L`uomo e il denaro

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Schedario/ Libri
Chiara Tintori
L’uomo e il denaro
di «Aggiornamenti Sociali
Vittorino Andreoli
Il denaro in testa
Rizzoli, Milano 2011, pp. 250, € 17,50
Perché uno psichiatra dovrebbe occuparsi
di denaro? Lo stesso A., uno fra i più conosciuti studiosi italiani della psiche, fornisce
la risposta: «perché ho la sensazione che
il denaro giochi […] un ruolo importante
nella mente dell’uomo, che sia penetrato
nella psicologia e nelle caratteristiche della
personalità umana, persino nell’inconscio»
(p. 13). Nella nostra società «il denaro finisce per essere l’idea dominante, in grado di
modificare e condizionare persino la meccanica mentale che produce solo pensieri
in valuta pregiata, riduce tutto il mondo a
cartamoneta, e l’uomo a denaro» (p. 51).
Alla domanda esplicita di quale sia il suo
rapporto personale con il denaro, Vittorino
Andreoli non esita a dichiarare di viverlo
«come un vero pericolo, un grandissimo
rischio» (p. 47), di avere con esso un rapporto di timore: «mi ha fatto sempre paura e
continua a generare in me questo sentimento. Una paura doppia […]: la paura di non
averne, perché so bene che questa società fa
sentire morto o estremamente fragile chi non
ne possiede; ma anche la paura dell’eccesso,
della ricchezza, che io considero — è bene
dirlo — un difetto personale, la causa di
© FCSF - Aggiornamenti Sociali
AS 09-10 [2011] 628-632
molte tensioni familiari, persino un possibile
pericolo per la società» (p. 46).
Nel tempo presente si sono imposte
«una ricchezza e una povertà ridotte solo
a quantità. Dunque l’uomo stesso finisce
per essere definito in base al denaro di cui
dispone» (p. 26), perdendo di vista le altre
e molteplici dimensioni che costituiscono
una persona e la sua storia. Secondo l’A.
ricchezza e povertà sono in grado di alterare
ogni altro parametro umano (pensieri, azioni, dignità, ecc.), a tal punto che definisce
la povertà un rischio e la ricchezza una
malattia, capace di generare visioni del
mondo distorte e perverse. Il denaro non
è più vissuto come un mezzo, «come una
bicicletta per spostarsi con minor fatica
o come un coltello per tagliare la carne,
perché il denaro ha una potenza molto maggiore e tende a diventare parte del pensiero
e della vita, come se fosse un organo che
si aggiunge al resto del corpo. Un nuovo
cervello o una protesi che riesce ad alterare
i meccanismi cerebrali» (p. 66).
Il volume si snoda attraverso cinque
capitoli, più un’appendice con due brevi
scritti sul denaro nella storia e sull’economia della felicità. D
Dopo un ampio primo
capitolo dedicato al rapporto tra economia
e psicologia, in cui l’A. precisa perché si
interessa di soldi, troviamo: «Denaro e
L’uomo e il denaro
società» (cap. II), con alcune
riflessioni sulla donna e sugli
intellettuali che si prestano a
cambiar pensiero per accontentare i più potenti; «L’uomo
di denari» (III); le patologie
collegate al denaro (IV); e
infine un capitolo dedicato
alla società della mente, dove l’antropologia possa aiutare
a rifondare i legami sociali a
vantaggio dell’uomo (V).
Andreoli riconosce al denaro cinque funzioni. La prima, più abituale, è l’instrumentum vitae, il mezzo per acquistare i beni che
servono per vivere, per poter soddisfare le
esigenze fisiche, psicologiche e sociali. La
seconda funzione del denaro «è quella di
amuleto, o comunque di antidoto, contro la
paura» ((p. 134). In un tempo di incertezze
(perdita del lavoro, recessione economica,
malattie), i soldi aiutano (ad esempio nell’accesso alle cure); però «appena se ne sono
accumulati un po’ […] vengono in mente
nuove calamità ancora più grandi. Bisogna
risparmiare sempre di più, perché il metro
di giudizio è uno solo: la paura del futuro, di
un futuro pieno di disgrazie» (p. 136). Facendo l’esempio del monaco e dell’eremita,
l’A. afferma che solo una proiezione totale
nell’eternità è capace di togliere valore al
denaro. La terza funzione è quella decorativa, «il denaro come imbellettamento,
come simbolo che ci si porta addosso» (p.
149). Laddove la bellezza è vissuta come
ossessione, la critica di Andreoli raggiunge i toni dell’indignazione: «condanno ogni
comportamento pubblico che esalta la bellezza fisica. Sono indignato che si guardi
solo al corpo e non si parli di bellezza della
persona valutando anche il portamento, la
grazia, lo stile, la classe […]. Ma ciò che
più mi colpisce e rattrista è il modo in cui
molti anziani ricercano il bello, assieme na-
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turalmente all’efficienza di un
corpo che nasconde l’età reale.
Ero abituato a considerare la
bellezza del vecchio rapportandola alla sua lunga vita e
ai cambiamenti del corpo, che
anche in questa età mostra una
sua bellezza, seppure diversa
da quella giovanile» (pp. 151152), perché in grado di raccontare la vita di una persona.
La quarta funzione dei soldi è
quella filantropica, «a fini utili per un’intera
società, o per alcune persone in particolare» (p. 166). Infine il quinto uso possibile è
nei circuiti del riciclaggio e riguarda quelle organizzazioni che guadagnano denaro
in modo illegale e poi, per usarlo, devono
«lavarlo» ((p. 171).
Nell’affrontare il rapporto tra malattia e
denaro, l’A. precisa che la gravità della prima dipende dalla personalità individuale;
dopodiché analizza sette di quelle che egli
chiamaa patologie collegate al denaro, anche
se non lo sono immediatamente nell’immaginario collettivo. Si comincia con la dipendenza, in cui «si avverte il bisogno [di
denaro], ma anche il condizionamento: non
è più possibile vivere facendone a meno»
(p. 178); si instaura un legame nevrotico,
simile a quello con le sostanze stupefacenti, e si esprime sia in una dipendenza dal
denaro sia «per il denaro», quando «ci si
lega ad alcune attività perché garantiscono
profitto» (p. 183). Poi si passa alla depressione, considerata la forma più grande di
sofferenza legata ai soldi: siccome nella nostra società l’uomo si definisce per il suo
denaro, anzi egli stesso è denaro, quando
questo manca, si entra in depressione. Gli
esempi riguardano la perdita del lavoro, in
cui non viene meno solo lo stipendio ma
lo status associato, e i suicidi da denaro,
in aumento durante le crisi finanziarie. La
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terza patologia presa in considerazione è
l’ansia da denaro, spesso anticamera delle
violenze e delle morti scatenate da motivi
economici. Il quarto disturbo mette in risalto
quanto il denaro possa influenzare il pensiero: la parafrenia monetaria, cioè i «casi
di chi libera una fantasia straordinaria sul
denaro, e finisce per credere a situazioni
puramente illusorie» (p
(p. 201).
La quinta malattia è la stupidità, intesa
come «la banalità delle persone che vedono, pensano e sognano soltanto denaro» (p.
207). La sesta è l’immoralità: addirittura, per
Andreoli, «anche le persone più scrupolose
hanno una doppia morale e ne applicano
una ai soldi» ((p. 207). L’A. individua per
stupidità e immoralità la stessa dinamica
causa-effetto in cui il «virus di carta» (p.
174) entra in azione, anche se è più difficile
per il lettore ascrivere queste due condizioni a malattie. Esse sembrano infatti il
presupposto per l’utilizzo distorto dei soldi,
piuttosto che un atteggiamento causato da
un agente esterno patogeno (il denaro), che
determinerebbe — senza la volontà del soggetto — l’instaurarsi di tali patologie.
All’ultima malattia, la distruttività, Andreoli riserva toni particolarmente sdegnati:
«è una piccola apocalisse […]. Nella distruttività domina la disperazione del singolo, la percezione che tutto, proprio tutto
non funziona, ogni cosa ha perso senso e si è
trasformata in male» (pp. 211-212). L’uomo
non merita di diventare un contenitore di
monete, un salvadanaio, perché una volta
rotto restano solo dei cocci; eppure «questa
è la follia, oggi talmente diffusa da sembrare
normale. Ma non lo è» (p. 214). Un esempio
di distruzione da denaro sono gli arsenali
militari: «dai soldi hanno origine le armi di
distruzione, i missili, le bombe intelligenti,
gli aerei senza pilota, le cosiddette “missioni di pace”, con i soldati che sparano
e muoiono sotto le granate. Tutto questo è
Chiara Tintori
denaro malato, prostituito, impazzito. Denaro coniugato con il potere violento, per un
delirio che nessuno psichiatra è chiamato
a curare» (p. 215).
L’intero volume è attraversato da un sentimento di sconforto proprio dell’A., «un
pessimista attivo che prova a risvegliare chi
dorme, e lo fa con la forza delle idee» (p.
108), che non esita a sfogare la sua paura,
talvolta trasformata in odio per la società
italiana in cui vive: «non amo questa società
dell’inutile, della falsità, dell’ipocrisia […].
Ho paura di un mondo che dichiara inutile
la sofferenza di tanti uomini, compresa la
mia. Un regime di ignoranti e di saccenti,
di falsari che non sanno piangere guardandosi allo specchio e non vedono nemmeno
il danno che compiono e il male che fanno
fanno»
(pp. 107-108).
Affinché si possa reagire alla nascita di
una «cultura, forse una pseudocultura, che
esalta il denaro e cerca di attribuirgli tutti i benefici un tempo riferiti alla potenza
dell’anima» (p. 157), Andreoli suggerisce
il ritorno a una società fondata sui bisogni
dell’uomo e non su quelli dell’economia,
lasciando che quest’ultima sia un modo per
dare risposta ai primi. «È tempo di fermarsi
dinanzi a una banconota e pensare» (p. 216),
di tornare a un «pensiero alto, un’analisi
profonda e non più settoriale, che voli fino a
toccare le utopie» (p. 227). È tempo di chiedere alle discipline di interagire, affinché la
scienza del comportamento (la psicologia),
in grado di distinguere tra bisogni essenziali
e secondari dell’uomo, possa essere elevata
al rango dell’economia. Occorre «un’antropologia dell’insieme e della cooperazione»
(p. 218) per costruire una società solidale,
allontanandosi dalla catastrofe di una società sempre più violenta, in quanto formata
da uomini sempre più frustrati solo perché
non in grado di soddisfare tutta una serie
di bisogni indotti.
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