«TUTTI ALL`OPERA » Un viaggio nel melodramma italiano

«TUTTI
TUTTI ALL’OPERA»
ALL’OPERA
Un viaggio nel melodramma italiano
I motivi e la genesi della rassegna
E' il 27 settembre 1891 quando il sipario del teatro Sociale di Busto Arsizio si alza per la sua prima
volta. Sul palco salgono la soprano Bianca Montesini, il baritono Sante Athos, il mezzosoprano Elvira
Ercoli, sotto la direzione del maestro Giulio Buzenac. Nella platea e tra i palchetti, ormai ricordo di un
antico passato, si diffondono le note del melodramma «La forza del destino», su musica di Giuseppe
Verdi e con libretto di Francesco Maria Piave. Ha inizio così la lunga storia dell'opera lirica nella sala che
l’architetto milanese Achille Sfondrini, già autore del Carcano di Milano e del Costanzi di Roma,
progetta su modello di uno dei templi internazionali della musica: il teatro alla Scala di Milano.
Dal 1891 fino agli anni Cinquanta, con alterne vicende, il Sociale ospita alcuni tra i titoli più in voga del
repertorio, da «Don Pasquale» di Gaetano Donizetti a «La Boheme» di Giacomo Puccini, da «Il barbiere
di Siviglia» di Gioacchino Rossini alla «Carmen» di Georges Bizet, senza dimenticare «Cavalleria
rusticana» di Pietro Mascagni, «Norma» di Vincenzo Bellini e «Pagliacci» di Ruggero Leoncavallo. Tra
gli interpreti di cui le cronache locali serbano memoria ci sono: Emma Carelli, caposcuola dei soprani
veristi e compagna di palcoscenico dei tenori Francesco Tamagno e Enrico Caruso; il baritono Carlo
Tagliabue, grande specialista del teatro verdiano; la soprano Toti Dal Monte, celebrata per la sua
bravura persino da una poesia di Andrea Zanzotto, un’esordiente Lucy Kelston e il fagnanese Renzo
Pigni, entrambi destinati a importanti successi su prestigiosi palcoscenici internazionali.
Gli anni Cinquanta vedono il boom dell’industria cinematografica; mentre per l’opera lirica sembra
esserci solo il teatro alla Scala di Milano, dove si litiga per Maria Callas e Renata Tebaldi, per Giuseppe
Di Stefano e Mario Del Monaco. Il Sociale converte l’intera sua struttura al nuovo business con un
importante restauro, disattento (così come era uso in quegli anni) alle preesistenze e alla storia del
luogo. Mario Cavallè, il firmatario del progetto, sostituisce i palchetti con una balconata, sventra l’antico
salone delle feste (l'attuale ridotto «Luigi Pirandello») per far posto alla cabina di proiezione, copre la
volta affrescata con allegorie musicali, raffiguranti donne e angeli danzanti tra note e pentagrammi, per
migliorare l’acustica della sala.
Di opera lirica si torna a parlare solo nel 1963, in occasione del centenario di elevazione di Busto Arsizio
a città: l’amministrazione comunale organizza una «stagione non più che dignitosa», ricorda Giuseppe
Paciarotti nel volume «Del teatro.150 anni di vita teatrale a Busto Arsizio». «Tosca» di Giacomo Puccini,
«Rigoletto» di Giuseppe Verdi, «Cavalleria rusticana» di Pietro Mascagni e «Pagliacci» di Ruggero
Leoncavallo sono i quattro titoli che animano la sala nel novembre di quell’anno. Da allora e per tutta la
seconda parte del Novecento, il cartellone del Sociale registra pochi appuntamenti con l’opera lirica,
prevalentemente recital. Tra questi va ricordato il concerto del novembre 1984, organizzato in occasione
di un convegno di studi su Alessandro Manzoni, che vede salire sul palco la soprano Annamaria
Pizzoli, in una delle rare esibizioni nella sua città natale.
Il teatro Sociale Srl, piazza Plebiscito 8 – 21052 Busto Arsizio (Varese), tel. 0331679000, fax. 0331 637289,
[email protected]. Sito web: www.teatrosociale.it. P.IVA 02230520120, C.F. 10805250155.
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Nel 2004 Delia Cajelli, direttore artistico del teatro bustese, viene coinvolta nella regia di un
melodramma: «L’aurora di Gerusalemme» del contemporaneo Andrea Arnaboldi, ispirata al poema
epico-religioso «La Gerusalemme liberata» di Torquato Tasso. Da questa esperienza nasce la volontà di
ritornare a proporre opere liriche complete (cioè con coro, orchestra e cantanti) negli spazi fatti
costruire dai conti Giulio e Carolina Durini proprio per soddisfare la propria passione per il «Belcanto».
Nel 2008 vengono proposti due capolavori del repertorio verdiano: «La traviata» (aprile 2008), con la
direzione del maestro Pierangelo Gelmini, e «Il trovatore» (dicembre 2008), per la regia del tenore
Antonio Signorello.
Della stagione seguente è l’incontro con il Teatro dell’Opera di Milano, diretto da Mario Riccardo
Migliara, giovane compagnia che ha tra i propri obiettivi la rilettura in chiave moderna dei grandi titoli
del repertorio e il «decentramento della cultura lirica» in realtà provinciali e in teatri non
espressamente nati per l’opera. Sul palco salgono «La traviata» (novembre 2009) e «Il barbiere di
Siviglia» (febbraio 2010), allestimenti entrambi molto apprezzati dal pubblico del Sociale.
Forte di questo risultato positivo, la sala di piazza Plebiscito propone, per «Una Storia, tante storie»
(stagione 2010/’11) e all’interno del cartellone cittadino «BA Teatro», la mini-rassegna «Tutti
all’opera», nella quale verranno rappresentati tre grandi capolavori del melodramma internazionale,
sempre negli inediti e innovativi allestimenti del Teatro dell'Opera di Milano, formazione ormai
attestatasi come – dichiara Mario Riccardo Migliara- «la prima compagnia itinerante di produzione di
allestimenti completi di opera lirica in Italia», con la sua nuova tournée che proporrà cinque
spettacoli in tredici piazze differenti, tra Lombardia, Liguria, Piemonte e Svizzera, per un totale di
quaranta date.
In occasione dei centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, grande spazio verrà dato alla figura di
Giuseppe Verdi, simbolo per eccellenza del Risorgimento musicale italiano, del quale verranno
proposte, in continuità con la passata stagione, le due restanti opere della cosiddetta «trilogia popolare»:
la fosca tragedia di «cappa e spada» del melodramma «Il trovatore» (3 dicembre 2010) e «Rigoletto»
(10 marzo 2011), avvincente storia dell’eterna diatriba tra fato e volontà, nella quale si incontrano e si
scontrano sentimenti quali la passione, il tradimento, l’amore filiale e la vendetta. Mentre l’estro di
Giacomo Puccini rivivrà in palcoscenico grazie alla sua «Madama Butterfly» (18 febbraio 2011), vicenda
d’amore, dolore e lacerazione interiore, che ha per scenario l’esotico e misterioso Giappone, terra mito
della cultura europea di fin de siècle, soprattutto dei salotti borghesi e degli ambienti artistici.
«In ogni nostra produzione -spiega Mario Riccardo Migliara- si parte da un mix di elaborazione
intellettuale e punto di vista del pubblico, e viene sviluppato un tema, concentrandosi sull’efficacia
comunicativa del melodramma, riportando l’unico genere veramente popolare al cospetto di ogni platea.
E’ così che in «Trovatore» si gioca sull’evocazione del maligno, in «Madama Butterfly» sull’ikebana e
sull’illusione, in «Rigoletto» sui Tarocchi». «Le scenografie come i costumi e l’attrezzeria –prosegue il
regista- vengono realizzate nel laboratorio di Teatro dell’Opera da «Arti di Scena», in un’ottica di
semplificazione formale e di pulizia del linguaggio, dalle quali emanano una forza interna che
armonizza canto, musica e regia per appagare tutti i sensi».
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«Un solido oggetto scenografico, un movimento del cantante, un’azione corale particolare, una
valutazione illuminotecnica identificativa in una scena rispetto ad un’altra –afferma ancora l’artistaconcorrono a creare la poesia di un’opera».
Il concetto di «Gesamtkunstwerk» (opera d'arte totale), di wagneriana memoria, si fa, dunque, realtà
sul palcoscenico bustese grazie all’estro creativo di Mario Riccardo Migliara, un regista ed operatore
culturale mosso da un grande, grandissimo sogno: quello di portare la lirica ovunque, anche «a costo di
attraversare la giungla amazzonica per il bene della musica». Un po’ come Brian Sweeny Fitzgerald,
ovvero il Fitzcarraldo del regista Werner Herzog, l’uomo che vagheggiò di costruire un teatro d’opera nel
cuore della foresta peruviana, per farvi esibire i suoi cantanti preferiti. D’altronde, lo diceva Shakespeare,
«siamo fatti della stessa sostanza dei sogni».
Il cartellone
venerdì 3 dicembre 2010 - ore 21.00
IL TROVATORE
melodramma in quattro atti da «El Trobador» di Antonio García Gutiérrez
musica di Giuseppe Verdi
libretto di Salvadore Cammarano e Leone Emanuele Bardare
con il Teatro dell’Opera di Milano
con l’Orchestra filarmonica europea (direttore: Vito Lo Re)
e con la Corale lirica ambrosiana (direttore: Roberto Ardigò)
regia di Mario Riccardo Migliara
scenografia, costumi e attrezzeria: Arti di Scena
produzione: Teatro dell’Opera di Milano
opera lirica
Il destino come motore cieco di ogni esistenza umana, l'amore e la sete di vendetta quali sentimenti che
divorano la vita, e, sullo sfondo, armi, soldati, campi di battaglia e lo scoppiettio delle faville di fuochi
guizzanti: sono questi gli elementi che animano «Il trovatore», melodramma in quattro atti e otto quadri
ispirato a «El trobador», fosca tragedia di «cappa e spada» composta dallo scrittore spagnolo romantico
Antonio García Gutiérrez e andata in scena nei primi mesi del 1836.
Una quindicina di anni dopo il fortunato debutto teatrale, Giuseppe Verdi, rimasto colpito dalla trama e
dalla potenza espressiva dei personaggi, commissionò la riduzione librettistica del dramma al poeta
Salvadore Cammarano, con il quale aveva già lavorato per «Alzira», «La battaglia di Legnano» e
«Luisa Miller». Nel luglio del 1852, quattro mesi prima che il compositore emiliano ponesse mano alla
partitura dell’opera (la musica fu scritta nel novembre 1852, in poco meno di un mese, anche se sembra
che il progetto fosse già tutto nella testa del suo autore dall’inverno precedente), il poeta napoletano
morì e il suo testimone venne raccolto, anche su consiglio di Cesare De Sanctis, da Leone Emanuele
Bardare. Il giovane scrittore completò il libretto seguendo gli appunti lasciati da Salvadore Cammarano
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e, su precisa direttiva dell’operista, apportò alcune aggiunte e piccole modifiche: cambiò il metro della
canzone «Stride la vampa» (atto II, scena I), passando da due quartine di settenari a due sestine di
quinari doppi, e scrisse i versi per i cantabili «Il balen del suo sorriso» (atto II, scena III) e «D’amor
sull’ali rosee» (atto IV, scena I). Prima del debutto, lo stesso Giuseppe Verdi apportò, inoltre, delle
modifiche ai versi finali dell’opera, che abbreviò per rendere più intenso il drammatico epilogo.
La «prima» de «Il trovatore», lavoro inserito con «Rigoletto» e «La traviata» nella cosiddetta «trilogia
popolare verdiana» (quella che «toglie il ruolo di protagonista al signore per affidarlo all’umile»), si
tenne il 19 gennaio 1853 al teatro Apollo di Roma e, superando problemi di ogni tipo (una piena del
Tevere, l’elevato costo dei biglietti, i rapporti un po’ tesi fra i cantanti), incontrò immediatamente il favore
della critica e dei melomani, anche grazie a un cast di assoluto rilievo, del quale facevano il tenore Carlo
Baucardé, il soprano Rosina Penco, il mezzosoprano Emilia Goggi e il baritono Giovanni Guicciardi.
La «Gazzetta musicale» parlò del debutto come di un trionfo meritato e questo successo era destinato
ad accrescersi negli anni seguenti e a perdurare per tutto l’Ottocento, tanto è vero che il musicologo
Julian Budden, autore di una monumentale monografia dedicata al maestro di Busseto, ebbe a
scrivere: «con nessun’altra delle sue opere, neppure con il «Nabucco», Giuseppe Verdi toccò così
rapidamente il cuore del suo pubblico».
Già in occasione di questo primo importante appuntamento si parlò per «Il trovatore» di «opera rossa»:
una tinta forte e tenebrosa, magica e quasi selvaggia come quella del sangue, del fuoco e della
passione colora il melodramma verdiano, la cui storia è piena di contrasti drammatici e di intrecci difficili
da raccontare. Pur basandosi sul tradizionale triangolo tenore-soprano-baritono, il dramma ha,
infatti, una trama giocata su flashback, dei quali è protagonista la zingara Azucena, un personaggio
anticonvenzionale, tormentato e di grande potenza drammatica, parallelo a quelli del buffone Rigoletto e
della prostituta Violetta. Un personaggio, questo, al quale dà voce e corpo un mezzosoprano e che è
perno di un’allucinata azione parallela sospesa fra passato e presente.
Al centro della vicenda, ambientata nella Spagna quattrocentesca e in un’atmosfera notturna, ci sono
due fratelli, il trovatore Manrico e il conte di Luna, che non si conoscono e che si combattono. Entrambi
sono innamorati della stessa donna, la dolce e angelicata Leonora, dama della regina d’Aragona. Il
racconto della loro rivalità politica e amorosa, al quale porrà termine la morte della fanciulla contesa, si
affianca alla progressiva rivelazione di un orribile antefatto: quindici anni prima, il fratello minore del
conte era stato rapito ed ucciso da una zingara, determinata a vendicare la morte sul rogo della madre,
accusata di stregoneria. Quella zingara viene, ora, riconosciuta in Azucena, che il conte è felice di poter
incarcerare anche in odio al figlio di lei, Manrico. Ma, lentamente, emerge un’altra verità di quell’orribile
notte di vendetta: turbata da atroci visioni dell’agonia materna, per un tremendo errore, la zingara gettò
nel fuoco il proprio figlioletto anziché il bambino rapito, allevando quest’ultimo come proprio e tacendone
a tutti l’identità. Le battute finale dell’opera, nelle quali avviene il fratricidio, vedono Azucena svelare il
suo segreto al conte di Luna: «Egli era tuo fratello!», «Sei vendicata, o madre!».
«Il trovatore» accosta una grande eleganza musicale, dalla scrittura a tratti quasi schubertiana, a una
fantasia melodica straripante. Cori tripudianti dall’evidente enfasi guerresca si alternano a delicatezze
estreme.
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Indimenticabili nell'immaginario collettivo restano arie come «Tacea la notte placida», «D'amor sull'ali
rosee», il «Coro delle incudini» e la cabaletta «Di quella pira l'orrendo foco», motivo di eroica risolutezza
con cui Manrico chiude il terzo atto e che è diventato famoso per quei do di petto finali, non presenti
nella partitura originale verdiana e la cui aggiunta si deve, probabilmente, a Carlo Baucardé o ad Enrico
Tamberlick. Tutto questo ha concorso a far definire dalla critica «Il trovatore» come l’opera più
melodicamente bella, coinvolgente e ricca dell’intera trilogia; di notevole interesse per gli esperti del
settore è, poi, anche la figura di Manrico, ultimo grande esempio di tenore eroico e lirico allo stesso
tempo.
L’allestimento del Teatro dell’Opera di Milano -nell’ideazione scenica di Mario Riccardo Migliara, che
già si era cimentato con questo lavoro verdiano nel 2007, in occasione della manifestazione milanese
«Lirica al Castello»- si incentra sul concetto di male e di demoniaco, dando voce a questi sentimenti
attraverso l’immagine di un’eclissi di luna e l’uso di strumenti di tortura e di un trono incastonato in
un simbolico abisso per l’ambientazione scenica.
Ingresso: posto unico € 32,00; ridotto € 22,00; abbonamento «Tutti all’Opera» € 60,00
venerdì 18 febbraio 2011 – ore 21.00
MADAMA BUTTERFLY
tragedia in tre atti dall’omonimo tragedia di David Belasco
e dall’omonimo racconto di John Luther Long
musica di Giacomo Puccini / libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
regia di Mario Riccardo Migliara
con il Teatro dell’Opera di Milano
con l’Orchestra filarmonica europea (direttore: Claudio Vadagnini)
e con la Corale lirica ambrosiana (direttore: Roberto Ardigò)
scenografia, costumi e attrezzeria: Arti di Scena
produzione: Teatro dell’Opera di Milano
opera lirica
«Caro nostro e grande Maestro, / la farfallina volerà: / ha l’ali sparse di polvere, / con qualche goccia qua
e là, /gocce di sangue, gocce di pianto./ Vola, vola, farfallina, /a cui piangeva tanto il cuore; / e hai fatto
piangere il tuo cantore […]». Così il poeta Giovanni Pascoli, in una cartolina del febbraio 1904,
consolava l'amico Giacomo Puccini dell'iniziale fiasco di «Madama Butterfly», tragedia giapponese, su
libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, tratta dall’omonimo testo teatrale di David Belasco, a sua
volta ispirato a un breve racconto di John Luther Long.
La prima dell'opera, tenutasi il 17 febbraio 1904 al teatro alla Scala di Milano, fu, infatti, accolta con
«grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate». A trascinarla nel suo infausto esordio fu un’infelice
trovata dell'editore Tito Ricordi, che volle «colorire il quadro con maggior suggestione» aggiungendo
«al cinguettìo della scena» la risposta di «altri stormi dal loggione», dove erano disseminati «con
appositi fischietti intonati musicalmente, alcuni impiegati». Al rivale Sonzogno e agli schiamazzatori non
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parve vero poterne approfittare: fu, per usare le parole dello stesso Puccini all'amico Camillo Bondi, un
«vero linciaggio», un'«orrenda orgia».
Il compositore lucchese, tramortito dal fiasco, ma fiducioso nella sua creazione, decise di apportare delle
sostanziali modifiche al lavoro, operando una serie di tagli radicali al primo atto e suddividendo il
secondo in due parti. Fu la strada giusta: la ripresa del componimento pucciniano, tenutasi il 28 maggio
1904 al teatro Grande di Brescia, ottenne una vistosa conferma, un successo che fu rinsaldato dalle
repliche al Covent Garden di Londra e al Théâtre National de l'Opéra-Comique di Parigi. Un successo
che, da allora, non è mai venuto meno. Prova ne è il fatto che quest’opera raffinata ed esotica, la cui
composizione risale al periodo compreso tra l’estate del 1901 e il dicembre 1903 e che fu oggetto di
svariati rimaneggiamenti fino all’edizione a stampa del 1907, ha conquistato il rango di «grande
classico» del teatro musicale.
«Madama Butterfly» è una storia di amore, dolore e lacerazione interiore, ambientata in una cornice
esotica e misteriosa, tanto in voga nella cultura europea di fin de siècle, soprattutto nei salotti borghesi
e negli ambienti artistici. Basti pensare che l’esotismo aveva fornito lo sfondo, nel campo della lirica, a
molte opere coeve, da «I pescatori di perle» di Georges Bizet a «L’africana» di Giacomo Meyerbeer, fino
a «Iris» di Pietro Mascagni.
Ma il capolavoro pucciniano è anche un atto di condanna contro la violenza ottusa e barbarica della
cosiddetta civiltà occidentale, contro la sua superficialità e il suo infondato senso di superiorità:
Pinkerton, ufficiale della marina degli Stati Uniti, sbarca a Nagasaki e, incuriosito dalle usanze locali, si
unisce in matrimonio con una geisha, Cio-Cio-San, ripudiandola, però, dopo un mese per tornare in
patria. La donna, forte della sua passione e dall’imminente maternità, continua ad aspettare
spasmodicamente l’amato, sicura del rientro. Ma l’epilogo è tragico: l’uomo torna con una nuova moglie,
per riprendersi il figlio avuto dal suo matrimonio nipponico. Disillusa per il disonore subito, Butterfly
decide di suicidarsi, senza sapere mai del tardivo pentimento di Pirketon.
Di grande rilievo è lo stile musicale dell’opera, che non evita contaminazioni linguistiche delle più ardite:
accanto al richiamo a modelli musicali orientaleggianti, che prendono sostanza soprattutto nel
frequente ricorso alla scala pentafona, confluiscono elementi della tradizione occidentale colta (il
fugato, gli echi wagneriani, le reminiscenze di opere come «Bohème» e «Tosca», ma anche la scala per
toni interi e altri modalismi orientaleggianti derivati dalla musica russa) e di quella d’uso (l’inno della
marina statunitense, oggi inno nazionale americano). Tra le arie entrate nell’immaginario collettivo, la
romanza «Un bel dì vedremo» del secondo atto.
L’allestimento del Teatro dell’Opera di Milano rilegge «Madama Butterfly» attraverso l'antica arte
dell'Ikebana, la tecnica di disporre i fiori recisi mettendo in scena sentimenti ed emozioni. Proiezioni di
composizioni floreali, «immagini che hanno -afferma Mario Riccardo Migliara- la fragilità di un pizzo e
l’inconsistenza di una relazione amorosa nel suo perenne mutarsi legato al desiderio», ruotano nella
piccola casa di Cio-Cio-San. «La chiave di lettura dell’opera –racconta ancora il regista- è l’illusione
ottica creata da alcuni teatrini roteanti, realizzati da me con l’artista Elena Busisi, che riprodurranno in
scena un gioco di ombre».
«L’inizio di «Madama Butterfly» -conclude Migliara- sarà deflagrante: due vie parallele costellate di
cartelli a led con la scritta «Aperto» porteranno lo spettatore in un mondo maledetto ove il mercimonio
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carnale si rende evidente nell’immediato. Potremmo essere nel fassbinderiano «Querelle de Brest» o in
un quartiere rosso di una città dell’Oriente o più semplicemente fuori da un centro massaggi cinese, tra
le vie di Milano». Un espediente, questo, per far capire ciò che realmente è la storia di Cio-Cio-San: un
caso di turismo sessuale d’antan, con annessi e connessi.
Ingresso: posto unico € 32,00; ridotto € 22,00; abbonamento «Tutti all’Opera» € 60,00
giovedì 10 marzo 2011 – ore 21.00
RIGOLETTO
melodramma in tre atti da «Le Roi s'amuse» di Victor Hugo
musica di Giuseppe Verdi / libretto di Francesco Maria Piave
con il Teatro dell’Opera di Milano
con l’Orchestra filarmonica europea (direttore: Francesco Attardi)
e con la Corale lirica ambrosiana (direttore: Roberto Ardigò)
regia di Mario Riccardo Migliara
scenografia, costumi e attrezzeria: Arti di Scena
produzione: Teatro dell’Opera di Milano
opera lirica
«E’ il più gran soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. [...] E’ creazione degna di
Shakespeare!! [...]». Così Giuseppe Verdi, in una lettera del 25 aprile 1850 indirizzata al librettista
Francesco Maria Piave, descriveva «Le Roi s’amuse» («Il re si diverte») del drammaturgo e poeta Victor
Hugo. L’opera, convincente affresco delle dissolutezze che animavano la corte francese e del
libertinaggio di Francesco I, fece da motivo ispirato al melodramma «Rigoletto», andato in scena per la
prima volta l’11 marzo 1851 al teatro La Fenice di Venezia.
Prima del debutto, il capolavoro del compositore emiliano -avvincente storia dell’eterna diatriba tra fato
e volontà- fu oggetto d’attenzione da parte della censura dell'Imperial Regio Governo asburgico, che
non accettava l’attribuzione di un ruolo negativo a un sovrano e che riteneva il soggetto di «ributtante
immoralità ed oscena trivialità». Giuseppe Verdi optò per qualche compromesso, spostando
l’ambientazione dalle rive della Senna a quelle del Mincio, trasformando il re di Francia nel duca di
Mantova (con un richiamo, forse intenzionale, alla figura dello spregiudicato Vincenzo Gonzaga) e
cambiando l’originale titolo del componimento, «La maledizione», in «Rigoletto».
Passione, tradimento, amore filiale e vendetta sono i temi che innervano quest’opera, accolta con
calore dal pubblico sin dalla sua prima rappresentazione: Rigoletto, deforme e pungente buffone alla
corte rinascimentale di Mantova, ha una figlia «segreta», Gilda, che tiene lontana dal mondo corrotto di
Palazzo ducale. Duro e cattivo con tutti, sempre pronto a scherzi e vendette crudeli, l'uomo si dimostra,
invece, con la ragazza un padre tenero e premuroso. Per uno scherzo del destino, la giovane diventa
oggetto delle attenzioni del duca di Mantova, libertino impenitente. Nel frattempo, le reazioni dei
cortigiani alle malefatte del buffone daranno il via a una serie di delitti: Gilda sarà rapita e violata dal
nobiluomo; Rigoletto, per vendicare l'offesa, pagherà Sparafucile, un bandito, perché uccida il suo
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padrone, ma a morire, per mano del sicario sarà l'amata figlia. Musicalmente, il dramma verdiano
dimostra una perfetta combinazione di ricchezza melodica e potenza drammatica, come ben
documentano le due arie più celebri: «La donna è mobile» e «Cortigiani, vil razza dannata», con la quale
viene sancita la nascita di una nuova voce per il melodramma italiano, quella “spinta” del baritono
verdiano, dal potente declamato.
L’allestimento del Teatro dell’Opera di Milano s’ispira agli studi sulla magia degli Arcani e dei
Tarocchi, con tutte le loro raffigurazioni e simbologie provenienti dal passato. «Rigoletto –spiega il
regista Mario Riccardo Migliara- s’incarna nella carta numero 0, simbolo dell’inconscio e della follia e,
come «Il Matto» dei Tarocchi, cammina con un fardello leggero e non utilizza l’esperienza. Il principe è
«Il Diavolo», la carta numero 15, con tutta la sua capacità di sedurre e di trasformare la materia a suo
favore. Gilda è rappresentata dalla carta numero 6, quella de «Gli innamorati», dove la passione e il
sentimento predominano su tutto».
«Gli arcani maggiori –racconta ancora il regista- non solo sono dentro inconsapevolmente ai personaggi
dell’opera, ma sono anche fatale scenografia delle azioni sceniche, spada di Damocle pendente sulla
testa dei personaggi e del pubblico che, con mistero, guarda il finale, dove il Trionfo della morte è
illuminato insieme a Rigoletto, pazzo di dolore».
Ingresso: posto unico € 32,00; ridotto € 22,00; abbonamento «Tutti all’Opera» € 60,00
DATI TECNICI
Posti in sala
658 (platea: 425, galleria: 233)
Biglietti
posto unico € 32,00; ridotto € 22,00
Abbonamenti
«Tutti all’opera» (tre opere liriche, ossia «Il trovatore» di Giuseppe Verdi, «Madama Butterfly» di
Giacomo Puccini, «Il Rigoletto» di Giuseppe Verdi ): € 60,00
Riduzioni previste
giovani fino ai 21 anni; ultra 65enni; militari; Cral, biblioteche, dopolavoro e associazioni con minimo
dieci persone
Prevendita
Il botteghino del teatro Sociale, ubicato presso gli uffici del primo piano (ingresso da piazza Plebiscito,
8), è aperto nelle giornate di mercoledì e venerdì, dalle 16.00 alle 18.00, e il sabato, dalle 10.00 alle
12.00.
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E’ possibile prenotare telefonicamente, al numero 0331.679000, tutti i giorni feriali, secondo il seguente
orario: dal lunedì al venerdì, dalle 16.00 alle 18.00; il sabato dalle 10.00 alle 12.00.
Informazioni
Informazioni al pubblico: Teatro Sociale, piazza Plebiscito 8, 21052 Busto Arsizio (Varese), tel.
0331.679000, fax. 0331 637289, [email protected], www.teatrosociale.it.
Sito internet e Facebook
Official Website: www.teatrosociale.it;
Fanpage su Facebook: http://www.facebook.com/pages/Busto-Arsizio-Italy/Teatro-Sociale-di-BustoArsizio/120959544605486;
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Il teatro Sociale Srl, piazza Plebiscito 8 – 21052 Busto Arsizio (Varese), tel. 0331679000, fax. 0331 637289,
[email protected]. Sito web: www.teatrosociale.it. P.IVA 02230520120, C.F. 10805250155.
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