Responsabilità «oltre la legge»

L’impresa sostenibile
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Responsabilità
«oltre la legge»
DI GIULIO
SAPELLI
La sempre più crescente diffusione, tra le grandi
imprese, delle cosiddette Carte dei Valori o dei Principi
di Business e, da più lungo tempo, dei Codici Etici,
sono il risultato di un lungo e diversificato processo
che oggi giunge alla sua più evidente rivelazione e che
riflette, in forma epifanica e non riflessiva, questo grande problema dell’ordine sociale e, insieme, della domanda di senso alla vita di lavoro che sale dal mondo
dell’impresa.
Solo comprendendo che questa è la posta in gioco
possiamo comprendere perché in tutto il pianeta, quali
che siano le forme capitalistico-proprietarie e le morfologie dell’impresa, assistiamo all’assunzione crescente di
responsabilità direttamente autodeterminate dalle imprese
medesime. Questo accade nel contesto degli ordinamenti
giuridici in cui esse operano e che si impegnano a rispettare, ma andando altresì «oltre la legge» (non «al di là»),
ossia strategicamente operando secondo principi morali
che esse incorporano nel loro comportamento.
Vale proporre qui la distinzione tra morale, kantiaLa morale, namente intesa come regola personale dell’autocollola legge cazione nel mondo, e legge, reticolo di regole statualie l’etica stiche dirette a disperdere le tensioni e diminuire il grado
di violenza nell’umanità associata.
E tra la morale e la legge e l’etica: l’etica intesa
come cristallizzazione di morali condivise da gruppi
sociograficamente identificabili che rappresentano la
EQUILIBRI / a. VI, n. 2, agosto 2002
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cristallizzazione sociale delle responsabilità personali
in vista di azioni comuni.
Tra la morale e la legge esiste un continuum di infiniti punti che hanno fatto dire a Santiago Nino – uno
dei teorici del diritto tra i più importanti del Novecento – che senza fondamento morale non vi è fondamento legale, non solo personalisticamente, ma anche teoricamente vincolante. Io affermerò, secondo le teorie
anglosassoni dell’obbligazione, che senza buoni cittadini non vi può essere pervasività sociale e quindi orientamento collettivo a quella credenza nella legge che
fonda la compulsività dell’obbligazione.
Per quanto concerne l’esperienza dell’impresa moderna, la novità rilevante rispetto al passato è determinata dal fatto che – da circa venti anni, dopo la grande
crisi degli anni Settanta – queste assunzioni di responsabilità non sono più eteronome come un tempo.
Ossia il tempo in cui prevalevano le teorie riduzionistiche neoclassiche dell’impresa per cui essa era ed è
solo un costrutto economico e perciò le sue regole debbono solo essere inscritte nella legge: quindi, non vi era
e non vi è spazio né per la morale né per l’etica.
Morale
ed etica
non hanno
spazio
nell’impresa
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Era – ed è, ancora – il tempo delle teorie statualistiche dell’impresa pubblica nell’era della sua decadenza, che – come dimostra tutta la sua esperienza
mondiale sino a venti anni or sono – prefiguravano e
prefigurano un’impresa sempre eteronomamente governata dalle direttive delle classi politiche.
Entrambi queste tesi non considerano teoricamente il ruolo delle tecnostrutture manageriali e di fatto
sono alla base di quell’equilibrio sempre precario che
decade, di norma, nella perdita dell’autonomia istituzionale dell’impresa – attore costitutivamente ma non
riduzionisticamente economico – e quindi nel prevalere delle logiche delle classi politiche che mirano alla
riproduzione autoreferenziale anche mediante la distruzione dell’impresa.
Una teoria economica e sociologica e antropologica
dell’impresa rinnovata, invece, pone al centro le sue
responsabilità autonome e che si configurano come prerequisiti essenziali per riprodurre la stessa impresa come
attore economico, anziché negarla nei suoi costitutivi
fondamenti.
La possibilità di far ciò deriva dal fatto che queste
autonome responsabilità sono intese come contributo
che l’impresa dà alla costruzione di società, e quindi di
istituzioni, che operino in mercati sempre meno imperfetti, anziché, come ancora accade in gran parte del
pianeta, in regimi politico-economici a forte prevalenza monopolistica e oligopolistica e a bassa pervasività
competitiva.
Tali responsabilità divengono, quindi, delle specifiche «morali di sostegno» del mercato, frutto dell’autoriflessività dell’impresa (e non dell’attribuzione esterna di finalità improprie), del suo riconoscersi come
società intermedia e distinta nella sua autonomia funzionale nella relazione tra stato e cittadino e che opera
per ampliare le sfere della legittimità d’impresa, della
cittadinanza d’impresa, della difesa dell’impresa come
istituzione.
Tali sfere di azione e di coerenza dell’impresa ne
definiscono la responsabilità.
La prima di tali sfere mira a garantire la diffusione
di culture antropologicamente coerenti con i principi
dell’autoresponsabilità, della libertà d’iniziativa, dell’imprenditorialità diffusa, così da ampliare l’area della legittimità dell’operare dell’impresa come istituzione.
La seconda mira a rafforzare, tramite l’impresa stessa e non più soltanto tramite lo stato o i partiti politici,
le aeree o le sfere dell’attribuzione di dignità della persona e alla persona in campo giuridico e morale, senza
intaccare in tal modo il principio della legittimità prima esposto.
La terza è le cerniera euristica e pragmatica del
tutto, perché pone al centro, nel perseguimento delle
responsabilità suddette, l’impresa come istituzione produttrice di ricchezza, di innovazione tecnologica, organizzativa e di benessere.
Istituzione, si badi bene, ossia associazione di persone e cose in grado di darsi ordinamenti giuridici di
fatto non confliggenti con quelli delle statualità in cui
si agisce, e quindi di riperpetuarsi; associazione costitutiva della differenziazione sociale che deve essere difesa da impropri poteri più o meno compulsivi e pervasivi e che deve trovare solo nella sua ragione sociale,
Culture
coerenti
con la libera
iniziativa
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e nelle finalità che da questa autonomamente promanano, le logiche della sua gestione di breve e di lungo
periodo.
La rilevanza che assumono, in questo contesto analitico e fattuale, i cosiddetti General Business Principles
nel campo dell’etica d’impresa non deriva dal fatto,
come comunemente si afferma, che sempre più sono
essenziali omogenee culture di governo dell’impresa e
nell’impresa.
Si tratta di una affermazione, questa, epistemologicamente errata: nelle imprese, infatti, convivono sempre diverse e legittime culture, funzionali e personali,
che è compito dell’alta direzione comporre a coerenza
e unità tramite la distintiva missione strategica che diviene la cultura di riferimento dell’impresa e delle stesse
multiformi culture prima richiamate. Ed è a questo che
pensiamo quando ci riferiamo, in termini culturali e
manageriali, alla coesione e alla coerenza dell’impresa
garantita dall’intima assunzione della missione che essa
si dà da parte di tutti coloro che in essa operano
Relazioni
sociali
fondate
sulla lealtà
reciproca
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La ragione profonda della rilevanza crescente dei
General Business Principles etici risiede, sostanzialmente, nel fatto che le imprese sono sfidate dalla competizione globale crescente e quindi dalla necessità di riprodurre di continuo meccanismi di autorità idonei
alle riduzioni dei costi, sempre più necessarie. Ma l’autorità è legittimazione del comando e quindi creazione
della leadership, che a sua volta consente l’eliminazione in misura crescente di strumenti di controllo personale e impersonale grazie alla diffusione di pratiche e
di relazioni sociali fondate, anziché sulla fedeltà e sulla
deferenza, sulla lealtà e sulla reciproca affidabilità.
Di qui il ruolo che sempre più assumono i General
Business Principles.
Nelle società e quindi nei sistemi politici dello stato
di diritto, i principi di uguaglianza dinanzi alla legge
proteggono i valori più intimi degli individui e garantiscono l’essenziale separatezza tra vita pubblica e vita
privata. Nell’impresa, invece, le obbligazioni dell’operatività impongono che i principi morali che le persone
identificano come essenziali per realizzare la cosiddetta «vita buona» debbano comporsi nella convivenza
secondo alcune generali regole comuni che divengono
principi-guida ispiratori dell’operare, pena la perdita
di coerenza e di coesione e quindi di legittimazione
dell’autorità nel comando e nella pratica lavorativa e
direttiva.
Quanto più ampia e meno incoerente è la sfera di
condivisione tra i valori della «vita buona» nella dimensione della vita privata e i valori della «vita buona» in quella della vita pubblica, tanto più si possono
affermare nell’impresa quelle energie operative che fondano l’affidabilità e la coerenza, sempre nel rispetto
della sacralità dell’intimità personale e dei suoi valori
che costituiscono «l’essere nel mondo» del soggetto.
Le Carte dei Valori, i Principi di Business, i Codici
Etici, in definitiva, aspirano a realizzare questa convergenza crescente tra i principi etici personali e le obbligazioni operative dell’impresa: facendo salve – ripetiamolo per non dar adito all’equivoco di auspicare
pratiche di manipolazione delle coscienze – le singole
pulsioni morali delle persone, dalle fedi religiose alle
pratiche famigliari alle credenze politiche.
Tali «Carte dei Valori» precostituiscono una sorta
di principi di cooperazione consensualmente convalidati che, mentre sono neutrali rispetto alle diverse concezioni personali di ciò che è bene e giusto in senso
ontologico, affermano contestualmente una sorta di corollario morale unificante e trascendente le singole pulsioni e volizioni, assicurando in tal modo l’affermazione e la riproducibilità di quelle che si sono definite le
sfere della legittimità d’impresa, della cittadinanza
d’impresa, della difesa dell’impresa come istituzione.
I General Business Principles hanno un’etica ragione d’essere non tanto perché affermano nominalisticamente e tronfiamente queste credenze, quanto e
soprattutto, se divengono delle guidelines, con specifici organismi di audit a ciò pertinenti, atte a implementare comportamenti degli attori dell’impresa coerenti
con tali affermate credenze, ossia coerenti con la capacità di ciascheduno di essi di assumersi la responsabilità personale di rispondere ai quotidiani dilemmi morali dell’agire secondo le sopracitate guidelines. E questo è possibile soltanto interiorizzandole, ossia trasfor-
«Carte dei
Valori» e
principi
consensualmente
convalidati
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mandole in elementi costitutivi del mondo simbolico e
del Sé delle persone e della persona che operano nell’impresa.
Si accenna qui soltanto a tale questione di fondamentale importanza, che dipende dal grado con cui i
vertici delle imprese si identificano in quei generali
principi
E in essi, piuttosto che in logiche di potere e di opportunismo, trovano il fondamento del loro operare e
quindi del costituire l’impresa come associazione di
persone morali.
Risorse
personali
nell’odierna
sfida
competitiva
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Sfida alta e difficile, ma che, per la centralità che
assumono le risorse professionali e motivazionali delle
persone nell’odierna sfida competitiva, è l’unica strada percorribile per affermare uno stile di leadership
trasformazionale, ossia che si fondi sulla motivazione
dei soggetti, sulla lealtà e sull’affidabilità. Insomma,
sull’autorità e quindi sulla legittimazione nell’impresa
e quindi dell’impresa nei confronti degli ambienti di
mercato e non di mercato (le società civili e le società
politiche).
Molti studi compiuti in proposito – e la mia personale esperienza di lavoro nelle imprese – confermano
le tesi secondo le quali l’implementazione di tali generali principi rafforzi l’operare per la realizzazione di
competitive performance di successo, riproducendo
nelle grandi organizzazioni «atmosfere marshalliane»
tipiche delle piccole dimensioni e quindi coniugando
la sfida per la globalizzazione con la sfida per la flessibilità e l’adattabilità creativa e proattiva.
E questo è il vero compito che una direzione manageriale all’altezza dei tempi oggi deve assolvere.
Nella gestione dell’impresa ciò implica portare a
coerenza processi di formazione delle persone con processi di operatività che suscitino esemplari emulazioni
e identificazioni nel lavoro e per il lavoro nell’impresa
e altresì implica portare alla coerenza e alla coesione
l’impegno per la cittadinanza nell’impresa con quello
della legittimità dell’impresa nelle società civili in cui
si opera.
Legittimità che implica sempre – e su questo non
debbono esistere dubbi o debolezze – l’autonomia del-
l’impresa dalle società medesime e il suo intendersi non
parte dipendente di esse, ma attore attivo in esse, sovraregolato dalle proprie credenze, ossia dai propri
principi (i General Business Principles, appunto), che
mirano a migliorare quelle società nelle sfere dei diritti
personali, delle cittadinanze civili e sociali e quindi nelle
opportunità che così si creano per l’impresa di poter
agire sempre più agevolmente in vista del profitto.
Ciò significa agire e contribuire alla creazione delle
possibilità di agire in ambienti sempre meno imperfetti sul piano competitivo, se sono di mercato, e sempre
più civilizzati, pervasi dalle leggi, dalla fiducia e dal
benessere, se sono di non mercato. Ma ciò può perseguirsi solo sfuggendo a ogni forma di integrazione nella società sociologicamente intesa, integrazione che può
essere foriera di perdite dell’integrità istituzionale prima richiamata.
Generalmente, infatti, questo volersi assumersi responsabilità «sociali», quando non è stato coniugato
con la rivendicazione dell’integrità istituzionale dell’impresa, ha tracimato nella perdita dell’autonomia e dell’istituzionalizzazione dell’impresa medesima, tradendone nella sostanza i fini a essa affidati secolarmente
nella divisione e differenziazione del lavoro sociale,
gravandola di oneri impropri.
È ciò che è possibile evitare solo trascendendo i
pericoli di immedesimazione subalterna con le società
civili e i sistemi politici. Ed è possibile farlo solo elaborando e implementando una propria e automa strategia di ciò che oggi si usa chiamare corporate giving e
che si muova nelle guidelines, che assicurano la coerenza del tutto
È possibile far ciò solo elaborando e implementando una logica di formazione e di sostegno delle persone
nell’impresa tale da incentivare con ogni etico strumento
l’autoresponsabilità, l’affidabilità, la crescita professionale e manageriale.
Nella sostanza: fondando l’impresa sulla crescita
del patrimonio di risorse morali e sulle competenze che
è possibile costruire grazie al riconoscimento equo,
meritocratico, trasparente dei valori e delle competenze delle persone.
Il rischio
della perdita
dell’autonomia
dell’impresa
267
Elemento essenziale di questa azione manageriale
dai profondi valori umanistici e liberatori («l’impresa
come libertà dei moderni») è la convinzione che la civilizzazione della società civile è una precondizione di
successo e di coerenza etica dell’agire d’impresa e che
quindi può essere obbiettivo dell’impresa medesima
contribuire a quella civilizzazione.
L’impresa contribuisce al processo di civilizzazione
Organizzazioni del sistema sociale non solo attraverso le sue perfornon profit mance improntate alla trasparenza e all’implementae sistemi
zione dei valori guida eticamente intesi.
di solidarietà
Essa può scegliere di fornire un contributo ulteriore a tale processo creando specifici attori operanti tanto sui mercati quanto nei sistemi di solidarietà: ossia
organizzazioni non profit che si avvalgono delle capabilities gestionali che sono proprie dell’impresa medesima e che costituiscono capitali sociali fortemente
idiosincratici nel mondo del non profit.
L’organizzazione non profit si distingue da tutte le
altre per il suo essere attore della giustizia distributiva
e commutativa nella logica del dono.
La giustizia distributiva è quella che presiede alla
distribuzione di beni e risorse comuni secondo il contributo che ciascuno ha apportato alla produzione di
quei beni e di quelle risorse e si definisce, quindi, in
rapporto ai meriti delle persone che di questa giustizia
sono oggetto.
La giustizia commutativa è «correttiva», è fondata
sui meriti e su una logica equitativa, diretta a pareggiare
gli svantaggi e i vantaggi in tutti i rapporti che si realizzano tra le persone socialmente attive nelle comunità.
È indubbio che le fondazioni d’impresa possono
agire sia diffondendo la prima forma di giustizia, sia la
seconda: la prima ha una funzione assai rilevante per
incrementare i fattori di autosviluppo presenti nella
società, diffondendo una cultura dei doveri e della responsabilità; la seconda ha una funzione caritativa e
benevolente, che non sostiene l’autosviluppo, ma mira
a diffondere l’amore e la pietà.
Il rapporto tra «giustizie» è essenziale per il buon
operare delle fondazioni di origine imprenditoriale, ossia
quelle che con l’impresa continuano a mantenere un
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rapporto significativo, che si definisce in base alla cultura dell’impresa medesima.
Le fondazioni che traggono origine da una scelta
imprenditoriale non sono destinate a definirsi grazie
alla devoluzione di un fondo patrimoniale che sarà, in
seguito, compito della sola organizzazione non profit
incrementare, ma vivono altresì della creazione del
valore che l’impresa in ogni suo momento genera.
La creazione di attori orientati al non profit generatori di giustizia distributiva e commutativa diventa
quindi possibile grazie alle nuove risorse a cui essi possono attingere dalle forme di generazione di valore frutto delle performance delle imprese.
Il ruolo a cui adempiono queste tipiche forme di
fondazioni d’impresa è duplice. Da un lato, la creazione di meccanismi di identità e di appartenenza del people dell’impresa, dall’altro, la riformulazione di legami sociali in un mondo che, mentre crea e disintermedia valore, può mettere in pericolo le stesse morali di
sostegno al mercato
Se il mercato della old economy non poteva vivere
senza morale di sostegno, che era quella dell’affidabilità
dei contraenti e dei limiti antropologici alla legge dello
scambio posti dalla reiterazione della storia delle società
civilizzate, tanto più oggi il mercato della new economy
non può vivere senza una nuova morale di sostegno.
Qui sta, potenzialmente, il ruolo universalistico delle
fondazioni d’impresa, che debbono oggi divenire le più
attive sostenitrici dello sviluppo sostenibile, inteso antropologicamente come critica relazione positiva tra
risorse economiche e culturali e popolazione.
Nel mondo che si avvia rapidamente verso la globalizzazione la società civile è tutta incentrata sulla
straordinaria vitalità del finito
La distribuzione di capacità personali, di competenze professionali, di razionalità limitate e di masse di
energia affettiva, si distribuiscono, proprio per questo,
in forme profondamente diseguali: l’ambiguità e la
convivenza di diverse logiche dell’azione sono le caratteristiche spiccate, unitamente al ruolo essenziale e
determinante delle grandi corporations, delle società
globalizzate.
Una morale
di sostegno
per la
new economy
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Come si intravede, il ruolo delle fondazioni d’impresa s’inserisce in un generale processo di mobilitazione collettiva e di «destualizzazione piramidale» dell’essere sociale: mobilitazione comunitaria e istituzionale insieme, molecolare e aggregata insieme, di forze
dirette a equilibrare la disintermediazione individualistica dell’economia digitale.
Di qui la rilevanza storico-generale della loro funzione, nella nuova divisione sociale del lavoro che emerge, tanto su scala globale quanto su scala locale, dall’economia digitale planetaria.
Il compito delle fondazioni d’impresa è di essere
co-protagoniste del rinnovamento continuo di una cultura degli stakeholders che si affianchi a quella degli
shareholders in forma virtuosa e non confliggente con
i bisogni di orientamento proattivo che gli attori profit
debbono continuamente manifestare per far fronte alle
sfide della competizione
Questo è possibile interpenetrando alla cultura della
redditività a breve una cultura della redditività prospettica, ossia di medio e lungo termine, che non sia,
tuttavia, di ostacolo alla flessibilità sempre più necessaria nella new economy.
In questo senso tanto la giustizia distributiva quanto
quella commutativa non confliggono con una globalizzazione impetuosa e il non profit non si trasforma in
orpello o in ostacolo del profit, quanto, invece, contribuisce all’umanizzazione e alla via via sempre più equitativa realizzazione di un «capitalismo temperato».
«Temperato» sempre più dalla difesa della persona
e dei suoi giusnaturalistici valori, che ne fanno un patrimonio universale e non mercificabile.
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