Parole e Cose

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Parole e Cose. Alle origini del pensiero occidentale.
Conversazione di Massimo Pistone
Chairman Ing. Pasquale Russo
Roma 7 novembre 2012, presso la sede dell’Università in via Nomentana 335
Sala biblioteca “Francesco Cossiga e Guido De Marco”
Parole e Cose. Alle origini del pensiero occidentale.
La parola “casa” non è fatta di mattoni, non ci puoi entrare dentro.
La parola “cane” non abbaia e non scodinzola.
La parola, insomma, non è la cosa.
Si potrebbe obiettare: Sì, va bene, però la parola indica la cosa.
Ora, se questa ci sembra una frase di buon senso, la parola indica la cosa,
cerchiamo di rispondere ad alcune domande:
1. Se la parola indica la cosa, quale cosa indica la parola “Proposizione”? e
“Odio”? e “Noia”? e “Analitico”? e “Dolore”? e “Deduzione”? e “Psicologia”? e
“Amore”? e “Quando”? e “Scienza”? e “Trecentouno”? e “Filosofia” e “Abduzione”
e via e via per la gran parte dei termini, come ci mostra un esame del vocabolario?
Dove sta la cosa, qui?
2. Se la parola indica la cosa, Giulio Cesare ad esempio, il significato della parola
è quella cosa in carne e ossa? E se la cosa si distrugge, scompare, muore nel 44
a.C., allora anche il significato muore e la parola non ha più significato, scompare,
non puoi usarla più?
3. Se la parola indica la cosa, infine, la mamma pronuncia la parola “gatto” e
indica con il dito, ostensivamente, un gatto; il bambino non sa ancora, però, che
fare di questa parola. Come può o deve usarla? Non impara l’uso della parola
guardando il gatto, per il semplice motivo che, in quel meccanismo di
corrispondenza uno a uno, una parola - una cosa, che non è linguaggio, mancano
e mancheranno sempre i legami, le regole logiche, diciamo le regole di uso della
lingua. Così il bimbo può mangiare il gatto o usarlo per togliere la polvere?
Insomma, siamo in un gran guazzabuglio, in una grande confusione.
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Può sembrare strano, ma proprio da qui nasce il pensiero occidentale.
Proprio da questa distinzione, da questa frattura tra parola e cosa, tra frase e fatto,
tra linguaggio e mondo.
Questo problema appare all’improvviso, nel V secolo ac, nel pensiero dei filosofi di
Elea, che influenzano anche, per vie diverse, quelli di Abdera ed i siciliani. Questa
città, Elea, oggi si chiama Ascea, ed è in provincia di Salerno; è stata fondata dai
Focei, una popolazione greca di origine Ionica, che era stanziata nell’attuale costa
occidentale della Turchia.
Credo che questa storia valga la pena raccontarla.
Nel 545 a.C. l’esercito persiano di Ciro il Grande, guidato da Arpago, sfonda le
linee greche e avanza impetuoso in Asia Minore. Le città greche che sono in
quella terra si arrendono o vengono sconfitte e conquistate. Tutte. Meno due.
Solo due di queste città – ci riferisce Erodoto – Focea e Theo, indicono
l’assemblea, discutono e votano di andarsene, tutti, armi e bagagli, perché per
quelle popolazioni era insopportabile essere sottoposte alla tirannide persiana. I
Thei fondano Abdera, in Tracia, e i Focei fondano Massalia (Marseille), due città in
Spagna, Alalia in Corsica e poi Elea (Velia), in Campania.
Perché vale la pena raccontare tutto questo?
Perché proprio da queste due città, Abdera ed Elea, dove più forte e assoluto era
stato, nei fondatori, il rifiuto del tiranno orientale, nasce la grande filosofìa
precedente a Socrate, che è alla base di tutta la nostra civiltà.
Ad Abdera nasce e guida la città Democrito, fondatore dell’atomismo, che ha
detto, nel v secolo a.C, che tutta la realtà è composta di atomi e vuoto e lì vive il
suo allievo Protagora, uno dei fondatori della sofistica, assieme a Gorgia di
Leontini, il siciliano.
A Elea è Parmenide, forse allievo di Senofane e teoreticamente legato ad
Anassimandro, a guidare la città e dopo di lui il suo pupillo Zenone.
“ Zenone ha enunciato una posizione finale della filosofia; tuttavia nella storia della
filosofia si trova all’inizio” (G. Colli – Zenone di Elea - 1998)
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Joseph Mazur, in Achille e la tartaruga (Il Saggiatore, Milano, 2009), ci dice che
2500 anni sono passati da quando Zenone di Elea propose i suoi paradossi, con
cui ci pone la domanda: la realtà spazio-temporale è continua o discreta?
Nessuno ha risposto efficacemente e, sostiene Mazur, anche nelle fantasiose
congetture delle stringhe, che ipotizzano di conciliare relatività e teorie
quantistiche, Zenone si presenta ancora e ancora dispiega vittoriosamente la sua
crudeltà.
Zenone di Elea, con i suoi paradossi sul moto, non vuole dimostrare che il moto
non esiste o che io non raggiungerò mai il traguardo, sa benissimo che il moto
esiste e che il traguardo si raggiunge e anche che Achille raggiunge la tartaruga.
Ci mostra invece, in modo inequivocabile, che tra il nostro dire, il nostro pensare, e
la realtà, esiste un baratro, essi non hanno uguale natura. E questo appunto non è
stato ancora smentito, come testimoniano anche Gabriele Lolli e Giorgio Colli.
Protagora, nel suo libro, cui fu dato poi il titolo La verità o su ciò che è e come
sottotitolo Discorsi sovvertitori o Discorsi demolitori (il frammento è riportato dallo
storico Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, ix, 50 e sgg., e da Sesto Empirico, Contro
i matematici, vii, 60) dice testualmente: «Ognuno di noi è la misura di tutte le cose,
dell’essere di quelle che sono e del non essere di quelle che non sono. Le cose
sono esattamente così come ci appaiono. Ciò che sembra a ciascuno è sempre
vero. Chiunque afferma, qualunque sia l’oggetto dell’affermazione, afferma il vero»
(Frammenti 1 e 2 di Protagora, con traduzione di Antonio Capizzi).
Dunque la filosofia parte grande, non inizia ponendosi domandine facili facili,
arriva subito al cuore del problema. Gorgia di Leontini, nel suo terzo argomento,
che suona, anche se possiamo conoscere qualcosa non possiamo comunicarla
agli altri, dimostra questa tesi dicendo che le parole, con cui vorremmo
comunicare le cose che abbiamo conosciuto, non sono quelle cose, hanno diversa
natura. "Se invece fu la parola a persuadere e ingannare la mente, neppure sotto
questo rispetto è difficile scusarla e scioglierla dall'accusa. Nel modo seguente: la
parola è un potente signore che, pur dotato di corpo piccolissimo e invisibile
compie le opere più divine . Essa può far cessare il timore, togliere il dolore, dare
una gioia, accrescere la compassione. Chi la ascolta è invaso da un brivido, dal
terrore, da una compassione che strappa le lacrime e da una struggente brama di
dolore” (Gorgia di Leontini - Elogio di Elena)
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Anche Parmenide, che Platone descrive come venerando e terribile assieme, fa
dire alla Dea: « Perciò tutte le cose che i mortali hanno stabilito, convinti che
fossero vere, saranno semplicemente dei nomi: il nascere e il perire, l’essere e il
non essere, il cambiare di luogo e il mutare il fulgido colore » ( Parmenide,
frammenti – Diels).
Parmenide ci dice qui che essere e non essere sono soltanto parole stabilite dai
mortali. Per Parmenide l’essere è un prodotto simbolico del nostro intelletto, un
attributo, una qualità, non una sostanza. L’essere, per Parmenide, non è uno, né
molteplice, né è uno e molteplice assieme.
“Convinti che fosse vero” ci indica come riferimento il vero, la Verità, la dea
Alètheia. A cosa fa accenno qui Parmenide? Al tutto, all’universo. La Verità è
l’universo.
Ed il divieto di Parmenide a pensare, a dire, il non essere, non essere che lui
stesso subdolamente introduce, è il perfido inganno di un intelletto agile e potente.
Parmenide addita un baratro già esplorato, attorno a cui egli saltella agile.
Il baratro non è il non essere della dialettica, diciamo la negazione di una
proposizione, che apre le porte alla logica demolitrice di Zenone e Gorgia, ma è
invece quello, profondo e insanabile, tra il mio logos, il mio discorso, il mio
pensare umano e il mondo, l’universo, la Verità. Il mondo come tutto, nella sua
natura essenziale, nella sua physis, possiamo soltanto coglierlo con il nòos, la
nostra capacità di intuizione immediata.
La via di ciò che è è la via del nòos, la via del ciò che non è è quella del pensiero
razionale, dialettico.
L’abisso si apre tra Alétheia e logos.
Parmenide accenna, non dice. Zenone e Gorgia dicono. E Protagora dice.
Se pensi, se dici il non essere, racconta Parmenide, alla fine distruggi tutto il
pensare e te lo mostrano Zenone e Gorgia, con il sorridente permesso del
maestro.
Solo così si spiega perché il libro di Zenone venisse indicato come aiuto al
maestro. Altrimenti davvero non si capirebbe che aiuto potesse essere, se davvero
ci fosse stato un Parmenide con il suo ciò che è immobile, eterna unica realtà, e
Zenone che scompiglia e scompone ogni cosa, che non si limita a distruggere la
molteplicità, ma attacca e annienta anche il ciò che è. Seguito da Gorgia.
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Insomma, questi potenti pensatori, i fondatori della nostra civiltà, ci hanno messo
in un bel guaio. Ci hanno posto sull’orlo di un abisso e ce lo hanno indicato. Ma ne
valeva la pena?
Vediamo che anche de Saussure, con l’individuazione del problema, di fronte al
quale dichiara di arrendersi, del rapporto tra Significato e suono significante, e
Derrida con la Differance/Difference e Wittgenstein con le Ricerche filosofiche e gli
scritti successivi, dedicano la loro vita a tentare di dipanare questo paradosso.
Ma non sarebbe stato opportuno accontentarsi di vivere meglio che potevamo,
senza impicciarci di questo problema, che ci appare di tanto difficile soluzione?
Può darsi.
Ma noi siamo fatti così, la nostra specie naturale è così, non ci accontentiamo e,
procurandoci molti bernoccoli nel cozzare su questo muro, abbiamo inventato la
scienza, l’arte, e l’elettricità ed i computer ed internet.
«L’uomo, usando l’arte, articolò ben presto la voce in parole e inventò case, vesti,
calzari, giacigli e il nutrimento che viene dalla terra; poi scoprì la scienza politica»,
dice Protagora di Abdera, cioè primo è il linguaggio e solo attraverso di esso
l’uomo inventa case, vesti, calzari e giacigli. L’essenza della natura, le cose,
l’essere e la divinità, noi non possiamo conoscerle, conosciamo solo i nomi, i
giudizi, le misure, che noi stessi stabiliamo su di esse. La natura ama nascondersi.
«Senza il linguaggio non possiamo influenzare gli altri uomini, non possiamo
costruire strade e macchine», dice Wittgenstein nelle Ricerche.
Dunque linguaggio, logos.
Ma perché adesso non la traduciamo, quella parola? Nella lingua greca, dal v
secolo almeno, logos sta per linguaggio, per ragione, per pensiero, per
argomento.
Quindi indica il linguaggio e il pensiero assieme. Assieme forse perché, secondo
loro, sono la stessa cosa? Sì, ragionamento e discorso sono entrambi logoi, nella
lingua greca. Appunto.
McLuhan, ad esempio, ha espresso i concetti fondamentali della scienza della
comunicazione e ci racconta che il mezzo è il messaggio.
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Aveva svolto la sua tesi di Dottorato su Logica, Retorica e Dialettica nella storia, e
lì aveva incontrato questo logos greco che era frase e pensiero assieme, appunto
il mezzo ed il messaggio.
Siamo entrati in punta di piedi nel pensiero occidentale, greco e mediterraneo per
le sue origini.
Per tentare di dipanare la matassa, partiamo da questa frase: «Ma in quale modo,
Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quali delle cose che
ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso te la trovi davanti ai piedi, come
farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, se non la conoscevi?».
«Capisco quello che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ che bel discorso eristico
proponi! l’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che
sa, né quello che non sa: quello che sa perché, conoscendolo, non ha bisogno di
cercarlo; quello che non sa, perché neppure sa che cosa cerca».
E qui poi parte Platone, non Socrate, per aggirare questa obiezione, con la teoria
dell’anàmnesi, conseguenza della trasmigrazione delle anime.
L’anima trasmigra da un corpo all’altro e quindi ricorda. Ecco perché posso
conoscere. Ma lasciamo perdere questa tesi, perché una affermazione dogmatica
non può essere dichiarata vera né falsa. Ma ne possiamo sempre mettere lì vicino
un’altra e nemmeno tu, autore della prima dichiarazione, puoi falsificare la nostra.
Ad esempio, perché non si potrebbe sostenere che è l’intervento del Grande
Ippopotamo Azzurro che ci risolve il quesito? Sarebbe credibile nello stesso modo.
E nello stesso modo inconfutabile.
Socrate, torniamo a lui, e qui dice il suo pensiero, risponde nel Fedone,
raccontando come è giunto a pensare, a elaborare il suo nuovo metodo di ricerca,
la seconda navigazione, come si muove per conoscere il mondo.
Questo era infatti il cuore dell’obiezione di Menone. Come possiamo conoscere il
mondo? Socrate racconta di essersi dedicato in gioventù allo studio della natura,
promosso dai filosofi della Ionia, i cosiddetti Fisici, Talete, Anassimandro,
Anassimene, e di aver cercato di capire le cause di tutte le cose, senza però
riuscire a trovare il bandolo della matassa. Fuoco, aria, acqua, terra, e queste
cose, da dove vengono?
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Confuso e scoraggiato, Socrate racconta di aver pensato di lasciare quegli studi,
finché un giorno non sentì parlare di Anassagora, il quale diceva che causa di tutte
le cose era una mente ordinatrice intuitiva, il nòus. Entusiasta, il giovane Socrate
si era affrettato a leggere l’opera di Anassagora, ma, per Bacco, anche quel
filosofo riduceva tutto a cause materiali, come l’aria, l’acqua, l’etere.
Secondo simili tesi, commenta Socrate, sarebbe come cercare di spiegare la mia
permanenza in carcere, dicendo che la causa sono i miei nervi e la conformazione
dei miei muscoli, invece che la mia scelta di accettare la decisione del tribunale.
Socrate non era soddisfatto, perché chiedeva «Ti ésti?», che cosa è questo?, da
dove lo ricavi?, come lo dimostri?, su cosa fondi questa tua affermazione? Si
continuava a girare in un circolo vizioso.
Socrate, a questo punto, ha paura di fare come quelli che fissano direttamente il
sole in eclissi, per vederlo bene, e rischiano di diventare ciechi. No, le cose non
possono essere cercate, conosciute direttamente, ma è necessario rifugiarsi, dice
Socrate, nei logoi, per osservare lì le immagini delle cose, degli esseri, del mondo.
Ma Socrate aggiunge: «Ma forse, in un certo senso, questa descrizione non va
bene, perché io non convengo affatto che chi spia gli esseri nei logoi, li osservi per
via di immagini, piuttosto di chi li osservi per esperienza».
Insomma Socrate non crede che chi esplora il linguaggio veda immagini del
mondo e chi si muove nell’esperienza veda le cose e il mondo direttamente,
diciamo nella loro essenza.
«Comunque, questa fu la strada che seguii e prendendo, di volta in volta, come
premessa, quel concetto che, a mio avviso, era più sicuro, tutto ciò che mi pareva
concordare con esso lo ritenevo vero, sia che si trattasse del principio di causa,
sia di altre questioni; quello che non concordava, invece, lo giudicavo falso».
Possiamo solo stabilire, di nostra iniziativa, proposizioni che ci appaiono salde,
assiomi insomma, formulare ipotesi, e le proposizioni che si accorderanno con
quelle le terremo per vere, le altre per false. Anche il principio di causa non è vero
in sé, ma valido solo se lo metto io nel sistema. Guardate che siamo nel V secolo
ac.
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Socrate sta parlando di un sistema formale, ipotetico deduttivo. Inoltre queste
ipotesi non possono essere tra loro contraddittorie, come Socrate spiega poco
prima. In questo caso cadranno quelle meno sicure, in modo che il sistema sia
coerente.
Qualche anno dopo, in modo analogo, tutto il lavoro di Chomsky parte dalla scelta
dello stile Galileiano, dalla costruzione cioè di un modello logico e matematico, la
scelta insomma di un punto di vista organizzato e non contraddittorio, astratto ed
idealizzato, per indagare e conoscere il mondo. Poincaré la vede nello stesso
modo.
Ecco come si dissolve, sembra dire Socrate, il dilemma sul cercare le cose che
non conosco. Non cerco le cose nel mondo, cerco le parole nel linguaggio.
Cerco le parole, le frasi, nel linguaggio e addirittura posso combinare le parole in
modo diverso, sempre secondo le regole del logos.
Forse potremmo dire, per uscire dal cul de sac in cui ci siamo cacciati, che il
significato non è quella cosa o quel fatto del mondo, della realtà spazio-temporale,
cui ci riferiamo, che denotiamo con la parola. E neppure la disposizione al
comportamento, qualunque cosa con questa locuzione si voglia intendere.
Ma cosa mai può essere allora questo significato?
Il significato di una parola, sia che denoti un oggetto reale, sia che indichi un
concetto, sia quando non indica nulla, è l’uso corretto della parola nei linguaggi.
Dunque non c’è necessità di alcun rapporto con fatti od oggetti reali, per
determinare quel significato.
No, il significato di “Cesare” non è quell’uomo in carne e ossa, un oggetto del
mondo, ma è l’uso della parola “Cesare”, è come noi usiamo quella parola nei
linguaggi. Il significato di una parola o di una frase è l’uso corretto di quella parola
o frase, nei linguaggi.
Corretto? In base a cosa sarà corretto o meno? In base alle regole di uso, di
composizione, presenti nei linguaggi. A nostra disposizione. Diciamo le regole
della logica. La logica sta nel logos: le proposizioni della logica sono già
incorporate nei nostri linguaggi.
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Spesso chi parla di oggetti reali del mondo, dell’ineffabile essenza di essi,
dell’esserci e dell’essere, di Sein e Dasein, dice di andare oltre il linguaggio per
afferrare le cose; ma resta lì, gira e rigira nel linguaggio, né ne esce mai.
Socrate si rifugia nei logoi e compie la prima, fondamentale svolta linguistica.
Non lo fa da solo, assieme a lui ci sono Gorgia, Wittgenstein, Zenone, Protagora,
Schlick, Guglielmo di Ockham, McLuhan, Chomsky, Parmenide e molti altri. Se
non li metto tutti in ordine cronologico è perché questo benedetto ordine è solo
uno dei tanti ordini possibili e può condurre su strade senza uscita. Chi viene
dopo, molto tempo dopo, capisce meglio di chi era venuto prima? Forse sarebbe
meglio ascoltare quello che dicono, piuttosto che chiedere quando sono nati.
La filosofia è uno sguardo sull’ovvio, su ciò che non notiamo, che ci è familiare,
che è sempre lì. Vediamo con difficoltà ciò che ha davvero importanza, l’aria che
respiriamo, il nostro camminare, il nostro linguaggio. Li diamo per scontati, sono
dei presupposti. Non nasce in noi il dubbio, non ci poniamo domande su di essi.
Un esempio. Il primo quesito teoretico, come suggerisce Socrate, suona più o
meno così: “Da dove comincio a ragionare?”
“Quali affermazioni ritengo del tutto certe, indiscutibili o, almeno, sufficientemente
solide, per poterle scegliere come base del mio pensare?” Insomma, rivolgo a me
stesso questa domanda, formulo tra me e me questo quesito: “Per pensare
correttamente, da dove parto?”.
Ma non mi sono accorto di essere partito già da un pezzo. Ho già percorso
chilometri.
Per due motivi.
1. Quella domanda, l’ho formulata in un linguaggio, in italiano. Anzi, senza
quel linguaggio, la domanda non sarebbe mai nata, non avrei potuto
formularla, non sarebbe mai esistita. Ero immerso in un linguaggio, vivevo lì
e non me ne rendevo conto. I pesci non si chiedono cosa è il mare,
nuotano. E’ un presupposto della loro vita. L’ovvio, che non notiamo.
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2. Per arrivare a formulare quella domanda, ho usato le regole per l’uso dei
linguaggi, la logica. Queste regole sono dentro il linguaggio, vi sono
incorporate e sono espresse, ovviamente, in quello stesso linguaggio. Ho
ragionato così: “ Se trovo dei concetti iniziali solidi, sicuri, su di essi potrò
costruire il mio sistema di pensiero in modo altrettanto solido. Da quei
principi arriverò ad altri concetti, usando ragionamenti rigorosi, e costruirò
un bell’edificio, ben funzionante”. Anche nella logica navigavo senza
accorgermene. L’ovvio, che non notiamo
Quando parlo di pensiero occidentale, non parlo del pensiero di tutti gli occidentali,
neppure della gran parte degli occidentali, ma semplicemente di quel pensiero
formale che nacque qui da noi, tra il v ed il III secolo a.C., e non ha, invece, alcuna
presenza nel pensiero orientale, intendendo con ciò le linee dei Veda, del Tao, di
Confucio e di Buddha. Parlo dei concetti iniziali, fondamentali del pensare
occidentale, che, come un fiume carsico, riemergono, anche dopo molto tempo,
segnando le tappe fondamentali della nostra civiltà. L’individuo con il principio di
individuazione, giustificato e fondato da Parmenide, la scienza ipotetico deduttiva
con le sue regole di corrispondenza ed un rigoroso metodo sperimentale, la
filosofia. Queste parole neppure esistono altrove.
Gorgia, Protagora, Zenone, Parmenide e Socrate, sanno che il pensiero è
infondato e parlano di parole: aprono una frattura con l’orfismo di derivazione
brahmanica, che pure ebbe tanta importanza qui da noi come mito fondante, e
parlano solo da uomini agli uomini. Nel loro discorso non entrano, se non come
prudente richiamo alla tradizione della polis, né divinità, né ordini dall’alto. Non
cercano di superare se stessi per congiungersi al tutto cosmico. No, loro lasciano
ad altri questi temi e si occupano del discorso, della ragione critica, della scienza,
della logica, del linguaggio.
E questo pensiero è libero e potente, irriverente e ironico, formale, rigoroso e
complesso.
Massimo Pistone, Link Campus University.
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