Pillole di Letteratura Italiana n.4 a cura del prof. C. Baldi > FUTURISMO Nel primo Novecento si affermano in arte e in letteratura le «avanguardie storiche» (come il dadaismo, il cubismo, l'espressionismo, il surrealismo) così definite per distinguerle dalle «neoavanguardie» che si affermeranno negli anni Cinquanta e Sessanta: il termine trasferito dal linguaggio militare a quello letterario indica dei movimenti che si distaccano dalla tradizione e sperimentano nuove tecniche espressive con una consapevolezza che spesso dà vita a «manifesti», ovvero documenti programmatici in cui esporre le idee elaborate da un gruppo coeso di intellettuali in merito alla concezione della realtà e del ruolo dell'arte. Tra queste avanguardie l'unico movimento di origine italiana, che ebbe peraltro una grande influenza nella società del tempo, fu il Futurismo, il cui Manifesto (1909) fu redatto dallo scrittore Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944). I futuristi, in contrasto con le posizioni classicheggianti e critiche di D'Annunzio e Pascoli, esaltarono la modernità e i nuovi valori di cui essa si faceva portatrice: la velocità, l'aggressività, il dinamismo, la produttività. Al centro delle loro opere pittoriche e letterarie vi sono spesso le metropoli, le automobili, le industrie, le macchine: «Il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante, per noi, del sorriso o delle lagrime di una donna» (Manifesto tecnico della letteratura futurista, 1912). In polemica con la tradizione del passato giunsero anche proporre la distruzione di musei e biblioteche, depositari di un passato da cui si doveva prendere le distanze per proiettarsi verso il futuro: «La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità penosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno, Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità» (Manifesto del Futurismo, artt. 3-4). L'accettazione acritica dell'industrialismo e dell progresso e la mancanza di una base ideologica condurranno molti intellettuali futuristi ad entrare nelle fila degli interventisti e dei fascisti. Sul piano formale i futuristi proponevano un'arte che, liberatasi dell'armonia classicista e dei vincoli della tradizione, suggerisse «analogie vastissime» e inusuali e si svincolasse dal rigore della sintassi presentando il disordine delle «parole in libertà» e facendo così «saltare il tubo del periodo le valvole della punteggiatura i bulloni regolari dell'aggettivazione». Al futurismo ed alla sua poetica delle parole in libertà aderì in una fase giovanile della sua attività letteraria anche il poeta Aldo Palazzeschi (→ vedi pillole sul Crepuscolarismo). > I VOCIANI: CAMPANA E SBARBARO Negli anni del Decadentismo e delle avanguardie storiche furono attivi anche altri poeti che solo la critica contemporanea ha rivalutato. Si tratta di esperienze letterarie non riconducibili ad una particolare corrente, personalissime ma in grado di influenzare i grandi poeti della generazione successiva nel recupero dell'idea di poesia «pura» e nella predilezione del frammento come mezzo espressivo. Particolarmente rilevante fu il ruolo di una rivista letteraria, La Voce (1908-16), attorno alla quale si riunirono diversi intellettuali, tra i quali vanno ricordati almeno due: Dino Campana (1885-1932), la cui tecnica compositiva evoca, grazie a una sintassi franta e a guizzi improvvisi di forme e colori, un ritmo quasi febbrile, che sublima in lirismo la cronica instabilità mentale del poeta; Camillo Sbarbaro (1888-1967) che nelle prose poetiche Trucioli (1920) propone, all'interno di un'intima sofferenza esistenziale, una poesia di tono dimesso, dal linguaggio scarno e limitato all'essenziale, la quale sarà anticipatrice dell'Ermetismo.