personalmente il titolo regale, una rivolta nel 1418 lo costrinse
a tornare in Francia dove si ritirò in un monastero francescano. Giovanna nel 1419 era la sola
regina, ma le mire espansionistiche nel napoletano degli angioini di Francia non cessarono. Papa
Martino V chiamò in Italia Luigi III d'Angiò contro Giovanna che non voleva riconoscere i diritti
fiscali dello Stato Pontificio sul regno di Napoli. La minaccia francese perciò avvicinò il regno di
Napoli alla corte aragonese, tanto che la regina adottò Alfonso V d'Aragona come suo figlio ed
erede finché Napoli fu sotto l'assedio dalle truppe di Luigi III. Allorché gli aragonesi liberarono la
città nel 1423, occupando il regno e scongiurando la minaccia francese, i rapporti con la corte locale
non furono facili, tanto che Giovanna, cacciato Alfonso V, alla sua morte lasciò il regno in eredità a
Renato d'Angiò, fratello di Luigi III.
L’unificazione del regno del Sud (1442)
Con la morte senza eredi di Giovanna II d'Angiò-Durazzo il territorio del regno di Napoli fu
conteso da Renato d'Angiò, che ne rivendicava la sovranità in quanto fratello di Luigi d'Angiò,
figlio adottivo della regina di Napoli Giovanna II, e Alfonso V (1396-1458) re di Trinacria,
Sardegna e Aragona, precedente figlio adottivo poi ripudiato della stessa regina. La guerra che ne
scaturì coinvolse gli interessi degli altri stati della penisola, fra cui la signoria di Milano di Filippo
Maria Visconti, che intervenne dapprima in favore degli angioini (battaglia di Ponza), poi
definitivamente con gli Aragonesi.
Nel 1436, con il fratello Pietro, Alfonso rioccupò Capua e si impossessò di Gaeta, mentre i fratelli
Giovanni ed Enrico rientravano in Aragona. Attaccato dall'esercito pontificio, riuscì a contenere
l'avanzata delle truppe del papa nel regno di Napoli, corrompendo il suo comandante, il cardinale
Giovanni Vitelleschi. Nel 1438 tentò di mettere l'assedio a Napoli dove risiedeva Renato d'Angiò,
ma fallì e il fratello Pietro perse la vita. Dopo che nel dicembre del 1439 era morto il comandante
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delle truppe angioine, Jacopo Caldora, le sorti della guerra volsero a favore di Alfonso, che occupò
Aversa, Salerno, Benevento, Manfredonia e Bitonto (1440), praticamente riducendo Renato al solo
Abruzzo e alla città di Napoli; il papa inviò un contingente di 10.000 uomini in aiuto a Renato, ma
il comandante si fece corrompere da Alfonso.
La Corona d'Aragona nel 1443
Il 10 novembre 1441 Alfonso mise sotto assedio Napoli, che cadde il 2 giugno del 1442, dopo che
Renato d'Angiò aveva abbandonato la città. In pochi mesi Alfonso, il 26 febbraio del 1443 fece il
suo ingresso trionfale in Napoli e ne assunse la corona (come Alfonso I di Napoli), riunificando il
territorio dell'antico Stato svevo-normanno sotto la sua reggenza con il titolo di rex Utriusque
Siciliae, insediando la capitale nella città campana e imponendosi, non solo militarmente, nello
scenario politico italiano.
Nel 1447 poi, Filippo Maria Visconti designò Alfonso erede al ducato di Milano, arricchendo
formalmente il patrimonio della corona aragonese. La nobiltà della città lombarda però, temendo
l'annessione al regno di Napoli, proclamò Milano libero comune e instaurando la repubblica
ambrosiana; le conseguenti rivendicazioni aragonesi e napoletane furono contrastate dalla Francia,
che nel 1450 diede il sostegno politico a Francesco Sforza per impadronirsi militarmente di Milano
e del ducato. L'espansionismo ottomano, che minacciava i confini del regno di Napoli, impedì ai
napoletani l'intervento contro Milano, e papa Niccolò V dapprima riconobbe lo Sforza come duca di
Milano, poi riuscì a coinvolgere Alfonso d'Aragona nella lega italica, un'alleanza volta a
consolidare il nuovo assetto territoriale della penisola.
La politica interna di Alfonso: umanesimo e centralismo
La corte di Napoli in quest'epoca fu una delle più raffinate e aperte alle novità culturali del
Rinascimento: erano ospiti di Alfonso Lorenzo Valla, che proprio durante il soggiorno partenopeo
denunciò il falso storico della donazione di Costantino, l'umanista Antonio Beccadelli e il greco
Emanuele Crisolora. Ad Alfonso si deve anche la ricostruzione di Castel Nuovo. L'assetto
amministrativo del regno rimase grossomodo quello dell'età angioina: furono ridimensionati però i
poteri degli antichi giustizierati (Abruzzo Ultra e Citra, Contado di Molise, Terra di Lavoro,
Capitanata, Principato Ultra e Citra, Basilicata, Terra di Bari, Terra d'Otranto, Calabria Ultra e
Citra), che conservarono funzioni prevalentemente politiche e militari. L'amministrazione della
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giustizia fu invece devoluta nel 1443 alle corti baronali, nel tentativo di ricondurre le antiche
gerarchie feudali nell'apparato burocratico dello Stato centrale.
È considerato un altro importante passo verso il raggiungimento dell'unità territoriale nel regno di
Napoli la politica del re, volta ad incentivare pastorizia e transumanza: nel 1447 Alfonso varò una
serie di leggi, fra cui l'imposizione ai pastori abruzzesi e molisani di svernare entro i confini
napoletani, nel Tavoliere, dove molti dei terreni coltivati furono trasformati anche forzatamente in
pascoli. Istituì inoltre, con sede prima a Lucera e poi a Foggia, la Dogana della mena delle pecore in
Puglia e l'importantissima rete dei tratturi che dall'Abruzzo (che dal 1532 avrebbe avuto il suo
distaccamento della Dogana, la Doganella d'Abruzzo) conducevano alla Capitanata. Questi
provvedimenti risollevarono l'economia delle città interne fra L'Aquila e la Puglia: le risorse
economiche legate alla pastorizia transumante dell'appennino abruzzese un tempo si disperdevano
nello Stato Pontificio, dove fino ad allora avevano svernato le mandrie.
Con i provvedimenti aragonesi le attività legate alla transumanza coinvolsero, prevalentemente
entro i confini nazionali, le attività artigianali locali, i mercati e i fori boari tra Lanciano, Castel di
Sangro, Campobasso, Isernia, Boiano, Agnone, Larino fino al Tavoliere, e l'apparato burocratico
sorto attorno alla dogana, predisposto alla manutenzione dei tratturi e alla tutela giuridica dei
pastori, divenne, sul modello della Mesta castigliana, la prima base popolare dello Stato centrale
moderno nel regno di Napoli. In misura minore lo stesso fenomeno si verificò fra Basilicata e Terra
d'Otranto e le città (Venosa, Ferrandina, Matera) legate alla transumanza verso il Metaponto. Alla
sua morte (1458) Alfonso divise nuovamente le corone lasciando il Regno di Napoli al suo figlio
illegittimo Ferdinando (legittimato da papa Eugenio IV e nominato duca di Calabria) detto don
Ferrante , mentre tutti gli altri titoli della corona d'Aragona, incluso il regno di Sicilia, andarono a
suo fratello Giovanni II d’Aragona (1397-1479).
I Visconti a Milano
Ottone (1207-1295) fu investito da Papa Urbano IV dell'arcivescovato di Milano il 22 luglio 1262 e,
appoggiato dai suoi capitanei e valvassori, sostenne una lunga lotta contro la fazione popolare
capeggiata dai Della Torre, contro i quali prevalse a Desio nel 1277. Egli fece eleggere capitano del
popolo, nel 1287, il pronipote Matteo I (1250-1322) cui l'imperatore Rodolfo I concesse il vicariato
nel 1288. La resistenza dell'opposta parte condusse all'esilio visconteo nel 1302, tuttavia nel 1310,
grazie al supporto di Enrico VII, i Visconti rientrarono in Milano. La reazione guelfa e pontificia
non si fece attendere, conducendo Matteo I ad abdicare a favore del figlio Galeazzo I (1277c.-1328)
che la fronteggiò valorosamente finché fu preso prigioniero da Ludovico il Bavaro (1327). Dei
fratelli di quest'ultimo, Marco (morto nel 1329) fu condottiero, mentre Luchino (1292-1349) e
Giovanni (1290-1354) assursero alla signoria dopo la morte di Azzone (1302-1339), figlio di
Galeazzo I, che l'aveva riavuta nel 1329. Luchino Novello (morto nel 1399), figlio di Luchino,
venne fatto escludere dalla signoria da Giovanni. La dinastia fu continuata dalla progenie di
Stefano, figlio di Matteo, i cui tre figli Matteo II (1319-1355), Galeazzo II (1320-1378) e Bernabò
(1323-1385), le diedero lustro e potenza.
A Galeazzo II succedette nel 1378 il figlio Gian Galeazzo (1351-1402), che nel 1385 fece
prigioniero lo zio Bernabò di cui aveva sposato in seconde nozze la figlia Caterina (morta nel
1404), e nel 1395 fu nominato duca di Milano dall'imperatore Venceslao. Mentre sua figlia
Valentina (1366-1408), unica figlia della prima moglie Isabella di Francia, andava in sposa a Luigi
d'Orleans.
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parte da Wikipedia, da Treccani.it e da altre fonti - sono a cura del Prof. Sergio Bergami. XVII Lezione: La formazione
degli stati regionali nel XV secolo.
L'espansionismo visconteo di Gian GaleazzoVisconti (1351-1402)
Il progetto di Gian Galeazzo era d'unificare l'Italia sotto un grande stato nazionale con Milano alla
testa, analogamente a quanto stava avvenendo in quegli anni in Francia e in Spagna. Per questo
ingrandì continuamente il proprio stato, arrivando a includere parti del Veneto, dell'Emilia,
dell'Umbria e della Toscana. In quest'ultima regione trovò la strenua opposizione di Firenze, mentre
riuscì a conquistare Pisa, Siena e la vicina Perugia. In pochi anni, Giangaleazzo aveva messo
insieme un esercito comandato da valorosi condottieri quali Ugolotto Biancardo, Pandolfo e Carlo
Malatesta, Ottobuono de' Terzi e Facino Cane.
L'unico Stato che fu in grado di tenere testa all'esercito di Giangaleazzo fu quello di Firenze sotto la
guida di Giovanni Acuto. La vittoria sui fiorentini ad opera di Jacopo dal Verme, Alberico da
Barbiano e Facino Cane giunse nel 1402 con la battaglia di Casalecchio. Bologna fu l'ultima
conquista di Gian Galeazzo.
Morì di peste nel 1402 nel castello di Melegnano.
Tra le altre attività è ricordato anche per aver ideato la Calà del Sasso, la scalinata più lunga
d'Europa, che collega il comune di Valstagna al comune di Asiago, in provincia di Vicenza.
Prima di morire Gian Galeazzo spartì lo stato tra i suoi figli, legittimi ed illegittimi, ma il
predominio che aveva costruito andò rapidamente disgregandosi
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Gli succedevano i figli di seconde nozze, prima Giovanni Maria (1389-1412) e poi Filippo Maria
(1392-1447). Alla morte di Filippo Maria, ultimo dei Visconti (agosto 1447), fu istituita la
cosiddetta Aurea Repubblica Ambrosiana, una forma di governo repubblicana istituita da un gruppo
di nobili milanesi. La Repubblica affidò la difesa contro Venezia a Francesco Sforza che, dotato di
notevoli capacità strategiche, approfittò della crisi della repubblica per farsi nominare Duca di
Milano (25 marzo 1450).
La Repubblica Serenissima: la nascita de “lo stato de tera”
La guerra di Chioggia
La guerra di Chioggia fu un conflitto combattuto dalla Repubblica di Genova contro la Repubblica
di Venezia tra il 1378 ed il 1381, in conclusione di un confronto aperto che durava da anni e che
aveva già contato qualche occasionale e limitato scontro militare. Inizialmente i Genovesi
riuscirono a conquistare Chioggia e vaste zone della laguna di Venezia, ma alla fine la vittoria arrise
ai Veneziani, che riuscirono a riprendersi Chioggia e le città lagunari ed istriane cadute in mani
genovesi.
Si concluse definitivamente con la pace di Torino dell'8 agosto 1381, che sancì l'uscita dei Genovesi
e dei Veneziani da un conflitto in cui entrambe le repubbliche marinare avevano subito ingenti
danni economici.
La guerra di Chioggia rappresentò l'ultimo scontro di rilievo tra Genovesi e Veneziani, dal quale
Venezia si riprese presto grazie alla sua solida organizzazione interna, mentre la rivale Genova, in
quel periodo anche tormentata da lotte intestine per il potere, entrò in un periodo di decadenza che
la portò a non rappresentare mai più una minaccia per Venezia e i suoi interessi commerciali verso
l'Oriente.
Guerra di Padova
La guerra di Padova fu un conflitto combattuto nel 1404-1405 tra la Serenissima Repubblica di
Venezia e lo Stato Carrarese, conclusosi con la conquista veneziana di Padova e dell'intero Veneto e
la fine della Signoria della famiglia Da Carrara.
La morte, nel 1402, del Duca di Milano Gian Galeazzo Visconti fornì la miccia per un nuovo
conflitto. La morte del Visconti aveva infatti lasciato temporaneamente il Ducato di Milano, l'altra
grande potenza dell'Italia settentrionale, privo di una guida forte e preda dell'espansionismo dei suoi
tradizionali nemici: la Repubblica di Firenze e gli stessi Carraresi di Padova, che ne avevano
approfittato occupando città e castelli. La duchessa Caterina Visconti, reggente per il figlio
Giovanni Maria, aveva allora chiesto aiuto al doge di Venezia Michele Steno, promettendo, nel
marzo 1404 la cessione di Verona, occupata dai Carraresi, e Vicenza, allora assediata. Poiché il 24
aprile la dedizione di Vicenza alla Serenissima aveva reso quest'ultima di fatto signora di quel
territorio, Venezia pretese dal nuovo Signore carrarese, Francesco Novello, che ponesse termine
alle devastazioni delle terre beriche. Poiché però Francesco Novello persisteva nel mettere a ferro e
fuoco il vicentino e poiché, inoltre, il 7 maggio anche Cologna Veneta si era data a Venezia, ma era
stata occupata dai Carraresi, per la Repubblica di Venezia la guerra divenne inevitabile. Frattanto
Caterina Visconti cedeva alla Repubblica anche Belluno (18 maggio), Bassano (10 giugno) e Feltre
(15 giugno).
Venezia nominò quindi Capitano Generale dell'esercito campale il pesarese Pandolfo Malatesta,
provvedendo al contempo a fortificare le lagune e le foci dei fiumi, che costituivano la principale
via d'accesso dall'entroterra. L'esercito venne raccolto facendo ampio ricorso ai più famosi capitani
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di ventura del tempo: Paolo Savelli, Taddeo del Verme, Obizzo da Polenta, Signore di Ravenna, e
altri, mentre una piccola flottiglia fluviale, al comando del patrizio Marco Grimani, doveva
sostenere le operazioni di terra.
Nonostante la rapida conquista della fortezza di Gambarare, porta d'accesso al Padovano, la
costruzione di un vallo difensivo da parte dei Carraresi sbarrò ugualmente il passo ai Veneziani. A
quel punto il Marchese di Ferrara Niccolò d'Este ne approfittò per rioccupare il Polesine, che
Venezia teneva a pegno d'un debito da lui contratto con la Repubblica, cui si erano frattanto alleati i
Gonzaga di Mantova. I Veneziani, alla guida di Carlo Zeno, riuscirono infine a forzare l'accesso alle
terre patavine transitando attraverso le paludi che circondavano Piove di Sacco, attraverso le quali
furono eretti argini e camminamenti. Le truppe di Francesco Novello furono sconfitte e costrette a
ritirarsi in Padova, dove vennero strette d'assedio, mentre truppe veneziane e alleate entravano nel
Veronese.
Agli inizi del 1405 comando dell'armata della Serenissima venne quindi affidato a Paolo Savelli,
che strinse ancor più d'assedio Padova, dove presto giunse anche la flotta di Fantino Michiel. La
situazione spinse il Marchese di Ferrara a firmare la pace il 14 marzo, restituendo il Polesine e
pagando un pesante indennizzo. Il 24 giugno, infine, Verona cadde e si diede a Venezia.
Nell'occasione venne fatto prigioniero Jacopo Da Carrara, figlio di Francesco Novello.
Di fronte alla prospettiva della sconfitta, con Padova assediata e colpita dalla peste, i Carraresi si
risolsero a trattare, ma proprio quando sembrava che si fosse giunti ad un accordo per un onorevole
esilio a Monselice, Francesco Novello, sperando nel soccorso di Firenze, con una rapida sortita
riuscì a spezzare l'assedio, mettendo in fuga le truppe che circondavano città. Venezia rispose
gettando, il 25 settembre, Jacopo Da Carrara al carcere duro, pretendendo, per la liberazione, che
fosse lasciato libero Obizzo Da Polenta, prigioniero dei Padovani, e che si pagasse un riscatto di
tremila e cinquecento ducati.
Vennero conquistate Camposampiero e Monselice, vennero deviate le acque del Brenta e del
Bacchiglione, che alimentavano Padova, mentre la Serenissima, abbandonato ogni proposito di
accordo, pretendeva la dedizione incondizionata della città. Mentre il 20 novembre Francesco
Novello si consegnava al Cattaneo nella speranza di poter trattare coi Veneziani, questi, il 22
novembre, dopo essersi accordati coi magistrati cittadini per la consegna della città, entrarono in
Padova, che quella stessa sera fece formale atto di dedizione.
Alla fine del conflitto, Venezia si trovò improvvisamente proiettata in un'ottica di potenza terrestre,
padrona dell'intero Veneto, dal Polesine sino ai confini con il Friuli, dalla laguna fino ai confini con
la Lombardia. In questi nuovi territori venne quindi esteso il sistema dei reggimenti, sui quali già si
basavano i possedimenti oltremarini: le nuove terre andarono a formare il primo nucleo dei Domini
di Terraferma della Repubblica. Gli ultimi Carraresi, Francesco Novello e i figli Jacopo e Giacomo
III, furono condotti in prigionia a Venezia, sull'isola di San Giorgio Maggiore. Il 30 novembre,
però, dopo la scoperta di un tentativo di congiura ai danni dello Stato, costata a Carlo Zeno il
disonore e l'esilio, i due vennero prima trasferiti nelle prigioni sotterranee di Palazzo Ducale (i
cosiddetti pozzi) e quindi giustiziati per strangolamento alla metà di gennaio del 1406.
All'inizio del XV secolo, i veneziani iniziarono ad espandersi notevolmente anche nell'entroterra, in
risposta alla minacciosa espansione di Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano dal 1395.
Nel 1410, Venezia aveva già conquistato gran parte dell'odierna regione italiana del Veneto e dieci
anni più tardi assoggettava il Friuli. La Repubblica arrivò a comprendere il territorio di quella che
era stata la X regione augustea della penisola italica (Venetia et Histria).
Ma le guerre con Milano continuarono per tutta la prima parte del XV secolo.
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Maclodio
In questa fase una notevole importanza ebbe la battaglia di Maclodio del 1427. Le truppe veneziane
erano guidate dal Conte di Carmagnola. Lo scontro iniziò alle 4 pomeridiane: dopo una serie di
cariche della cavalleria veneta, i milanesi avanzarono contro l'esercito nemico. A questo punto il
Carmagnola concentrò tutte le sue forze contro il centro dello schieramento avversario,
costringendolo a ritirarsi, spezzandolo in due tronconi, e conquistando la strada verso Urago.
L'incomprensione tra i capitani milanesi ed il terreno paludoso segnarono la disfatta delle forze del
ducato, che si diedero alla fuga. Lo stesso Niccolò Piccinino venne ferito, e solo grazie
all'intervento di Francesco Sforza gli scampati poterono ritirarsi a Pompiano.
Sebbene fosse stato uno scontro con molti uomini, i morti furono relativamente pochi, mentre erano
stati numerosi i prigionieri catturati ed era stato enorme il bottino conquistato. Dopo un sol giorno
gran parte dei milanesi catturati furono liberati per ordine del Carmagnola.
Questa mossa inspiegabile sarà fonte di sospetti da parte della Repubblica di Venezia verso il suo
capitano di ventura e fonte d'ispirazione per Il Conte di Carmagnola, opera di Alessandro Manzoni.
La guerra tra gli schieramenti si concluderà con la pace del 18 aprile 1428, nella quale i milanesi
riconfermarono il possesso del territorio bresciano alla Repubblica di Venezia, al quale si andava ad
aggiungere la Valle Camonica conquistata dal Carmagnola nella campagna invernale del 1427-28
Nel 1428 divennero veneziane pure le città oggi lombarde di Bergamo e Brescia con i relativi
contadi. Un ruolo importante in queste campagne militari lo giocò anche il condottiero Bartolomeo
Colleoni. Il confine tra Venezia e Milano fu portato all’Adda cioè a tre ore di cavallo da Milano.
Mocenigo e Foscari: due visioni del ruolo di Venezia
Il Testamento del doge Mocenigo
Il testamento del doge Mocenigo, redatto in data 10 marzo 1423, viene considerato uno dei più
importanti documenti dell'epoca visto che, lungi dal soffermarsi su mere questioni personali, esalta
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la forza e la potenza di Venezia elencando i mezzi e le ricchezze della città e dandoci un vivo e
fertile spaccato della vita quotidiana. Curiosamente il Mocenigo in esso raccomandò più volte di
non eleggere come suo successore Francesco Foscari che, secondo lui, avrebbe condotto la città a
guerre in terraferma senza una vera necessità per Venezia. Il 15 aprile 1423, appena undici giorni
dopo la morte del Mocenigo, Francesco Foscari veniva invece eletto suo successore.
Francesco Fóscari (Venezia 1373 - 1457)
Doge dal 1423 al 1457: fu il doge più longevo della storia veneziana. Percorse rapidamente e con
successo le maggiori cariche interne della Repubblica: fu capo della Quarantia nel 1401, due volte
capo del Consiglio dei Dieci nel 1405 e nel 1413; savio di guerra nel 1412, procuratore di S. Marco
nel 1416. Eletto doge nel 1423, fu fautore di una politica di espansione e di conquista nel retroterra
veneziano, venendo perciò in conflitto con i signori di Milano. Le lotte contro i Visconti si
protrassero per circa trenta anni.
In questi anni l’alleata naturale di Venezia in chiave antiviscontea è la repubblica di Firenze. Ma la
morte senza eredi di Filippo Maria Visconti nel 1447 spinse Cosimo de Medici ad appoggiare lo
Sforza contro le mire espansionistiche veneziane.
Infatti Venezia riuscì ad occupare anche Crema nel 1449 approfittando della guerra intestina
meneghina che aveva generato l'effimera Repubblica Ambrosiana.
L’insediamento dello Sforza Milano alleato adesso con Firenze aveva sparigliato le tradizionali
alleanze per cui adesso Venezia si alleava con gli Aragonesi del sud.
Firenze
Mentre a Firenze era in atto uno straordinario rinnovamento artistico, architettonico e letterario che
passò alla storia come Rinascimento, le vicende politiche e militari non erano delle migliori. Nel
1424 la città aveva subito una dura sconfitta nella battaglia di Zagonara e il peso della guerra,
sommato alla febbrile attività edilizia per completare la straordinaria cupola del Duomo, rese
necessaria l'imposizione di nuove tasse. Nel 1427 la Signoria impose il "catasto" (ampliato con
l'introduzione del valsente nel 1432, per far fronte a improvvise difficoltà di cassa nelle pubbliche
finanze), il primo tentativo moderno di equità fiscale, che tassava le famiglie in base alle stime della
loro ricchezza, attingendo per la prima volta dove il denaro era veramente concentrato, cioè nelle
mani di quelle famiglie di mercanti e banchieri che padroneggiavano anche l'attività politica. I
registri del catasto sono una straordinaria fotografia della Firenze dell'epoca (benché l'imposta sia
stata presto soppressa, in quanto avrebbe danneggiato i ceti più abbienti). La famiglia più ricca era
quella degli Strozzi, ma, molto più defilato, stava sorgendo un nuovo astro, quello dei Medici, che,
venuti dalle terre del Mugello alla fine del XII secolo, già si erano guadagnati una solida fama di
famiglia favorevole alle rivendicazioni popolari.
Il popolo, escluso dal governo, tentò varie volte di abbattere l'oligarchia, finché si alleò alla famiglia
Medici. Nel 1433 Cosimo (1389-1464), capo della famiglia, dopo esser stato arrestato, fu esiliato;
l'anno seguente, però, i suoi sostenitori ottennero il priorato e Cosimo fu richiamato a Firenze. La
città si arricchì notevolmente, nonostante i danni subiti da numerosi edifici cittadini a causa del
terremoto del 28 settembre 1453 che in città raggiunse il VII grado della Scala Mercalli.
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Quando Cosimo rientrò a Firenze nel 1434 riuscì, grazie al potere della balìa a lui completamente
legata da vincoli economici, a ottenere il controllo degli accoppiatori che, nel sistema delle elezioni
dei cittadini alle cariche repubblicane, erano deputati alla loro estrazione e alla votazione da parte
della Signoria. La creazione poi del Consiglio dei Cento, organo "mediatore" incaricato di vagliare
le leggi prima che passassero nel Consiglio del Popolo, determinò l'ulteriore rafforzamento del
ruolo delle balìe filo-medicee in quanto anche lui aveva il compito di nominare i cittadini a precise
cariche istituzionali. A incrementare ulteriormente la posizione di prestigio dei Medici, bisogna
ricordare anche la politica di promozione sociale di persone provenienti da ceti non abbienti
(politica che verrà portata avanti anche sotto il figlio Piero e il nipote Lorenzo il Magnifico) e il
mecenatismo nell'edilizia pubblica (si ricordi, per esempio, il sostegno finanziario del Banco
Mediceo per la costruzione della cupola della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, opera del
Brunelleschi).
1434-1447: la politica antiviscontea e la battaglia di Anghiari
In politica estera, Cosimo continuò la tradizionale politica d'alleanza con Venezia contro Milano,
governata dai Visconti. In quel momento era duca Filippo Maria Visconti (1414-1447) il quale,
spinto sia dalle ambizioni di ricostruire il vasto dominio del padre Giangaleazzo, ma anche dalle
insistenze degli esuli fiorentini ostili a Cosimo, rinnovò la guerra contro Firenze. Il Duca, nel 1435,
mandò l'esercito guidato da Niccolò Piccinino in soccorso di Lucca, all'epoca nemica di Firenze.
Firenze, estremamente debole dal punto di vista militare, fu salvata grazie all'intervento di
Francesco Sforza (all'epoca al soldo dei Veneziani, coalizzati con Firenze contro Milano) nella
battaglia di Barga (1437). Fu però nel 1440 che si giunse allo scontro decisivo: l'esercito milanese,
guidato sempre dal Piccinino, fu battuto nella Battaglia di Anghiari (29 giugno 1440) dall'esercito
fiorentino guidato dal cugino di Cosimo, Bernadetto de' Medici, dal filo-mediceo Neri di Gino
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Capponi e da Micheletto Attendolo. I sette anni successivi videro un progressivo avanzamento della
lega veneto-fiorentina: l'indebolimento del Visconti (favorito dall'atteggiamento caparbio di
Piccinino) permise a Venezia di assoggettare Ravenna (1441), mentre i Fiorentini ottennero la
dedizione della città di Sansepolcro, acquistata per 25.000 fiorini da papa Eugenio IV (veneziano).
1447-1464: il rovesciamento delle alleanze
Gli anni seguenti alla morte di Filippo Maria (1447-1450) furono decisivi per l'ulteriore
rafforzamento di Cosimo all'interno di Firenze. Il Medici, infatti, da un lato entrò in rotta con
Venezia per questioni di carattere commerciale e finanziario e, dall'altro, aveva la necessità di un
potente alleato che venisse in soccorso della famiglia Medici qualora fosse stata in pericolo. Inoltre,
Cosimo temeva che un'eventuale vittoria della Serenissima rafforzasse ulteriormente il suo potere
militare a discapito dell'indebolito Ducato di Milano, determinando una rottura della politica
dell'equilibrio e la cessazione dell'attività del Banco Medici in terra meneghina. La vittoria di
Francesco Sforza e la sua proclamazione a duca di Milano (ottenuta grazie a numerose sovvenzioni
economiche da parte di Cosimo) permise al capofamiglia mediceo di ottenere un importante alleato,
anche se dovette lottare per far accettare l'alleanza con l'odiata Milano. Se il cambio d'alleanza fu
inizialmente dettato principalmente per l'interesse della fazione medicea, l'opinione pubblica
fiorentina si rivolse unanime contro Venezia allorché questa, irritata per i dissidi con Firenze, s'alleò
con Ludovico di Savoia, con Alfonso d'Aragona re di Napoli e la Repubblica di Siena. L'alleanza di
Venezia con quest'ultima, acerrima nemica di Firenze per il predominio in Toscana, suscitò
un'ondata di sdegno nella Signoria, spingendo definitivamente la politica estera fiorentina in
direzione sforzesca. La guerra che Venezia portò contro lo Sforza si protrasse stancamente fino al
1454, allorché fu stipulata la pace di Lodi grazie alla mediazione di Cosimo de' Medici e di papa
Niccolò V, quest'ultimo intimorito per la caduta di Costantinopoli in mano a Maometto II dell'anno
precedente.
Il Concilio di Firenze
Importante per il rafforzamento del prestigio di Cosimo all'interno e all'esterno di Firenze fu il
Concilio Ecumenico che si tenne a Firenze nel 1439. In quell'anno, grazie a cospicue elargizioni in
denaro, Cosimo riuscì a convincere Papa Eugenio IV (già residente a Firenze dal 1434 a causa di
una sommossa capeggiata dai Colonna a Roma) a spostare il Concilio da Ferrara a Firenze, nel
quale si stava discutendo l'unione tra Chiesa latina e Chiesa bizantina. La presenza di delegati
ecclesiastici cattolici e ortodossi nella città toscana non era soltanto fonte di prestigio per la piccola
Repubblica e, di conseguenza, per Cosimo, ma anche per la stessa economia: la presenza di un
evento di importanza mondiale rivolse gli sguardi dei sovrani italiani ed europei su Firenze, oltreché
degli stessi mercanti attirati da quell'ambiente cosmopolita.
L'arrivo dei delegati bizantini a Firenze, tra cui l'Imperatore Giovanni VIII Paleologo e il Patriarca
di Costantinopoli Giuseppe, con tutta una corte di colorati e bizzarri personaggi dall'Oriente,
stimolò incredibilmente la fantasia della gente comune e ancora di più degli artisti fiorentini (in
special modo Benozzo Gozzoli con il ciclo d'affreschi nella Cappella dei Magi), tanto che da allora
si iniziò a parlare di Firenze come della "nuova Atene". A questa pletora di letterati e prelati
orientali, detentori dell'antica cultura ellenica, corrispose una straordinaria fioritura di studi della
filosofia platonica e della letteratura greca, avvenuta grazie alla costante presenza da allora di
maestri originari di Bisanzio (tra i quali spiccano per importanza Giorgio Gemisto Pletone e il
futuro cardinal Bessarione) e alla raccolta di codici greci nella biblioteca personale di Cosimo a
Palazzo Medici.
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Il cardinale Bessarione (Trebisonda, 1403 – Ravenna, 1472)
Nacque in una numerosa e povera famiglia a Trebisonda, allora capitale del piccolo Impero
comandato dai Mega Comneni. La sua presunta origine comnena - affermata da fonti più tarde e
taciuta da tutti i suoi contemporanei che invece lo vogliono di origini modeste - è difficilmente
accertabile. Per secoli il suo nome di battesimo era stato ritenuto Giovanni, ma studi più recenti
hanno dimostrato che era Basilio. Giovanissimo (1416/17) e dopo aver compiuto gli studi
elementari a Trebisonda si trasferì a Costantinopoli, dove continuò i suoi studi presso Crisoccocca e
diventò monaco basiliano assumendo il nome di Bessarione, un santo del IV secolo.
Carriera ecclesiastica e politica
Nel 1423 andò in Egitto. La successiva tappa importante furono gli anni trascorsi presso Giorgio
Gemisto Pletone a Mistra, vicino alla antica Sparta, nel despotato della Morea, dove fu introdotto
alla filosofia platonica (1430/2-1436). Cartofilace e diplomatico di successo tra le corti bizantine,
ottenne presto la stima dell'imperatore Giovanni VIII Paleologo.
Al Concilio di Ferrara e Firenze
Nel 1437 fu nominato arcivescovo di Nicea e nel 1438 venne in Italia con il cardinale Cusano,
prima a Ferrara, poi a Firenze, per discutere insieme alla numerosa delegazione bizantina e
l'imperatore stesso, l'unione delle due Chiese, nella speranza di ottenere l'aiuto occidentale contro
gli Ottomani che diventavano sempre più minacciosi nei confronti di Costantinopoli.
Mentre prima del Concilio di Ferrara Bessarione apparteneva al partito bizantino contrario
all'unione, durante il Concilio si dimostrò fautore dell'unione della Chiesa romana con quella
ortodossa. Su basi filologiche e teologiche Bessarione dimostrò che un passo dibattuto del testo di
San Basilio (figura di spicco della chiesa ortodossa) sosteneva posizioni uguali a quelle della Chiesa
di Roma, mentre le copie del testo che non avevano il passo incriminato erano tutte molto recenti.
La questione dogmatica principale che divideva le due Chiese era quella detta del Filioque,
riguardante il rapporto all'interno della Trinità tra il Figlio, il Padre e lo Spirito Santo: significativo,
a questo proposito, è il dibattito che, durante il Concilio, avvenne tra il Bessarione e Ludovico da
Pirano, presente in quanto Vescovo di Forlì. Ma le ragioni che dividevano le due religioni erano più
profonde. Le ragioni ecclesiologiche e storico-politiche erano tanto complesse e profonde da
sembrare più difficilmente superabili rispetto a quelle dogmatiche.
Questa ostilità dei Bizantini nei confronti dei cristiani latini era comprensibile, data la presenza di
questi ultimi nel mondo bizantino, fin dalla quarta crociata del 1204, che aveva distrutto l'Impero
bizantino con la conquista e il saccheggio di Costantinopoli e la divisione dei territori bizantini tra
le potenze che avevano preso parte alla "crociata", soprattutto i veneziani. Il 6 luglio 1439
comunque, e per la volontà esplicita dell'Imperatore di raggiungere un compromesso, fu letto, alla
presenza del papa Eugenio IV e dell'imperatore stesso, il decreto dell'unione delle Chiese, dal
cardinal Cesarini in latino e da Bessarione in greco.
Il difficile ritorno a Costantinopoli
Poco dopo la missione italiana Bessarione tornò a Costantinopoli. Lì lui e gli altri fautori
dell'unione trovarono un clima ostile tra la popolazione e il clero, in particolare i monaci, mentre
una parte di quelli che avevano firmato il decreto dell'unione ora l'abbandonavano. Dato questo
clima e la nomina a cardinale dal papa Eugenio IV il 18 dicembre 1439, con il Titolo dei Santi XII
Apostoli, comunicatagli mentre si trovava a Costantinopoli, Bessarione si recò nuovamente in Italia
nel 1440 dalla quale non tornò mai più nell'Impero bizantino.
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L'impegno per la conservazione della cultura greca classica
Dopo un soggiorno a Firenze si recò con la corte pontificia a Roma.
Caduta Costantinopoli nel 1453, si dedicò a soccorrere i dotti bizantini fuggiti dalle mani degli
Ottomani. Tra il 1456 ed il 1465 fu Archimandrita di Messina e Barone della Terra di Savoca. Nel
1462 fu nominato primo abate commendatario dell'Abbazia Greca di Grottaferrata. Volendo salvare
l'immenso patrimonio della cultura bizantina raccolse numerose opere che altrimenti non sarebbero
mai pervenute in Occidente, costituendo una ricca biblioteca, articolata su due scriptoria, mentre era
ancora in vita. Nel 1468 donò la propria biblioteca alla città di Venezia; la raccolta divenne il
patrimonio iniziale della Biblioteca nazionale Marciana. Tra le altre, salvò numerose opere
contenute nella ricchissima biblioteca del Monastero di San Nicola di Casole, presso Otranto, che
finì poi distrutta (ad opera degli Ottomani) nel corso della Battaglia di Otranto del 1480.
La missione diplomatica in Francia e la morte
Nel 1472 venne inviato dal papa Sisto IV presso Luigi XI di Francia a perorare la causa di una
crociata per la liberazione di Costantinopoli, nonostante la sua età e la sua scarsa salute. Nel viaggio
di ritorno, a causa dei disagi, le sue condizioni peggiorarono e morì a Ravenna, in casa di un suo
amico veneziano e podestà del luogo, Antonio Dandolo, secondo alcuni avvelenato su istigazione
dei cardinali francesi suoi avversari.
La caduta di Bisanzio 1453 e la Pace di Lodi 1454
La caduta di Bisanzio mise in pericolo l'assetto dei possedimenti veneziani nell'Egeo, così la
Serenissima decise di porre una temporanea tregua alle guerre nella penisola, stipulando assieme ad
altre potenze italiane la pace di Lodi.
Venezia e Milano conclusero la pace definitiva il 9 aprile 1454 presso la residenza di Francesco
Sforza a Lodi; il trattato fu ratificato dai principali Stati regionali (prima fra tutti Firenze, passata da
tempo dalla parte di Milano).
Il Nord Italia risultava in pratica spartito fra i due Stati, nonostante persistessero alcune altre
potenze (i Savoia, la Repubblica di Genova, i Gonzaga e gli Estensi). In particolare, stabilì la
successione di Francesco Sforza al Ducato di Milano, la conferma della frontiera tra i suddetti stati
sul fiume Adda, e l'inizio di un'alleanza che culminò nell'adesione – in tempi diversi – alla Lega
Italica. Rimasero in possesso di Venezia anche le terre di Asola, Lonato e Peschiera, rimanendo
deluse le aspettative dei Gonzaga, che da sempre miravano a questi luoghi.
L'importanza della pace di Lodi consiste nell'aver dato alla penisola un nuovo assetto politicoistituzionale che – limitando le ambizioni particolari dei vari Stati – assicurò per quarant'anni un
sostanziale equilibrio territoriale e favorì di conseguenza lo sviluppo del Rinascimento italiano.
A farsi garante di tale equilibrio politico sarà poi– nella seconda parte del Quattrocento – Lorenzo il
Magnifico, attuando la sua famosa politica dell'equilibrio
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