La repubblica di Weimar

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Giuseppe Barreca
La repubblica di Weimar (1918-1933)
In Germania il periodo seguito alla fine della Prima guerra mondiale fu caratterizzato da tensioni
sociali e dall’instabilità politica: il 29 ottobre 1918 a Kiel ci fu l’ammutinamento della flotta,
mentre il 9 novembre 1918 il kaiser Guglielmo II (1859-1941) abdicò e il potere passò al Consiglio
dei commissari del popolo, guidato dal socialdemocratico Friedrich Ebert (1871-1925). Nelle città
e nelle campagne, invece, il potere reale era in mano ai Consigli degli operai e dei soldati, spesso
in contrasto con la politica socialdemocratica. Infatti, l’estrema sinistra, rappresentata dalla Lega
di Spartaco e dai suoi leader Rosa Luxemburg (1870-1919) e Karl Liebknecht (1871-1919), si
ispirava alla rivoluzione russa e riteneva che anche in Germania ci fossero le condizioni politiche
per attuare un programma rivoluzionario. Questo progetto fallì a causa della repressione del
governo, durante la quale vennero utilizzati i gruppi paramilitari dei Freikorps.
Il governo Ebert firmò comunque l’armistizio l’11 novembre 1918, accettando le durissime
condizioni di pace che imponevano alla Germania la consegna degli armamenti, della flotta e il
ritiro delle truppe al di qua del Reno. Dopo queste vicende, la repubblica potè faticosamente
esercitare i propri poteri. Il percorso intende mettere in luce l’ambiente politico, sociale e culturale
che accompagnò la repubblica di Weimar, il primo esperimento di democrazia in Germania.
Introduzione
Indice
Una storia travagliata
La SPD e il Centro cattolico
L’economia tra crisi profonde ed effimere stabilizzazioni
La società lacerata tra innovazione e tradizione
Una storia travagliata
Non tutti gli storici concordano sulla data di nascita della repubblica di Weimar. Nondimeno, è
possibile sostenere che essa nacque allorché nella città di Weimar, in Turingia, il 19 gennaio 1919
prese il via l’assemblea costituente. L’accordo tra la SPD, il partito cattolico del Centro e i partiti
liberali consentì in quell’occasione la formazione di una larga maggioranza che favorì l’elezione di
Ebert a Presidente della Repubblica.
L’assemblea elaborò una costituzione di stampo democratico, approvata il 31 luglio 1919. Essa
estendeva il voto alle donne, stabiliva un sistema di voto proporzionale, affermava che il
cancelliere rispondeva al parlamento del proprio operato. Tuttavia, accanto a queste innovazioni, la
Costituzione manteneva dei tratti plebiscitari e autoritari che avrebbero minato l’esistenza della
stessa Repubblica di Weimar. Per esempio, il presidente della repubblica veniva eletto dal popolo;
inoltre, esisteva l’articolo 48, che conferiva al presidente il potere di «fare tutti i passi necessari» se
«l’ordine pubblico e la sicurezza fossero state seriamente disturbati o in pericolo». Anche se inteso
solo come clausola d’emergenza, questo articolo sarà usato spesso per emanare decreti senza il
supporto del parlamento. In una paese come la Germania, reduce da decenni di governo autoritario,
questi tratti presidenzialistici furono introdotti senza prevedere i necessari contrappesi alla loro
applicazione. Infine, il sistema elettorale proporzionale favorì la frammentazione del panorama
politico ed una endemica fragilità dei governi, che non rese la repubblica un regime politico stabile
e affidabile [La Costituzione di Weimar: pregi e difetti].
La repubblica non ebbe mai vita facile: essa, in difficoltà fin dall’inizio a causa delle ingenti
riparazioni che le chiedevano gli ex nemici di guerra, subì, sin dai suoi primi anni, attacchi sia da
destra che da sinistra. D’altra parte, la situazione economica quasi sempre precaria unita alla
fragilità dei governi, produsse nella popolazione un sentimento di sfiducia verso la repubblica.
Infine, dopo la terribile crisi economica mondiale del 1929 cominciò in Germania la serie degli
esecutivi che governarono in assenza di una maggioranza parlamentare, ricorrendo all’articolo 48
della costituzione; al contempo, il Partito nazionalsocialista, fondato nel 1920 da Adolf Hitler
(1889-1945) guadagnava sempre più consensi. Alla fine, le pressioni della destra conservatrice
convinsero il presidente del Reich von Hindenburg (1847-1934), il vecchio Feldmaresciallo
dell’epoca guglielmina, a coinvolgere nel governo i nazisti, visto il peso politico che essi avevano
nel paese. Hitler accettò la proposta, ma solo a patto di essere nominato cancelliere, cosa che
accadde il 30 gennaio 1933. Il primo governo Hitler vedeva presenti solo tre ministri nazisti,
mentre la maggioranza era in mano alla destra, convinta di poter utilizzare il nazismo per
un’operazione politica conservatrice. Ma essa aveva sbagliato i propri calcoli [L’avvento di Hitler
era inevitabile?].
La SPD e il Centro cattolico
Tra le formazioni politiche che, in tempi diversi, ressero i governi della repubblica, vanno
annoverati il Partito popolare bavarese (BVP), il partito democratico tedesco (DDP), il partito
popolare tedesco (DVP) ma soprattutto la SPD e il Centro.
Il partito socialdemocratico, dopo aver votato i crediti di guerra nel 1914 e aver sostenuto il paese
durante il conflitto (subendo però al proprio interno la critica dell’ala sinistra), nel novembre 1918,
di fronte allo sfacelo del Reich e al rischio di una rivoluzione proletaria sul modello russo, strinse
un compromesso con le tradizionali classi dirigenti tedesche, impegnandosi a non smantellare le
strutture militari e civili fino alla convocazione di un’assemblea costituente. Durante gli anni della
repubblica la SPD fu diverse volte al governo, esprimendo talora anche il cancelliere: il partito in tal
modo si inimicò le forze politiche più di sinistra, segnatamente il partito comunista tedesco (KPD),
che arrivò nel 1928, sulla scia di quanto stabilita dalla Terza Internazionale, a bollare i
socialdemocratici come socialfascisti.
A causa delle proprie divisioni interne e della polemica con le forze dell’estrema sinistra, la SPD,
ossia il partito più “weimariano”, raramente riuscì, nel Reichstag e nel paese, a mostrare una linea
politica unitaria e decisa, dando l’impressione che la stessa repubblica di Weimar fosse il regno del
compromesso, dell’instabilità politica e dei mercanteggiamenti.
La SPD si trovò infatti di fronte a una situazione davvero complicata: da un lato, il compromesso
con le classi dell’aristocrazia e con il potere militare, siglato in nome della stabilità repubblicana,
non assicurò al partito la fedeltà di queste classi, che rimasero in sostanza nazionaliste e
monarchiche. Dall’altro lato, i continui attacchi subiti da sinistra, che tendevano a delegittimare la
repubblica come espressione dello stato borghese, costringevano la SPD a differenziarsi dai
comunisti e, dopo il 1928, a escludere qualsiasi possibilità di alleanza per fronteggiare l’estrema
destra. È chiaro che il voto operaio premiò in scarsa misura la SPD, la quale invece era appoggiata
maggiormente da chi svolgeva professioni intellettuali e apparteneva al ceto medio. Il Centro
cattolico si era ripreso dopo la Kulturkampf bismarckiana e da tempo era ormai una forza
saldamente radicata nel paese. Dopo l’abdicazione del Kaiser, il partito divenne disponibile a
sostenere la repubblica finché tale sistema istituzionale non avesse danneggiato il cattolicesimo.
L’alleanza con la SPD, che permise la nascita della repubblica, fu perciò di carattere strumentale,
dal momento che i due partiti sostenevano valori molto diversi (e spesso in contrapposizione). Il
centro-sinistra weimariano fu quindi sia un punto di forza della repubblica, sia un punto debole: il
punto di forza nasceva dalla capacità dei partiti di accettare dei compromessi per il bene del paese e
di sacrificare, in parte, i propri progetti politici. Il punto debole riguardò la precarietà delle alleanze,
il loro carattere strumentale, ossia il fatto che i partiti più grossi di Weimar non furono capaci di
trovare il modo per rafforzare la fedeltà alla repubblica, ma rimasero prigionieri di un
particolarismo che non giovò né ai loro stessi, né al paese. Non a caso, dal punto di vista elettorale,
la SPD, pur ottenendo buoni risultati, non superò mai il 30% dei consensi, sia perché molti
lavoratori cattolici preferirono il Centro, sia perché a sinistra il partito comunista (KPD) sottraeva
una quota significativa del voto operaio. Dal canto suo, il Centro ebbe sempre un successo elettorale
limitato, benché, rispetto alla SPD, il partito risultò elettoralmente stabile, avendo un chiaro collante
ideologico e una precisa fisionomia politica [La SPD e il Centro].
In questo clima confuso, Hitler fu abile nel giocare le proprie carte e a cavalcare il malcontento.
Egli ottenne molti consensi sia perché indicava ai tedeschi una missione in grado di riportare la
Germania al posto d’onore che le competeva, sia perché additava i colpevoli della crisi del paese,
sia, infine, perché il suo partito e le sue organizzazioni apparivano come una comunità di eletti, un
gruppo compatto nel quale ritrovare identità nazionale e sicurezza. Nelle elezioni del 1930 il partito
di Hitler era infatti balzato al 18,3% dei consensi. Sempre nelle elezioni del 1930, i comunisti
avevano avuto un incremento elettorale ai danni della SPD che divenne l’oggetto principale dei loro
attacchi. Nei due anni successivi le formazioni che sostenevano il governo continuarono a perdere
voti, mentre i partiti antidemocratici divennero sempre più forti: esse non criticavano
semplicemente i governi borghesi, ma mettevano in discussione l’assetto istituzionale stesso,
compiendo perciò una grave opera di delegittimazione della repubblica [Il partito comunista tedesco
(KPD)].
L’economia tra crisi profonde ed effimere stabilizzazioni
Oltre all’instabile clima politico, anche la precaria situazione economica internazionale danneggiò
fortemente il paese. La tensione sociale, infatti, rimase quasi sempre piuttosto alta e, pure nei
periodi di relativa crescita, la Germania si avvicinò solo parzialmente agli indici di produzione e di
ricchezza del periodo prebellico.
Nella primavera del 1921 venne resa nota l’entità delle riparazioni che la Germania avrebbe
dovuto corrispondere quale risarcimento per aver provocato la guerra nel 1914: veniva richiesto il
pagamento di 132 miliardi di marchi oro in 42 rate annuali. Un colpo durissimo per il paese, inferto
con l’intento di privarlo per decenni della propria capacità industriale e della forza economica.
Questo enorme danno economico si aggiungeva ai provvedimenti presi dalla potenze vincitrici
appena dopo la guerra: nel giugno 1919, con la ratificazione della pace di Versailles, la Germania
aveva infatti perso l’Alsazia e la Lorena, tornate alla Francia, l’alta Slesia e una striscia della
Pomerania (che consentì ai polacchi lo sbocco sul mar Baltico, spezzando la continuità territoriale
fra Prussia orientale e Prussia occidentale), cedute alla Polonia, oltre ai bacini carboniferi della
Saar, temporaneamente posta sotto il controllo della Francia dalla Società delle Nazioni [carta]. A
questa situazione drammatica si aggiunse nel gennaio 1923 l’occupazione militare, da parte di
Francia e Belgio, della Ruhr, ricca di miniere carbonifere. Per il paese, già percorso da una forte
crisi economica, questa invasione segnò il tracollo: nel 1923 l’inflazione divenne inarrestabile,
tanto che un chilo di pane arrivò a costare 400 miliardi di marchi. L’inflazione comportò la rovina
per chi possedeva titoli di stato e mise in grossa difficoltà chi viveva del proprio stipendio, dato che
l’aumento dei prezzi era vertiginoso e le paghe non erano mai sufficienti. Invece, gli industriali si
avvantaggiarono della situazione, riuscendo a conquistare nuovi mercati [L’iperinflazione del
1923].
Gli anni della grande inflazione alimentarono in molti tedeschi un sentimento di rifiuto verso la
repubblica: i ceti medi videro erodersi in modo significativo il potere d’acquisto dei loro salari e lo
stesso accadde per gli operai. Se la preoccupazione per l’economia accendeva negli animi di molti
la nostalgia per la grandezza dell’impero tedesco e per l’epoca del Kaiser, negli aderenti al partito
comunista la crisi appariva la dimostrazione del carattere fallimentare della repubblica borghese e
della necessità del suo superamento.
Tuttavia la grande coalizione formatasi nell’agosto 1923, composta da tutti i partiti istituzionali
(SPD, Centro e DDp e DVP) e guidata da Gustav Stresemann (1878-1929), leader del DVP (e
Ministro degli Esteri dal novembre 1923), riuscì a risolvere la questione della Ruhr e, dal dicembre
1923, ad avviare la soluzione al problema dell’inflazione. Nel 1924, grazie al piano Dawes, la
Germania ottenne condizioni di pagamento più agevoli delle sue riparazioni e finanziamenti dagli
Stati Uniti per alimentare la ripresa economica, e così poté tornare in possesso della Ruhr.
Ma il periodo che va dal 1924 al 1929, pur essendo ricordato come un periodo di stabilità della vita
politica ed economica della repubblica, non raffreddò affatto le tensioni sociali. Certo, vi fu una
congiuntura economica favorevole che favorì sia gli operai, sia i funzionari statali, anche se questi
aumenti salariali e i provvedimenti assistenziali causarono un aumento della spesa a carico dello
Stato e dei Lander. Inoltre, i salari reali nel 1927, l’anno del loro massimo incremento, non avevano
ancora raggiunto i livelli del 1913. Il relativo benessere che si diffuse nella società, lo sviluppo di
alcune forme di consumismo e la diffusione (per la verità molto limitata) di alcuni elettrodomestici
e degli apparecchi radio, diedero a ogni modo l’immagine di una Germania che stava faticosamente
uscendo dalle turbolenze del dopoguerra, anche grazie all’accorta politica estera di Stresemann.
Infatti, nel 1925, con il trattato di Locarno il paese si riconciliò con i suoi ex nemici, rinunciando
all’uso della forza per risolvere le questioni territoriali. Nel 1926 la Germania, ormai avviata ad
essere parte integrante del nuovo ordine mondiale, entrò nella Società delle Nazioni.
Nel febbraio 1929 il piano Young consentì alla Germania una ulteriore negoziazione delle
riparazioni di guerra, ponendo fine ai controlli esterni sulla sua economia: furono soprattutto gli
Stati Uniti ad aiutare la ripresa tedesca, concedendo prestiti per il pagamento delle riparazioni. Ma
questo legame con gli Usa si rivelò molto dannoso per la Germania, allorché nell’ottobre 1929 ci fu
la caduta dei titoli azionari della Borsa di New York che produsse una crisi economica di livello
mondiale. La crisi segnò il crollo dell’occupazione, una contrazione dei salari, un aumento della
povertà e delle tensioni sociali. A livello politico, essa provocò la rottura tra la SPD e i partiti di
centro (riuniti in una seconda grande coalizione dal 1928), tanto che nel 1930 il cancellierato passò
al Centro cattolico che, nella persona del leader Heinrich Brüning (1885-1970), si ritrovò a guidare
un esecutivo di minoranza, senza appoggio parlamentare, ma dotato di pieni poteri in virtù
dell’applicazione dell’articolo 48 della Costituzione.
Per fronteggiare la difficile situazione economica, Brüning varò una rigorosa politica fiscale ed
economica che comportò grandi sacrifici per i tedeschi. Nel 1932 una conferenza internazionale
ridusse notevolmente l’entità delle riparazioni, sospendendo il pagamento per tre anni. Tuttavia, sul
terreno rimasero ben 6 milioni di disoccupati (quasi il 30% del totale) e il Partito nazionalsocialista
seppe sfruttare il malcontento sociale e il risentimento di larghi strati della popolazione.
La società lacerata tra innovazione e tradizione
Stretta tra le frequenti crisi economiche e la fragilità del sistema politico, la società tedesca durante
gli anni di Weimar può a buon diritto essere definita una «società divisa»: contrasti di classe si
intrecciavano e si sovrapponevano a divisioni di carattere ideologico e culturale, oltre che religioso.
C’era naturalmente la contrapposizione fra gli operai marxisti (tra i quali era vivo il contrasto fra
rivoluzionari e riformisti) e gli operai cattolici. Poco più in alto nella scala sociale, il ceto medio
degli impiegati era probabilmente più fedele alla repubblica, ma tale fedeltà rimase precaria, sia
perché le frequenti crisi economiche erodevano il potere d’acquisto dei salari, sia perché anche nel
ceto medio facevano presa idee di carattere nazionalista, sia perché il ceto medio, sebbene fosse
sempre più povero, tendeva a rimarcare la propria distanza dagli operai e dai proletari. Pure i
funzionari, danneggiati dai licenziamenti e dai bassi stipendi del problematico dopoguerra,
cercarono di affermare in maniera decisa la loro lontananza dal proletariato e tradussero questa loro
idea in un atteggiamento sempre più lontano dai partiti di sinistra.
Naturalmente la burocrazia e soprattutto l’esercito rimasero in gran parte monarchici, fedeli al
mito dell’impero tedesco. Il ceto medio tradizionale (artigiani e piccoli commercianti) condivideva
un generico atteggiamento ostile ai socialdemocratici, accentuato dall’inflazione del 1923 e dalla
sensazione di essere un ceto politico trascurato dalla repubblica, che prestava maggiore attenzione
agli accordi tra industriali e sindacati. Gli imprenditori, in particolare quelli dell’industria pesante,
mantenevano un atteggiamento ostile verso i sindacati; oltre a ciò, essi imputavano ai partiti di
governo la mancanza di una politica protezionistica che difendesse le esportazioni tedesche [Le
classi sociali della repubblica].
Un ultimo settore ostile alla repubblica era quello degli accademici. Infatti, sia i docenti
universitari, sia buona parte degli studenti, erano vicini a posizioni di carattere nazionalista o
monarchico. Molti professori, a causa dell’inflazione e delle difficoltà economiche, si sentivano
impoveriti e imputavano questa situazione ai partiti che avevano creato la repubblica. Ma dietro
l’ostilità del corpo accademico permaneva la malinconia per l’ex ruolo di grande potenza che la
Germania guglielmina aveva svolto, in linea con la superiorità della sua civiltà e con la gloria del
suo passato [L’università e la repubblica di Weimar]. Il filosofo Martin Heidegger (1889-1976)
vedeva nella repubblica un prodotto del collettivismo livellatore (verso il basso); il teorico del
diritto Carl Schmitt (1888-1985) accusava il parlamento di essere ormai la sede dello scambio non
delle opinioni, ma degli interessi particolari, aggiungendo che solo una democrazia plebiscitaria
poteva risollevare le sorti della Germania, perché il Presidente del Reich, eletto direttamente dal
popolo, incarnava realmente l’autentico spirito tedesco.
Con la nomina di Hitler a cancelliere si concluse il controverso periodo della repubblica di Weimar.
La repubblica era finita non solo per le difficoltà economiche o la instabilità politica, ma perché non
era riuscita a ispirare nei tedeschi un autentico spirito repubblicano e democratico, dopo decenni
di autoritarismo. Naturalmente anche la Germania fu influenzata dal clima politico internazionale
che, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, vedeva affermarsi in diversi paesi
regimi di stampo dittatoriale: di fronte alla turbolenza della repubblica, parve naturale a molti
invocare per la Germania un regime di questo genere e Hitler ebbe la forza di catalizzare questa
esigenza, cancellando in pochi mesi qualsiasi traccia di democrazia.
Tuttavia, i politici di Weimar, per incapacità, sfortuna, scarsa preparazione, mancanza di
lungimiranza politica, non riuscirono a diffondere una cultura democratica o a modernizzare la
società. Per esempio, il risveglio culturale che si collega agli anni di Weimar non fu così diffuso
come si pensa: la fondazione del Bauhaus da parte di W. Gropius nel 1919, la figura di Thomas
Mann, la nascita di una produzione cinematografica di grande livello, la fioritura artistica
rappresentata dalle avanguardie e il nuovo ruolo assegnato alla donna furono senza dubbio il segno
di una positiva evoluzione sociale. Nondimeno, non vanno scordate le difficoltà che incontrò
Gropius (e l’ostilità che suscitò nei nazisti)senza contare che lo sviluppo di una cultura di massa non
si basò su film e libri di pregio, bensì su opere più popolari e, infine, che le avanguardie artistiche
erano un retaggio del periodo prebellico. Infine, sebbene la morale sociale avesse fatto dei
progressi, liberandosi da certi pregiudizi e tabù, non va dimenticato che permaneva nella società un
forte maschilismo (esaltato soprattutto dalla destra nazionalista ma presente anche nella sinistra)
che relegava la donna in una posizione subalterna sia sul luogo di lavoro (quando esse lavoravano),
sia a casa [La condizione femminile nella repubblica di Weimar].
I documenti richiamati dal testo
1 Erich Eyck, La Costituzione di Weimar: pregi e difetti.
2 Martin Broszat, L’avvento di Hitler era inevitabile?
3 Hagen Schulze, La SPD e il Centro.
4 Gian Enrico Rusconi, Il partito comunista tedesco (KPD).
5 L’Europa dopo la Prima guerra mondiale.
6 Adam Ferguson, L’iperinflazione del 1923.
7 Heinrich August Winkler, Le classi sociali della repubblica.
8 Stefano Trinchese, L’università e la repubblica di Weimar.
9 Detlev J. K. Peukert, La condizione femminile nella repubblic
Erich Eyck
La Costituzione di Weimar: pregi e difetti
Lo storico Eyck spiega in questo brano perché la Costituzione di Weimar, pur contenente un alto
grado di democraticità, risultò elaborata in modo tale da prevedere troppo facilmente il suo
superamento e alterazione. Il suffragio universale, esteso anche alle donne, e il sistema di voto
proporzionale, per esempio, furono importanti strumenti per garantire la massima rappresentanza
delle diverse sensibilità politiche, ma favorirono la frammentazione del panorama politico. Inoltre,
la possibilità, prevista dall’art.48, che il presidente del Reich governasse in modo dittatoriale, fu un
vulnus significativo nel fragile tessuto democratico che si voleva costruire, anche perché il
presidente era eletto dal popolo. Insomma, la costituzione fu lo specchio della repubblica, perché
conteneva senza dubbio i semi per un regime parlamentare democratico, ma al contempo
conservava quei tratti plebiscitari e autoritari che saranno abilmente sfruttati dai suoi nemici.
L’Assemblea Nazionale si pose immediatamente al lavoro e con grande energia. La situazione era
così grave che nessuno poteva sottrarsi alla necessità di erigere nel modo più rapido possibile una
costruzione di emergenza, in grado di tenere sino alla conclusione dei lavori per la Costituzione, per
porre il Reich in condizione di partecipare alle trattative gravide di conseguenze per la Germania,
con i vecchi nemici, che avrebbero avuto luogo nei prossimi mesi. Nel giro di pochi giorni
l’Assemblea si riunì e approvò la legge sui poteri provvisori del Reich. Quindi si occupò
dell’elezione del presidente del Reich. L’11 febbraio fu eletto presidente, con 277 voti il
commissario del popolo Friedrich Ebert. L’elezione non rispecchiava soltanto i rapporti di forza, ma
esprimeva anche la fiducia per la sua persona che Ebert si era guadagnata durante la guerra e nei
giorni della rivoluzione. Anche i suoi avversari politici vedevano in lui un socialdemocratico che
non pensava soltanto alla sua classe, ma a tutto il popolo, e che era un patriota, non a sonanti parole,
ma con azioni ponderate […].
Il primo compito che a termine di legge spettava al presidente del Reich era la nomina di un
Consiglio dei ministri del Reich. In seno alla Assemblea Nazionale era possibile la formazione di
due maggioranze risultanti o da una unione di tutti i partiti non socialisti, ossia comprendenti i
partiti borghesi dai democratici ai tedesco-nazionali, o da una coalizione dei partiti
socialdemocratici con i due partiti repubblicani del Centro e dei democratici. Dal punto di vista
politico era possibile soltanto questa seconda soluzione. Governare contro la socialdemocrazia
voleva dire provocare pericoli interni che allora nessun governo sarebbe stato in grado di
fronteggiare. Accogliere nel governo i tedesco-nazionali, i rappresentanti del vecchio regime
crollato, voleva dire lanciare con leggerezza una sfida all’Intesa e in particolare a Wilson. E allora
ciò sarebbe stato anche nettamente in contrasto con il voto espresso dall’elettorato. Si può dire
perciò che in fondo tutti, anche l’opposizione di destra, furono soddisfatti allorché fu costituito il
primo governo costituzionale del Reich composto da socialdemocratici, democratici e Centro. Con
ciò l’opposizione ebbe persino il grande vantaggio, d’altronde inevitabile data la situazione, di
essere esonerata dall’obbligo di assumersi la responsabilità formale per la pace che sarebbe stata
comunque dolorosa e gravosa […].
Che il fondamento della Repubblica tedesca dovesse essere democratico, risultava naturale sia per
la situazione politica che per lo sviluppo storico. Il suffragio universale e uguale per l’elezione del
Reichstag esisteva ormai da mezzo secolo, da quando Bismarck nel 1866 lo fece valere come carta
decisiva nel gioco con l’Austria. Per quanto Bismarck stesso fosse poco soddisfatto delle
conseguenze a lunga scadenza della sua manovra, tuttavia il suffragio universale era così
saldamente penetrato nella coscienza civile del popolo tedesco che neppure il più estremista
reazionario pensava seriamente alla sua soppressione. Ma lo spirito dei tempi chiedeva adesso, e
non soltanto in Germania, più di quanto non avesse dato lo stesso suffragio universale di Bismarck.
Un movimento femminista, forse meno profondamente sentito che rumoroso, chiedeva la
parificazione politica per le donne del popolo tedesco, e il servizio prestato in guerra dai giovani
sembrava giustificare l’abbassamento del limite di età dei venticinque anni, finora vigente per il
diritto di voto. Delle due richieste, in conformità al programma dei socialdemocratici, fu tentato il
massimo conto. Chi avesse compiuto il ventesimo anno di età diveniva elettore, sia che fosse di
sesso maschile che femminile. La guerra è un grande fattore di parificazione e sotto l’impressione di
quattro anni di guerra terribilmente duri, che avevano esercitato su ognuno la pressione più cruda,
nessuno osava porre in tutta la sua serietà la questione preliminare se l’intelligenza e l’interesse per
la vita politica fossero davvero tanto generalmente diffusi nel popolo tedesco e giunti alla maturità
tale da far sembrare opportuna e esente da pericoli una così vasta estensione dei diritto di voto […].
La Costituzione assegnava adesso a questa ipertrofica massa di elettori il compito di scegliere alle
elezioni per il Reichstag, non persone, ma partiti, poiché questa è infatti la conseguenza del sistema
proporzionale […].
Ma tutto ciò non poteva annullare la preoccupazione decisiva espressa durante i lavori della
commissione proprio da Friedrich Naumann, e questa volta contro «Il sistema parlamentare e la
proporzionale che si escludono a vicenda». […]
Egli previde con assoluta certezza il frazionamento dei partiti al quale doveva necessariamente
condurre, e in Germania ha realmente condotto, il sistema proporzionale, e con la stessa esattezza
vide che nel regime parlamentare la formazione del governo presuppone dei grandi partiti, che si
possano avvicendare nel governo. Il sistema bipartitico inglese e americano era inattuabile in
Germania per ragioni storiche e religiose. Tuttavia anche in Germania sarebbe stata possibile la
formazione di pochi grandi partiti, se sotto la spinta dell’esperienza si fosse arrivati a capire che
l’appartenenza a un partito non presuppone l’accordo completo su tutte le questioni politiche,
economiche, culturali e sociali, ma che i partiti devono essere lo strumento del compromesso
interno tra coloro i quali sono fondamentalmente d’accordo nelle grandi questioni del giorno […].
Ma in ogni caso il regime parlamentare sarebbe riuscito molto difficilmente ad acclimatarsi in
Germania; ciò anche a causa della deprimente situazione politica, sia interna, che internazionale ed
economica, che rese quasi impossibile sin dal principio successi di una certa entità. Ma l’evoluzione
democratica fu resa infinitamente più difficile da un sistema elettorale che provocava
necessariamente continui mutamenti di governo, e non accorciava la distanza tra il parlamento e il
popolo, ma la ingrandiva, e sembrava fatto apposta per favorire i partiti di coloro i quali sapevano
pensare soltanto con la testa delle masse.
La Costituzione affidava adesso a questa grande massa anche l’elezione del presidente del Reich.
Giustamente essa accolse l’idea della necessità di un presidente, il quale assumesse la
rappresentanza internazionale del Reich, nominasse il cancelliere e capo del governo del Reich e
assumesse il comando supremo delle forze armate. A lui la Costituzione diede il diritto di sciogliere
il Reichstag e di appellarsi in tal modo al popolo contro di esso, e inoltre, per casi eccezionali,
l’ampio potere dittatoriale dell’art. 48. Dovendo tutte le sue ordinanze e disposizioni recare la
controfirma del cancelliere del Reich o del ministro competente, si credette di avere inserito così in
modo soddisfacente la figura del presidente nel sistema parlamentare.
Per l’elezione del presidente erano possibili due sistemi: da parte del parlamento, come avveniva in
Francia (elezione da parte del Senato e della Camera dei deputati riuniti in seduta comune) o da
parte del popolo, come negli Stati Uniti. Contro l’elezione da parte del parlamento si pronunciò una
corrente molto forte, capitanata da un democratico convinto come Max Weber; egli si era adoperato
in questo senso già durante la discussone del primo progetto. I sostenitori di questa tendenza
partivano dall’idea fondamentale che fosse necessario creare un valido contrappeso nei confronti
del parlamento, perché non si sviluppasse un assolutismo parlamentare. Ora, questo contrappeso
non poteva essere rappresentato da un presidente eletto dal parlamento […]. Così, nella
Costituzione venne introdotto un elemento plebiscitario della più grande portata.
da E. Eyck, Storia della Repubblica di Weimar (1918-1933), Einaudi, Torino, 1966, pp. 68-77.
Heinrich August Winkler
Le classi sociali della repubblica
Una delle cause più evidenti della fragilità della repubblica di Weimar è stata senza dubbio la
profonda lacerazione del tessuto sociale. Le differenze tra i ceti avevano talvolta un carattere
ideologico, talaltra erano invece legate a situazioni politiche contingenti. I gruppi di potere della
burocrazia, dell’esercito e della grande industria erano chiaramente ostili alla repubblica; le
imputavano l’armistizio e l’accusavano di concedere troppo spazio alle rivendicazioni di operai e
sindacati. Gli operai, dal canto loro, erano divisi tra riformisti, più vicini alla SPD, e rivoluzionari,
più vicini al KPD, ma alcuni di essi aderivano al Centro cattolico.
Il ceto medio e soprattutto i funzionari, in particolare negli anni di difficoltà economiche,
tendevano dal canto loro a smarcarsi sempre più dai proletari, assumendo talvolta posizioni
politiche di carattere nazionalista. In mancanza di un minimo collante comune, la fedeltà alla
repubblica da parte dei vari strati sociali era scarsa, perché predominavano gli interessi di classe,
rispetto a quelli generali.
Le differenze fra l’immagine della società dei cattolici e quella dei marxisti rimanevano così vistose
che presso gli operai cattolici praticanti della metà degli anni venti si può parlare al massimo di
qualche accenno di coscienza di classe. Questa era molto più debole o addirittura nulla fra i
lavoratori che tradizionalmente votavano per uno dei partiti borghesi non cattolici. Ciò vale per il
piccolo numero di lavoratori organizzati nei sindacati vicini alla DDP, e a maggior ragione per
quelli che si sentivano politicamente legati alla DVP e alla DNVP. Gli operai tedesco-nazionali
erano di regola protestanti praticanti e spesso erano organizzati nelle associazioni «gialle» fautrici
della pace economica. Il legame ecclesiastico era in generale uno degli impedimenti più forti che si
opponevano alla formazione di una coscienza di classe. Altre resistenze contro l’orientamento
marxista derivavano dal carattere rurale o provinciale della vita degli operai, dalla diffusione della
proprietà delle abitazioni fra di essi, dal fatto che molti di questi svolgevano un’attività secondaria
di tipo agricolo, e dal fatto che molti operai prestavano il loro lavoro in fabbriche piccole o medie.
La coscienza di classe era poi pressoché inesistente fra coloro che lavoravano presso artigiani, i
quali potevano sempre sperare di diventare a un certo momento autonomi, fra i lavoratori a
domicilio e fra i domestici. Il tipico operaio dotato della coscienza di classe marxista lavorava, se
non era disoccupato, in una grande industria, viveva in una città con più di 20 000 abitanti e aveva
tagliato i legami con la Chiesa o non ne aveva mai avuti […].
Nessun gruppo della società era così insicuro del suo status e del prestigio sociale, come quello
degli impiegati. Questo li esponeva particolarmente alle mutevoli correnti dello «spirito del tempo»
e spiega in parte quel forte bisogno di ideologia, che veniva soddisfatto in maniera estremamente
diversa dagli impiegati «di destra» e da quelli «di sinistra». Mentre questi ultimi si sentivano spesso
come l’avanguardia del proletariato dotato di «coscienza di classe» e cercavano di sopravanzare i
lavoratori manuali in ortodossia marxista, i primi prendevano le distanze dal movimento operaio
internazionalistico accentuando un loro atteggiamento «nazionale». Nel più grande sindacato degli
impiegati, l’Associazione tedesco-nazionale dei commessi (Deutionaler HandlungsgehilfenVerband) fondata nel 1893, il nazionalismo andava di conserva con un manifesto antisemitismo.
Con la antipatia per gli ebrei gli impiegati di destra non soltanto si distinguevano nettamente dai
presunti ispiratori del proletariato di impostazione marxista, ma gettavano anche un ponte verso
tanti dei loro compagni di lavoro di ceto medio, che vedevano negli empori e nei grandi magazzini
ebrei i loro più pericolosi concorrenti e la fonte principale dei loro disagi materiali […].
Contrariamente a quanto previsto da Marx, l’espansione del lavoro dipendente a spese di quello
autonomo non portò affatto a una proletarizzazione della società. Dal punto di vista politico, la
scelta del singolo dipendeva dalla sua coscienza soggettiva più che dal suo stato oggettivo, sicché
molti impiegati, pur guadagnando male, non avevano nessuna voglia di passare per proletari;
l’aumento numerico del «nuovo ceto medio», di conseguenza, non lasciava spazio alle speranze dei
socialisti […].
Nella gran parte dei funzionari pubblici il distacco nei confronti del proletariato era almeno
altrettanto forte che nelle associazioni «borghesi» degli impiegati. Il fatto che la forbice fra i salari
degli operai privi di istruzione e gli stipendi degli alti funzionari si fosse ristretta, passando dal
rapporto di uno a sette del 1913 a quello di appena uno a due dell’inizio del 1922, rappresentava
certo un potente livellamento materiale, che non produsse però nelle vittime di questo sviluppo (fra
cui c’erano, anche se in misura differenziata, tutti i gruppi di funzionari) una proletarizzazione della
percezione di sé. I bassi stipendi e i licenziamenti nella prima fase della stabilizzazione portarono
piuttosto a un indebolimento delle tendenze «di sinistra», che si rispecchiò nel tramonto dell’ala
socialdemocratica dei funzionari organizzati […].
Dal «nuovo ceto medio» degli impiegati e funzionari il «vecchio ceto medio» si distingueva per la
sua indipendenza economica, almeno formale. Artigiani e piccoli commercianti, che ne costituivano
il nucleo centrale, si sentivano tradizionalmente come una specie di cuscinetto fra il capitale e il
lavoro; ma questo non voleva dire equidistanza rispetto al capitalismo e al socialismo. Nella
repubblica come già nell’impero le associazioni di categoria dei piccoli lavoratori autonomi
propendevano per posizioni prevalentemente conservatrici e inequivocabilmente
antisocialdemocratiche, animate da un anticapitalismo di natura piuttosto retorica. Nei primi anni
della Repubblica di Weimar le intese operative fra i sindacati e gli industriali diedero all’artigianato
e al piccolo commercio la sensazione di essere addirittura schiacciati dai grandi. Dalla fine
dell’inflazione, il «vecchio ceto medio» cominciò sempre più a ritenere responsabili del suo
isolamento politico i partiti del centro borghese, e soprattutto i due partiti liberali. L’attenzione
mostrata da molti piccoli esercenti per i tedesco-nazionali nelle due elezioni per il Reichstag del
1924 fu una conseguenza logica di questa posizione. Un altro indice della crisi fu l’ascesa del
Partito nazionale del ceto medio tedesco […].
Tendenze analoghe si manifestarono nell’agricoltura. Oltre al Landbund, c’erano parecchi
raggruppamenti regionali - fra cui la Lega bavarese dei contadini e del ceto medio, la Lega
württemberghese dei contadini e vignaioli, e il Partito contadino dello Schleswig-Holstein - che si
fondavano esclusivamente o in prevalenza su elettori della campagna. A livello politico, il mondo
agricolo era diviso in due campi: a fronte del Reichslandbund, fondato fra il 1920 e il 1921, che
aveva il suo baricentro nella Germania settentrionale e orientale ed era di conseguenza fortemente
caratterizzato dall’influenza della grande proprietà terriera a est dell’Elba, c’erano le leghe
contadine, che rappresentavano soprattutto gli agricoltori della Vestfalia, della Renania e della
Baviera. Per quanto divergenti potessero essere gli interessi delle grandi aziende produttrici di
cereali della parte orientale e quelli delle più piccole aziende di allevamento di bestiame e di
coltivazioni varie del nord, sud e ovest, c’era un punto essenziale su cui le organizzazioni agrarie si
trovavano d’accordo: l’agricoltura tedesca doveva essere protetta contro le importazioni dall’estero
a basso prezzo e la Germania doveva essere tenuta alla larga da una ulteriore industrializzazione.
Data questa posizione comune, erano anche individuati i nemici comuni: da un lato i consumatori, e
fra loro prima di tutto gli operai, dall’altro lato quei settori dell’industria che non volevano che la
Germania rimanesse isolata dal mercato mondiale.
L’orientamento protezionistico dell’agricoltura era condiviso tradizionalmente dall’industria
pesante. Abituati dai tempi dell’impero a occuparsi degli armamenti su commesse statali e
dipendenti quindi dallo Stato, gli imprenditori del settore siderurgico si erano organizzati sempre
più, secondo la precisa formulazione dell’economista Moritz Julius Bonn, in vista dell’ideale di una
“economia senza clienti”, «nella vita economica vede soltanto la produzione e l’impiego di impianti
tecnicamente avanzati, senza preoccuparsi delle esigenze di mercato». Il drastico taglio alle spese
militari tedesche dopo la caduta dell’Impero comportò una qualche riconversione alla produzione
civile, ma in generale non l’assunzione di una mentalità liberale. Le industrie dell’estrazione del
carbon fossile e dell’acciaio si collocavano così nell’ala destra del campo imprenditoriale. Gli
industriali siderurgici continuavano a coltivare un atteggiamento da «padroni di casa», rifiutavano
l’idea di una parità sociale fra lavoro e capitale in generale e il principio degli accordi salariali
contrattuali in particolare, erano in maggioranza favorevoli al ritorno a uno Stato «forte»,
autoritario, e a un’attiva politica di riarmo, dalla quale in effetti nessun settore economico potevi
attendersi tanti vantaggi come l’industria siderurgica.
da Heinrich August Winkler, La Repubblica di Weimar. 1918-1933: storia della prima democrazia
tedesca, Donzelli, Roma, 1998, pp. 328-332.
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