paradiso canto Luogo Empireo Tempo sera del 14 aprile 1300 Beati 3 Schiere trionfanti del Paradiso 6 9 12 15 18 21 24 27 30 33 36 39 Forse semilia miglia di lontano ci ferve l’ora sesta, e questo mondo china già l’ombra quasi al letto piano, quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch’alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol più oltre, così ’l ciel si chiude di vista in vista infino a la più bella. Non altrimenti il trïunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude, a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a Bëatrice nulla vedere e amor mi costrinse. Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. La bellezza ch’io vidi si trasmoda non pur di là da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. Da questo passo vinto mi concedo più che già mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: ché, come sole in viso che più trema, così lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m’è il seguire al mio cantar preciso; ma or convien che mio seguir desista più dietro a sua bellezza, poetando, come a l’ultimo suo ciascuno artista. Cotal qual io la lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce l’ardüa sua matera terminando, con atto e voce di spedito duce ricominciò: «Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: luce intellettüal, piena d’amore; XXX CANTO 42 45 48 51 54 57 60 63 66 69 72 75 78 81 84 amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. Qui vederai l’una e l’altra milizia di paradiso, e l’una in quelli aspetti che tu vedrai a l’ultima giustizia». Come sùbito lampo che discetti li spiriti visivi, sì che priva da l’atto l’occhio di più forti obietti, così mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m’appariva. «Sempre l’amor che queta questo cielo accoglie in sé con sì fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo». Non fur più tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch’io compresi me sormontar di sopr’ a mia virtute; e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce è tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive; poi, come inebrïate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge, e s’una intrava, un’altra n’uscia fori. «L’alto disio che mo t’infiamma e urge, d’aver notizia di ciò che tu vei, tanto mi piace più quanto più turge; ma di quest’ acqua convien che tu bei prima che tanta sete in te si sazi»: così mi disse il sol de li occhi miei. Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe son di lor vero umbriferi prefazi. Non che da sé sian queste cose acerbe; ma è difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe». Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l’usanza sua, come fec’ io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l’onda XXX paradiso 87 90 93 96 99 102 105 108 111 114 117 120 123 126 129 132 che si deriva perché vi s’immegli; e sì come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, così mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non süa in che disparve, così mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, sì ch’io vidi ambo le corti del ciel manifeste. O isplendor di Dio, per cu’ io vidi l’alto trïunfo del regno verace, dammi virtù a dir com’ ïo il vidi! Lume è là sù che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. E’ si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne’ fioretti opimo, sì, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in più di mille soglie quanto di noi là sù fatto ha ritorno. E se l’infimo grado in sé raccoglie sì grande lume, quanta è la larghezza di questa rosa ne l’estreme foglie! La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e ’l quale di quella allegrezza. Presso e lontano, lì, né pon né leva: ché dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole odor di lode al sol che sempre verna, qual è colui che tace e dicer vole, mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira quanto è ’l convento de le bianche stole! Vedi nostra città quant’ ella gira; vedi li nostri scanni sì ripieni, che poca gente più ci si disira. CANTO 135 138 141 144 147 XXX E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che già v’è sù posta, prima che tu a queste nozze ceni, sederà l’alma, che fia giù agosta, de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia verrà in prima ch’ella sia disposta. La cieca cupidigia che v’ammalia simili fatti v’ha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia. E fia prefetto nel foro divino allora tal, che palese e coverto non anderà con lui per un cammino. Ma poco poi sarà da Dio sofferto nel santo officio; ch’el sarà detruso là dove Simon mago è per suo merto, e farà quel d’Alagna intrar più giuso». PARAFRASI vv. 1 e ss.: Forse il mezzogiorno arde seimila miglia lontano da noi e la terra getta ombra quasi orizzontalmente, quando lo spazio del cielo, alto su di noi, comincia a farsi tale che qualche stella cessa di apparire alla terra e, a mano a mano che l’aurora avanza, il cielo si spegne di stella in stella, fino alla più splendente. Non diversamente i nove cori angelici, che tripudiano sempre intorno a Dio, il punto luminoso che mi aveva abbagliato, apparendo circoscritto dai cori angelici, che egli invece circoscrive, a poco a poco si dileguarono dalla mia vista, per la qual cosa il non veder più nulla e il mio amore mi spinsero a rivolgere lo sguardo a Beatrice. Se tutto quello che fin qui è stato detto di lei fosse raccolto in una sola lode, questa non basterebbe ad assolvere il compito di descriverne la bellezza; bellezza che non solo trascende la misura per ogni intelletto umano, ma che certamente solo Dio, suo creatore, credo possa goderla appieno. Mi dichiaro vinto da questa difficoltà più di quanto un autore comico o tragico non sia mai stato vinto da un punto particolarmente difficile della sua opera poiché, come il sole indebolisce la vista, così il suo dolce riso intacca la mia memoria. Dal primo giorno che io vidi in terra gli occhi suoi, fino a questa visione, non è stata mai impedita alla mia poesia la sua celebrazione; ma ora è necessario che io rinunci, poetando, a inseguire l’immagine della sua bellezza, come un artista giunto all’estremo limite delle sue capacità. vv. 34 e ss.: Beatrice dunque, quale la lascio descrivere a un’arte più alta della mia poesia, la quale si avvia a terminare l’ardua materia prescelta, con atto e con voce di guida pronta ricominciò a parlare: «Noi siamo già usciti dal più vasto cielo (il Primo Mobile) e siamo entrati in quello (l’Empireo) costituito di pura luce: luce intellettuale e piena d’amore; amore di vero bene, pieno di letizia; letizia perfetta che supera ogni dolcezza. Qui vedrai le schiere degli angeli e dei beati e quest’ultima ti si mostrerà nel medesimo aspetto corporeo in cui vedrai i beati nel giorno del Giudizio». Come un lampo improvviso annulla le facoltà visive, sicché priva l’occhio dell’atto di vedere altri oggetti più forti, così una luce viva mi rifulse intorno e mi lasciò abbagliato, tanto che non vedevo più nulla. «Sempre Dio, che appaga della sua visione le creature di questo cielo, accoglie le anime in sé con tale salute per preparare l’anima a sostenere la luce della sua visione». Queste poche parole non erano state ancora recepite da me, quando mi accorsi di essermi elevato al di sopra delle mie facoltà naturali e mi illuminai di nuova potenza visiva, tale che non esiste luce così fulgente che i miei occhi non sarebbero stati in grado di sostenere; vidi una luce a forma di fiume, fulgente di splendore tra due rive cosparse di mirabili fiori primaverili. Da quel fiume uscivano faville vive che da ogni parte entravano nei fiori come rubini incastonati nell’oro; poi le faville, come inebriate dai paradiso profumi, tornavano a immergersi nel mirabile fiume; e mentre una entrava, un’altra ne usciva. «Il profondo desiderio che ora ti infiamma e ti eccita di conoscere ciò che devi, tanto più mi piace quanto più è intenso; ma prima che tale desiderio sia soddisfatto, è necessario che tu beva ancora di quest’acqua»: così mi disse Beatrice, luce dei miei occhi. E aggiunse: «Il fiume di luce e le faville che, come topazi vi entrano ed escono, e i fiori variopinti sono prefigurazioni della verità. Non che queste cose siano imperfette, ma l’insufficienza è in te, che non hai occhi così potenti da vedere queste cose nella loro realtà». Non c’è bambino che subito si precipita col volto verso il seno materno, se si sveglia più tardi della solita ora, come feci io per rendere i miei occhi specchi più capaci di riflettere il vero, chinandomi al fiume di luce che scorre tra le due rive, affinché si diventi migliore; e appena i miei occhi assorbirono la luce di quel fiume, subito esso, da rettilineo, mi apparve in forma di luce circolare. vv. 91 e ss.: Poi, come persone mascherate, che sembrano altre rispetto a prima, se si tolgono la maschera in cui era nascosto il loro aspetto, così i fiori e le faville si tramutarono in visioni più festose, per cui potei riconoscere gli angeli e i beati. O splendore di Dio, attraverso il quale io potei vedere l’alto trionfo del Paradiso, concedimi la capacità di descrivere come io vidi (la luce del volto di Beatrice)! Nell’Empireo c’è una luce che rende visibile il Creatore e quella creatura che solo nella contemplazione di Lui trova appagamento. Essa, la luce, si estende in forma circolare, tanto che la sua circonferenza sarebbe assai più grande di quella del sole. Tutto ciò che si vede di tale lume trae origine da un raggio riflesso sulla sommità del Primo Mobile, che fa derivare da esso il moto e la potenza (di trasmetterlo ai Cieli sottostanti). E come un colle si rispecchia in basso nell’acqua, quasi per vedersi adorno, quando è rigoglioso di erba e di fiori, così, stando di sopra, vidi tutte le anime beate, disposte in più di mille gradini circolari, specchiarsi in esso. E se il più basso di questi gradini contiene in sé una così grande circonferenza, quanta sarà l’ampiezza di questa rosa celeste nei suoi petali esterni! La mia vista non si smarriva nell’ampiezza e nell’altezza, ma riusciva a percepire tutta la quantità e la qualità di quella beatitudine. Vicinanza e lontananza lì non aggiungono né tolgono perché, dove governa Dio direttamente, le leggi naturali non contano più nulla. vv. 124 e ss.: Beatrice mi attrasse come colui che tace, pur desiderando parlare, al centro della rosa, la quale si dilata, è disposta a gradini ed emana un profumo di lode a Dio, sole che rende eterna la primavera, e disse: «Ammira quanto è grande il consesso dei beati! Vedi quanto è ampia la nostra città celeste; vedi i nostri seggi così colmi che poca gente è qui ancora attesa. E su quel seggio, verso il quale tu tieni fissi gli occhi a causa della corona che vi si trova, prima della tua morte siederà l’anima del grande Arrigo VII, che in terra sarà Imperatore e verrà a raddrizzare l’Italia ancor prima che essa ne sia preparata. La cieca cupidigia che abbaglia voi uomini vi ha reso simili al bambino che muore di fame e allontana la sua balia. E allora sarà capo della Chiesa un tale (papa Clemente V) che palesemente e di nascosto non seguirà il suo (Arrigo) stesso cammino. Ma, dopo la morte di quello, per poco sarà tollerato da Dio nel santo ufficio: egli sarà precipitato là dove il mago Simone (la bolgia infernale dei simoniaci) si trova per le sue colpe e farà scendere più in basso Bonifacio VIII». RIASSUNTO L’esordio del canto descrive un paesaggio aurorale, ove le stelle si spengono a una a una e tale dissolvenza rappresenta il dileguarsi degli angeli e dei beati verso l’Empireo, lo spazio puro e immateriale, che costituisce l’ultimo passaggio dell’arduo viaggio del pellegrino. Il canto XXX è fra i più lirici, grazie alle delicate metafore e metamorfosi del fiume, del lago, dell’anfiteatro e della rosa con cui Dante, attraverso le parole di Beatrice, distingue la Grazia, gli angeli, i beati e la candida rosa in cui hanno eterna dimora tutte quelle anime che il poeta aveva incontrato distribuite nei singoli cieli. L’immagine della rosa celeste richiama celebri simbologie medioevali, ma è presente anche nella letteratura pagana, mentre la definizione del Paradiso come città celeste apre la reminiscenza alla nota definizione di sant’Agostino. Nella chiusura del canto Beatrice fa notare che pochi sono i seggi ancora vuoti, il che, implicitamente, fa pensare prossimo l’evento del Giudizio Universale, credenza popolare forse diffusa nell’ambito del severo misticismo medioevale, al quale il poeta spesso attinge. Ma c’è un seggio vuoto sul quale è deposta una corona: è quello che tocchera al grande imperatore Arrigo VII, che morirà prematuramente per i raggiri del papa Clemente V (“pastore sanza legge”) che, a sua volta, sarà precipitato nella bolgia infernale dei simoniaci, dove con trepidazione lo attende già Bonifacio VIII. CANTO XXX ANALISI E COMMENTO senz’altro uno dei canti più alti del poema. L’immagine lirica fondamentale è data dalla “fiumana” di luce, che funge da connettivo fra le varie parti in cui esso si lascia suddividere: la bellezza di Beatrice e quella della mistica rosa dei beati. La Terra sembra ormai lontana, più dell’effettiva distanza spaziale, poiché il poeta è ormai tutto proiettato a godere, al pari dei beati, della letizia del regno divino. L’unico richiamo ci proviene da Beatrice che, a conclusione del canto, addita a Dante il seggio vuoto e incoronato che attende l’arrivo dell’anima del grande Arrigo VII, l’Imperatore che avrebbe voluto raddrizzare l’Italia e che tante speranze aveva acceso in Dante durante gli anni avanzati del suo esilio. Dunque È umano e divino, tempo ed eterno, si armonizzano perfettamente attraverso le immagini e le parole di Beatrice in un canto che, in un certo senso, conclude l’elemento narrativo del viaggio per sfociare ne ”l’ultima salute”, ossia la visione di Dio, premessa e fine della straordinaria esperienza del poeta. Domina il tripudio festoso dei santi e degli angeli e l’agiografia di Beatrice, riassunta e ripercorsa da Dante dall’amore terreno, espresso nella Vita Nova e nel Convivio, a quello paradisiaco, ove la donna-angelo, ormai santa, si manifesta pienamente come figura “impleta”, secondo la nota lettura dell’Auerbach. Quello progettato come epos della giustizia è diventato così il più grande epos della Grazia. LABORATORIO 1 L’insistenza sul verbo “vedere” e la confessione dei propri limiti espressivi costituiscono la nota ricorrente di questi ultimi canti. Unico compromesso è il ricorso alle metafore. Rintracciale e indicane la funzione. 2 Quale funzione assolvono la perifrasi astronomica iniziale e il richiamo al trionfo degli angeli, nella parte centrale del canto? 3 Considerando la “corporeità” come uno dei temi ricorrenti nel poema, spiega perché in questo canto Dante ricorre spesso alla sinestesia per esprimere le sue sensazioni. 4 La descrizione spaziale dell’Empireo, la fiumana di luce e la candida rosa sembrano disegnare tre differenti figure geometriche. Quali sono rispettivamente?