paradiso
canto
Luogo
Empireo
Tempo
sera del 14 aprile 1300
Beati
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Schiere trionfanti del Paradiso
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Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
china già l’ombra quasi al letto piano,
quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascuno artista.
Cotal qual io la lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardüa sua matera terminando,
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
luce intellettüal, piena d’amore;
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amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
che tu vedrai a l’ultima giustizia».
Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l’atto l’occhio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva.
«Sempre l’amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo».
Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch’io compresi
me sormontar di sopr’ a mia virtute;
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi;
e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.
«L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge;
ma di quest’ acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe».
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
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che si deriva perché vi s’immegli;
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ’l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant’ ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
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XXX
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d’Alagna intrar più giuso».
PARAFRASI
vv. 1 e ss.: Forse il mezzogiorno arde seimila miglia lontano
da noi e la terra getta ombra quasi orizzontalmente, quando
lo spazio del cielo, alto su di noi, comincia a farsi tale che
qualche stella cessa di apparire alla terra e, a mano a mano
che l’aurora avanza, il cielo si spegne di stella in stella,
fino alla più splendente. Non diversamente i nove cori
angelici, che tripudiano sempre intorno a Dio, il punto
luminoso che mi aveva abbagliato, apparendo circoscritto
dai cori angelici, che egli invece circoscrive, a poco a poco
si dileguarono dalla mia vista, per la qual cosa il non veder
più nulla e il mio amore mi spinsero a rivolgere lo sguardo
a Beatrice. Se tutto quello che fin qui è stato detto di lei
fosse raccolto in una sola lode, questa non basterebbe ad
assolvere il compito di descriverne la bellezza; bellezza
che non solo trascende la misura per ogni intelletto umano,
ma che certamente solo Dio, suo creatore, credo possa
goderla appieno. Mi dichiaro vinto da questa difficoltà più
di quanto un autore comico o tragico non sia mai stato
vinto da un punto particolarmente difficile della sua opera
poiché, come il sole indebolisce la vista, così il suo dolce
riso intacca la mia memoria. Dal primo giorno che io vidi
in terra gli occhi suoi, fino a questa visione, non è stata
mai impedita alla mia poesia la sua celebrazione; ma ora
è necessario che io rinunci, poetando, a inseguire
l’immagine della sua bellezza, come un artista giunto
all’estremo limite delle sue capacità.
vv. 34 e ss.: Beatrice dunque, quale la lascio descrivere
a un’arte più alta della mia poesia, la quale si avvia a
terminare l’ardua materia prescelta, con atto e con voce
di guida pronta ricominciò a parlare: «Noi siamo già usciti
dal più vasto cielo (il Primo Mobile) e siamo entrati in quello
(l’Empireo) costituito di pura luce: luce intellettuale e piena
d’amore; amore di vero bene, pieno di letizia; letizia perfetta
che supera ogni dolcezza. Qui vedrai le schiere degli angeli
e dei beati e quest’ultima ti si mostrerà nel medesimo
aspetto corporeo in cui vedrai i beati nel giorno del
Giudizio». Come un lampo improvviso annulla le facoltà
visive, sicché priva l’occhio dell’atto di vedere altri
oggetti più forti, così una luce viva mi rifulse intorno e mi
lasciò abbagliato, tanto che non vedevo più nulla.
«Sempre Dio, che appaga della sua visione le creature di
questo cielo, accoglie le anime in sé con tale salute per
preparare l’anima a sostenere la luce della sua visione».
Queste poche parole non erano state ancora recepite da
me, quando mi accorsi di essermi elevato al di sopra delle
mie facoltà naturali e mi illuminai di nuova potenza visiva,
tale che non esiste luce così fulgente che i miei occhi non
sarebbero stati in grado di sostenere; vidi una luce a forma
di fiume, fulgente di splendore tra due rive cosparse di
mirabili fiori primaverili. Da quel fiume uscivano faville vive
che da ogni parte entravano nei fiori come rubini
incastonati nell’oro; poi le faville, come inebriate dai
paradiso
profumi, tornavano a immergersi nel mirabile fiume; e
mentre una entrava, un’altra ne usciva. «Il profondo
desiderio che ora ti infiamma e ti eccita di conoscere ciò
che devi, tanto più mi piace quanto più è intenso; ma prima
che tale desiderio sia soddisfatto, è necessario che tu beva
ancora di quest’acqua»: così mi disse Beatrice, luce dei
miei occhi. E aggiunse: «Il fiume di luce e le faville che,
come topazi vi entrano ed escono, e i fiori variopinti sono
prefigurazioni della verità. Non che queste cose siano
imperfette, ma l’insufficienza è in te, che non hai occhi
così potenti da vedere queste cose nella loro realtà». Non
c’è bambino che subito si precipita col volto verso il seno
materno, se si sveglia più tardi della solita ora, come feci
io per rendere i miei occhi specchi più capaci di riflettere
il vero, chinandomi al fiume di luce che scorre tra le due
rive, affinché si diventi migliore; e appena i miei occhi
assorbirono la luce di quel fiume, subito esso, da
rettilineo, mi apparve in forma di luce circolare.
vv. 91 e ss.: Poi, come persone mascherate, che
sembrano altre rispetto a prima, se si tolgono la maschera
in cui era nascosto il loro aspetto, così i fiori e le faville
si tramutarono in visioni più festose, per cui potei riconoscere gli angeli e i beati. O splendore di Dio, attraverso
il quale io potei vedere l’alto trionfo del Paradiso, concedimi
la capacità di descrivere come io vidi (la luce del volto di
Beatrice)! Nell’Empireo c’è una luce che rende visibile il
Creatore e quella creatura che solo nella contemplazione
di Lui trova appagamento. Essa, la luce, si estende in forma
circolare, tanto che la sua circonferenza sarebbe assai più
grande di quella del sole. Tutto ciò che si vede di tale lume
trae origine da un raggio riflesso sulla sommità del Primo
Mobile, che fa derivare da esso il moto e la potenza (di
trasmetterlo ai Cieli sottostanti). E come un colle si
rispecchia in basso nell’acqua, quasi per vedersi adorno,
quando è rigoglioso di erba e di fiori, così, stando di sopra,
vidi tutte le anime beate, disposte in più di mille gradini
circolari, specchiarsi in esso. E se il più basso di questi
gradini contiene in sé una così grande circonferenza,
quanta sarà l’ampiezza di questa rosa celeste nei suoi petali
esterni! La mia vista non si smarriva nell’ampiezza e
nell’altezza, ma riusciva a percepire tutta la quantità e la
qualità di quella beatitudine. Vicinanza e lontananza lì non
aggiungono né tolgono perché, dove governa Dio
direttamente, le leggi naturali non contano più nulla.
vv. 124 e ss.: Beatrice mi attrasse come colui che tace,
pur desiderando parlare, al centro della rosa, la quale si
dilata, è disposta a gradini ed emana un profumo di lode
a Dio, sole che rende eterna la primavera, e disse: «Ammira
quanto è grande il consesso dei beati! Vedi quanto è ampia
la nostra città celeste; vedi i nostri seggi così colmi che
poca gente è qui ancora attesa. E su quel seggio, verso
il quale tu tieni fissi gli occhi a causa della corona che vi
si trova, prima della tua morte siederà l’anima del
grande Arrigo VII, che in terra sarà Imperatore e verrà a
raddrizzare l’Italia ancor prima che essa ne sia preparata.
La cieca cupidigia che abbaglia voi uomini vi ha reso simili
al bambino che muore di fame e allontana la sua balia.
E allora sarà capo della Chiesa un tale (papa Clemente V)
che palesemente e di nascosto non seguirà il suo (Arrigo)
stesso cammino. Ma, dopo la morte di quello, per poco
sarà tollerato da Dio nel santo ufficio: egli sarà precipitato
là dove il mago Simone (la bolgia infernale dei simoniaci)
si trova per le sue colpe e farà scendere più in basso
Bonifacio VIII».
RIASSUNTO
L’esordio del canto descrive un paesaggio aurorale, ove le
stelle si spengono a una a una e tale dissolvenza rappresenta
il dileguarsi degli angeli e dei beati verso l’Empireo, lo spazio
puro e immateriale, che costituisce l’ultimo passaggio
dell’arduo viaggio del pellegrino. Il canto XXX è fra i più lirici,
grazie alle delicate metafore e metamorfosi del fiume, del
lago, dell’anfiteatro e della rosa con cui Dante, attraverso
le parole di Beatrice, distingue la Grazia, gli angeli, i beati
e la candida rosa in cui hanno eterna dimora tutte quelle
anime che il poeta aveva incontrato distribuite nei singoli
cieli. L’immagine della rosa celeste richiama celebri
simbologie medioevali, ma è presente anche nella letteratura
pagana, mentre la definizione del Paradiso come città celeste
apre la reminiscenza alla nota definizione di sant’Agostino.
Nella chiusura del canto Beatrice fa notare che pochi sono
i seggi ancora vuoti, il che, implicitamente, fa pensare
prossimo l’evento del Giudizio Universale, credenza popolare
forse diffusa nell’ambito del severo misticismo medioevale,
al quale il poeta spesso attinge. Ma c’è un seggio vuoto sul
quale è deposta una corona: è quello che tocchera al grande
imperatore Arrigo VII, che morirà prematuramente per i raggiri
del papa Clemente V (“pastore sanza legge”) che, a sua volta,
sarà precipitato nella bolgia infernale dei simoniaci, dove
con trepidazione lo attende già Bonifacio VIII.
CANTO
XXX
ANALISI E COMMENTO
senz’altro uno dei canti più alti del poema.
L’immagine lirica fondamentale è data dalla
“fiumana” di luce, che funge da connettivo fra
le varie parti in cui esso si lascia suddividere: la
bellezza di Beatrice e quella della mistica rosa dei
beati. La Terra sembra ormai lontana, più dell’effettiva
distanza spaziale, poiché il poeta è ormai tutto
proiettato a godere, al pari dei beati, della letizia del
regno divino. L’unico richiamo ci proviene da Beatrice
che, a conclusione del canto, addita a Dante il seggio
vuoto e incoronato che attende l’arrivo dell’anima del
grande Arrigo VII, l’Imperatore che avrebbe voluto
raddrizzare l’Italia e che tante speranze aveva acceso in
Dante durante gli anni avanzati del suo esilio. Dunque
È
umano e divino, tempo ed eterno, si armonizzano
perfettamente attraverso le immagini e le parole di
Beatrice in un canto che, in un certo senso, conclude
l’elemento narrativo del viaggio per sfociare ne
”l’ultima salute”, ossia la visione di Dio, premessa e
fine della straordinaria esperienza del poeta. Domina
il tripudio festoso dei santi e degli angeli e l’agiografia
di Beatrice, riassunta e ripercorsa da Dante dall’amore
terreno, espresso nella Vita Nova e nel Convivio, a
quello paradisiaco, ove la donna-angelo, ormai santa,
si manifesta pienamente come figura “impleta”,
secondo la nota lettura dell’Auerbach. Quello
progettato come epos della giustizia è diventato così
il più grande epos della Grazia.
LABORATORIO
1
L’insistenza sul verbo “vedere” e la confessione dei propri limiti espressivi costituiscono la nota ricorrente
di questi ultimi canti. Unico compromesso è il ricorso alle metafore. Rintracciale e indicane la funzione.
2
Quale funzione assolvono la perifrasi astronomica iniziale e il richiamo al trionfo degli angeli, nella parte
centrale del canto?
3
Considerando la “corporeità” come uno dei temi ricorrenti nel poema, spiega perché in questo canto Dante
ricorre spesso alla sinestesia per esprimere le sue sensazioni.
4
La descrizione spaziale dell’Empireo, la fiumana di luce e la candida rosa sembrano disegnare tre differenti
figure geometriche. Quali sono rispettivamente?