RIASSUNTO: LA PEDAGOGIA DELLA FORMAZIONE

RIASSUNTO: LA PEDAGOGIA DELLA FORMAZIONE – Fabrizio Manuel Sirignano
INTRODUZIONE
Nella realtà attuale vengono posti alla pedagogia una serie di problemi formativi (relativi sia all’individuo
che al gruppo) ai quali è possibile trovare una soluzione partendo dal presupposto che la conoscenza del
passato è essenziale per comprendere e agire sul presente. Proprio per questo motivo è importante
individuare il percorso effettuato dalla pedagogia prima verso l’acquisizione di un autonomo statuto
epistemologico a carattere scientifico, il quale ha posto la formazione come categoria reggente del mondo
attuale dominato dalla complessità. Il termine pedagogia deriva dal greco pais, paidos (= fanciullo) e ha un
duplice significato: 1) Pais, paidos + ago= condurre il soggetto verso l’acquisizione di una propria
autonomia; 2) Pais, paidos + logos= riflessione teorica su quelle che sono le finalità dell’educazione.
Il 1600 è stato un secolo molto importante perché l’avvento di una nuova scienza e di una nuova filosofia
hanno contribuito a modificare il modo di procedere della conoscenza il quale, in campo scientifico, è stato
esemplificato dalla fisica di Galileo Galilei; in ambito filosofico dalle idee di Bacone, Cartesio e Locke. Questi
cambiamenti hanno avuto delle ripercussioni anche sulla pedagogia in quanto ebbe inizio il declino del
paradigma metafisico-religioso mediante il quale era stata interpretata e classificata la conoscenza fino a
quel momento; ci fu un declino dell’intellettuale rinascimentale; si affermarono nuovi modelli (come quello
di Galilei nell’ambito della matematica e di Cartesio nell’ambito logico) e – infine- ci fu la specializzazione
dei saperi. La pedagogia- che era sempre stata ancella della filosofia- nel momento in cui è stata travolta da
questi cambiamenti ha abbandonato il suo percorso tradizionale e ha intrapreso due strade: una di natura
sociale e una di natura scientifica, le quali sono confluite in due paradigmi: il paradigma scientifico e il
paradigma socio-politico che hanno consentito alla pedagogia di diventare un sapere autonomo. Con il
termine paradigma si intende una costruzione teorica attraverso la quale è possibile interpretare il mondo.
Da ciò si evince che – da un lato- si è data molta importanza alla dimensione sociale dell’educazione,
favorendo la costruzione di un paradigma socio-politico il quale intendeva la pedagogia come una disciplina
legata alla filosofia politica. E a tale paradigma si sono ancorate le pedagogie di Marx, Rousseau, Kant,
Gentile, Gramsci, i quali si proponevano tutti dei fini sociali. Dall’altro lato si delineò, prima con Comenio e
dopo con Cartesio, un paradigma scientifico il quale ha assunto maggiore spessore con Locke, che ha
eliminato l’influenza della predestinazione e aperto la strada all’acquisizione di una metodologia scientifica.
Inoltre, il paradigma scientifico è stato molto importante perché ha permesso di costruire una nuova
metodica di indagine dei fenomeni educativi e ha concorso a determinare un nuovo assetto del sapere
pedagogico, articolato in più discipline definite scienze dell’educazione alle quali si è affiancata la filosofia
dell’educazione che si connota come il pensiero critico sul senso di questo sapere e sul suo universo di
valori. Il principio regolatore della pedagogia è l’emancipazione del soggetto, il quale tende alla formazione
che Cambi ha definito il “volano di senso” della pedagogia. Per formazione si intende il processo attraverso
il quale il soggetto scegli autonomamente il percorso da seguire, nonché la sintesi dell’aspetto sociale e
scientifico della pedagogia. Infatti, non si può pensare alla pedagogia senza pensare alla formazione che ne
ha accompagnato la storia, assumendo – di volta in volta- connotazioni aderenti ai contesti culturali delle
varie epoche e dando vita a modelli come quello della paideia e della Bildung. La paideia, che intendeva la
formazione come un processo culturale, è stata il principio regolatore della pedagogia occidentale sino
all’avvento dell’età moderna, durante la quale c’è stata la nascita di una nuova cultura fondata
sull’empirismo filosofico e sul mito della scienza. Tuttavia il declineo della paideia è durato poco in quanto
nel 1700 Kant ha affermato la posizione di un nuovo umanesimo e ha avviato alla Bildung, modello
formativo di stampo idealistico. In questa prospettiva la formazione resta, quindi, come categoria reggente
del discorso pedagogico anche se appartiene ad altre scienza umane, quali: la psicologia, la sociologia e
l’antropologia per ciascuna delle quali assume connotati e accezioni diverse. Inoltre, in un mondo
complesso come quello attuale la ricerca ha individuato per la formazione un ruolo decisivo, ossia quello di
regolatore pedagogico in grado di portare ad una diffusa presa di coscienza. In più la formazione è utile
anche per comprendere le decifrare a complessità che – nella società moderna- si sta affermando come un
paradigma epistemico valido per tutte le discipline. Pertanto non ci si avvale più della distinzione tra scienze
pure e scienze umane in quanto l’imprevedibile, il caso, sono riusciti a penetrare anche nella fisica classica.
In riferimento alla complessità, molto importante è stata la riflessione di Prigogine e di Morin in quanto il
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primo ha preso in considerazione la complessità nell’ambito della natura; il secondo nell’ambito delle
scienze umane. Prigogine ha messo in evidenza che nel momento in cui si manifestano delle situazioni di
non equilibrio, la materia si organizza in strutture complesse che sembrano obbedire a proprietà
sconosciute e che – in questo modo, l’universo tende ad assumere una complessità paragonabile a quella
che c’è dentro di noi. Morin – invece- ha affermato che la complessità non è legata solo a fenomeni
empirici, ma anche a problemi di ordine concettuale inerenti l’impossibilità di stabilire una connessione tra
il tutto e la parte. In questa società dominata dalla complessità, i problemi che vengono presentati alla
pedagogia sono di diversa natura. Un primo problema che si intende risolvere è quello relativo alla
promozione e attuazione più pregnante della formazione permanente in quanto la società moderna si sta
trasformando, passando da società fondata sulla forza lavoro a società fondata sulla conoscenza, di cui
sono protagonisti i “knowledge worker” ossia i lavoratori in possesso di specifiche competenze e capaci di
svolgere lavori di alta qualificazione. Tale processo ha generato un’emergenza formativa sia per i giovani
che si affacciano al mondo del lavoro; sia per gli adulti che rischiano di essere messi da parte perché carenti
delle competenze richieste. Proprio per questi motivi la necessità di promuovere politiche mirate a
sostenere e diffondere progetti di educazione permanente è diventata sempre più incombente e – accanto
a ciò- si sono aggiunti il problema di attuare progetti a medio-lungo periodo mirati a rafforzare
l’apprendimento come potenzialità individuale e il problema di dare risposte immediate ad emergenze
importanti come quella dell’alfabetizzazione, della disoccupazione, dell’emarginazione e dell’esclusione. In
questo contesto è importante riorganizzare i sistemi di istruzione, valorizzando oltre che l’istruzione
formale anche quella informale e non-formale ; e puntare verso una formazione che non sia più intesa
come sinonimo di scuola, alfabetizzazione e scolarizzazione, bensì come capacità di apprendere ad
apprendere, nonché come la capacità di acquisire conoscenze di base che possono essere spese nelle varie
esperienze di vita istituzionali e non. La società attuale è poi caratterizzata da una serie di differenze che
hanno provocato una serie di disordini. Quelle sulle quali si è concentrata particolarmente la pedagogia
sono state la differenza di genere e la differenza culturale. La prima ha comportato una critica nei
confronti del mondo culturale e familiare centrato sul predominio maschile e ha spinto la pedagogia a dare
importanza al tema relativo all’educazione femminile, il quale è stato affrontato sia come ricerca storica, sia
come elaborazione teorica di un modello di società in cui siano rappresentati i valori del mondo femminile
che cerca una conciliazione tra mente e affetti. In questo modo si è potuta affermare – anche – una
pedagogia degli affetti la quale si muove verso una formazione intesa in un’accezione più ampia la quale
comprende, insieme all’intelletto, anche la sfera emotiva. La differenza culturale spinge la pedagogia a
promuovere una cultura che rispetti le differenze etniche e capace di favorire un clima di scambio e di
comprensione. Per questo motivo appare necessario avviare una riflessione pedagogica intorno alle
problematiche connesse al confronto tra culture diverse, nonché l’elaborazione di un modello formativo
che possa contribuire alla nascita di una reale e moderna società interculturale, in grado di accogliere ogni
differenza come un valore o come una risorsa.
CAPITOLO I
L’ITINERARIO DELLA PEDAGOGIA SCIENTIFICA
1.1 IL DECLINO DEL PARADIGMA METAFISICO-RELIGIOSO
Il 1600 è stato un secolo importante perché in esso sono giunti a compimento i fermenti rivoluzionari
dell’Umanesimo e del Rinascimento che, associandosi alla nascita di una nuova scienza e di una nuova
filosofia, hanno segnato una svolta epocale nella storia del pensiero dell’uomo. Infatti la sistemazione
tradizionale del sapere, la quale era di tipo enciclopedico e –quindi- procedeva per accumulazione, si
presentò come inadeguata nei confronti delle nuove conoscenze che richiedevano l’individuazione di un
metodo di analisi e di studio della realtà. Pertanto, avvenne – nell’ambito della conoscenza umana- quella
che Khun definisce una “rivoluzione scientifica” consistente nell’abbandono del vecchio paradigma (ossia
quello aristotelico-tolemaico) e nell’assunzione di un nuovo paradigma, e cioè di un nuovo costrutto teorico
attraverso il quale interpretare il mondo. Secondo Khun, nel momento in cui si passa da un paradigma ad
un altro gli scienziati modificano il loro modo di osservare il mondo in quanto si aprono verso nuovi
orizzonti, cominciano a porsi domande più complesse e danno un’interpretazione diversa a ciò che hanno
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visto in precedenza. Un elemento peculiare del cambiamento che stava attraversando il XVII secolo è stato
la frammentazione e la diversificazione dei saperi. A ciò si è aggiunto anche la scomparsa della figura
dell’intellettuale rinascimentale (che riassumeva in sé tutti i saperi); la diversificazione delle competenze e
degli interessi e, infine, l’accentuazione del rigore specialistico. Mentre in campo scientifico Galileo ha
impresso una svolta radicale allo sviluppo della fisica, in ambito filosofico si sono affermate idee
completamente nuove rispetto al passato. I max esponenti di questa nuova corrente filosofica sono stati:
Bacone, Cartesio e Locke i quali hanno superato la filosofia aristotelica mediante l’uso di un metodo
razionale del pensiero che per Bacone si fondava sull’induzione e sull’esperienza; per Cartesio sulla logica e
per Locke sulla rivalutazione della conoscenza sensibile i cui prodotti sono poi elaborati dalla riflessione.
La filosofia di Cartesio è stata dirompente nel ‘600 in quanto ha messo in evidenza che la realtà così come
viene percepita attraverso i sensi non è veritiera, ma è caratterizzata da una serie di contraddizioni e
inganni. Il pensiero di Cartesio si sviluppò parallelamente alla teoria copernicana, la quale ha sostituito alla
realtà di un universo percepibile con l’esperienza quotidiana una realtà ottenuta attraverso il pensiero
matematico, la quale si differenzia dalla prima (infatti non è il sole che ruota intorno la terra, ma il
contrario). Alla luce di queste scoperte scientifiche e filosofiche, Cartesio ha affermato – in primo luogo- di
non accettare nulla per vero se questo non si presenta in modo chiaro alla ragione; in secondo luogo di
risolvere un problema suddividendolo in tante parti minori ciascuna delle quali devono essere studiata in
modo approfondito; infine che è importante condurre i propri pensieri partendo dal concetto più semplice
per poi giungere, progressivamente, a quello più complesso. Come Cartesio, anche Galileo (nell’ambito
della fisica) ha dato una svolta in quanto ha sostituito alla realtà così come essa appare, una realtà ottenuta
applicando allo studio dei fenomeni il razionalismo matematico. Secondo Amsterdamski (filosofo della
scienza) l’affermazione di un nuovo ideale di scienza, che ha caratterizzato il 1600, è stato possibile grazie
ad un cambiamento della concezione del mondo, concepito non più come un sistema finito, ordinato e
gerarchicamente differenziato, ma come un sistema aperto, infinito e regolato da leggi universali. Da ciò si
evince che nel mondo moderno non c’era più spazio per la perfezione, l’armonia e la predestinazione e che
– di conseguenza- la conoscenza immediata (che precedentemente era l’unica alla quale si rifacevano gli
uomini) cominciò ad essere ritenuta ingannevole in quanto l’uomo non aveva più un’estrema fiducia su ciò
che percepiva mediante i sensi. Inoltre – in quest’ambito- è stata superata anche la concezione aristotelica
secondo la quale la spiegazione scientifica serve a ridurre ciò che ignoto in ciò che è noto. Infatti essa è
stata sostituita con un’altra concezione la quale ha messo in evidenza che la scienza si propone di spiegare
ciò che è noto mediante ciò che è ignoto. Per quanto riguarda la pedagogia, che ancora non aveva acquisito
un proprio statuto epistemologico, vediamo che tutti gli eventi del 1600 hanno contribuito al declino del
paradigma metafisico-religioso il quale non era più adeguato ad inquadrare correttamente le coordinate
del pensiero di quel periodo. In questo clima il discorso pedagogico ha assunto finalità politiche e sociali in
quanto cominciò ad essere molto attento alla realizzazione di un uomo pienamente inserito nel contesto
del suo tempo. La tradizione metafisico-religiosa ha dominato il sapere pedagogico x lungo tempo, ma
l’irrompere di un nuovo tipo di intellettuale (nato con l’Umanesimo e il Rinascimento) immerso nei
problemi del suo tempo e interessato a discutere questioni giuridiche e politiche, ha sconvolto un sistema
ben organizzato. In aggiunta a ciò c’è stato un cambiamento dei punti di riferimento, la nascita di un nuovo
paradigma (di tipo socio-politico), l’emergere di un nuovo modo di organizzare le conoscenze e di un
diverso schema interpretativo della realtà. La pedagogia, che si è sempre configurata come la disciplina che
codifica e trasmette i comportamenti richiesti dal modello socio-culturale è stata investita dall’onda di
cambiamenti che hanno caratterizzato il XVII secolo e di conseguenza si è ritrovata a teorizzare un nuovo
ideale educativo concentrato sulla formazione di un uomo capace di partecipare attivamente e
coscientemente alla vita politica e sociale. Questa nuova pedagogia cominciò a costruire la propria identità
seguendo le idee di Moro, Campanella e Bacone il quale concepiva l’educazione come lo sviluppo delle
facoltà mentali, aspetto che veniva preso in considerazione molto poco dai pedagogisti suoi
contemporanei. Inoltre, questa esigenza della pedagogia di puntare verso una formazione civile fu così
forte che fu posta sia dagli ambienti della Riforma calvinista, sia da quelli della Controriforma. In questo
modo la dimensione sociale dell’educazione è diventato il nodo centrale della pedagogia non solo del 1660,
ma anche di quella del Settecento sino al 1900. Durante questo periodo il paradigma socio-politico della
pedagogia si è sviluppato e affermato sempre di più anche grazie a diverse correnti di pensiero ( romantica,
positivistica e pragmatista) e grandi personaggi della filosofia ( Hegel, Marx, Comte e Dewey ).
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1.2 LO SVILUPPO DEL PARADIGMA SOCIO-POLITICO
Il cambiamento della visione del mondo e del modo di intendere la conoscenza avvenuto nel 1700 è stato
possibile grazie alla diffusione di un atteggiamento laico. Mentre nel 1600 si è data importanza
all’identificazione della scienza con il metodo matematico, nel 1700 si è valorizzato il sapere empirico, tanto
è vero che il nesso ragione-esperienza è diventato un carattere peculiare del pensiero illuministico. Questa
nuova apertura metodologica ha giovato, in particolar modo, tutte quelle scienze che indagano sullo
sviluppo delle facoltà umane e, quindi, sull’evoluzione dell’individuo. Tali scienze sono: la medicina,
l’etnologia, la pedagogia; e uno scritto molto importante, all’interno del quale si pone molta attenzione alla
dimensione sociale dell’educazione, è il manuale del medico Jean Itard, in cui viene descritta la sua
esperienza di educazione di un giovane ritrovato in una foresta e che viveva allo stato animale. In questo
modo, il paradigma socio-politico cominciò a svilupparsi sempre di più e a porsi come modello educativo
dominante non solo nel 1700, ma anche nei due secoli successivi. Infatti, Rousseau e Kant hanno posto al
centro del discorso pedagogico la funzione politica; Hegel ha fatto lo stesso puntando sulla dimensione
sociale dell’educazione; Marx ha declinato il paradigma evidenziandone l’aspetto politico. Per quest’ultimo
l’educazione è sempre educazione di massa, finalizzata a trasmettere ai giovani l’ideologia della classe
dominante all’interno della società. Erede delle grandi idee espresse nell’800 è stato Dewey, il quale ha
elaborato un modello educativo che ha orientato per lungo tempo le scelte della pedagogia del 1900.
Dewey si proponeva di dar vita ad una società democratica, all’interno della quale tutti dovevano avere le
stesse possibilità per realizzare le proprie potenzialità e le stesse opportunità di crescita intellettuale. Per
realizzare ciò c’era bisogno di un’educazione adeguata in quanto un governo che dipende dal suffragio
universale non può crescere se coloro che eleggono e seguono i loro governanti non sono ben educati;
inoltre, siccome la democrazia non accetta forme di autorità esterna, l’educazione rappresenta l’unico
mezzo per dare delle regole. Tuttavia questa devozione della democrazia nei confronti dell’educazione
viene spiegata in modo ancora più approfondito. La democrazia non può essere considerata solo una forma
di governo, ma anche un tipo di vita associata in cui l’azione del singolo dipende da quella degli altri e
viceversa perché tutti si propongono di raggiungere determinati obiettivi. Una società di questo tipo -e cioè
ricca, mobile e in cui non ci sono barriere di razza, di classe e di territorio nazionale- deve valutare e attuare
l’educazione dei cittadini all’adattabilità e all’iniziativa personale in quanto essi correrebbero il rischio di
essere sopraffatti dai cambiamenti. Oltre all’elaborazione del suo modello di società e di educazione,
Dewey ha fatto un’analisi compiuta di tre filosofie dell’educazione le quali, anche se si sono sviluppate in
epoche diverse, hanno dato una grande importanza al significato sociale dell’educazione. Esse sono la
filosofia di Platone, l’individualismo illuministico e le filosofie idealistiche classiche, di cui Dewey ha messo
in luce i caratteri innovativi ma, nello stesso tempo, anche quegli aspetti che non le rendevano attuabili.
Per quanto riguarda Platone, egli ha affermato che questo filosofo ha elaborato una filosofia molto vicina a
quella proposta da lui stesso, ma sbagliata nel funzionamento in quanto considerava unità sociale la classe
piuttosto che l’individuo. L’individualismo illuministico ha proposto l’idea di una società vasta quanto
l’umanità, ma non ha messo ben in chiaro l’istituzione in cui doveva realizzarsi concretamente tale
comunità. Infine, le filosofie idealistiche classiche hanno individuato nello stato nazionale l’istituzione nella
quale realizzare il processo educativo ma, hanno limitato in questo modo la concezione dello scopo sociale
ai soli membri della politica e reintrodotto l’idea della subordinazione dell’individuo all’istituzione. Il
paradigma socio-politico è stato interpretato dai singoli autori in maniera diversa ma, nonostante ciò, esso
presentava delle caratteristiche peculiari, come quella secondo la quale alla base del paradigma c’era la
concezione di una pedagogia strettamente legata alla filosofia politica la quale indica i fini da perseguire
(che dovevano essere dei pini sociali e politici) e il percorso da compiere. Autori che, con le loro pedagogie,
hanno rispettato tali caratteristiche sono stati Gramsci, Gentile, Hegel, Marz e Kant. Nel 1700 il declino del
paradigma metafisico-religioso non è stato accompagnato solo dalla nascita del paradigma socio-politico,
ma anche da quella del paradigma scientifico (sviluppatosi nel corso dell’800 con il Positivismo) e
antropologico-filosofico, cioè la Bildung (= formazione dell’uomo integrale, ragione+cuore) e si costruiva
tutto intorno all’uomo e alle sue esperienze spirituali (ritorno alla paideia classica, anche se rimodernata).
1.3 IL PARADIGMA SCIENTIFICO
Nel 1800 l’affermazione del Positivismo ha contribuito allo sviluppo del paradigma scientifico nell’ambito
della pedagogia. Tale paradigma già cominciò ad essere promosso da Comenio (1592-1670), il quale era
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convinto che l’apprendimento doveva fondarsi sull’osservazione e sulla ricerca delle leggi regolatrici della
natura umana. In seguito, la filosofia di Cartesio (1596-1650) ha spinto la pedagogia ad acquisire un
approccio di tipo razionale al problema educativo, ma è stato con Locke (1632-1704), verso la fine del
secolo, che la pedagogia si è avviata verso l’acquisizione di una metodologia di tipo scientifico,
determinando, in questo modo, l’inizio del suo rapporto conflittuale con le scienze sperimentali. Locke era
un empirista che puntava sull’esperienza e sull’intelligenza i quali sono stati i due fattori su cui si è costruita
gran parte della pedagogia scientifica contemporanea. Inoltre, l’empirismo di Locke ha eliminato l’influenza
della predestinazione nell’ambito filosofico e ha favorito lo sviluppo di una cultura diversa e la creazione di
una società rinnovata, dinamica, in cui l’iniziativa del singolo individuo e l’intelligenza dovevano essere
decisivi per lo sviluppo della sua condizione economica e sociale. La posizione di Locke era quella del
protestantesimo liberale, il quale riconosceva all’uomo una libertà che lo rendeva responsabile delle
proprie azioni. Questa posizione di Locke riprendeva quella di Pelagio (un teologo inglese) che,
opponendosi a Sant’Agostino, sosteneva che il peccato originale ha determinato la condanna di Adamo ma
non dell’intera umanità in quanto l’uomo è titolare di una libertà la cui esistenza salva il destino dell’azione
morale. La tesi di Pelagio fu condannata dalla Chiesa, ma in seguito ha trovato dei sostenitori in Rousseau e
in Locke i quali sono andati contro Sant’Agostino che riteneva che il fanciullo non può apprendere nulla
oltre a ciò che già sa, pertanto l’educazione non è altro che la rivelazione di una sapere innato. Secondo
Locke, invece, gli uomini si distinguono l’uno dall’altro per una serie di caratteristiche imputabili
all’educazione ricevuta; di conseguenza i genitori devono essere molto attenti nella formazione della mente
del bambino in quanto sin dal principio devono trasmettergli quell’impronta che avrà un’influenza su tutta
la sua vita. Le idee di Locke furono così innovative e brillanti che catturarono l’attenzione anche di alcuni
settori della cultura cattolica, come quello dei gesuiti i quali avevano fiducia nell’istruzione che intendevano
come uno strumento di libertà perché consente all’uomo di operare scelte consapevoli. Questa loro
concezione li pose contro i giansenisti, i quali furono subito pronti ad accusarli.
Nel secolo successivo Rousseau (1712-1778) ha delineato le coordinate della pedagogia scientifica e ha
scritto l’Emilio, il primo romanzo pedagogico il quale ha segnato l’inizio della pedagogia moderna e
contemporanea. Visalberghi, invece, in riferimento al discorso relativo alla scientificità della pedagogia ha
affermato che le caratteristiche principali per riconoscere una disciplina scientifica sono due: una natura
empirico-sperimentale e una salda struttura di tipo ipotetico-deduttivoe a ciò ha aggiunto che si può
parlare di scienza anche se è presente una sola di queste caratteristiche.
Nel momento in cui si parla di scienza in riferimento alla pedagogia o alla filosofia, con il termine “scienza”
si intende una forma di conoscenza particolarmente garantita, ma non esclusiva. Inoltre, il carattere
scientifico di una disciplina lo si può dedurre se sono presenti due elementi: il primo è metodologico, la
scienza si basa su esperienze replicabili le quali autorizzano a fare delle previsioni; uno logico-strutturale:
una scienza è costituito da un insieme ordinato e coerente di concetti ben definiti connessi in proposizioni
fondamentali da cui altre sono deducibili secondo regole ben definite. All’inizio del secolo si è cominciato a
parlare di scienze dell’educazione in quanto sotto la spinta delle scienze sociali, che si fecero interpreti dei
cambiamenti sociali, si è capito che la pedagogia non poteva indagare da sola in un campo così composito
come la formazione dell’individuo. Per questo motivo sono nate le scienze dell’educazione, intendendo con
esse un ambito complessivo di discipline che studiano il funzionamento educativo da diversi punti di vista.
Tra le diverse scienze dell’educazione, alcune sono considerate scienze anche se hanno una struttura
teorica molto carente; e ciò è possibile perché esse si avvalgono di un approccio metodologico di tipo
empirico-sperimentale. Visalberghi ha riconosciuto, poi, a Rousseau il merito di avere indicato per primo
l’oggetto della pedagogia: ossia lo studio dell’allievo e lo ha considerato come uno dei precursori della
pedagogia scientifica insieme a Pestalozzi, il quale ha sottolineato che è importante per il docente
possedere gli strumenti metodologici finalizzati all’ottimizzazione dell’intervento educativo e tener
presente la condizione sociale di partenza del soggetto sui risultati dell’apprendimento. Tuttavia, è stato
con il Positivismo che è nata la vera pedagogia scientifica, capace di avviare processi di analisi sperimentale
dei modelli educativi proposti. Il processo di rinnovamento che attraversò la pedagogia in questo periodo
consistette nell’applicazione di un metodo d’indagine, e cioè il metodo galileano che si articola in 4 punti:
osservazione di un fenomeno, formulazione di un ipotesi, sperimentazione e verifica. Il paradigma
scientifico è stato molto importante per la pedagogia in quanto, anche se esso presentava dei limiti, ha
alimentato un vasto movimento di idee e ha consentito di costruire una metodica di indagine dei fenomeni
educativi che ormai è stata pienamente acquisita. Inoltre il sapere pedagogico, in questo periodo, è stato
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articolato in più discipline: le scienze dell’educazione le quali si proponevano di studiare e trovare delle
soluzioni ai vari problemi educativi che sorgevano da una società in rapida evoluzione e caratterizzata da
numerose innovazioni tecnologiche che richiedevano un ampliamento di conoscenze in ambiti nuovi e
inducevano a cambiamenti profondi nella condizione dell’uomo. In questo contesto, alla pedagogia si sono
affiancati una serie di saperi specializzati che, inizialmente, si sono soffermati soprattutto sull’analisi degli
aspetti e dei settori diversi dei fenomeni che hanno innervato la società complessa e che, in secondo luogo,
si sono suddivisi in settori sempre più specifici (ad es. la psicologia si è distinta in psicologia sociale,
psicologia dell’età evolutiva, ecc.) in modo da poter indagare un problema in tutti i suoi aspetti. In questo
scenario rinnovato delle scienze dell’educazione, alla pedagogia è stato assegnato il ruolo di riflessione
filosofica (ed è per questo essa è giunta a coincidere con la filosofia dell’educazione) che come
epistemologia (ossia riorganizzazione logico-scientifica e filosofica del discorso) e come axiologia (ossia
scelta dei valori-guida per l’elaborazione pedagogica) che è risultata imprescindibile in ogni esercizio o
comprensione del discorso pedagogico. Tuttavia l’articolazione della pedagogia in scienze dell’educazione è
avvenuta con difficoltà a causa di una serie di timori e critiche esposte dai settori più tradizionali della
disciplina stessa. Infatti le scienze dell’educazione, prese in considerazione nel modo in cui sono nate,
hanno portato nella direzione della proliferazione delle discipline che se, da un lato, potevano portare ad
un arricchimento della conoscenza, dall’altro hanno condotto solo verso la confusione e una crisi di
identità. Ciò non significa che bisognava ritornare ad un sapere pedagogico chiuso rispetto agli altri saperi,
ma dar vita ad un sapere pedagogico capace di creare un rapporto critico e dialettico con gli altri saperi e di
mettere a confronto criticamente assunti teorici, approcci metodologici e ricadute pratiche, senza
accontentarsi di essere la dimensione applicativa di teorie elaborate altrove. Il nuovo assetto delle scienze
dell’educazione è stato l’evento epocale della pedagogia contemporanea in quanto ha mutato l’identità e la
portata della pedagogia e ne ha caratterizzato la crescita e l’autocomprensione come sapere teorico e
pratico. La nuova pedagogia, infatti, ha assunto connotazioni più legate all’esperienza che viene ritenuta
(dalla Frauenfelder) lo strumento di raccordo tra condizionamento biologico e flessibilità appprenditiva in
quanto essa consente al soggetto di mettere in atto le proprie potenzialità neuronali possedute già
geneticamente; in più si è aperta al contributo delle altre scienze. In sintonia con la prassi pedagogica di
tipo scientifico si è sviluppata – nell’ambito della filosofia dell’educazione- una corrente che si è proposta di
trovare il fondamento scientifico della pedagogia. Uno dei max esponenti di questa corrente è stato Dewey,
il quale sosteneva che la scienza dell’educazione non poteva essere costruita prendendo in prestito le
tecniche di sperimentazione e di misura che si trovano nella scienza fisica. Le fonti della scienza
dell’educazione sono costituite da porzioni di conoscenza accertata che vengono prese in considerazione
dagli educatori e sono utili perché migliorano l’esplicazione della funzione dell’educazione. Tuttavia, la
pecca delle scienze dell’educazione è quella che non si giunge mai ad una soluzione e/o conclusione
definitiva, ma essa è sempre in corso in quanto l’educazione può essere paragonata ad una spirale: essa è
un’attività che include in sé la scienza; è un’attività che nel suo processo pone continuamente problemi che
richiedono ulteriori studi per essere risolti; questi studi a loro volta reagiscono sul processo educativo per
modificarlo, richiedendo così maggior pensiero, più vasta scienza e così via. Una soluzione immediata ai
problemi potrebbe essere trovata al di fuori dell’educazione, ma questo segnerebbe la sua resa. Le fonti
scientifiche dell’educazione è ovvio che non possono essere paragonate a quelle di una scienza esatta come
la matematica in quanto esse seguono un ‘evolversi dell’individuo e di conseguenza appaiono sempre più
arretrate. Per questo motivo molti studiosi delle discipline sociali si sono allontanati dagli avvenimenti che
si verificavano nelle scuole, determinando la diffusione – all’interno delle scuole- del convenzionalismo e
dell’abitudinarietà delle opinioni contingenti. Dall’analisi di ciò si può dedurre il perché i sistemi educativi
più che essere la sede del contenuto vero e proprio della scienza dell’educazione, si sono rivelati come la
fonte sei suoi principali problemi. Analizzando il cammino del paradigma scientifico della pedagogia si è
emersa la difficoltà che c’è stata e che c’è per l’affermazione della sua scientificità. Tale difficoltà è
determinata dal fatto che il discorso pedagogico è molto complesso ed è caratterizzato da una molteplicità
di aspetti che non lo permettono di essere inquadrato in un modello interpretativo globale (come quelli
tipici delle scienze sperimentali). La crescita scientifica della pedagogia ha avuto un andamento definiblie
“schizoide” in quanto essa da un lato si è proposta di aderire ai principi delle scienze naturali (sia per ragioni
intrinseche che per ragioni estrinseche); dall’altro non voleva ridursi a sapere estremamente scientifico, e
cioè non voleva perdere la sua identità e la sua autonomia. Infine bisogna dire che la nascita e lo sviluppo
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del paradigma scientifico è stato importante perché ha permesso alla pedagogia di acquisire un metodo di
analisi improntata sul rigore sperimentale e la cosapevolezza della sua capacità di risolvere i problemi.
1.4 LA FORMAZIONE COME CATEGORIA CENTRALE
Nel corso degli ulitmi 20 anni è stata compiuta una riflessione teorica sulla struttura del discorso
pedagogico e sui suoi elementi costitutivi, anche se la pedagogia stava vivendo un momento di crisi
d’identità perché sempre in bilico tra scienza e filosofia. Da questa riflessione è scaturito un paradigma
epistemologico-metateorico il quale, rileggendo e compiendo una sistemazione organicca del sapere
pedagogico, sembra aver risposto all’esigenza di fornire una base solida ad una disciplina così frammentata
come la pedagogia. Tuttavia questo paradigma non è giunto a compimento, ma è in fieri in quanto la
riflessione pedagogica comporto molte più problematiche rispetto alla riflessione compiuta su una scienza
empirica e naturale in quanto l’oggetto della pedagogia (ossia la formazione) è molto complesso e
problematico. Attualmente, nell’ambito degli studi pedagogici, ci snon diversi gruppi di studiosi che
puntano verso l’individuazione –per la pedagogia- di uno statuto di una scienza empirica dell’educazione le
cui caratteristiche devono essere : l’interdisciplinairetà (nel senso che la ped. deve collegarsi e stabilire un
rapporto con le altre scienze umane); la sperimentazione e il controllo metoodologico. Questa ricerca
segue, un po’, la direzione proposta da Piaget il quale ha affermato che lo sviluppo e l’evoluzione della
pedagogia è parallelo a quello della psicologia dello sviluppo e della sociologia. Questo rapporto che la
pedagogia stabilisce con le altre scienze umane è duplice in quanto – da un lato- essa trae da queste i suoi
materiali di lavoro; dall’altro, nel momento in cui c’è bisogno di verificare un’ipotesi, manda le proprie a
queste scienze. Analizzando questo rapporto che la pedagogia ha con le atre discipline, molti hanno messo
in discussione la sua autonomia e – in seguito- la sua identità in quanto hanno affermato che è difficile
definire se la pedagogia è una vera forma di ricerca empirica o una teoria dell’educazione a casua della sua
dipendenza dalle altre discipline. Contro queto dubbio è stato messo in evidenza che le scienze umane,
prese indipendentemente, non sono in grado di risolvere empiricamente i problemi educativi, ed è per
questo che è necessaria questa loro relazione di cui fa parte la pedagogia, la quale si afferma sempre di più
come una disciplina scientifica e come ricerca. L’ideale di una pedagogia sperimentale è nato già alla fine
dell’800 ma solo verso la fine del 1900 ha subito una forte accellerazione e un’affermazione universale.
Oggi – infatti- buona parte della pedagogia si risolve in una ricerca educativa, in indagini sperimentali su
problemi specifici, dalla soluzione dei quali si tende a fissare una scienza dell’educazione capace di investire
l’apprendimento e i duoi fattori costitutivi. All’elaborazione di una scienza empirica hanno contribuito
diversi autori, quali: Brezinka, Visalberghi, De Bartolomeis, Laporta il quale ha affermato che la pedagogia
deve stabilire un rapporto anche con le scienze comportamentali nel momento in cui esse trattano di
problemi educativi, stabilendo – in questo caso- la propria area di competenza senza limitarsi ad una sola
lettura in chiave ideologica in quanto essa non è più solo teoria ma scienza empirica, che si fonda- quindisul rapporto tra teoria e prassi.
Berzinka, sostenendo l’idea che possono essere accettate come conoscenza scientifica quelle asserzioni
che possono essere valutate e confutate nella realtà empirica, ha affermato che la pedagogia trova
difficoltà nell’affermarsi come scienza perché essa ha in sé inglobata un’ideologia, una specifica concezione
del mondo che la spingono a formulare giudizi; carattere, questo, estraneo ai saperi scientifici. Allora
Berzinka ha proposto di scindere la pedagogia tradizionale in 3 discipline: la scienza empirica
dell’educazione; la filosofia dell’educazione e la pedagogia pratica, ciascuna con un proprio metodo di
indagine e con uno specifico campo di azione. La scienza empirica dell’educazione si fonda – da un punto di
vista metodologico- sulla ricerca sperimentale e sull’elaborazione di teorie dell’educazione capaci di guidare
un progetto educativo fondato sulle teorie dell’apprendimento e su quelle tese all’individuazione degli
aspetti motivazionali del comportamento. Inoltre, tale disciplina ha come caratteristica principale il
controllo dei suoi metodi, delle sue procedure, dei suoi scopo che sono sottoposti a numerose critiche e
rivalutazioni. La filosofia dell’educazione può essere definita come una riflessione approfondita sulla
struttura, sui fini e sulla fenomenologia del sapere pedagogico. Una filosofia del genere si connota, quindi,
come pensiero critico sull’oggetto della pedagogia, sulla sua strutturazione logica, sul suo linguaggio e sui
modelli che adotta tesi a ricercarne il senso. Da ciò si evince che la condizione di possibilità della fondazione
del sapere pedagogico si basa sull’accettazione che l’educazione non è solo l’oggetto di identificazione della
pedagogia, ma anche l’ipotesi dalla quale partire per fondare una pedagogia che è scienza, ma critica e
progettuale. Critica nel senso di autocritica; progettuale nel senso di proiettata verso il futuro mediante la
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costruzione di modelli nuovi di uomo, cultura e società. La filosofia dell’educazione è poi impegnata sul
fronte dell’axiologia della pedagogia e cioè essa si propone di definire l’universo di valori che la connotano
e che contribuiscono a stabilirne il senso. Il percorso della pedagogia, infattti, converge in specifici valoriguida che riguardano il soggetto e la sua formazione sia individuale che come essere sociale. Tali valori
sono: la libertà, l’eguaglianza, la comunicazione, la responsabilità e l’emancipazione la quale - con
Habermas - è stata riconosciuta come il ruolo-guida delle scienze umane che cercano di far superare
all’uomo (fornendogli gli strumenti necessari) dai condizionamenti posti da se stesso e dalla società. La
pedagogia, tra le diverse scienze umane, è quella con maggiore valenza emancipativa: infatti se per le
scienze umane l’emancipazione è un valore-guida, per il sapere pedagogico essa è un principio regolatore
capace di mettere al centro della sua prassi il rapporto educativo il quale tende alla formazione
dell’individuo, nonché alla sua emancipazione. Molto importante è la riflessione di Cambi sulla filosofia
dell’educazione. Egli sostiene che essa funziona da dispositivo di controllo sui saperi della pedagogia,
fissandone lo stemma epistemico e ponendolo nella complessità del suo discorso; complessità che fissa
anche gli ambiti in cui si articola il processo di interpretazione e riorganizzazione del sapere pedagogico.
Una caratteristica peculiare della filosofia dell’educazione, secondo Cambi, è che essa compie una
riflessione sulla pedagogia in funzione della formazione (intesa come categoria reggente e come volano di
senso della ped). La formazione è un elemento indispensabile del sapere pedagogico (che senza di essa non
può essere pensato) in quanto essa le è strettamente connessa e ne ha accompagnato la storia assumendo
di volta in volta connotazioni diverse, modellate sui contesti storici e sociali. Al giorno d’oggi il concetto di
formazione assume un’importanza sempre maggiore in quanto la società moderna è molto complessa e
caratterizzata dalla tecnologia avanzata. Di conseguenza, la pedagogia si è ritrovata dinanzi a nuovi
problemi legati sia allo snaturamento del concetto di formazione da parte del mondo del lavoro, sia alla
nascita di ulteriori temi di riflessione aperti dall’estensione della pedagogia in un ambito più scientifico e
pragmatico.
**LA CENTRALITÀ DELLA CATEGORIA “FORMAZIONE” OGGI**
La formazione rappresenta l’oggetto della pedagogia ed è sempre stata la categoria reggente di tale
disciplina, sin dall’antica Grecia. La paideia parlava di formazione dell’uomo, intendendo questo processo
come assimilazione di cultura; concetto – questo- che è durato nel tempo. La formazione umana può essere
concepita in due modi: sia come un processo di oggettivazione del proprio sè nella cultura; sia come un
processo mediante il quale riportare a sé tutta questa produzione dell’uomo, in modo da riviverla ed
operare su di essa una sintesi vitale che diviene la forma del soggetto. Al giorno d’oggi la categoria della
formazione si trva sottoposta ad una serie di cambiamenti semantici i quali stanno inquietando la riflessione
pedagogica. Infatti, la categoria della formazione ha vissuto e sta vivendo un forte rilancio che però non
interessano le vie pedagogiche, ma quella economica-sociologica in quanto per formazione si intende la
formazione professionale, nuova, aperta, più colta, ma pensata da e per il mercato del lavoro. Ciò non può
essere considerato un risultato positivo per la pedagogia perché essa – in qualche modo- è stata depedagogizzata ed espropriata dai suoi significati più alti e nobili.
CAPITOLO II
IL PERCORSO DELLA FORMAZIONE
2.1 IL MODELLO DELLA PAIDEIA E QUELLO DELLA BILDUNG
Ogni attività educativa è; educazione, istruzione e formazione. Il termine educazione deriva dal latino
educere, che significa tirar fuori ciò che nel soggetto è in potenza. L’educazione si configura come un
processo intenzionale che tiene sempre presente un quadro di riferimento (in quanto l’educazione non può
essere pensata come scissa dal mondo sociale e politico) e che mira alla modifica di un comportamento più
o meno stabile. L’istruzione viene concepita come un trasferimento di tecniche e anch’essa è importante
perché rappresenta un bisogno sia per le società, in quanto è funzionale al loro sviluppo, che per
l’individuo che da essa trae quelle competenze per affermarsi nel contesto sociale. La formazione è il
concetto più importante della pedagogia che comprende – in sé- sia l’istruzione che l’educazione. Essa è un
processo di crescita costante che ha come protagonista l’individuo, il quale può formarsi in qualsiasi
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ambiente e scegliere autonomamente il percorso da seguire nel corso della sua vita. Formazione è un
termine antico perché affonda le proprie radici nell’antica Grecia, dove fu formulato il concetto di paideia,
inteso come processo di formazione dell’uomo ideale capace di realizzare la propria umanità secondo valori
universali. Anche se il concetto di paideia affondo le proprie radici nella Grecia più antica, in realtà essa si è
affermata in modo organico e dispiegato solo con la filosofia dei Sofisti e di Socrate, segnando – in questo
modo- il passaggio dall’educazione alla pedagogia. Da ciò si evince che è stato in questo periodo che la
pedagogia si è affermata come sapere autonomo, rigoroso, sistematico il quale ha segnato una svolta nella
cultura occidentale che ha rielaborato - ad un livello più alto e complesso - i problemi dell’educazione,
affrontandoli oltre ogni localismo e determinismo ambientale e culturale.
Nell’antica Grecia si sono alternate diverse forme di paideia: in Omero troviamo una paideia aristocraticoguerriera, finalizzata alla formazione degli aristoi o dei guerrieri; i Sofisti si fecero promotori di una paideia
capace di realizzare una formazione politica mediante il possesso e il controllo della dialettica intesa come
arte del ben parlare. Nella civiltà ellenistica – invece- è emerso il nesso uomo-cultura come elemento
fondante della paideia la quale veniva concepita come formazione di un uomo completo e che tendeva ad
un ideale di uomo de-storicizzato, de-politicizzato e alla ricerca di un equilibrio spirituale interiore che trova
la sua piena universalizzazione nella cultura. Anche se queste forme di paideia sono state diverse, avevano
tutte una caratteristica in comune: l’idea della formazione come processo aperto a cui l’uomo doveva
tendere con un atteggiamento attivo, il quale richiedeva grande disciplina interiore sorretta dall’intelligenza
e dalla volontà. La riflessione dei greci sulla paideia ci ha consegnato l’idea di formazione come processo
culturale condotto dall’uomo mediante l’esercizio del pensiero che riflette su se stesso e su se stesso nel
mondo. Dall’analisi di ciò si evince che la paideia classica ha pensato l’educazione dell’uomo come un
processo, sempre aperto, di costruzione di un uomo sempre più universalizzato e immerso nella cultura del
suo tempo, dalla quale raccoglie gli stimoli per il suo sviluppo interiore e per la costruzione piena di sé nel
mondo. Questo concetto di paideia è rimasto vivo a lungo nel corso della storia, anche se ha subito una
serie di modifiche soprattutto da parte del Cristianesimo e del Rinascimento. Con il termine paideia si indica
la formazione dell’uomo basata su un’idea che tendeva a de-storicizzarlo e ad universalizzarlo,rendendolo
sintesi di tutto un universo di cultura. La paideia è nata per opera dei Greci, i quali l’hanno diffusa in tutto
l’occidente come idea di uomo che si modella su di un ideale che coglieva il proprio senso e il proprio valore
in un processo di universalizzazione. Pertanto la paideia è stata una nozione greca la quale si è posta come
punto di intersezione tra due domini, nonché come processo di educazione che si compie nello spazio, nel
tempo, nella società e nelle sue istituzioni. Tuttavia, la paideia cominciò ad entrare in crisi nel Seicento,
durante il quale si è diffuso il mito della scienza e dell’empirismo in campo filosofico e la società si è aperta
ai traffici e al commercio. Da ciò si evince che il modello pedagogico classico non poteva essere più attuato
in una società così cambiata ed è per questo che nacque una nuova pedagogia promossa da Locke.
Nel 1700 la crisi dei valori umanistici continua a farsi sentire in quanto il sistema di valori illuministi non
poteva accettare un ideale pedagogico come quello tradizionale, ma puntava verso la formazione di
cittadini capaci di contribuire al progresso della società. Pertanto, è proprio per questo motivo che in
questo periodo è nata l’esigenza di integrare il discorso pedagogico nell’ambito della vita sociale, di
promuovere un programma di istruzione pubblica generalizzata e di formazione civile, tesa saldare il
rapporto tra la società e le istituzioni. Tuttavia, nel corso di questo secolo, emerse la figura di Kant il quale
ha affermato che l’educazione del cittadino di una nazione doveva essere anche educazione dell’uomo,
inteso come membro della comunità umana. In questo modo egli ha dato vita ad un nuovo umanesimo –
attento alla formazione dell’uomo- che, in seguito, ha trovato l’appoggio di molti altri autori. Più tardi
Shiller si è fatto promotore di una concezione pedagogica anticipatrice dell’idealismo e ha dato vita alla
Bildung: un nuovo modello di paideia, ossia di formazione dell’uomo che coincide con lo Statoil quale
rappresentava – secondo tale concezione- la forma in cui tendeva a riunificarsi la varietà dei soggetti. La
Bildung è stato un modello di formazione dell’uomo di stampo neoumanistico, nato come reazione alla
visione illuministica dell’uomo e basato su una matrice filosofica di stampo idealistico (infatti Hegel è stato
colui che ha compiuto la sua elaborazione più completa). La Bildung è stata un modello per pensare la
formazione, ma – nello stesso tempo- è stata complessa, sfuggente e soggetta ad una serie di amputazioni.
Nonostante ciò essa si è affermata come un modello articolato che ha operato in profondità nella
pedagogia contemporanea andando contro tutte le pedagogie tecniche, parziali, separate dall’antropologia
e risolte in chiave sociologica, scientifica o politica. Inoltre, la Bildung, ha dato alla pedagogia un modello
per pensare la formazione la quale doveva concentrarsi sul soggetto e sull’oggetto, nonché sul loro
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rapporto dinamico. Dall’analisi di ciò si evince che la Bildung ha riattivato – rinnovandola- la categoria della
paideia che, però, vale nel mondo classico ma è obsoleta e tramontata nelle società moderne le quali si
propongono altre direttive. La formazione va intesa come un processo che dura tutta la vita del soggetto. Al
giorno d’oggi con il termine informazione si fa riferimento alle prime fasi di tale processo, ai saperi connessi
al processo formativo, ai contesti di vita e ai vissuti individuali e collettivi. Pertanto il termine indica i
momenti di ingresso del processo, quelli processuali e quelli finali. La società del terzo millennio sarà una
società all’interno del quale gli specialisti e i tecnocratici conteranno di più, mentre gli altri svolgeranno
compiti adeguati al tempo storico. Essi non saranno abbandonati a sé stessi, ma svolgeranno una serie di
attività ludiche e creative in grado di coprire il tempo che precedentemente veniva impegnato dal
facchinaggio delle attività lavorative e liberarlo da peso della sopravvivenza per far durare le istituzioni della
società. per questo motivo la formazione non sarà più sinonimo di alfabetizzazione o di scuola, piuttosto
capacità di apprendere ad apprendere, ossia di acquisire conoscenze di base spendibili nel corso
dell’esperienza.
2.2 NUOVE IPOTESI INTERPRETATIVE
Nell’odierna società ci sono stati processi di suddivisione sociale e culturale i quali hanno coinvolto il
soggetto che, ricoprendo una pluralità di ruoli, ha perso la sua unità. In questo contesto sono nate nuove
posizione filosofiche le quali hanno abbandonato il concetto di Bildung e hanno elaborato nuove categorie
per pensare il presente. Una posizione interessante è stata quella di Luhmann che- mettendo a confronto la
nuova e vecchia società- ha affermato che alla categoria della formazione bisogna sostituire la capacità di
apprendere. Inoltre, egli ha fatto una distinzione tra società stratificate e società funzionalmente
differenziate in relazione alla loro differenzazione interna . le società del passato erano stratificate in
quanto presentavano una scarsa differenziazione interna e consideravano l’educazione come uno
strumento per superare problemi di comunicazione degli strati sociali più alti. Con l’inizio del XIX secolo la
società cominciò a differenziarsi in sottoinsiemi con funzioni specifiche. La differenziazione funzionale della
società ha determinato il fenomeno dell’inclusione il quale ha fatto si che ogni soggetto accedesse in un
sistema funzionale, al quale corrisponde un ruolo funzionale e un certo numero di ruoli complementari .
Inoltre tale differenziazione ha determinato per ciascuna funzione, non solo l’interazione con il proprio
ambito funzionale ma anche con altri ambiti definiti ambiti di coincidenza. Ad esempio : la scuola
rappresentava (nel XIX secolo) l’ambito funzionale, mentre la famiglia ,l’azienda e l’università gli ambiti di
coincidenza. Nel momento in cui nasce- all’interno della società- un nuovo sistema funzionale, è importante
mettere in relazione la sua funzione con l’ambiente sociale; da ciò deriva la necessità di creare strutture
simboliche mirate a risolvere i problemi posti. Tali strutture vengono definite: formule di contingenza. Il
sistema educativo ha riformulato più volte la sua formula di contingenza che progressivamente è stata:
perfezione umana, formazione e capacità di apprendere, le quali non si escludono l’una con l’altra, ma l’una
prevale sull’altra. Il concetto di formazione, alimentato dalla filosofia trascendentale, ha riformulato il
concetto di perfezione e dando molta importanza all’acquisizione del metodo, ha anticipato l’idea di
apprendere per un nuovo apprendimento. Tuttavia la crisi della filosofia del soggetto e della razionalità
illuministica ha determinato la perdita di senso del rapporto individuo–universo e di conseguenza, il
termine formazione è stato utilizzato in modo più generale ed esteso intendendolo come sinonimo di
educazione in tutti i campi in cui manca l’orientamento verso un valore. Nel momento in cui si parla di
apprendimento è necessario sottolineare che esso avviene solo mediante l’insegnamento, il quale
comporta - da un lato - la pianificazione del lavoro e in particolare la scelta di quegli argomenti che portano
l’individuo ad acquisire non tanto i contenuti ma la capacità di saper apprendere; dall’altro costringe ad
esercitare l’apprendimento con intensità adeguata allo scopo. Con l’apprendimento dell’apprendere, il
processo educativo conclude se stesso poiché pone l’apprendimento su di un piano stabile. Il concetto di
saper apprendere si inserisce in una società complessa ed è per questo che esso assume il carattere di una
competenza permanente che consiste nell’andare incontro a dei nuovi saperi modificando i modelli noti di
decodifica e interpretazione della realtà. Da ciò si evince che la capacità di apprendere, la quale si realizza
mediante l’educazione, non è solo la finalità del sistema educativo ma anche la sua premessa di
funzionamento. Habermas ha criticato la teoria sistemica della società di Luhmann in quanto ha affermato
che quest’ultimo ha sostituito al rapporto interno -esterno quello di sistema – ambiente. Tale trasposizione
ha comportato un cambiamento del problema di riferimento: infatti si è passato dalla conoscenza del
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mondo e del sé al mantenimento e all’ampliamento della stabilità del sistema. Tuttavia, trasferendo al
sistema il ruolo che precedentemente era del soggetto si è persa la possibilità di autoconoscenza nella
forma dell’autocoscienza e al concetto di coscienza è stato sostituito quello di senso; pertanto il sistema
capace di elaborare il senso ha preso il posto del soggetto capace di coscienza. L’impossibilità di
autoriferirsi si è riflessa all’interno della società in cui non è possibile individuare un punto stabile dal quale
poter osservare tutto in modo corretto. Inoltre, se gli individui vengono subordinati come parti ad un
soggetto più grande che è la società intesa come il tutto, il loro spazio di movimento e la loro libertà
vengono completamente azzerati. Infatti i processi di formazione dell’opinione e della volontà mostrano
l’intreccio che c’è tra socializzazione e individuazione il quale viene spiegato da Lhumann con il modello di
inclusione delle parti (ossia i singoli individui) con il tutto (e cioè la società). Nella concezione di Lhumann la
coscienza sociale e quella individuale rappresentano due sistemi indipendenti e capaci di fungere da
ambiente mediante delle relazioni esterne; e partendo da tale presupposto (ossia che sistema psichico e
sistema sociale sono indipendenti) ha affermato che la socializzazione è una prestazione propria del
sistema psichico in qualità di autosocializzazione; mentre l’individualità è una modalità di auto descrizione.
Infine, Habermas ha criticato anche questa posizione di Luhmann e in più l’ha inserita in una tradizione che
riflette il modello selettivo del razionalismo occidentale, teso a raggiungere un’autocomprensione
obbiettiva sia dell’uomo che del suo mondo.
2.3 LA FORMAZIONE COME FONDAMENTO DELLA PEDAGOGIA
Al giorno d’oggi assistiamo sempre di più al mutamento del concetto di formazione e al declino di
quell’ambito del sapere deputato (da un punto di vista istituzionale) a farsi carico del problema legato alla
formazione dell’uomo. Per quanto riguarda il concetto di formazione, esso viene utilizzato per
rappresentare cose diverse tra loro e perlopiù legate al mondo del lavoro e lontane dal controllo della
pedagogia. Per andare incontro ad un miglioramento della situazione, il primo passo da compiere è quello
di riappropriarsi della categoria della formazione, assumendola come categoria-cardine della pedagogia e di
disporsi in una posizione aperta nei confronti del suo oggetto, del suo metodo e delle sue categorie. Ma per
far ciò è importante tener presente che la categoria della formazione si trova molto spesso coinvolta in
diversi ambiti del sapere che sono sia codificati disciplinarmente; sia frutto di una serie di teorizzazioni tese
a fornire sintesi che infrangono i confini delle discipline per risolvere dei problemi che non accettano più le
specializzazioni disciplinari e che richiedono nuove alleanze. Un esempio possono essere le teorie
sistemiche, che tendono a dar conto dei problemi relativi alla realtà nel suo insieme; o le teorie della
complessità. Infine, la pedagogia per poter crescere ulteriormente all’interno della moderna società
dovrebbe essere in grado di stabilire dei rapporti con questi saperi e rendere espliciti i concetti di
formazione in essi presenti. Le scienze umane, ciascuna nel proprio ambito, si impegnano a mettere a
punto il concetto di formazione e a progettare delle modalità specifiche di intervento.
La sociologia e la psicologia sociale attribuiscono alla formazione il significato di socializzazione; infatti in
questa prospettiva formare significa trasmettere, attraverso le generazioni, le competenze necessarie al
mantenimento delle diverse funzioni costitutive dell’organizzazione sociale, le norme che regolano le
interazioni sociali e i valori che sostengono il patto sociale. Le istituzioni che trasmettono la socializzazione
sono la famiglia e la scuola, alle quali si aggiungono: i media e la partecipazione a frequenti occasioni di
contatto con la realtà esterna da parte dei giovani. Queste due discipline, quindi, analizzano la formazione
prendendo in considerazione il rapporto società-individuo il quale prevede la trasmissione da parte del
gruppo sociale di norme e valori di addestramento alle competenze richieste dai diversi ruoli sociali e dall’altro lato - la capacità dell’individuo di creare un legame stabile con la società mediante due strumenti:
il linguaggio e l’identificazione con i valori fondanti. In aggiunta alla socializzazione primaria, il gruppo
sociale promuove anche una socializzazione secondaria la quale si propone come un processo di
formazione continua rivolta agli adulti, teso a stabilizzare e ad estendere l’interiorizzazione dei valori già
acquisiti.
Per l’antropologia il concetto di formazione coincide con quello di interculturazione, la quale non
rappresenta solo la trasmissione dei saperi e dei vari saper-fare, bensì quella del sentimento di
appartenenza e del sentimento d’identità che si costruiscono tramandando la conoscenza della storia del
proprio gruppo sociale di generazione in generazione. La cultura è costituita da un doppio capitale: 1) un
capitale tecnico e cognitivo che può essere trasmesso ad ogni società; 2) un capitale specifico che
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costituisce i tratti dell’identità di una comunità. A tal proposito è importante sottolineare che non esistono
gruppi umani privi di un legame forte con le loro origini in quanto esso è necessario perché alimenta il
senso di filiazione; è rassicurante perché trasmette una visione del mondo e fornisce un senso alla vita
umana. Pertanto ogni cultura influisce sullo sviluppo della personalità dell’individuo. Un tratto caratteristico
dell’interculturazione è l’accettazione sia delle regole che fissano i rapporti sociali sia delle responsabilità
attribuite ai ruoli sociali.
La psicologia ha per oggetto di studio la mente umana che studia attraverso una serie di strumenti di
mediazione perché non si può accedere ad essa in modo diretto. Per quanto riguarda il concetto di
formazione, esso no è chiarito in modo dettagliato da questa disciplina perché essa si articola in diverse
branche specializzate. Tuttavia è possibile individuare 4 tematiche intorno alla quale ruota la riflessione
psicologica: 1) la prima tematica si sofferma sullo studio dell’apprendimento di condotte; 2) la seconda è
relativa allo studio delle funzioni psichiche (come immaginazione, intuizione, sentimento);3) la terza si
concentra sullo studio di istanze psichiche come istinti, desideri, complessi; 4) la quarta è legata alla
comprensione della capacità adattiva e creatrice e privilegia lo studio della persona che sta attualizzando
una sua intenzionalità.
PIAGET: Piaget intende l’organismo come unità psico-somatica che vive un rapporto dialettico costante
con l’ambiente esterno; rapporto che si articola in fasi di assimilazione e di accomodamento.
L’assimilazione è quel processo mediante il quale il soggetto acquisisce nuove conoscenze e risolve nuovi
problemi utilizzando gli schemi mentali che già possiede; l’accomodamento è, invece, quel processo
mediante il quale l’individuo fa proprie nuove nozioni e risolve nuove problematiche mediante la
costruzione di nuovi schemi mentali, prodotti dall’associazione di ciò che già si possiede e ciò che è nuovo.
L’assimilazione e l’accomodamento costituiscono i due processi fondamentali della formazione che Piaget
considera quel processo continuo di auto-regolazione di un organismo in costante interazione con
l’ambiente. L’energia che spinge il soggetto ad auto-regolarsi e a formarsi è l’interesse, il quale è un
estensione del bisogno che articolandosi in diverse forme costituisce un sistema di valori che definiscono gli
scopi dell’azione. Nell’interazione con l’ambiente, l’uomo ha una duplice funzione: da un lato egli effettua
le operazioni di assimilazione e accomodamento; dall’altro si orienta in funzione dell’interesse. Infine,
anche se Piaget sostiene che le radici della conoscenza sono di ordine biologico e che essa si costruisce in
base a delle potenzialità neuro-psicologiche, l’interazione da parte dell’individuo con l’ambiente è
importante perché permette a questo di acquisire quelle capacità utili per creare dei rapporti con gli altri e,
quindi, dar vita alla socializzazione.
DELPIERRE: Delpierre considera la formazione come un processo di emancipazione dell’uomo nei confronti
dei propri automatismi e conformismi. Questo studioso parte dallo studio degli effetti prodotti da una forte
emozione (come la paura) per giungere alla conclusione che le limitazioni prodotte sui nostri
comportamenti da parte di queste forte emozioni possono essere superate attraverso la presa di coscienza
di esse. Pertanto la formazione in tale prospettiva è un processo mediante il quale il soggetto cerca di
superare i propri limiti partendo da un livello istintivo e affettivo, per poi giungere ad un livello cosciente.
JUNG: Jung considera la formazione come il risultato della tensione dialettica tra conscio e inconscio. Per
questo studioso, la psicologia a livello cosciente è costituita da 2 atteggiamenti fondamentali (estroversione
e introversione) e da due coppie di funzioni: le funzioni razionali e le funzioni irrazionali; e tutto ciò conduce
alla costruzione di “tipi” psicologici in base ai quali è possibile distinguere i diversi tipi di comportamenti
umani e i vari modi di orientamento nella realtà. La psicologia dell’inconscio – invece- poggia su archetipi e
complessi individuali che rappresentano gli indicatori di una dinamica interna non regolata dalla volontà. In
quest’ottica, la formazione viene considerata come un processo di individuazione (ossia di affermazione
della propria autonomia) al quale si contrappongono gli stereotipi culturali in cui il soggetto è immerso e
con cui si identifica (almeno in parte). Pertanto l’individuazione è un processo di differenziazione dal
collettivo che –però- non sfocia nell’individualismo. Infine Jung mette in evidenza che è molto importante
l’inconscio in quanto esso svolge una funzione di riequilibrio e induce alla autoregolazione.
ROGER: Roger ha affermato che la maturazione psicologica è vincolata dalla tensione verso
l’autorealizzazione, ossia verso l’attualizzazione delle proprie potenzialità sotto la spinta di un’energiapresente nell’organismo umano- rivolta alla crescita, all’ampliamento e non solo alla conservazione. La
presa di coscienza, da parte dell’essere umano, del funzionamento del proprio organismo lo aiuta ad
autoregolarsi, rifiutando l’intervento di forze esterne. Tuttavia – a volte- si produce una spaccatura tra il sé
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e l’esperienza vissuta e si produce un fenomeno di dissociazione che provoca la messa in atto di un
comportamento cosciente riguardo i rigidi modelli sociali e di un comportamento non cosciente riguardo la
propria tendenza a realizzarsi. Roger ritiene importante ascoltare gli orientamenti interni in quanto la
formazione viene intesa proprio come la capacità di apprendere dalle esperienze vissute (superando la
dissociazione tra il sé e l’esterno); di saper rivisitare le proprie scelte alla ricerca di un ordine e di un senso,
di riorganizzare la propria visione della realtà.
Infine, per la pedagogia è fondamentale compiere una riflessione sul significato globale di formazione, in
quanto al giorno d’oggi essa si manifesta in una società molto complessa e flessibile, erede del Moderno
ma, nello stesso tempo, suo superamento rispetto alla quale bisogna attrezzarsi cognitivamente ed
eticamente. In questo contesto, l’azione formativa perché possa definirsi “educativa” (nel senso che mira
alla crescita dell’individuo) non può che essere scientifica e partire da dati certi. In questo ideale di
formazione non è importante la finalità verso la quale si protende, bensì il percorso in sé per se in quanto
esso deve rispettare lo specifico aprendosi al generale; deve abituare il soggetto a trasferire l’idea
particolare e il suo vissuto in contesti di vita più ampi e articolati; e infine deve spingere l’individuo a vivere
non solo per se stesso, ma anche per l’altro. In questa società complessa, problematica e mutata
un’influenza particolare è stata avvertita nella famiglia, la quale è sempre stata l’istituzione portante di ogni
assetto sociale e il nucleo primario di socializzazione. Con la trasformazione della società anche la famiglia è
cambiata in quanto si incammina verso la perdita della propria identità e verso l’articolazione in diverse
forme. Tale trasformazione richiederebbe la presenza- all’interno del corpo sociale- di istituzioni capaci di
sostenere le difficoltà che derivano da tali mutamenti e di offrire un valido aiuto educativo ai giovani.
Invece la mancanza di tali istituzioni ha come conseguenza la manifestazione di una serie di problemi sociali
(devianza, droga, criminalità minorile, ecc.). Il cambiamento della società ha influenzato, non solo la
famiglia, ma anche l’individuo stesso ed è proprio per questo motivo che chi si interessa di educazione non
può sottrarsi al compito di osservare i cambiamenti che avvengono nel mondo e nella comunità. Nella
società moderna si sta verificando uno slittamento delle fasi della vita che Petr Altheit ha definito
drammatico: infatti, mentre la durata della vita è in aumento, si sono allungate l’età della giovinezza e la
old age (ossia l’età della pensione). Inoltre, rispetto alla lunghezza del corso della vita, è diminuito il tempo
in cui si è genitori e cresciuto quello in cui si è figli. A ciò si è aggiunto anche una modifica strutturale nelle
biografie lavorative, al giorno d’oggi infatti, è sempre più rara la successione: periodo di formazione, fase
dell’attività lavorativa, periodo di riposto; in quanto i periodi di formazione si innestano su quelli di
occupazione che diventano frammentati e interrotti. Per questo motivo – e in particolar modo perché i
periodi di formazione tendono ad essere maggiori rispetto a quelli dedicati all’attività professionale- è nata
l’esigenza di ripensare alla formazione, cercando di adeguare gli obiettivi e le modalità attuative alle
esigenze di una realtà la cui caratteristica dominante sembra essere la fluidità. Dall’analisi di ciò si evince
che tutto è in movimento, tutto cambia e nell’ambito lavorativo le richieste diventano sempre più
specifiche ed esigenti, mentre i posti di lavoro diminuiscono a causa dei tagli economici. In un mondo così
articolato, complesso, il singolo rischia di essere schiacciato ed è per questo che la formazione è
fondamentale in quanto essa spinge il soggetto a prendere coscienza dell’azione conformista promossa dai
mass-media e dai personal-media (in particolare) che puntano alla creazione di un soggetto di massa, e –
alla luce di ciò- ad allontanarsi, ad emanciparsi.
2.4 L’ORIZZONTE DELLA COMPLESSITÀ
Nel mondo moderno affiora il problema di stabilire le coordinate di senso della formazione in quanto essa
non è importante solo per il singolo, ma anche per la sopravvivenza della società. in una comunità così
complessa (come quella moderna) e inserita nell’era della complessità l’individuo rischia di trovare
difficoltà nell’orientarsi se privo di un bagaglio formativo che gli fornisca le coordinate necessarie a
governare razionalmente gli eventi e a vivere senza angoscia l’incertezza e la provvisorietà, caratteristiche
tipo della complessità. Da un punto di vista gnoseologico (ossia relativo alla conoscenza) la complessità ha
segnato il declino dell’onniscienza, ossia di quella tendenza a problematizzare e ad approfondire. A tal
proposito, la ragione ha cominciato a tener presente anche il frutto dell’irrazionale, i diversi punti di vista
esistenti e ad accettare la singolarità e la particolarità. Tuttavia non è stato mai messo in discussione il ruolo
della scienza, che è sempre capace di fornire una chiave di lettura della realtà e di offrire un modello
rappresentativo che viene accettato in senso probabilistico. Quando si parla di complessità, è fondamentale
13
citare Edgar Moren (citato anche da Cives) il quale sostiene che l’aspirazione verso totalità chiuse,
complete, non favorisce la crescita nella società moderna in cui – invece- bisogna imparare a convivere con
la complessità e civilizzare la propria mente in direzione di questa. Infine Moren ha sottolineato che la
democrazia non è altro che una forma di governo che tende a salvaguardare la complessità. La complessità
comporta l’acquisizione di un atteggiamento mentale duttile, ossia aperto alle varie dimensioni del reale e
capace di cogliere razionalmente la realtà senza trascurarne gli elementi di incertezza e di variabilità.
Visalberghi ha affermato che nella società moderna e complessa, adottare il principio di semplificazione
(che in precedenza ha portato a grandi risultati) non è più utile per affrontare i problemi che si pongono di
fronte all’uomo. A tal proposito è importante far riferimento a Cives, il quale ha affermato che l’uomo può
vincere la sfida della complessità attraverso il disincanto, e cioè mediante la capacità di interpretare la
realtà senza farsi condizionare dall’ideologia dominante della società e dalle illusioni della sicurezza e
dell’onniscenza. Il disincanto permette all’uomo di aprirsi nei confronti del mondo con disponibilità al
confronto e alla conoscenza e, a tal proposito, è fondamentale sottolineare che è compito dell’educazione
democratica fornire all’individuo gli strumenti necessari per vivere in una realtà del genere. In questa
prospettiva, l’educazione non deve essere addestramento, ma quel processo mediante il quale il soggetto
acquisisce la capacità di adeguarsi a molteplici esigenze e di affrontare situazioni nuove, trovando nel
proprio bagaglio di conoscenze la soluzione più adatta al problema. Tuttavia, la realizzazione di
un’educazione democratica non è molto semplice in quanto non bastano le capacità, ma c’è bisogno di una
tensione ideale e della consapevolezza di partecipare ad un qualcosa di veramente importante. Già nel
1917, Dewey scrisse che il compito di una società mobile deve essere quello di far si che i propri membri
siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità in modo da poter evitare la loro sopraffazione da
parte dei problemi, di cui non capirebbero il significato. L’educazione democratica è nata da una rivoluzione
copernicana, che alimentata da un approccio scientifico e dalla tendenza a sviluppare la società in senso
democratico. Ha provocato un ribaltamento nell’ambito dell’insegnamento: al centro di questo non è stato
più messo il docente che aveva il compito di trasferire i propri saperi ai discenti; bensì l’alunno il quale
doveva essere aiutato a costruirsi armonicamente come persona nella sua interezza, fatta di sentimenti e di
intelletto, educato ai valori della solidarietà, dell’uguaglianza e ai rapporti interpersonali, rispettando gli
altri e la capacità di affermare le proprie idee. Un progetto educativo del genere può essere svolto solo in
una scuola aperta alla società, e cioè capace di cogliere i fermenti sociali e di valorizzare i cambiamenti che
avvengono all’interno della comunità. Di conseguenza, anche la didattica si è ritrovata a dover cambiare:
essa deve puntare sulla ricerca, sull’indagine e – infine- deve stimolare l’interesse dell’allievo, fornendogli
anche gli strumenti necessari per interpretare la realtà. In tale prospettiva, il compito dello Stato è quello di
garantire la libertà dell’insegnamento all’interno della scuola, la quale è diversa dalla libertà della scuola
che consiste nell’apertura (da parte delle istituzioni) di scuole ispirate ai loro orientamenti ideologici. Remo
Fornaca (1925-oggi) considera la complessità come uno strumento metodologico attraverso il quale
interpretare la realtà, che non si presta mai ad una razionalizzazione, né può essere inquadrata in degli
schemi semplicistici. La società attuale, poi, si presenta molto più complessa rispetto a quella del passato in
quanto oltre agli effetti che hanno investito da sempre la comunità, essa è dominata anche da quelli
innescati dal progresso scientifico e dal conseguente progresso tecnologico il quale ha alimentato – in tuttil’illusione di vivere in un villaggio globale. Da ciò si evince che scienza, tecnica e informazione sono
strumenti capaci di indurre dei cambiamenti nella società e sui modelli educativi, nonché di porre il
problema del controllo e della gestione di queste risorse per indirizzarle verso un uso che ne impedisca
processi di emarginazione e di esclusione dei più deboli. In particolare, Fornaca si è soffermato sulla
gestione dei modelli educativi e della scuola e – a tal proposito- ha affermato che se attualmente viene
riconosciuto il ruolo centrale della scuola e dell’educazione, è importante – nello stesso temposottolineare che all’interno della comunità ci sono una serie di discrepanze che colpiscono il mondo
scolastico. Infine Fornaca ha colto una differenziazione sociale in atto tra i gruppi economicamente e
culturalmente più deboli, i quali si affidano alla scuola pubblica e alle classi sociali più egemoni il cui
compito dovrebbe essere quello di rendere meno ampia questa differenziazione mediante l’offerta di
garanzie culturali – da un lato; e dall’altro integrando i percorsi scolastici con attività nel tempo libero
mirate a fornire – ai bambini- strumenti idonei all’inserimento adeguato in un certo mondo. Da ciò si evince
che si sta svolgendo un processo di divaricazione sociale che tende ad allargare sempre di più la forbice tra i
soggetti socialmente e culturalmente più deboli e quelli più forti. Tale divaricazione è agevolata dal
disgregarsi di un tessuto sociale solidaristico e dal prevalere della competizione che spinge verso il
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pragmatismo e l’individualismo; e prenderne atto è il primo compito della pedagogia. La nuova era
tecnologica richiede delle competenze sempre più specializzate che, però, la società non riesce a fornire,
alimentando in questo modo il processo di emarginazione. Per risolvere tale questione, alcuni propongono
di puntare su modelli formativi tesi a fornire strumenti logici di base che possano favorire l’acquisizione di
linguaggi anche formali. Tuttavia tale posizione è dannosa perché è unilaterale e perché pretende di
rappresentare la complessità dell’uomo schiacciandolo sulle sue funzioni razionali di tipo logico-scientifico.
Inoltre un’impostazione formativa del genere (che è lontana dalla razionalità vissuta) alimenta il distacco
che esiste tra scuola e società e darebbe vita ad una comunità in cui sarebbe possibili distinguere isole
tecnicamente avanzate in un mare di irrazionalità ed emarginazione. Proprio per questo motivo è
importante puntare su una nuova educazione, la quale abbia la capacità di formare un soggetto in grado di
rispondere alle esigenze poste dal corpo sociale ma che – nello stesso tempo- non trascura la propria
dimensione esistenziale, storica e sociale. All’interno di società complesse come quelle attuali o come
quelle che stanno emergendo, è importante che ci sia e si sviluppi una cultura pedagogica capace di
prendere coscienza dei problemi vigenti e di rispondere alle istanze di apprendimento teorico e di ricerca
scientifica. La formazione e la diffusione di una nuova pedagogia è fondamentale in quanto il grado di civiltà
di una società viene misurato prendendo in considerazione proprio la qualità dei costumi educativi e della
cultura pedagogica, la quale deve proporre apporti conoscitivi e metodologie differenziate in rapporto ai
problemi da affrontare e convergenti rispetto ai fini da raggiungere. Gli elementi che stanno alla base di
questo nuovo progetto educativo sono: 1) l’uso di una didattica moderna, ossia coinvolgente, concentrata
sull’alunno, aperta alle nuove tecnologie; 2) il riferimento ad una formazione scientifica.
Cambi ha parlato di complessità e, a tal proposito, ha affermato che essa è diventata un principio educativo
di riferimento che la pedagogia deve costruire e valorizzare. Per questo motivo, il compito della pedagogia
è quello di: 1) evidenziare il ruolo formativo; 2) di fissare le nuove competenze cognitive e formae mentis
richieste; 3) e – infine- di contrassegnare il nuovo tipo di socializzazione.
Da ciò si evince che il compito della pedagogia è quello di farci entrare nel parallelismo/simbiosi che si è
creato – al giorno d’oggi- tra complessità e formazione. Una riflessione molto particolare sulla moderna
società è stata quella dell’economista Polanyi, il quale sostiene che la nascita e lo sviluppo della società
tecnologica ha sottratto all’uomo la libertà, in quanto esso ha prodotto un conformismo mentale. Polanyi
ha messo – poi- in risalto la relazione esistente tra complessità sociale e perdita di libertà dell’uomo,
causata dalla dipendenza nei confronti delle nuove tecnologie. Queste macchine- infatti- se da un lato
hanno agevolato la vita dell’individuo perché gli hanno consentito di possedere strumenti per dominare la
natura e di non svolgere più lavori pesanti da un punto di vista fisico; dall’altro hanno indotto la nascita di
una nuova paura: quella di essere distrutti da chi gestisce queste macchine, in poche parole di chi comanda.
Secondo l’economista Polanyi, per impedire la scomparsa della libertà è necessario intervenire mediante: 1)
un’educazione che incoraggi l’indipendenza del pensiero, la quale è fondamentale per padroneggiare gli
aspetti della vita sociale; 2) gli interventi legislativi, i quali devono sancire il diritto all’obiezione e tutelare i
diritti delle minoranze che sono quelle più colpite all’interno della società.
2.5 I MODELLI DELLA COMPLESSITÀ
Cambi sostiene che il modello della complessità si afferma come un paradigma epistemico generale,
nonché come un ideale operativo-regolativo e descrittivo dell’identità dei saperi contemporanei i quali
sono legati sia alle scienze della natura sia alle scienze umane e richiedono un approccio sistemico capace
di cogliere le interconnessioni reciproche. Ciò comporta la ricerca di un modello interpretativo attento alla
specificità e non linearità di ogni sapere, nonché svincolato dalla ricerca di leggi universali. La pedagogia,
che è alla ricerca della sua autonomia, ha trovato nel paradigma della complessità il suo fondamento in
quanto in esso ha la possibilità di condurre ad unità le sue antinomie e di affermarsi come autonoma da
quei saperi che – per secoli- hanno cercato di assorbirla. Due studiosi che hanno compiuto una riflessione
sul modello della complessità sono stati Prigogine e Morin; il primo nell’ambito delle scienze naturali, il
secondo il quello delle scienze umane.
Prigogine ha affrontato il tema della complessità dal punto di vista delle scienze fisiche e ha messo in
discussione molti punti della fisica classica partendo dallo studio di situazioni di non-equilibrio in cui la
materia assume proprietà diverse. A tal proposito, egli ha fatto riferimento al fenomeno di instabilità di
Bernard, il quale ha dimostrato che là dove ci si aspettava la comparsa di strutture caotiche e disordinate
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sono venute fuori dalle strutture coerenti e ordinate. Dall’analisi di ciò si è dedotto che dal non-equilibrio
possono venire fuori delle strutture complesse e impensabili all’interno di una situazione ordinata come
quella descritta dalle leggi della fisica classica, le quali sono legate al concetto di reversibilità. Tale concetto
indica che un fenomeno può essere ripercorso nuovamente più volte senza che nulla cambi; ed è proprio
contro questo concetto che Pregogine propone quello di irreversibilità secondo il quale non c’è possibilità
di ripercorrere le stesse fasi e – di conseguenza- giungere alle stesse conclusioni. Un altro problema legato
alla reversibilità è quello che essa non ha mai permesso di distinguere il prima e il dopo del tempo; mentre
l’irreversibilità ha consentito di concepire una storia naturale del tempo. Inoltre la fisica contemporanea è
giunta alla conclusione che la maggior parte dei sistemi dinamici sono instabili e che tale instabilità è
associata a nuovi concetti, come quello di tempo interno dei sistemi che si distingue completamente dal
tempo astronomico. Prigogine ha – poi – affermato che il mondo moderno è caratterizzato dall’instabilità
dei sistemi e per nulla dalla ripetitività e dalla stabilità. Per la fisica classica, la materia è simmetrica rispetto
sia al passato che al futuro ( i quali si equivalgono); ma il secondo principio della termodinamica, che ha
sottolineato l’aumento della entropia (ossia il disordine dell’universo), ha rotto tale simmetria e – di
conseguenza- ha messo fine alla divisione tra scienze dure e scienze umane. Partendo da ciò Prigogine ha
proposto – infine- un progetto teso a stabilire un legame più stretto tra cultura delle scienze fisiche e
cultura delle scienze umane.
Oltre a Prigogine, anche Morin ha fatto una riflessione sulla complessità partendo proprio dalla distinzione
che è sempre stata portata avanti tra scienze umane e scienze fisiche. Le prime sono state messe su di un
gradino inferiore rispetto alle seconde perché si ritrovavano coinvolte nella complessità dei fenomeni
oggetto del loro studio. In seguito la situazione è cambiata e – di conseguenza- tutti gli aspetti considerati
non-scientifici sono stati presi in considerazione e il termine “complessità” è risultato essere quello più
adeguato per descrivere la realtà. Per Morin, la complessità non può essere studiata e spiegata; ed è
proprio per questo motivo che egli ha cercato di soffermarsi sugli aspetti più particolari di essa. Innanzitutto
egli ha parlato di “caos e disordine”, mettendo in evidenza che essi sono presenti nell’universo e nel suo
sviluppo, ma – nonostante tutto- non è possibile dare una spiegazione chiara su questo punto perché resta
ancora il dubbio che il caso ci appaia tale solo per la nostra ignoranza. La complessità può essere – poiapprocciata mediante la complicazione legata alle interazioni che legano i fenomeni biologici e sociali; e
attraverso una relazione esistente tra ordine, disordine e organizzazione la quale può essere sintetizzata
mediante il principio che sottolinea che dalla turbolenza possono nascere fenomeni organizzati. Alla
complessità si può giungere anche attraverso il concetto di organizzazione, il quale può essere definito il
collante che consente ad elementi singoli di diventare sistema. Il sistema creato dall’organizzazione è una
struttura unitaria e molteplice insieme e, per questo, complessa; ed essa si differenzia dalla somma delle
parti in quanto – in quest’ultimo caso- le parti perdono la loro autonomia facendosi assorbire dal tutto di
cui prende in considerazione le qualità emergenti (ossia quelle qualità che esistono solo a livello del
sistema). Esempi di qualità emergenti in un sistema sociale sono: la cultura, il linguaggio, l’educazione le
quali sono proprietà del tutto e non del singolo ma che – nello stesso temo- contribuiscono a sviluppare nei
soggetti capacità mentali e intellettive. Un altro elemento importante della complessità è il principio
ologrammatico, il quale mette in evidenza che il tutto è compreso nelle parti e che le parti nel tutto. Ad
esempio, l’individuo che entra nella società non mette da parte la sua individualità ma si pone nella
condizione in cui essa possa essere arricchita dai diversi elementi che fanno parte del sistema. Al principio
ologrammatico si associa il principio dell’organizzazione ricorsiva e ciò mette in evidenza che la
complessità non è legata solo a fenomeni empirici (come il caso, il disordine, ecc.) ma anche a problemi di
ordine concettuale inerenti all’impossibilità di stabilire un limite tra il tutto e la parte. Di conseguenza la
complessità deve essere fissata come una struttura portante e pensata non in modo semplice e lineare, ma
come un intreccio, un insieme di nessi o come una rete di reti. Inoltre la complessità va studiata nelle sue
logiche, che sono diverse, plurali e dismorfiche e pensata in relazione ai fenomeni. Infine bisogna
sottolineare che la complessità ha funzioni epistemologiche ( a livello metateorico e teorico), abiologiche e
prassiche ed è proprio su questi piani che va illuminata e potenziata. Un altro elemento della complessità è
la perturbazione provocata dalla presenza dell’osservatore, la quale viene riconosciuta sia a livello delle
scienze fisiche che a livello delle scienze umane. Alla luce di ciò Morin ha affermato che ogni teoria
scientifica contiene un nucleo non scientifico in quanto la complessità è alla base sia delle teorie
scientifiche che di quelle più semplici. Inoltre lo studioso ha affermato che la complessità è costituita da
una componente negativa e una positiva: la prima coincide con l’introduzione dell’incertezza nel processo
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conoscitivo; la seconda con la spinta verso lo sviluppo di un pensiero multidimensionale. La complessità
induce a rinunciare al mito della chiarificazione totale dell’universo, ma - nello stesso tempo - incoraggia
proseguire verso il cammino della conoscenza. Per molto tempo si è creduto che bisognava eliminare tutto
ciò che fosse irrazionalizzabile per poi chiudere tutte le strutture del reale in una struttura di idee coerenti
o in un’ideologia. Ma nel tempo si è costatato che la realtà oltrepassa le nostre strutture mentali e che il
fine della nostra conoscenza non è quello di chiudere il dialogo nei confronti dell’universo, bensì di aprirlo.
Il metodo della complessità punta proprio su questo: ossia pensare senza chiudere mai i concetti, di
spezzare le sfere chiuse, si sforzarsi nel comprendere la multidimensionalità, di pensare con singolarità, ecc.
l’imperativo della complessità consiste – poi- nel capire anche che l’organizzazione non si risolve in poche
leggi in quanto essa ha bisogno di un pensiero estremamente elaborato. Pertanto, dall’analisi di tutto ciò, è
possibile dedurre che la distruzione di quel falso infinito che pretendeva di attribuire poteri illimitati alla
ragione ci ha aperti – oggi- verso un nuovo infinito: la conoscenza che non giunge mai a compimento.
CAPITOLO 3
I NUOVI MODELLI DELLA SOCIETA’ COMPLESSA
3.1 LA FORMAZIONE NELLA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA
Nella moderna e complessa società lo sviluppo tecnologico ha determinato una dematerializzazione del
lavoro e la richiesta – da parte delle imprese- di competenze professionali sempre più specifiche e legate
alla capacità di acquisire conoscenza. In questo contesto – infatti- sono nati e sono richiesti i knowledge
workers, ossia i lavoratori della conoscenza i quali devono essere capaci di approcciarsi ai vari aspetti della
conoscenza. In questo modo si è passati da una società fondata sul lavoro ad una società che apprende,
all’interno della quale il sapere rappresenta lo strumento principale per entrare nel mondo del lavoro e
nell’ambito sociale. Questa trasformazione – che ha investito il mondo del lavoro- ha determinato la
scomparsa dell’operaio-massa e l’aumento dei lavoratori di alta qualificazione; il cambiamento del volto
delle imprese e della Pubblica Amministrazione e – infine- ha messo in il sistema educativo il quale non
riesce ad adeguarsi in modo repentino alle esigenze culturali emergenti dalla società. Una ricerca condotta
da Butera e Donati ha messo in evidenza che negli ultimi anni il numero di lavoratori di alta qualificazione in
tutti i campi dell’attività di impresa è aumentato notevolmente (nonostante questi non abbiano una
rappresentanza sindacale) e la conseguenza di ciò è stata una grande trasformazione della struttura dei
sistemi di lavoro. Da questa ricerca è – poi- emerso che all’interno delle aziende esiste una categoria di
lavoratori culturalmente trainante: essi sono i professionisti d’azienda o professionisti che operano nelle
organizzazioni, i quali hanno dei ruoli specifici che, però, non ne fissano in modo rigido le loro competenze,
i loro compiti e la loro organizzazione del lavoro. Da ciò si evince che il ruolo non è una gabbia in cui è
costretto il lavoro delle persone, ma una sorta di copione che si evolve in parallelo con le capacità e le
competenze individuali e, in particolare, mano a mano che si modificano le esigenze produttive. Pertanto i
curricula di studio e la formazione continua rappresentano una componente fondamentale nella vita dei
professionisti d’azienda ed è proprio per questo motivo che si sono instaurati dei rapporti tra Università e
aziende. Inoltre dalla ricerca è emerso – ancora- che la società moderna è dominata da una vera e propria
emergenza formativa sia per i giovani che devono acquisire quelle formae mentis adeguate ad affrontate le
nuove esigenze del mercato del lavoro, sia degli adulti che rischiano di essere espulsi dal mondo del lavoro
perché privi di tali capacità mentali. A tal proposito Gelpi ha affermato che nonostante si continuino a
proporre politiche di sviluppo e di educazione per poter combattere la crisi dei lavoratori e risolvere i
problemi economici presenti in tale realtà, la formazione resta – ancora- uno strumento tendente a
sottolineare, ulteriormente, le differenza tra i lavoratori. Infatti l’investimento nella formazione tende ad
avvantaggiare i lavoratori salariati e quelli indipendenti, mentre i lavoratori giovani e adulti
economicamente non vantaggiosi vengono dimenticati o ricevono una formazione limitata, al fine di
limitare i danni sociali. La soluzione migliore, invece, non è quella di proporre degli stage che producono
risultati per gli educatori e non per i lavoratori in formazione, bensì quella di: 1) organizzare lunghi percorsi
formativi per colmare le lacune di quei lavoratori che non hanno una adeguata formazione iniziale; 2) dar
vita a formazioni integrate con i lavoratori in attività.
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Per quanto riguarda i giovani esclusi dal mercato di lavoro è necessaria una revisione del sistema educativo
per impedirne la futura esclusione. Sulla futura società, dominata dalla presenza dei knowledge workers,
sono nate due posizioni dialetticamente diverse: una sostiene che nella comunità futura ci saranno, da un
lato un gruppo ristretto ed elitario di lavoratori che deterrà una serie di conoscenze specifiche e il potere
economico e sociale; dall’altro una moltitudine di lavoratori precari con una scarsa istruzione e
continuamente a rischio di disoccupazione. L’altra posizione considera la diffusione delle nuove tecnologie
nel mondo del lavoro come un elemento che possa garantire la diffusione del sapere, il quale deve passare
attraverso delle politiche di riforma e di qualificazione dei sistemi formativi. Nel marzo del 2000 il Consiglio
europeo ha sottolineato la necessità di applicare una strategia comune tesa a sviluppare progetti di
formazione permanente ed istruzione aventi come obiettivi: 1) ampliare i sistemi di istruzione e
formazione; 2) fornire a tutti la possibilità di accesso alla formazione; 3) promuovere il diritto di una
cittadinanza attiva.
In questo contesto è nato, accanto al concetto di lifelong learning che riguarda la formazione, quello di
lifewide learning che estende la formazione ad una molteplicità di ambiti e di aspetti della vita e ai diversi
tipi di apprendimenti, da quello scolastico a quello lavorativo a quello esperienziale. Il concetto di lifelong
learning è molto importante ed è legato ad una visione della società in cui l’istruzione, l’educazione e la
formazione sono gli elementi fondanti di essa. Inoltre in tale comunità gli individui entrano continuamente
in contatto con i prodotti di una conoscenza in continua evoluzione ed è per questo motivo che la capacità
ad apprendere rappresenta, per i singoli individui, la condizione indispensabile per autodeterminarsi e per
conservare la propria autonomia e libertà. La società moderna è, quindi, una learning society; espressione
che ci rimanda ad un’immagine di comunità fondata sulla conoscenza e all’interno della quale
l’apprendimento è indispensabile. Aureliana Alberici ha disegnato il percorso storico del concetto di
learning society e ha affermato che esso è nato già negli anni ’60 per opera di Hutchins, il quale l’ha
immaginata come la società del futuro in cui le istituzioni dovevano favorire la crescita delle potenzialità
umane attraverso l’apprendimento, che rappresenta l’obiettivo comune degli individui e della società. Nel
1994 Ranson ha ipotizzato una società che ritenesse prioritaria la promozione dei valori dell’educazione e
dei processi di apprendimento in quanto essi sono elementi indispensabili per la formazione di cittadini
capaci di partecipare alla vita sociale in modo responsabile. Altri studiosi hanno elaborato un’immagine
della società futura come comunità fondata sull’educazione perché considerata, quest’ultima, come
condizione necessaria per una crescita democratica. Un’analisi particolare è stata quella di Schwartz, il
quale ha individuato nelle società europee i tratti tipici di una learning society. Tali tratti sono: l’aumento
del tempo libero, una grande flessibilità dei percorsi di vita, la moltiplicazione delle informazioni e una
crescente domanda di educazione. Partendo da questa sua analisi S. sostiene che il futuro sarà
caratterizzato da un notevole sviluppo dei media e da una crescita qualitativa dei sistemi educativi.
3.2 LA FORMAZIONE PERMANENTE COME SFIDA PEDAGOGICA
In una società complessa e articolata come quella moderna, è indispensabile promuovere una serie di
iniziative che mirino allo sviluppo della formazione permanente. Tale questione, a partire dal 2000, è
diventata di importanza sovrannazionale in quanto in questo stesso anno il Consiglio Europeo di Lisbona ha
affermato – nelle sue conclusioni- che il buon esito della transizione ad un’economia e una società basate
sulla conoscenza si ha solo nel momento in cui c’è la promozione e la diffusione della formazione
permanente. Il successivo Consiglio Europeo (tenutosi a Feira nel giugno 2000) ha sottolineato l’importanza
di favorire la formazione permanente per tutti e in risposta a ciò la Commissione Europea ha elaborato un
“Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente”. Il Memorandum si articolava intorno a sei
messaggi chiave in ciascuno dei quali erano formulate una serie di questioni; e dopo la sua diffusione la
Commissione europea ha redatto un rapporto sotto il nome di “Comunicazione della Commissione”
all’interno della è stato messo in evidenza: l’ampiezza della consultazione sul Memorandum il quale ha
coinvolto diverse istituzioni e organizzazioni; le iniziative dell’agenda sociale europea finalizzate a ridurre le
disuguaglianze e a promuovere la coesione sociale; il compito affidato agli stati membri di elaborare e
attuare strategie coerenti con l’apprendimento permanente i cui obiettivi sono  1) l’autorealizzazione; 2)
la cittadinanza attiva; 3) l’inclusione sociale; 4 ) l’occupabilità; 5) l’adattabilità professionale. In questo
documento l’attenzione è caduta, poi, sulle attività di apprendimento da utilizzare (formale, informale o
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non-formale); sull’alta qualità di esso e sulla sua pertinenza. Inoltre il documento traccia le linee d’azione di
una corretta strategia formativa e ne delinea i punti nodali che sono 5:
1) la base dalla quale bisogna partire è la conoscenza della domanda di apprendimento. Ciò significa
che prima di attuare qualsiasi strategia di apprendimento bisogna conoscere i bisogni educativi dei
singoli e della collettività, nonchè le richieste che provengono dal mondo del lavoro.
2) il secondo punto coincide con il determinare le risorse adeguate. Ciò indica che ogni azione di
apprendimento permanente richiede un aumento dei livelli di investimento che può essere attuato;
destinando maggiori risorse; ottimizzando la distribuzione delle risorse esistenti ed assicurando la
trasparenza della loro allocazione; studiando nuove forme di investimento.
3) Facilitare l’accesso alle opportunità esistenti, fornendo – da un lato- degli strumenti flessibili,
integrati ed efficaci; e – dall’altro- promuovendo nuovi processi di apprendimento cercando di
eliminare tutti quegli ostacoli che impediscono a gruppi marginali di accedere alle risorse formative.
4) Creare una cultura di apprendimento attraverso: la promozione di una percezione positivo
dell’apprendimento in modo da sensibilizzare i cittadini ai vantaggi e ai diritti offerti da esso; la
promozione del ruolo dei fornitori di informazione e di orientamento allo scopo di sensibilizzare gli
individui ai vantaggi economici, sociali, politici offerti dall’apprendimento; l’incoraggiamento delle
imprese a diventare organizzazioni che apprendono; l’incoraggiamento dei prestatori di lavoro,
delle associazioni di volontariato, delle organizzazioni sindacali a promuovere offerte di lavoro
adatte ai bisogni dei gruppi di cui si occupano; la valorizzazione dell’apprendimento in generale, ma
– in particolar modo- di quello non-formale e informale.
5) Aspirare all’eccellenza, e cioè ideare meccanismo volti a massimizzare la qualità dei processi
attuativi e dei servizi correlati all’apprendimento in quanto la qualità non è solo un obbligo, ma un
fattori di motivazione.
Il documento mette in evidenza l’importanza di dar vita a strategie pedagogiche che puntano su di una
didattica che mette al centro il discente e che è caratterizzata da un’elevata flessibilità e adattabilità a
contesti non necessariamente formali. Da ciò è nata anche l’esigenza di provvedere ad una specifica
formazione x i mediatori culturali i quali devono essere preparati per poter affrontare situazioni formative
diverse. L’idea di lifelong learning può realizzarsi nel momento in cui viene promossa una politica tesa a
realizzare progetti di formazione permanente, il che significa partire da una riflessione sull’organizzazione
della formazione formale e trasformarla rendendo, da un lato, i percorsi scolastici più flessibili e reversibili;
dall’altro facilitando i passaggi tra i vari indirizzi di studio e adottando strategie finalizzate alla promozione
di una formazione che duri tutta la vita. Tuttavia, riuscire a dare delle risposte adeguate a questi bisogni
formativi così diffusi e complessi non è molto semplice in quanto accanto ad essi si presentano, nell’ambito
della società, una serie di problemi che vanno affrontati e risolti in tempi più ridotti (come l’analfabetismo,
la disoccupazione, l’emarginazione). Per superare queste emergenze, legate particolarmente all’educazione
e alla formazione degli adulti e rendere concreta la formazione permanente è necessario adottare una serie
di strategie. Una strategia possibile per concretizzare una politica di lifelong learning è stata indicata
dall’OECE-OCDE il quale ha messo in evidenza che l’azione (finalizzata a rendere effettiva l’educazione
permanente) deve seguire tre direttrici: 1) migliorare le basi di apprendimento per tutti; 2) agevolare le
transizioni in ogni fase della vita (quindi sia nel mondo della scuola che in quello lavorativo); 3) ripensare ai
ruoli e alle responsabilità delle istituzioni formative e dei loro partners.
Da ciò risulta evidente che è necessario riorganizzare i sistemi di istruzione attuali in modo da offrire agli
adulti una molteplicità di occasioni di formazione e di istruzione. La formazione continua va ripensata per
adeguarla al cambiamento dei partecipanti al processo formativo; ai sistemi di istruzione e all’educazione
degli adulti. Al giorno d’oggi gli educatori non si trovano di fronte a dei soggetti usciti precocemente
dall’istruzione formale, ma di fronte a degli individui che vogliono formarsi per un nuovo lavoro e che
stanno uscendo da periodi di apprendimento molto lunghi. Da ciò si evince che il percorso di vita di un
uomo di oggi è diverso rispetto a quello di un uomo di ieri: infatti prima si seguiva la scansione scuolalavoro-finelavoro; oggi il tempo dell’apprendimento e quello del lavoro possono anche intersecarsi. In una
situazione così complessa viene fuori la dimensione individuale dell’apprendimento la quale punta sullo
sviluppo di percorsi individualizzati di istruzione e sul riconoscimento di ogni forma di apprendimento;
inoltre, per rendere praticabile una formazione permanente all’interno di una società così complessa, è
necessaria un’azione sinergica tra soggetti, agenzie formative istituzionali e gruppi che condividono gli
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stessi obiettivi. Tali obiettivi sono: 1) reperire le risorse economiche; 2) trovare un punto di convergenza tra
i bisogni individuali e gli interessi specifici della comunità; 3) realizzare una attività di orientamento
continuo la quale deve coinvolgere le istituzioni, le agenzie formative e i soggetti sia economici che
professionali.
**MEMORANDUM SULL’ISTRUZIONE E LA FORMAZIONE PERMANENTE**
La trasformazione che sta attraversando l’Europa oggi può essere comparata a quella della rivoluzione
industriale in quanto la tecnologia digitale sta cambiando la nostra vita e la biotecnologia cambierà –
probabilmente- la vita stessa. A tutto ciò si aggiunge il fatto che di fronte agli uomini si aprono diverse
possibilità, ma aumentano i rischi e le incertezze; che il mondo del lavoro richiede personale sempre più
specializzato e formato e mette da parte coloro che hanno qualifiche sufficienti; che la popolazione sta
invecchiando molto velocemente. Infine, le società europee si presentano come mosaici pluriculturali, ossia
come luoghi in cui più culture si mescolano tra loro il modo da dare libero spazio alla creatività e
all’innovazione. Tutti i cambiamenti che stanno attraversando il nostro continente e il nostro paese
costituiscono una parte integrante del processo di transizione verso la società della conoscenza,in cui ciò che
conta maggiormente è la capacità umana di creare e usare conoscenze in maniera efficace e intelligente
perché solo in questo modo è possibile affrontare la sfida del cambiamento. La formazione permanente non
si costruisce solo sulla base della formazione avvenuta in famiglia e a scuola, ma va consolidata con un
apprendimento più solido da attuare nella vita adulta in quanto per lifelong learning si intende un
apprendimento che non si pone dei limiti di tempo ma che – nello stesso tempo- ha bisogno di una base
solida per esistere: tale base è data da un’istruzione elementare di qualità la quale deve consentire a tutti i
giovani di acquisire le competenze di base richieste da un economia fondata sulla conoscenza e deve
insegnare ad apprendere, facendo si che tutti assumono un atteggiamento positivo nei confronti
dell’apprendimento. Infatti la formazione permanente potrà concretizzarsi solo nel momento in cui ci sarà –
nei soggetti- un’adeguata motivazione nei confronti dell’apprendimento in quanto quest’ultima insieme con
la diversità dell’offerta rappresentano le condizioni necessarie per la riuscita della formazione e
dell’istruzione permanente. Per incentivare un atteggiamento positivo e motivato da parte dei soggetti nei
confronti dell’apprendimento, i sistemi di formazione e di istruzione devono adattarsi ai bisogni
dell’individuo e non viceversa. Al giorno d’oggi è possibile distinguere tre tipologie di apprendimento
finalizzato:
- l’apprendimento formale, il quale è quello che si svolge negli istituti d’istruzione e formazione e che porta
(alla fine di un percorso) all’ottenimento di diplomi e titoli riconosciuti e validi per entrare nel mondo del
lavoro.
- l’apprendimento non formale, il quale avviene al di fuori delle strutture dedicate all’istruzione e alla
formazione e non rilascia certificati riconosciuti. Tuttavia questo apprendimento – molto spesso- avviene in
agenzie ed istituti in cui le attività proposte vanno ad integrare o rappresentano un continuo di quelle svolte
all’interno della scuola.
- l’apprendimento informale, il quale è quello che avviene in modo non intenzionale perché coincide con
tutto ciò che noi apprendiamo vivendo la quotidianità.
Fino a questo momento si è data molta importanza all’apprendimento formale e questo tipo di
atteggiamento ha influenzato sia l’impostazione dei modelli di istruzione e formazione sia la percezione
generale dell’apprendimento. Infatti l’apprendimento non formale è stato sempre sottostimato, mentre
quello informale completamente trascurato nonostante esso rappresenta la prima forma di apprendimento
e la base dello stesso sviluppo infantile. Tuttavia, con la nascita e lo sviluppo della concezione che sottolinea
l’importanza della formazione permanente anche questi due tipi di apprendimento sono stati presi in
considerazione in modo diverso. Il concetto di lifelong learning indica che la formazione segue un processo
continuo o ad intervalli regolari e ad esso si associa il concetto di lifewide learning il quale sottolinea la
dimensione orizzontale della formazione che – in questo senso- può avere luogo in tutti gli ambiti e in tutti i
momenti della vita. Tuttavia ancora non c’è una definizione chiara e precisa di formazione e istruzione
permanente in quanto essa si diversifica a seconda dei contesti nazionali che sono attraversati da una serie
di cambiamenti e dal desiderio di andare sempre più incontro a quelle che sono le esigenze dei cittadini, in
modo da favorire una loro partecipazione attiva nella realtà sociale. Per questo motivo l’istruzione e la
formazione hanno assunto un’importanza fondamentale; infatti, grazie ad esse, le possibilità di inserimento
sul mercato del lavoro e quelle relative ad un successo nella vita aumentano. Dall’analisi di ciò si evince che
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l’occupabilità è uno dei risultati fondamentali di una formazione riuscita; mentre l’inserimento sociale
richiede qualcosa in più di un lavoro retribuito. Infine è importante sottolineare che per mettere in pratica
l’istruzione e la formazione permanente è necessario incentivare la collaborazione e la cooperazione tra i
ministeri, i poteri pubblici e la parti sociali, proponendosi come obiettivo quello di dar vita a dei partenariati
(ossia collaborazioni) in grado di rispondere alle esigenze e ai bisogni della comunità. L’istruzione e la
formazione permanenti devono essere abbinate alla collaborazione tra livelli di istruzione e formazione
diversi, e cioè tra ambiti formali, informali e non formali. Attraverso questa collaborazione efficiente tra i
diversi sistemi educativi – i quali vogliono rispondere a quelle che sono le esigenze dell’utenza- si crea
l’immagine di una fusione progressiva tra le diverse strutture dell’offerta che , ancora oggi, sono isolate e si
ha la possibilità di valutare la complementarietà dei sistemi di apprendimento e di costruire ulteriori reti di
offerte formative.
**AGIRE PER L’ISTRUZIONE E LA FORMAZIONE PERMANENTE: 6 MESSAGGI CHIAVE**
Intorno all’istruzione e alla formazione permanente sono stati elaborati sei messaggi chiave i quali indicano
il percorso da seguire per poter agire in questo senso.
Il primo messaggio evidenza che bisogna dare la possibilità a tutti di acquisire nuove competenze di base in
quanto l’obiettivo da raggiungere è quello di garantire a tutti una partecipazione attiva nella società della
conoscenza. La realizzazione di tale obiettivo rappresenta la premessa di una cittadinanza attiva e
dell’occupabilità nell’Europa del XXI secolo in quanto i cambiamenti economici e sociali hanno comportato
un’evoluzione e un’elevazione delle competenze di base di cui ciascuno deve disporre per partecipare alla
vita professionale. Queste nuove competenze sono legate alle tecnologie dell’informazione, alla conoscenza
delle lingue straniere, al possesso di una cultura tecnologica e di uno spirito d’impresa; ed esse si affiancano
alle qualifiche di base tradizionali: leggere, scrivere e far di conto. Il Momorandum definisce queste nuove
competenze come lo strumento necessario per poter partecipare in modo attivo a tutto quello che accade
nella moderna società della conoscenza e mentre alcune di queste competenze (come l’alfabetizzazione
digitale) sono del tutto nuove, altre (come la conoscenza delle lingue straniere) hanno acquisito una
maggiore importanza rispetto al passato. In questo contesto anche le competenze sociali sono molto
importanti in quanto si presuppone che le persone devono essere più autonome, più sicure di se stesse e più
determinate rispetto al passato. Inoltre un’importanza rilevante è data alle competenze relative allo spirito
imprenditoriale, il quale si traduce nella capacità dell’individuo di migliorare la sua prestazione sul campo
professionale e nella capacità di utilizzare le conoscenze acquisite in diversi contesti. La capacità di
apprendere,quella di assimilare rapidamente e di adattarsi alle nuove situazioni sono i requisiti richiesti oggi
dal mondo del lavoro. La padronanza di tali competenze rappresenta solo una prima tappa di un lungo
percorso di formazione, il quale deve durare tutta la vita e deve essere arricchito costantemente da ogni
esperienza ritenuta importante, in quanto il mercato di lavoro è caratterizzato dalla continua evoluzione dei
profili professionali. Pertanto, al fine di evitare l’esclusione, bisogna mantenere sempre alto il proprio livello,
alimentando nel corso della propria vita il processo di formazione.
Il secondo messaggio sottolinea che bisogna investire maggiormente nelle risorse umane in modo da
rendere prioritaria la gente, che rappresenta la più importante risorsa per l’Europa. L’investimento attuale
nelle risorse umane risulta essere insufficiente e, nello stesso tempo, si sente il bisogno di riflettere su ciò
che si intende con il termine investimento. Tale questione viene affrontata in modo diverso in ciascun Stato
membro e le soluzioni proposte mirano verso lo sviluppo di misure di incentivo su scala individuale, le quali
hanno spinto le imprese a concedere delle opportunità di formazione ai dipendenti. Questo perché investire
nelle risorse umane significa consentire alle persone di gestire personalmente la pianificazione della propria
vita e del proprio tempo, tenendo sempre presente il traguardo della formazione. Infine è importante
incentivare l’investimento nelle risorse umane perché ciò implica anche un riorientamento verso una cultura
basata sulla responsabilità comune e su modalità chiare di finanziamento per la partecipazione
all’istruzione e alla formazione permanente.
Il terzo messaggio mette in evidenza che è necessario puntare sull’innovazione delle tecniche di
insegnamento e di apprendimento in modo da poter sviluppare dei contesti e dei metodi efficaci per
un’offerta formativa ininterrotta, e cioè che duri per tutta la vita e che mette in gioco i diversi aspetti di
essa. Con l’entrata nell’era della conoscenza è cambiato e sta cambiando anche il modo di intendere
l’apprendimento, in quanto si parte dal presupposto che non bisogna prendere in considerazione solo i
bisogni, i requisiti e gli interessi del singolo, ma anche quelli delle categorie specifiche delle nostre società
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europee le quali si presentano come comunità pluriculturali. In questo contesto così complesso,
l’apprendimento può essere definito attivo se punta – da un lato- al miglioramento delle pratiche esistenti e
- dall’altro - sullo sviluppo di nuovi metodi capaci di sfruttare le offerte delle TIC (Information and
Communication Tecnology) e dei diversi contesti di apprendimento. Tuttavia, il cambiamento e
l’innovazione degli strumenti e dei metodi di apprendimento è possibile solo in parte se manca l’impegno
attivo dei professionisti del settore, i quali sono più vicini ai cittadini nel ruolo di allievi e conoscono
maggiormente la diversità dei bisogni e dei processi di formazione. Un esempio di tecniche capaci di fornire
un grande potenziale di innovazione per i metodi di insegnamento e di apprendimento sono quelle basate
sulle TIC, in riferimento alle quali i pedagogisti affermano che sarebbe opportuno integrarle in precisi
contesti e in una relazione insegnante/allievo per renderle efficaci. Nonostante tutto, al giorno d’oggi, la
maggior parte di ciò che viene offerto dai sistemi di istruzione e formazione si presenta come se fosse stato
organizzato e pianificato circa ’50 anni fa, dando così l’impressione dell’assenza di qualsiasi mutamento
sociale. In antitesi a ciò è opportuno sottolineare che nella società sono avvenuti dei cambiamenti radicale
ed è per questo che risulta necessario modificare i sistemi di apprendimento, i quali devono adattarsi agli
odierni stili di vita e alla nuova impostazione dell’esistenza. Adesso si conosce ancora poco su come
realizzare un apprendimento indipendente e produttivo, (anche se non va dimenticato che esso è un
processo sociale); sul modo migliore per le persone anziane di apprendere e sui mezzi necessari per adattare
l’ambiente all’integrazione dei disabili; ma – nonostante ciò- ci si propone di migliorare la qualità dei metodi
e dei contesti dell’insegnamento e dell’apprendimento avvalendosi dei diversi investimenti fatti dagli Stati
membri e migliorando le competenze degli operatori del settore dell’apprendimento. Nella prospettiva di
tali cambiamenti anche il profilo professionale del docente cambierà: egli – infatti- non sarà più un
detentore di saperi da trasferire passivamente, ma il suo ruolo sarà quello di guidare e assistere gli allievi
che dovranno farsi carico della loro formazione. La capacità di definire e mettere in pratica metodi di
insegnamento e di apprendimento aperti e partecipativi dovrà essere una delle competenze fondamentali
dell’insegnante, il quale – nello stesso tempo- deve essere in grado di istituire nella persona la capacità di
creare e utilizzare il sapere a proprio vantaggio.
Il quarto messaggio mette in evidenza che è opportuno migliorare il modo di valutazione e giudizio della
partecipazione all’azione formativa e dei risultati che da essa giungono, in particolare nell’ambito
dell’apprendimento non formale e informale. Nella moderna società della conoscenza la domanda di un
riconoscimento della formazione acquisita sta diventando molto insistente perché – da un lato- ci sono i
datori di lavoro che richiedono una manodopera sempre più qualificata; dall’altro c’è un’intensificazione
della concorrenza. Inoltre la valorizzazione delle risorse umane è molto importante perché mantiene alta la
competitività tra i lavoratori, i quali tendono a fare meglio se sanno di poter essere superati e sostituiti da
qualcun altro. Alla luce di ciò si evince che il problema fondamentale dell’Europa (da questo punto di vista) è
quello di modernizzare al meglio le pratiche e i sistemi nazionali di certificazione, adattandoli alle nuove
condizioni socioeconomiche. Notevoli progressi sono stati fatti nella scuola superiore e in alcune professioni
regolamentate, ma il problema relativo alla trasparenza e alla trasferibilità delle qualifiche (che attestano le
conoscenze, le competenze e le abilità di un soggetto in un determinato settore) è ancora molto vivo.
Tuttavia è fondamentale risolverlo in quanto un riconoscimento esplicito costituisce una motivazione
efficace per coloro che non sono molto abituati alla formazione. Inoltre è importante introdurre forme
innovative di certificazione dell’apprendimento non formale (in modo da allargare lo spettro) ed elaborare
sistemi di alta qualità per la convalida dell’esperienza precedente, i quali possono rivelare delle competenze
e delle abilità di cui l’individuo è spesso inconsapevole e il cui valore può essere anche non riconosciuto.
Dall’analisi di ciò si evince che una soluzione è necessaria, anche se difficile perché la diversità delle
terminologie nazionali e i presupposti culturali rendono difficile qualsiasi tentativo di trasparenza e di
riconoscimento reciproco delle qualifiche. Per questo motivo è fondamentale ricorrere all’aiuto degli esperti,
e cioè di coloro che sono capaci di convalidare le esperienze dei soggetti in pratica e di capire come queste
esperienze (sia da parte degli individui che da parte delle imprese) vengono utilizzate nella vita quotidiana.
Al giorno d’oggi, avvalendosi dell’aiuto di programmi comunitari in materia di educazione, formazione e
gioventù, sono stati elaborati strumenti comuni di valutazione e di riconoscimento delle competenze, come:
l’ECTS, l’EUROPASSFormazione, ecc. Accanto a tali sistemi sarà istituito un diploma europeo finalizzato alla
valutazione delle competenze di base nelle tecnologie dell’informazione. A questo punto la questione
fondamentale è quella di diffondere questi nuovi strumenti in tutti i paesi membri e una proposta
interessante è stata quella degli Orientamenti per l’occupazione del 2001 i quali hanno invitato gli stati
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membri a migliorare il riconoscimento delle conoscenze, delle qualifiche e delle competenze al fine di
facilitare la mobilità, l’istruzione e la formazione permanente.
Il quinto messaggio propone di ripensare l’orientamento, in modo da garantire a tutti un facile accesso ad
informazioni e ad un orientamento di qualità sulle opportunità di istruzione e formazione in tutta l’Europa e
durante tutta la vita. Mentre in passato il passaggio dal mondo dell’istruzione e della formazione a quello
del lavoro segnava un certo periodo della vita di un individuo, oggi la situazione è diversa. Infatti, un
soggetto può aver bisogno di informazioni e consigli sulla strada da intraprendere in qualsiasi momento
della sua vita ed è per questo che il cambiamento deve essere considerato come una parte integrante della
pianificazione e dell’attuazione permanente di un progetto di vita. In questa nuova prospettiva il servizio di
orientamento si è ritrovato “costretto” a modificare la propria identità: oggi, infatti, non si distingue più
l’orientamento scolastico, quello professionale e personale, ma esso si presenta come un servizio accessibile
a tutti in qualsiasi momento. Far parte della società della conoscenza significa essere cittadini attivi e capaci
di gestire autonomamente il loro percorso professionale e personale. In questo caso il compito
dell’orientatore è quello di accompagnare il soggetto in questo suo percorso di vita, fornendogli delle
informazioni giuste e facilitando le sue scelte. Questo tipo di approccio implica un atteggiamento diverso da
parte dell’orientatore, il quale non deve aspettare che un soggetto vada a chiedergli un consiglio, ma deve
presentarsi lui stesso all’individuo. Dall’analisi di ciò si evince che il ruolo futuro degli operatori è quello di
fare da mediatore tra quelli che sono gli interessi dell’individuo e le diverse informazioni vigenti, nonché le
diverse opportunità. Al giorno d’oggi, importanti fonti di informazioni sono rappresentate dagli strumenti
diagnostici basati sulle TIC e su Internet. Esse sono importanti perché possono rafforzare il ruolo
dell’operatore, ma non sostituirlo anche perché queste nuove tecnologie possono provocare anche dei
problemi. Nella moderna società i servizi di orientamento e consulenza devono essere olistici (ossia globali)
e in grado di soddisfare le diverse esigenze del pubblico. Gli specialisti dell’orientamento devono conoscere –
da un lato- la situazione personale e sociale delle persone alle quali forniscono informazioni e – dall’altrodevono conoscere il profilo del mercato di lavoro e le richieste dei datori di lavoro. Inoltre, i servizi di
orientamento devono essere integrati in reti di servizi sociali, personali, pedagogici tra loro correlati e dalle
ricerche condotte negli ultimi anni è emerso che buona parte dei consigli e delle informazioni è stata data
mediante dei canali non formali e informali. Infine bisogna dire che se prima l’ orientamento era un servizio
pubblico e concepito per agevolare il passaggio dal mondo della scuola a quello del lavoro; oggi ( o meglio
dagli ultimi 30 anni) esso ha cominciato a presentarsi come un servizio privato e come un settore in cui le
stesse imprese hanno investito a favore dei loro dipendenti.
Il sesto messaggio mette in evidenza che è molto importante offrire opportunità di apprendimento sempre
più vicine all’utenza, ossia all’interno delle stesse comunità e avvalendosi – nel caso in cui risulti necessariodel supporto dato dalle infrastrutture basate sulle TIC. La gestione regionale o locale ha acquisito – in
questi ultimi anni- un’importanza sempre maggiore in tutti i settori, ma in particolar modo in quello
dell’istruzione e della formazione permanente verso le quali tutti tendono. Infatti, sono proprio le autorità
regionali e locali ad offrire i servizi legati all’istruzione e alla formazione permanente e – inoltre- è proprio a
livello locale che sono insediate le organizzazioni della società civile e le associazioni le quali hanno
accumulato una serie di conoscenze ed esperienze sulle comunità in cui sono insediate. La promozione e la
diffusione di queste azioni locali e diversificate di formazione permanente sono importanti perché fanno si
che le persone non siano obbligate a lasciare la loro regione per formarsi, pur non impedendolo in quanto la
mobilità è un’esperienza positiva di per sé. Tuttavia, all’interno di una comunità, ci sono dei disabili che non
hanno la possibilità di spostarsi fisicamente; ed è per questo che in vista del raggiungimento della parità di
accesso all’istruzione e alla formazione non si può che non avvicinare l’offerta all’utenza. Le TIC
rappresentano un mezzo formidabile per raggiungere popolazioni isolate e sparpagliate a costi contenuti e
– in più- esse danno a tutti la possibilità di apprendere cercando di sfruttare al meglio il tempo di cui
dispongono. Le zone urbane, oltre che le TIC, possono riunire le componenti della loro diversità in più
partenariati in cui la formazione e l’istruzione permanente costituiscono la forza motrice della rigenerazione
regionale, in quanto l’agglomerazione è sempre stata una calamita per l’innovazione e per gli scambi di
opinione. Inoltre, all’interno dell’ambiente urbano ci sono diverse possibilità di formazione e tra queste,
molto importanti, sono le attività di gemellaggio che alcuni paesi intraprendono con altri mediante il
finanziamento da parte della Comunità. A tali attività viene riconosciuto un grande valore perché esse
costituiscono la base della cooperazione transnazionale e dello scambio di informazioni transnazionali tra
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comuni che presentano caratteristiche simili ed affrontano problemi analoghi. Un contributo a tutto questo
viene dato dalle TIC, le quali aprono la strada alle comunicazioni virtuali tra collettività locali distanti tra di
loro da un punto di vista geografico. Infine, per avvicinare l’offerta formativa all’utenza, non bisogna solo
puntare su degli strumenti nuovi, ma è opportuno riorganizzare e ridistribuire le risorse esistenti al fine di
creare dei centri appropriati per acquisire nuove conoscenze all’interno degli ambienti della vita quotidiana.
3.3 LA DIFFERENZA COME PROBLEMA E COME VALORE
La pedagogia, al giorno d’oggi, si ritrova a dover affrontare una serie di problematiche legate alla
complessità, la quale non deriva esclusivamente dalla elevata richiesta di istruzione e formazione, ma
anche dall’emergere della differenza che è sia un elemento che caratterizza la società attuale; sia un
elemento che si contrappone al concetto di identità che – per molti secoli- è stato il fondamento della
cultura occidentale. Alla luce di ciò, il compito della pedagogia è quello di promuovere un pensiero capace
di decentrarsi per conoscere a fondo quello dell’altro e – in seguito- in grado di tornare su se stesso
arricchito ed accresciuto dal confronto, valorizzando le differenze. Tale valorizzazione non deve essere
frutto di un perbenismo ipocrita, ma deve basarsi su un sistema di valori che si collocano in un quadro
globale e che siano capaci di promuovere e favorire una completa e totale integrazione, la quale possa
consentire di accogliere i singoli soggetti rispettando i caratteri che li differenziano. Tuttavia ciò è possibile
solo attraverso un consapevole riconoscimento dei bisogni di ciascuno i quali devono essere precisati e
definiti dalla pedagogia che – in seguito- deve fornire delle risposte formative altamente rispettose delle
esigenze altrui. Solo se il tema della differenza smette di essere materia di dibattito teorico e comincia a
trasformarsi in questione della prassi educativa, allora esso si collocherà all’interno dell’intreccio complesso
del mondo della scuola e dell’educazione. Per Cambi la valorizzazione della differenza è entrata a far parte
della cultura occidentale con l’Illuminismo, per poi svilupparsi sempre di più con il Romanticismo, la
filosofia di Hegel, Marx Kierkegaard, Shopenhauer, Nietzsche ed Heidegger; sino a giungere ai giorni nostri
dove la differenza (in tutte le sue forme) innerva il nostro mondo provocando numerose domande,
contraddizioni e risposte che non sempre sono indolori. Ad esempio, la differenza di genere (voluta
fortemente dalle donne) ha modificato la società nelle sue strutture portanti come la famiglia, la quale si è
riorganizzata basandosi su nuovi valori, su una nuova educazione in quanto il modello centrato sul
predominio maschile è stato messo da parte completamente. A ciò si è aggiunta la presenza di etnie e
culture diverse, la quale ha fatto emergere nuovi problemi. Di fronte a tutto ciò, Cambi ha affermato che la
categoria-chiave per vivere nel presente è quella del disincanto, con il quale egli intende una modalità con
cui il soggetto si inoltra in questo mondo vivendo tutto come un’avventura e una possibilità perché egli è
libero di compiere qualsiasi scelta, ma – nello stesso tempo- non ha nessuna certezza e nessun sostegno.
LA DIFFERENZA DI GENERE: Una delle caratteristiche principali e più importanti della società moderna
coincide con l’emergere sempre più insistente delle istanze poste dall’universo femminile, le quali hanno
comportato delle profonde modifiche nell’assetto della comunità provocate sia da una maggiore
scolarizzazione delle donne, sia dalla loro entrata nel mondo del lavoro. Il processo di liberazione del
mondo femminile che negli ultimi anni è diventato inarrestabile è iniziato con la diffusione delle idee
illuministe e grandi figure - legate a tale processo - sono Olympe Gonges e Mary Wollstonecraft. La prima è
stata una giornalista francese che ha riscritto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo declinandola al
femminile; in questo modo ha dato vita ad un nuovo testo che metteva in luce come la Dichiarazione dei
diritti dell’uomo proponeva dei valori universali e validi per tutti, ma escludeva le donne. La seconda,
invece, è stata la promotrice del movimento delle Suffraggette e ha scritto un altro testo in cui ha
rivendicato i diritti delle donne. La rivendicazione femminile dedita ad estendere i diritti naturali dell’uomo
anche alle donne è nata in questo periodo perché dopo la Rivoluzione francese tutti gli status personali su
cui si fondava l’ancien regime erano stati aboliti, tranne quello fondato sul sesso. Questa decisione risultò
coerente con le idee dei giuristi prerivoluzionari i quali fecero una distinzione tra le disuguaglianze: per loro
esistevano le disuguaglianze artificiali che andavano abolite e le disuguaglianze naturali che non potevano
essere abolite (proprio come quella del sesso). In Italia la situazione fu analoga: il primo Codice civile
dell’Italia Unita sanciva l’inferiorità giuridica delle donne e un primo passo avanti si è avuto nel 1946,
quando fu riconosciuto alle donne il diritto di voto. In questo stesso anno furono elette delle donne
all’Assemblea Costituente e ciò è stato molto importante perché proprio queste donne hanno partecipato
all’elaborazione della Costituzione, la quale risultò essere così moderna, rispetto ai suoi tempi, perché
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queste donne si impegnarono a fondo per affermare l’uguaglianza per tutti (esplicitata nell’art.3). Tuttavia
la strada per la parità, dal 1948 ad oggi, è stata tutta in salita per le donne in quanto si sono ritrovate a
dover combattere contro una classe politica e una magistratura di merito che hanno cercato di impedire
l’attuazione delle norme costituzionali. Nonostante ciò grazie ad una legge di iniziativa parlamentare del 9
febbraio 1963 le donne hanno visto riconosciuto il loro diritto ad accedere alla magistratura. Un altro passo
avanti è stato fatto nel 1968, anno di contestazioni, durante il quale le donne cominciarono a scardinare la
struttura familiare arcaica e centrata sulla figura dell’uomo; cominciarono a creare gruppi di studio
sull’identità femminile e di analisi dei propri vissuti quotidiani in modo da poter prendere coscienza dei
condizionamenti sociali, delle violenze subite dalle istituzioni e, nello stesso tempo, elaborare iniziative di
lotta per modificare l’esistente. Questo nuovo atteggiamento delle donne era stato alimentato anche dalle
vicende che seguirono i due conflitti mondiali ed esso può essere definito giusto perché ha dato la forza alle
donne di portare le proprie istanze riformatrici anche all’interno dei partiti politici. Infatti, a partire dagli
anni ’70, si è avviata, in campo legislativo, un’attività riformatrice che ha modificato la struttura familiare e
il ruolo della donna all’interno della comunità. Delle leggi molto importanti sono state quella del divorzio,
quella del diritto di famiglia, la legge sulla parità e quella per l’aborto. Con queste misure legislative si è
completata, almeno da un punto di vista giuridico, l’emancipazione delle donne alle quali è stato dato lo
strumento necessario per attuare una trasformazione delle istituzioni, dei valori e dei rapporti dominanti
all’interno della società. Tale trasformazione può essere definita radicale in quanto, come afferma la
Rossanda, la cultura del femminismo è negatrice della cultura maschile, nel senso che non tende ad
integrarla ma a sostituirla. In questo contesto le donne hanno iniziato una riflessione approfondita sul
proprio universo e sul proprio stato, evidenziando costantemente il valore della differenza di genere e
stabilendo un legame dialettico con la modernizzazione che se, da un lato, ha favorito la loro
emancipazione, dall’altro ha ricevuto da questo processo un impulso innovatore. Ma la pedagogia italiana è
rimasta per molto tempo indifferente alla riflessione relativa al problema della differenza di genere in
quanto molti pedagogisti (come Borghi) ritenevano che tale questione non fosse di competenza pedagogica
nonostante fosse presente nella coscienza degli intellettuali. La pedagogia italiana ha cominciato ad
occuparsi dell’educazione femminile solo a partire dagli anni ’80, affrontandola sia come ricerca storica sul
passato in modo da individuare le radici e le modalità dell’esclusione; sia come elaborazione teorica di un
modello di società alternativa a quella attuale e fondata su valori tipici del mondo femminile. Un lavoro
molto importante è quello di una psicoanalista belga (Luce Irigaray) la quale ha affermato che la nostra
società ha una struttura esclusivamente maschile e in cui non trova spazio il femminile. Per questo motivo
le donne hanno acquisito la consapevolezza che è necessario recuperare la differenza in quanto solo in
questo modo ci si può aprire verso una realtà diversa, aperta alle esigenze intellettive e affettive delle
donne. Attualmente, nel dibattito pedagogico sono presenti due posizioni diverse: la prima tende a
completare il processo di emancipazione della donna, puntando verso una società in cui l’affermazione dei
diritti e dei valori femminili possa coesistere con un mondo maschile capace di adeguarsi alle richieste
provenienti dal mondo delle donne. La seconda, che è più radicale, è centrata sulla valorizzazione della
differenza di genere e rifiuta l’emancipazionismo. Inoltre, quest’ultima teoria ritiene che all’interno della
società bisogna introdurre il dualismo dei generi e affermare la cultura femminile la quale è più attenta a
conciliare la mente e gli affetti, il logos e il pathos. La cultura al femminile, oggi, rivendica la differenza di
genere e compie riflessioni autonome anche nel campo della formazione affermandosi come pedagogia
della differenza. La seconda posizione è quella che prevale maggiormente nel dibattito pedagogico in
quanto una serie di studi, tra i quali quello di Simonetta Ulivieri, dimostrano che in ogni sistema sociale le
bambine e i bambini ricevono un’educazione diversa (sia in ambito familiare che in altre strutture
formative) in modo da orientare nella direzione giusta il loro comportamento futuro. Un ordine sociale
fondato sulla differenza di genere comporta anche una rivisitazione dell’universo formativo, in quanto
accanto al logos deve essere preso in considerazione il pathos, accogliendo – in questo modo- il contributo
offerto da Freud e dalla psicoanalisi che hanno evidenziato l’importanza centrale della sfera emotiva nel
pensiero e nel percorso formativo. La formazione, in questo senso, viene intesa come un percorso che
privilegia rispetto all’istruzione il piano dell’educazione vista come opportunità di crescita integrale
dell’individuo. Ciò significa che la formazione non va intesa come un processo in cui entra in gioco solo
l’intelletto, ma come un percorso durante il quale entrano in gioco le qualità umane del soggetto di cui la
nostra mente coglie la dialettica emozionale interno. Da questo pensiero si sviluppa da un lato la pedagogia
degli affetti, la quale si muove verso un modello capace di dare importanza all’affettività nella prospettiva
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dell’ideale uomo integrale; dall’altro una riflessione sul ruolo che la scuola può svolgere nel senso di una
formazione integrale. Tale istituzione può optare per una didattica tesa a suscitare l’emozione per la
conoscenza in quanto l’apprendimento legato ad essa è quello che rimane impresso nella memoria.
LE DIFFERENZE CULTURALI: Le differenze culturali, insieme a quelle di genere, alimentano la complessità
del nostro tempo; infatti la crescita costante della presenza di immigrati stranieri sul nostro territorio ha
dato vita ad un discorso pedagogico teso a promuovere una cultura fondata sul rispetto delle differenze
etniche e religiose e capace di favorire un clima di interscambio dialettico e di reciproca comprensione.
Questo discorso si fa più insidioso in ambito religioso in quanto ogni religione tende a considerarsi come
l’unica vera e giudica le altre non come religioni ma come culture. Il dialogo interreligioso, che si propone
all’interno di una società così complessa, presuppone un riconoscimento reciproco delle religioni in quanto
tali perché questo riconoscimento nobilita le stesse identità culturali e le rende più resistenti
all’assimilazione. Inoltre bisogna dire che in una società multiculturale le culture che la abitano tendono a
potenziare la loro anima religiosa per poter conservare la propria identità: per questo motivo le identità
che sopraggiungono si presentano più aggressive rispetto a quelle locali e a ciò bisogna aggiungere che la
religione si rivitalizza nel momento in cui viene minacciata, mentre si intiepidisce nel momento in cui non
viene ostacolata o perseguitata. In riferimento a tale discorso, l’obiettivo che si vuole raggiungere oggi è
quello di dar vita ad una società in cui soggetti aventi origini, cultura,religione e lingua diversi possono
vivere in modo coeso e pacifico, rispettando i diritti di tutti. Il passaggio da una società multiculturale
costituita da gruppi di persone diversi e che non comunicano tra loro, ad una società interculturale in cui i
vari gruppi etnici si aprono ad uno scambio e ad una comunicazione si può realizzare mediante un progetto
pedagogico che mira al confronto e alla riflessione sull’alterità. Ciò significa che bisogna sforzarsi di
conoscere l’altro, rispettato nei modi e nelle credenze e discutere quegli atteggiamenti che sono
considerati non accettabili. Il primo passo verso la promozione del rispetto della diversità culturale consiste
nella lotta contro il pregiudizio, il quale può essere sradicato attraverso lo sviluppo dell’abitudine ad
esercitare la mente, ad approfondire i problemi, a porsi domande, ad afferrare l’essenza di un problema;
avere, cioè, un pensiero sistematico. Il pensiero sistematico si apre alla complessità, rifiuta il conformismo,
accetta tutte le differenze, apprende secondo modalità e codici diversi e costruisce dei modelli
interpretativi della realtà adatti a quella attuale. Esso è un pensiero che permette di vivere serenamente in
una società interculturale in quanto si apre agli altri senza pretendere di omologarli a sé e senza perdere la
propria autonomia intellettuale. Tuttavia è bene prendere coscienza del fatto che la promozione di una
educazione interculturale richiede di rivedere il nostro modello culturale e modificarlo in quanto esso si
basa sull’esaltazione della nostra civiltà e della nostra storia. L’esigenza di modificare il proprio modello
educativo, proponendo il riconoscimento dei diritti delle minoranze, è nata già nel XX secolo negli Stati
Uniti. Essa ha dato vita ad un discorso pedagogico il cui max esponente è stato Dewey il quale ha proposto
un’educazione pubblica capace di conciliare un’identità nazionale unitaria con il pluralismo di culture,
lingue e religioni del Paese. Egli ha – poi- affermato che la scuola pubblica deve avere il compito di educare
alla democrazia attraverso un insegnamento nuovo da un punto di vista metodologico, perché rispettoso
delle differenze culturali e sociali le quali devono essere considerate un fattore di arricchimento della
società. Le idee di Dewey si sono sviluppate immediatamente negli ambienti più progressisti dell’America,
ma non sono diventate patrimonio di tutti così repentinamente. Infatti la realtà educativa degli USA si è
affermata in diverse parti del mondo (diventando oggetto di un dibattito pedagogico e socio-politico) solo
dopo essere stata attraversata da una didattica di tipo compensativo e spinta dal movimento afroamericano. La società complessa, secondo Dewey, deve trasmettere e conservare non tutto ciò a cui ha
dato vita, ma solo quello che contribuisce al suo miglioramento. Il compito fondamentale è quello della
scuola, la quale deve equilibrare i diversi elementi dell’ambiente sociale e dare la possibilità a ciascun
individuo di sfuggire dalle limitazioni del gruppo sociale nel quale è inserito e venire in contatto con un
ambiente più vasto. L’ambiente scolastico è quello su cui punta Dewey perché è proprio qui che si
mescolano culture, razze e religioni diverse che, però, sono legate da un elemento: lo studio, il quale
alimenta lo svilupparsi di una visione più larga e di un’apertura mentale. Nella situazione attuale il discorso
pedagogico si ritrova a dover affrontare una duplice sfida: da un lato bisogna elaborare delle strategie utili
a promuovere nei giovani la capacità di accogliere e rispettare le differenze; dall’altro è importante
elaborare delle metodologie efficaci per l’educazione e la formazione degli stranieri i quali si ritrovano a
vivere una situazione di dolorosa scissione tra quelli che sono realmente e quelli che appaiono agli occhi
della gente. Ciò li fa stare sempre in bilico tra la difesa dell’appartenenza (finalizzata a non perdere la
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propria identità) e la necessità di integrarsi ai nuovi contesti di vita. L’intercultura non si propone come
obiettivo quello di cancellare la diversità, ma di promuovere una riflessione sull’alterità la quale favorisce
l’integrazione e la convivenza e permette di riconoscere l’altro – dapprima- come un soggetto appartenente
al genere umano, poi come soggetto portatore di cultura e quindi degno di rispetto e attenzione. Da ciò si
evince che l’intercultura è una forma di pensiero che si conquista mano a mano. Questo pensiero viene
definito “problematico” in quanto permette di pensare la complessità e di muoversi dialetticamente tra i
molteplici piani esistenziali e culturali del reale. Pertanto educare al pensiero problematico e complesso
significa educare a pensare in maniera complessa, ossia sviluppare una conoscenza della conoscenza. Una
conoscenza che guarda se stessa mentre conosce e agisce esercita un’azione di auto riflessività su quel
sistema di presupposizioni che costituisce il patrimonio profondo dal quale la nostra mente attinge le
soluzioni ai diversi problemi che le si pongono. L’educazione interculturale deve partire dalla scuola in
quanto essa non è deputata solo all’istruzione, ma anche alla trasmissione di comportamenti e alla
formazione del cittadino. In questa prospettiva, il compito della scuola è quello di formare delle menti
aperte al cambiamento e - riprendendo le parole di Demetrio- l’educazione deve mirare alla transività o
mobilità emotiva, e cioè verso la capacità di passare da una forma mentis all’altra in quanto solo una
mentre aperta può accettare la diversità culturale, nonchè rispettare e comprendere l’altro. Tutto ciò –
però- implica anche un cambiamento dell’identità della scuola, la quale si è ritrovata a trasformarsi da
luogo di trasmissione e di assimilazione culturale a spazio di confronti e di elaborazione inter-transculturale. La sperimentazione di un’educazione interculturale può partire dalla scuola dell’infanzia – a
prescindere dalla presenza fisica di bambini stranieri- e continuare per tutto il percorso scolastico. Infatti da
alcuni anni la normativa scolastica del nostro paese ha maturato un corretto approccio interculturale, il
quale emerge dagli Orientamenti per la scuola materna del 1991 in cui il processo di formazione appare
fondato sul principio di alterità e sulla relazione con l’altro. In questo modo l’intercultura non è entrata
nella prassi educativa come un problema, bensì come un elemento qualificante della formazione del
soggetto. Tuttavia nell’ambito scolastico molto spesso gli insegnanti trovano delle serie difficoltà nel
favorire l’integrazione del bambino straniero, e questo succede perché non hanno gli strumenti culturali
adeguati. Per questo motivo il compito della pedagogia interculturale è quello di istituire un progetto
globale di formazione per gli insegnanti, in modo da diffondere un atteggiamento positivo nei confronti
dell’altro e giungere al pieno riconoscimento dell’alterità in quanto ciò rappresenta quel passo avanti
decisivo per istaurare una relazione capace di produrre un intervento educativo efficace (e cioè capace di
modificare il modo di pensare delle persone). A tal proposito molto importante è la riflessione di Matilde
Callari Galli, la quale ha affermato che “ se la formazione vuole assumere le nuove interdipendenze che
caratterizzano l’attuale commercio tra culture deve abbandonare i suoi percorsi tradizionali e porre al
centro della sua riflessione le nuove culture; scegliere come luogo al quale prestare attenzione le aree di
confine e trovare nei luoghi labili, nei popoli dell’esilio le sue nuove parole”. La riflessione pedagogica in
ambito interculturale deve, quindi, trovare degli approcci che possono generare un mutamento non
traumatico nel sistema relazionale dell’immigrato e che gli consentano di compiere un percorso formativo e
di integrazione senza che ciò comporti la perdita dei propri valori. Da un punto di vista pratico è importante
individuare una nuova didattica la quale da un lato deve provocare l’accettazione e l’accoglienza della
diversità; dall’altro deve individuare le modalità adatte per favorire l’apprendimento dei bambini stranieri.
Per raggiungere tale obiettivo bisogna puntare su di un approccio didattico che valorizza i diversi stili
cognitivi e relazionali, in modo da formare un pensiero aperto e pronto a cogliere la diversità perché
consapevole di diverse rappresentazioni della realtà. Tuttavia, nella prassi, è molto difficile edificare una
società interculturale in quanto – prima di tutto- la nostra cultura non tende a valorizzare le differenze, ma
talvolta a soffocarle; in secondo luogo, nella pratica educativa gli insegnanti, anche se impostano il loro
lavoro nel rispetto della dignità culturale dei bambini immigrati, tendono a trascurare le loro conoscenze
pregresse e a valutarli secondo i nostri parametri. Ciò comporta dei problemi alquanto notevoli i quali si
legano soprattutto alla lingua, strumento di comunicazione, comprensione e apprendimento. Alla luce di
quanto detto è possibile concludere dicendo che non è sufficiente riconoscere formalmente le diversità
culturali nella scuola se poi esse sono considerate inadeguate rispetto alle esigenze scolastiche secondo un
atteggiamento etnocentrico il quale può sfociare nell’assimilazionismo e addirittura nel razzismo.
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RIASSUNTO: PER UNA PEDAGOGIA DELLA POLITICA – Fabrizio Manuel Sirignano
CAPITOLO I
PEDAGOGIA POLITICA: UN BINOMIO INDISSOLUBILE
Il termine pedagogia deriva dal greco pais,paidos (che significa fanciullo) e assume un duplice significato, in
quanto: pais, paidos + ago significa condurre il soggetto all’acquisizione di una sua autonomia; mentre
pais,paidos + logod significa riflessione teorica su quelle che sono le finalità dell’educazione.
La pedagogia affonda le sue radici nell’antica Grecia, dove intorno all’VIII e VII secolo a.C. nacquero le polis:
città-stato in cui riuscì ad affermarsi una forma di governo democratica nonostante il fatto che essa fu
preceduta da un governo monarchico e aristocratico. La polis sin dal suo apparire segna, come dice
Vernant, un punto di partenza; una vera invenzione perché all’interno di essa il cittadino era chiamato a
partecipare attivamente e con ratio alle vicende della vita quotidiana, prendendo coscienza di essere parte
di una comunità a cui lo legano vincoli accettati liberamente. Quindi all’interno della polis l’educazione
aveva un carattere pubblico ed era legata alle vicende politiche perché la formazione dell’uomo coincideva
con la formazione del cittadino. Inoltre ogni manifestazione pubblica, partendo dai giochi ginnici sino al
teatro, svolgeva una funzione educativa. Il teatro e in particolar modo la satira politica era molto
importante perché attraverso di essa i governanti riuscivano a capire quali erano gli umori del popolo.
Quest’educazione pubblica si è diffusa nell’antica Grecia con la nascita della democrazia, alla quale si è
giunti compiendo dei piccoli passi. Tra il 594 e il 593 a.C., dopo un regime oligarchico e di stampo
aristocratico ( che puntava soprattutto sulla forza militare) e una serie di regimi assolutistici denominati
tirannidi, salì al potere Solone il quale aveva il compito di porre fine allo scontro che c’era tra l’aristocrazia,
che reclamava i propri diritti, e il popolo, che oppresso dai debiti aveva perso la libertà personale e molti
venivano venduti come schiavi. Solone attuò una serie di riforme, e la più importante fu quella di dividere
la popolazione greca in 4 classi in base al censo. La prima classe poteva accedere all’arcontato perché grazie
al reddito poteva contribuire maggiormente alle spese della polis; la seconda e la terza potevano sostenere
l’onere economico della fanteria e della cavalleria e partecipare alla Boulè, un consiglio composto da 400
membri. Infine la quarta classe non poteva aspirare a nessuna carica, ma nello stesso tempo poteva
partecipare all’Ecclesia: un’assemblea popolare a cui potevano partecipare tutti gli uomini che avevano
compiuto 18 anni e che aveva il compito di valutare le diverse proposte fatte dai cittadini ed emanare la
sentenza definitiva. Da ciò si evince che Solone ha attuato una vera e propria rivoluzione in quanto ha
istituito un principio secondo il quale il potere veniva determinato in base alla partecipazione all’interno
dello Stato, negando così sia il principio di legittimità religiosa ( secondo il quale il governo è un’emanazione
divina); sia il principio che ammetteva l’esistenza di una classe superiore che poteva imporre degli ordini a
classi inferiori. La linea di Solone è stata seguita da Clistene, che introdusse un nuovo sistema di
organizzazione del territorio, proponendosi come obbiettivo quello di dare rappresentanza politica a tutte
le popolazioni dell’Attica ( regione della Grecia con capitale Atene). Il territorio fu diviso in 10 unità
elementari (i demi), raggruppati in 10 tribù, le quali fornivano i componenti sia della Boulè ( che erano 50 x
ogni tribù) che di gli altri organi dediti a governare la polis, come l’Eleia ( che era un tribunale del popolo).
Tuttavia il vero fondatore della democrazia in Grecia può essere considerato Peircle, il quale nella sua
opera “Epitafio” ha dato una vera definizione di democrazia; egli ha affermato che lo Stato doveva reggersi
su leggi che dovevano diventare un modello per gli altri stati e in più questo Stato non doveva essere
oligarchico ( ossia governato da pochi) bensì uno Stato retto dal popolo, dalla maggioranza; ed è proprio da
quest’ultima caratteristica che nasce il nome di democrazia (demokratia). Altri due principi importanti
esposti da Pericle nel suo scritto sono: 1) l’uguaglianza di tutti nei confronti della legge; principio al quale si
associa l’idea che se se qualcuno eccelle in qualcosa, questo può essere scelto per svolgere funzioni
pubbliche anche se il suo patrimonio non è molto alto. Quindi nello Stato di Pericle non è importante il
patrimonio del singolo cittadino, ma quelle qualità che possono aiutare a raggiungere il miglioramento di
esso. Il secondo principio coincide con la netta distinzione tra funzione pubblica e privata: in quel contesto
ogni individuo aveva il diritto di trattare gli affari privati secondo i propri criteri e modi, rispettando sempre
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il vincolo della legge. Dopo la nascita della democrazia i greci hanno cercato di trovare una serie di
“antidoti” per evitare la nascita di un nuovo regime autoritario, e in particolare l’avvento della tirannide.
Questi antidoti li ritroviamo soprattutto nell’ostracismo e nella graphè paranomon. L’ostracismo (descritto
da Plutarco nella “Vita di Aristide”) consisteva in una votazione popolare in cui si decideva l’esilio di un
cittadino, la cui influenza era ritenuta pericolosa. Anche se la decisione era negativa per il cittadino, gli
veniva data la possibilità di fruire delle sue proprietà. La graphè paranomon aveva una duplice funzione:
essa era innanzitutto un’azione pubblica con la quale si accusava e processava un cittadino che in
Assemblea aveva fatto una proposta avversa alle leggi, in quanto tutti in Grecia avevano il diritto di parola
(isegoria). In secondo luogo la graphè paranomon dava la possibilità al demos ( popolo) di ritornare su una
decisione che il popolo stesso aveva preso. Quindi da ciò si evince che il popolo era il vero protagonista
dello Stato, in quanto prendeva la decisione definitiva su ogni questione. Questa partecipazione attiva del
popolo nelle questioni pubbliche ha una grande valenza pedagogica in quanto gli uomini - facendo parte
dell’Assemblea - conoscevano diversi problemi, diventavano protagonisti di numerosi scambi di idee e
opinioni; e ciò era molto importante perché da un lato crescevano culturalmente, dall’altro maturarono un
forte senso di appartenenza alla civiltà, il quale ( insieme alla religione di Stato, ai miti e alla tradizione)
secondo Finley è stato l’elemento essenziale che ha caratterizzato il successo della democrazia ateniese, in
cui l’educazione poteva essere intesa come sviluppo delle qualità morali, come educazione del vivere civile
e come identificazione cosciente con la comunità. Inoltre l’educazione, che avveniva attraverso la
partecipazione all’Assemblea, portava i giovani a maturare una propria identità e lo spirito critico, che gli
permetteva di affrontare diverse problematiche esprimendo giudizi liberi e personali. Oltre alla
partecipazione all’Assemblea fondamentali, per l’educazione dei giovani greci, sono stati i due testi
attribuiti ad Omero: l’Iliade e l’Odissea, attraverso le quali è stato trasmesso – per generazioni e
generazioni- un modello di valori capace di incidere profondamente sui costumi di un intero popolo.
Nell’Iliade, c’è l’esaltazione delle virtù guerriere incarnate nella figura di Achille; ma nello stesso tempo
vengono messe in luce anche doti come l’autocontrollo e la potenza della parola. Nell’Odissea,invece,l’eroe
è Ulisse che si distingue non per le sue qualità di combattente, bensì per le sue doti intellettive. La nascita
della polis ha segnato un punto di svolta nell’ideale educativo dell’Ellade, in quanto insieme ad essa si è
sviluppato e consolidato un senso di appartenenza e di subordinazione alla comunità da parte del singolo.
Tale senso di appartenenza si è trasformato, ben presto, in una virtù civica a cui tutte le altre virtù
dovevano sottostare. La polis veniva intesa come unità vivente dei cittadini, ossia come un contesto sociale
che educava il popolo e dal quale esso traeva la forza guadagnando una libertà limitata solo dalla legge. I
cittadini si sentivano parte integrante della polis ed è per questo che erano sempre pronti a combattere per
essa. La più alta espressione dei valori civici e della capacità plasmatrice della polis è rappresentata
dall’Atene di Pericle, il quale affermò- dapprima- l’originalità del regime politico ateniese e – in secondo
luogo- esaltò il principio sul quale esso si basava: la sovranità del demos. E’ proprio da tale principio che
deriva il termine democrazia, formato da due parole: demos, ossia popolo e Kratein, e cioè esercizio della
sovranità. Pericle – nei suoi scritti- ha sempre difeso la democrazia e ha messo in luce che essa andava
esercitata in seno alle assemblee in cui le decisioni venivano prese tenendo presenti i voti per alzata di
mano. Tuttavia Atene non è stata l’unica polis a dare importanza alla poesia, alla musica e alle arti. Prima di
essa – infatti- c’è stata Sparta che esaltava molto questi aspetti, i quali sono stati messi da parte - in
seguito- perché questa polis si è ritrovata costretta a trasformarsi in una roccaforte pronta a rispondere agli
attacchi provenienti sia dall’esterno che dall’interno. In questo contesto l’educazione è diventata un
compito avvertito dallo Stato che ha impresso ad essa un carattere militare e duro, mortificando ogni
espressione artistica e culturale. Sparta e Atene sono sempre state due polis in contrasto tra loro ed è
proprio per questo motivo che Pericle – in un suo scritto- ha messo in luce la sua idea secondo la quale gli
ateniesi non dovevano difendere solo la loro egemonia e indipendenza da Sparta, ma anche il loro modello
educativo il quale è stato descritto da Protagora in un suo dialogo. Quest’ultimo ha affermato che“ Nel
momento in cui il bambino diventava capace di intendere il senso delle parole gli educatori (ossia la madre,
il padre, la nutrice) dovevano preoccuparsi di farlo diventare buono, impegnandosi ad insegnargli – sin da
piccolo- cosa è giusto e cosa è sbagliato. Se il bambino obbediva bene, altrimenti si ricorreva a maniere più
forti. Nel momento in cui i fanciulli entravano a scuola, il compito dei maestri era quello di curare più la loro
compostezza che lo studio delle lettere e della musica, e nel momento in cui gli scolari diventavano capaci
di leggere e cogliere il senso della parola scritta erano costretti ad imparare a memoria le opere di grandi
poeti in cui vi sono racchiusi i valori che la società voleva tramandare di generazione in generazione. Inoltre
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bisognava far conoscere ai giovani la buona musica e dargli la possibilità di frequentare la scuola di
ginnastica in modo da mantenere il corpo sano. Tuttavia questo percorso di studi era previsto per i più
ricchi: essi – infatti- entravano nella scuola presto e ne uscivano tardi; e una volta fuori essi si ritrovavano
catapultati in una società che li costringeva ad imparare le leggi e a vivere osservandole. Chi trasgrediva tali
leggi veniva punito.” Inizialmente ad Atene l’educazione aveva uno stampo militare; poi – nel V secolo- si è
cominciata ad affermare la necessità di provvedere ad un’educazione a carattere pubblico e politico in
modo da rispondere alle esigenze dei nuovi ceti emergenti, i quali non potevano permettersi un precettore
privato. Ad Atene nacque una scuola della forma e un’educazione che divenne un modello per tutte le altre
città, tranne che per Sparta. All’interno dell’istituzione scolastica si affiancò al pedotriba (maestro di
ginnastica) e al citarista (maestro di musica) il grammatista, ossia colui che insegnava a leggere, scrivere e
far di conto in quanto l’ideale pedagogico era quello di far conciliare un corpo armonioso con una mente
ben educata. Verso la fine del IV secolo il percorso formativo dei giovani si arricchì in quanto fu aggiunto un
segmento seguente a quello elementare. Questo segmento coincideva con l’efebia, ossia con un
approfondimento delle scienze e della filosofia. Nell’Atene di Pericle, poi, si sviluppò un grande interesse
per i problemi dell’educazione; interesse messo in evidenza dai sofisti che si proponevano come
professionisti dell’educazione e come maestri della dialettica (intesa come arte del ben parlare). Essi sono
stati i primi filosofi a chiedere una retribuzione in cambio del loro insegnamento, il quale esercitò una forte
seduzione sui giovani e una profonda avversione nei conservatori. I sofisti non si sono fatti promotori di un
pensiero filosofico uniforme e fondato su principi specifici: essi sono stati i portatori di una visione
antropocentrica dell’universo in quanto sostenevano che tutto è relativo all’uomo e che quest’ultimo è
l’unico responsabile delle proprie azioni. L’insegnamento dei sofisti ha avuto un grande successo anche in
seguito grazie alla presenza di un clima maturo e pronto ad accettare la diffusione delle loro idee; e – in
più- ha risposto ad un’esigenza abbastanza avvertita nelle polis del V secolo: ossia quella di fornire ai
giovani una preparazione adeguata per fronteggiare i problemi nati con la democrazia. L’istruzione
tradizionale- infatti- non era più idonea al contesto nato e formatosi con la democrazia, in quanto qui era
fondamentale l’abilità oratoria e l’arte della persuasione. Queste tecniche rappresentarono i contenuti
degli insegnamenti dei sofisti, i quali – in questo modo- avviarono i propri allievi verso il dominio della
politica. Tuttavia il merito dei sofisti è quello di aver introdotto il concetto di cultura generale che – per
loro- doveva costituire la base su cui si sarebbero dovute sviluppare le specifiche competenze di ciascuno; e
quello di aver superato il dogmatismo naturale il quale sosteneva che la conoscenza rispecchiava solo una
realtà esterna all’uomo. Andando aldilà di quest’ultima concezione, i sofisti hanno spostato l’attenzione
sull’individuo, ritenuto la misura di tutte le cose, e hanno proposto una visione culturale nuova, tesa alla
formazione di un cittadino immerso nella realtà del suo tempo, e cioè portatore di conoscenze e
competenze acquisite mediante un’educazione legata alla parola e alla scrittura. Con lo sviluppo del
pensiero dei sofisti, l’educazione diventa di fondamentale importanza per la formazione dell’uomo (inteso
come animale politico) ed è per questo che essa non deve essere esercitata dai familiari, bensì da maestri
competenti, quali i sofisti stessi. Infine, la filosofia dei sofisti ha dato la possibilità a grandi filosofi successivi,
come Socrate, Platone e Aristotele, di esporre e far sviluppare il loro pensiero.
**LA PAROLA COME STRUMENTO DELLA POLITICA – di Finley**
La Grecia poteva essere definito il mondo della parola parlata in quanto qui tutto veniva comunicato e
trasmesso mediante discussioni e rapporti verbali e – in più- non esistevano mezzi di comunicazione così
come li intendiamo oggi. L’assenza di questi strumenti comunicativi ha fatto in modo che i capi politici
intrecciassero dei rapporti più diretti con i propri elettori che – a loro volta- potevano esercitare un controllo
costante su chi li avrebbe rappresentati. Tuttavia la democrazia ateniese poteva definirsi diretta e non
rappresentativa in quanto tutti potevano partecipare all’Assemblea sovrana e (aldilà di alcuni addetti) non
esisteva alcuna forma di burocrazia.
Socrate riteneva che il sapere è l’unico punto fermo al quale l’uomo può rifarsi e che l’educazione deve
spingere i giovani a saper utilizzare la ragione, in quanto solo attraverso di essa è possibile giungere al
sapere.
Platone ha approfondito le idee esposte da Socrate e nella Repubblica (in cui ha disegnato la sua idea di
Stato ideale) ha messo in evidenza che l’educazione è un’evoluzione dello spirito sotto lo stimolo
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dell’ambiente; è un processo di interazione tra l’individuo e la società perchè le caratteristiche dell’umanità
(espresse nella virtù e nella saggezza collettiva) condizionano l’evoluzione del singolo individuo.
Aristotele pensava che uno dei doveri principali di un legislatore era quello di educare i giovani, e farlo
tendendo presente l’idea guida della Costituzione in modo che essa poteva essere migliorata sempre di più
di generazione in generazione. Inoltre il filosofo ha affermato che l’educazione e l’istruzione non erano un
fatto privato, ma un compito dello Stato e che l’istruzione non doveva essere intesa come l’addestramento
ad un’attività ma come uno strumento, un percorso per formare l’uomo. Tuttavia Aristotele ha assistito alla
scomparsa del mondo civico delle polis, causato sia dalle lotte tra le diverse città greche, sia dalla minaccia
incombente dell’Impero Persiano. A tal proposito, l’idea di Aristotele era quella di unire tutte le città greche
sotto la monarchia macedone e seguendo questo suo pensiero educò Alessandro, figlio si Filippo di
Macedonia. Quando Alessandro salì al potere la Grecia era già sotto il dominio macedone e le città avevano
perso la loro libertà; quando morì Alessandro ebbe inizio l’ellenismo. L’ellenismo è stato un fenomeno che
ha comportato l’assorbimento delle città greche in vastissimi organismi statali ( i regni ellestici), i quali
erano dominati da una cultura greca e titolari di una lingua comune: la coinè, la quale era la lingua greca
contaminata da termini ionici.
**LA FORMAZIONE DELL’UOMO POLITICO – di Marrou**
Anche se questi filosofi hanno mutato il panorama pedagogico-educativo, una vera e propria svolta è stata
data dai Sofisti, i quali hanno preso in considerazione e risolto un problema molto sentito all’epoca: quello
della formazione dell’uomo politico. Dopo la crisi della tirannia, avvenuta nel VI secolo A.C., Atene cominciò
ad animarsi di un’intensa vita politica e l’esercizio del potere divenne l’attività che nobilitava e rendeva
importante l’uomo. Tutti cercavano di affermarsi nell’azione politica e i sofisti ebbero un grande successo
perché misero a disposizione i loro insegnamenti per preparare gli uomini ad una carriera di Stato e formare
personalità che potevano essere definite come “leader” della città.
Durante il periodo dell’ellenismo la cultura greca esaltava le qualità peculiari dell’individuo (inteso come
uomo e non come cittadino) ed esercitava una vera e propria egemonia in tutto il Mediterraneo. L’Ellenismo
è un periodo molto importante: esso viene definito da Cambi come l’età che è maturata introno alla crisi del
rapporto tra individuo e Stato e ad una crescita scientifica e umanistica della cultura. Inoltre, l’ellenismo è
stato il periodo in cui c’è stata la decadenza di Atene e l’affermazione di nuovi centri di cultura, quali: Rodi,
Pergamo e Alessandria, la quale è diventata il centro di tutta la cultura ellenistica in campo letterario,
filosofico e scientifico. La cultura sviluppatasi ad Alessandria poteva essere definita “universale” in quanto
essa mirava alla formazione di un uomo completo, nutrito di cultura letteraria e abile con la parola. Una
delle caratteristiche fondamentali dell’ellenismo (il quale è durato circa 3 secoli) è che c’è stato – in questo
periodo- un ripiegamento sul privato in quanto l’educazione non mirava più alla formazione del cittadino,
bensì della persona, che avveniva nella scuola media.
In questo periodo, in cui dominava un forte dispotismo, si registrò un grande sviluppo delle scienze (come la
medicina, la farmacologia) in quanto il potere assoluto non dava largo spazio né all’arte (che richiede libertà
di ispirazione) né alla filosofia.
1.3 LO SPOSTAMENTO DI CONFINE DAL PUBBLICO AL PRIVATO
La cultura greca è giunta a Roma grazie ad una contaminazione durata circa due secoli e qui ha catturato
l’attenzione degli animi più aperti e propensi all’innovazione (proprio come successe in Grecia nel
momento in cui nacque e si sviluppò il pensiero filosofico dei Sofisti), ma ha incontrato anche l’opposizione
dei conservatori i quali vedevano nella diffusione di questa nuova cultura un pericolo. Secondo questi
ultimi, infatti, lo sviluppo della cultura ellenistica a Roma avrebbe comportato una trasformazione della
cultura locale e un inclinamento della consolidata tradizione educativa che aveva il suo fulcro nell’autorità
del pater familias e nell’osservanza dei riti religiosi. Nonostante la presenza di tale forza oppositiva la
cultura ellenistica si diffuse a Roma, aprendo nuovi orizzonti spirituali, consentendo ai singoli di acquisire
delle aspirazioni e dei bisogni nuovi e, infine, aiutando gli uomini a svincolarsi dalle angustie di una
tradizione ormai antica. La penetrazione della cultura greca nel mondo romano ha prodotto una profonda
trasformazione in ambito pedagogico: l’educazione, infatti, non era più affidata sola alle famiglie, ma anche
all’iniziativa privata. Il corso di studi durava 20 anni e si divideva in tre gradi: il primo era affidato al primus
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magister; il secondo al grammaticus e il terzo al maestro di eloquenza. Questa organizzazione scolastica è
stata molto utile ad Augusto nella sua opera di sistemazione di un immenso territorio sotto un unico
impero: egli, a tal proposito, utilizzò la lingua latina come uno strumento di unificazione e la scuola come un
luogo in cui formare (attraverso l’educazione dello spirito e la conquista delle menti) i ceti dirigenti dei
popoli assoggettati.
1.4 IL PARADIGMA SOCIO-POLITICO DELLA PEDAGOGIA
La pedagogia è sempre stata legata alla politica, anche nel periodo che va dall’ellenismo al medioevo,
durante il quale l’educazione pareva relegata solo da ambienti privati. Tale legame – infatti- c’era ma era
nascosto e ha cominciato a venir fuori a partire dall’Umanesimo e il Rinascimento, per poi affermarsi nel
1600 ed esplodere nel 1700. A tal proposito Cambi ha affermato che tutte le novità avvenute nel 1600
hanno determinato – per la pedagogia- la fine del paradigma metafisico-religioso e la nascita di un nuovo
paradigma: quello politico-sociale, che ha fatto di essa un sapere orientato all’azione a all’impegno civile. In
questo modo la pedagogia si è definita come il momento centrale della riforma della società e il rapporto
tra tale disciplina e la comunità è diventato sempre più forte, tanto che introno ad esso si è cominciato ad
organizzare tutto il discorso pedagogico a partire dal 1700. In questo secolo si è avviata una fase di
affermazione e di sviluppo del paradigma politico-sociale, mentre dall’800 al 1900 sono nati i modelli più
organici di questo tipo di sapere pedagogico. Quindi, in questo clima, la pedagogia ha assunto finalità sociali
e politiche e cominciò a puntare sulla formazione di un uomo ben inserito e capace di orientarsi nel
contesto in cui viveva. Con l’avvento dell’Umanesimo e del Rinascimento si è affermata sulla scena politica,
sociale e culturale dei paesi europei, una nuova figura di intellettuale, impegnato nei problemi del proprio
tempo e interessato a questioni giuridiche e politiche. Tutto ciò ha provocato un cambiamento all’interno
del quadro culturale tradizionale: infatti, sono cambiati i punti di riferimento, si è modificato il modo di
organizzare il sapere ed è nato un nuovo paradigma: quello politico-sociale. La pedagogia è stata investita a
pieno da questo mutamento ed è per questo che si è spinta verso la teorizzazione di un nuovo modello
educativo, mirato a formare un uomo capace di partecipare attivamente e coscientemente alla vita sociale
e politica, riprendendo l’antica vocazione ateniese di scienza deputata all’educazione dell’uomo e del
cittadino. Questa nuova pedagogia costruì la propria identità sulle idee filosofiche di Tommaso Moro,
Campanella e Bacone i quali hanno ideato dei percorsi educativi adeguati alla trasmissione di valori della
modernità. Tra questi, molto importante è stato Bacone in quanto dopo aver espresso la sua concezione di
educazione – intesa come sviluppo delle facoltà mentali- ha criticato i pedagogisti suoi contemporanei
perché poco attenti su questo aspetto fondamentale. Con l’umanesimo e il rinascimento si è avviato un
processo di cambiamento della visione del mondo, il quale si è sviluppato nel 1600 con l’affermazione della
rivoluzione scientifica, e si è consolidato nel 1700, secolo in cui si è diffuso un pensiero e un atteggiamento
laico. Una differenza che può essere colta tra il 1600 e il 1700 è che nel primo secolo la scienza veniva
comparata al metodo matematico e al suo modo di procedere; nel secondo secolo essa veniva considerata
come il sapere empirico, grazie all’influenza del pensiero di Locke. In questo stesso periodo cominciò ad
affermarsi il paradigma socio-politico della pedagogia, il quale è diventato il modello pedagogico dominante
nei due secoli successivi. Su tale paradigma si sono occupati diversi autori (da Rousseau a Kant) ma uno
molto importante è stato Emile Durkheim il quale proponeva – nel suo insegnamento- il modello di una
morale razionale laica. Egli riteneva che il compito della pedagogia era quello di orientare i giovani verso la
solidarietà sociale e verso la consapevolezza che al di sotto della moderna società laica ci sono dei legami
collettivi profondi. Inoltre Durkheim ha fatto una distinzione tra pedagogia e sociologia, mettendo in
evidenza che la seconda deve orientare i giovani verso la politica; mentre la prima deve educare i giovani al
vivere sociale. In più egli sosteneva che il sociologo doveva costruire la morale come scienza positiva e il
pedagogo doveva interiorizzare tale morale nella coscienza degli individui. Dall’analisi di ciò si evince che
per Durkheim la pedagogia era strettamente legata alla politica in quanto il suo compito era quello di
orientare i giovani verso l’accettazione di norme comportamentali coerenti con un determinato assetto
sociale. Inoltre il sociologo sosteneva che la scuola doveva proporsi come obiettivo primario quello di
formare nei giovani una forte sensibilità civica e – in secondo luogo- una coscienza politica; per questo
motivo era necessario rivedere tutta la pedagogia, assegnandole l’identità di disciplina capace di adeguare
le proprie strategie di intervento educativo alla realtà sociale utilizzando i contributi dati dalla psicologia e
dalla sociologia. Infine, nel discorso che Durkheim tenne nel 1902 ha sottolineato l’importanza della
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pedagogia, mettendo in evidenza che a ciascuna struttura sociale corrisponde un tipo di pedagogia e che
l’educazione forma l’essere sociale, ossia l’individuo inserito in quella coscienza collettiva che è il
fondamento della vita sociale. Oltre a Durkheim, altri autori che si sono soffermati sul paradigma sociopolitico riferito alla pedagogia sono stati Hegel, Marx e Labriola. Hegel ha posto al centro del discorso
pedagogico l’aspetto politico; Marx e Labriola l’aspetto sociale. Per Marx l’educazione impartita ai giovani è
sempre educazione di classe in quanto attraverso di essa è possibile trasmettere le idee di una determinata
classe sociale (in genere quella dominante). Inoltre, nella concezione pedagogica di Marx, l’educazione ha
assunto due caratteristiche fondamentali: da un lato essa era emancipazione, nel senso che permetteva
all’uomo di allontanarsi dalle ideologie false diffuse dalla borghesia; dall’altro indottrinamento, e cioè uno
strumento mediante il quale trasmettere determinati valori. Per Labriola la pedagogia aveva il compito di
sviluppare al massimo la tensione verso la libertà di ogni individuo ed egli individuava nella scuola popolare
lo strumento per l’emancipazione delle classi svantaggiate. A tal proposito egli puntava sul potenziamento
di una scuola in grado di accompagnare le trasformazioni che avvenivano all’interno della società e di
diffondere la cultura tra tutti i cittadini, evitando – così- il trasformismo e la corruzione politica.
**SCUOLA POPOLARE E PEDAGOGIA DELLA LIBERTÀ – di Labriola**
In un suo discorso Labriola ha messo in evidenza che la scuola popolare rappresentava sia la condizione e la
conseguenza di una lotta per la civiltà, sia il mezzo e il fine di un’evoluzione morale che ha permesso alle
classi sociali meno abbienti di prendere coscienza dei propri diritti. La scuola popolare – secondo questo
autore- rappresenta l’unico strumento su cui puntare per liberarsi da ciò che di sbagliato è stato fatto in
passato in quanto già dalla sua nascita è possibile dedurre la sua grandezza e la sua forza. La scuola
popolare – infatti- è nata in Germania e negli USA, paesi completamente diversi e in cui essa ha assunto
un’identità altrettanto differente: nel primo la scuola popolare è stata preparazione verso la democrazia;
nel secondo un complemento della democrazia. In Italia, dove il liberalismo aveva giovato i pochi e distrutto
i molti, bisognava diffondere una politica sociale e fare dello Stato l’organo principale. Tutto ciò era
possibile mediante la diffusione della scuola popolare, il cui principio e fondamento doveva essere la cultura,
la quale doveva essere diffusa in tutti gli animi, difesa e non limitarsi al solo leggere e scrivere.
**GENTILE E GRAMSCI**
Nel nostro paese, il paradigma socio-politico ha assunto maggiore importanza nel periodo che sta a cavallo
tra le due guerre mondiali: in questo momento- infatti. L’Italia divenne teatro di uno scontro tra due
concezioni pedagogiche contrapposte: quella di Gentile e quella di Gramsci. Gentile è stato un filosofo della
destra hegeliana ed egli riteneva che la disfatta di Caporetto doveva essere attribuita alla crisi morale che
stava attraversando il Paese, all’inadeguatezza della classe politica e alla poca credibilità che avevano le
istituzioni democratiche. Per questo motivo egli propose che la scuola doveva elaborare un progetto di
educazione nazionale in grado di provocare una svolta in Italia e di contribuire all’edificazione di uno stato
etico. Dopo la marcia su Roma Gentile fu nominato Ministro della Pubblica Istruzione e grazie a questa sua
posizione potette mettere in pratica tutti i progetti educativi che aveva propagandato in tutti gli anni
precedenti nelle battaglie studentesche; primo fra tutti quello di ripristinare l’ordine e la disciplina nella
scuola. Dalla Riforma Gentile (1923) emerse una scuola classista, in quanto il Ministro fece una distinzione
tra percorso liceale e percorso professionale: il primo aveva una grossa importanza perché formava i futuri
dirigenti del paese, ossia uomini con una cultura generale e classica ai quali veniva data la possibilità di
frequentare l’università; il secondo percorso (ossia quello professionale) dava la possibilità di acquisire delle
competenze pratiche da mettere in atto nel lavoro. Chi frequentava queste scuola non aveva la possibilità di
accedere all’università e, di conseguenza, di formarsi una coscienza critica e autonoma. Nel 1924 Gentile fu
allontanato dal ministero dell’Istruzione, ma nonostante ciò godette di una posizione privilegiata durante il
fascismo, la quale gli permise di diffondere e imporre la sua concezione di una pedagogia “ancella della
filosofia”, la quale ha bloccato, per molto tempo, l’evoluzione verso una pedagogia scientifica. Gramsci è
una figura che è venuta alla ribalta durante la crisi politica emersa in Italia dopo l’assassinio di Matteotti.
Egli si fece promotore di una “pedagogia dell’impegno”, volta a promuovere l’emancipazione delle classi
popolari attraverso la diffusione della cultura e l’acquisizione della consapevolezza dei propri diritti civili e
politici. Dopo l’emanazione delle leggi fascistissime (1926) Gramsci fu arrestato e restò in prigione sino alla
sua morte. Infatti è stato proprio dal carcere che egli ha dettato le proprie coordinate pedagogiche, volte
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verso la realizzazione di una scuola più giusta e attenta a soddisfare bisogni delle masse. Gramsci si oppose
alla divisione proposta nella Riforma Gentile perché riteneva che il tecnico, l’operaio, non doveva essere un
“mezzo uomo”, ma un uomo completo, ossia dotato di conoscenze e competenze unite ad una cultura
generale di base. Proprio per questo motivo egli propose di creare una scuola preparatoria unica, capace di
condurre il giovane sino alla soglia della scelta professionale e formandolo, nel frattempo, come persona
capace di pensare e studiare.
**UNA PEDAGOGIA DELL’IMPEGNO PER LA SCUOLA – di Gramsci**
Gramsci sosteneva che anche per il proletariato doveva esserci una scuola disinteressata in quanto i figli di
questa classe sociale dovevano avere dinanzi a sé tutte le possibilità, tutti i campi liberi per poter realizzare
la propria individualità. Per questo motivo la scuola professionale non doveva essere solo un’istituzione in
cui i giovani venivano istruiti per un mestiere, senza ricevere un minimo di cultura; bensì una scuola in cui
dal fanciullo poteva venir fuori un uomo completo.
DEWEY (1859-1952): In questo stesso periodo, negli USA, si stavano diffondendo le idee di Dewey il quale ha
elaborato un modello di filosofia sociale dell’educazione influenzando le scelte pedagogiche di tutto il 1900.
Dewey si è proposto di realizzare una società aperta, e cioè in grado di dare a tutti le stesse possibilità per
crescere e realizzare le proprie potenzialità. Questa società doveva essere democratica ed educante:
democratica perché doveva dare a tutti le stesse opportunità di crescita intellettuale e quindi
un’educazione adeguata; educante perché doveva reggersi su esperienze condivise e continuamente
comunicate le quali producono una serie di stimoli a cui gli individui devono rispondere facendo emergere
le proprie potenzialità. Dewey ha – poi- esaminato le tre filosofie dell’educazione che, in epoche diverse,
hanno dato particolare importanza alla dimensione sociale dell’educazione e ne ha individuato i punti
critici. Queste filosofie sono quella di Platone, l’individualismo illuministico e le filosofie idealistiche. Per
quanto riguarda la filosofia di Platone egli riteneva che essa si basava su di un ideale simile a quello del
proprio pensiero, ma l’errore del filosofo greco c’è stato nel considerare unità la classe piuttosto che
l’uomo. Per quanto riguarda l’individualismo illuministico l’elemento positivo era l’idea di una società vasta
come l’umanità del cui progresso l’individuo doveva essere l’organo principale; il punto negativo è stato
quello che gli esponenti di tale pensiero non sono stati in grado di indicare un’istituzione in cui potesse
realizzarsi ciò. Infine, le filosofie idealistiche del 1900 hanno indicato lo Stato come istituzione in cui
realizzare il processo educativo, ma – in questo modo- hanno reintrodotto l’idea della subordinazione
dell’individuo all’istituzione. Dall’analisi di questi tre pensieri diversi Dewey ha dedotto che a fondamento
del paradigma socio-politico c’è la concezione di una pedagogia strettamente legata ad una filosofia politica
indicante i fini da perseguire e il percorso da compiere.
**DEMOCRAZIA ED EDUCAZIONE – di Dewey**
In uno dei suoi testi più importanti Dewey ha messo in evidenza che il rapporto tra democrazia ed
educazione è ben noto e che ad esso si associa una spiegazione più superficiale e una più profonda. In
riferimento alla prima spiegazione tale rapporto è necessario perché in uno stato democratico il governo
viene eletto a suffragio universale; di conseguenza chi elegge non può non aver ricevuto un minimo di
educazione. Prendendo in considerazione quella più profonda Dewey sottolinea che la democrazia è un
qualcosa di più di una forma di governo, è un tipo di vita associata, è un’esperienza continuamente
comunicata. In questa prospettiva tutti agiscono verso un unico interesse e ognuno deve riferire la sua
azione agli altri e considerare quella degli altri per poter dare un motivo e una direzione alla propria. Ciò
comporta l’abbattimento di tutte quelle barriere che hanno sempre impedito all’uomo di cogliere il vero
senso della loro attività. Una società di questo tipo, ha affermato infine Dewey, deve mirare ad
un’educazione che incentivi lo sviluppo dell’iniziativa personale e dell’adattabilità nei diversi individui i quali,
al contrario, sarebbero sopraffatti dai cambiamenti.
CAPITOLO II
L’EDUCAZIONE ALLA POLITICA DAL TOTALITARISMO ALLA RESISTENZA
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Il Fascismo ha dato molta importanza alla cultura e a chi la elaborava e diffondeva in quanto il suo obiettivo
principale era quello di dar vita ad una pedagogia politica capace di penetrare nel corpo sociale. Per la
realizzazione di ciò il regime ha utilizzato le istituzioni esistenti (come le scuole, le accademie), ma nello
stesso tempo, ne ha fondato delle nuove le quali hanno assunto l’identità di canali di trasmissione di una
determinata cultura e ideologia: quella fascista. Gli intellettuali che andavano contro il pensiero fascista
venivano messi a tacere, mentre coloro che si presentavano favorevoli ad esso entravano a far parte della
classe dirigente fascista e, mediante la loro intelligenza, contribuivano all’elaborazione di un’ideologia
capace di catturare l’attenzione delle masse e – di conseguenza- il loro appoggio. In tale prospettiva, gli
intellettuali hanno rivestito un ruolo attivo durante il ventennio fascista, in quanto essi sono stati dei
soggetti politici; ma – da un altro punto di vista- hanno rivestito un ruolo passivo perché sottomettendosi
alla volontà del regime hanno imposto dei limiti alla propria autonomia intellettuale. Nonostante ciò il
fascismo riuscì ad ottenere numerosi consensi in quanto la maggior parte degli intellettuali tendeva verso il
nazionalismo a causa degli eventi che hanno succeduto il primo conflitto mondiale, da un lato; e dall’altro
cercava di difendere gli interessi del ceto medio spaventato dal biennio rosso. Dall’analisi di ciò è possibile
dedurre che gli intellettuali sono stati inglobati completamente dal regime fascista, assumendo il duplice
ruolo di organizzatori di consenso e di formatori di una classe dirigente. Inoltre è importante sottolineare
che l’intellettuale puro – in questo – periodo non veniva considerato in maniera positiva, bensì guardato
con sospetto ed irriso in quanto i fascisti puntavano molto sul fare e sul pensiro-azione. Una delle figure più
importanti che si sono affermate in questo periodo nell’ambito pedagogico è quella di Giovanni Gentile,
autore di una delle due più importanti Riforme del sistema scolastico italiano. Gentile è stato nominato
ministro della Pubblica Istruzione nel 1923 e grazie ai poteri che gli sono stati riconosciuti ha potuto
elaborare questa famosa Riforma, la quale è molto complessa e ampia perché investe sia l’amministrazione
scolastica che l’intero corso di studi nei suoi diversi gradi (dalla scuola elementare all’Università). Gentile, in
uno dei suoi saggi più importanti (“ L’unità della scuola media e la libertà degli studi”), ha messo in evidenza
la sua concezione di società e Stato e, contro chi proponeva l’istituzione di una molteplicità di indirizzi
all’interno della scuola secondaria, ha affermato che la scuola doveva avere un’uniformità di indirizzo. Il
filosofo del fascismo ha elaborato questo concetto partendo dal presupposto che la scuola, essendo il luogo
di formazione dello spirito, deve essere essenzialmente libera. Tuttavia questa libertà non coincide con
l’individualismo, che è sinonimo di arbitrio e anarchia, bensì con l’universalità. Lo Spirito crea la legge e, se
la legge è dello Stato, quest’ultimo è l’incarnazione dello Spirito. Pertanto il compito dello Stato è quello di
ordinare il sistema scolastico e di mettere in luce i programmi d’insegnamento, all’interno dei quali devono
essere espressi li interessi della nazione. Gentile ha definito lo Stato come “volontà di un popolo che si
sente nazione”, dove per volontà egli non intende la somma delle volontà individuali, bensì un valore unico
che ciascun individuo possiede e che vale come valore di tutti. Con questa sua filosofia Gentile non ha fatto
altro che giustificare il predominio totale dello Stato sull’individuo e di conseguenza legittimare l’ideologia
su cui si è mosso il regime fascista. Nel concreto dell’azione formativa, Gentile non è stato sempre coerente
con il proprio pensiero pedagogico. Un esempio di questo suo modo di procedere è stato l’introduzione
dell’insegnamento della religione nella scuola elementare in quanto il filosofo – nel IV congresso tenutosi a
Bologna il 1907- ha difeso la scuola laica e ha affermato sia che la religione rappresenta l’intolleranza, il
ristagno scientifico, l’eteronomia intellettuale e morale, sia che la scuola confessionale era una negazione
della scuola stessa. Nonostante ciò Gentile ha giustificato questa sua scelta mettendo in evidenza che il
cattolicesimo rappresentava l’unica strada che poteva portare gli individui verso il riconoscimento di
un’autorità assoluta, verso l’obbedienza e la disciplina; elementi essenziali per il rinnovamento morale e
spirituale del Paese. Per Gentile la scuola è il luogo di formazione dello spirito, ma intesa in questo senso
egli non fa riferimento alla scuola in generale, bensì a quella elementare in cui si ha una formazione iniziale
e al ginnasio-liceo, dove si riceve una formazione completa. Gli altri istituti non sono altro che delle scuole
speciali in cui si sviluppa un solo momento dello spirito. Coerentemente con questo suo pensiero Gentile ha
sempre difeso il carattere e la struttura del liceo classico, il quale rappresentava l’unica istituzione per
garantire l’accesso a tutte le facoltà universitarie e di conseguenza ad ottenere un ruolo guida nella società
e nello Stato. Inoltre, nella riforma della scuola media Gentile ha istituito, accanto ai corsi che
permettevano di accedere agli istituti secondari, una scuola complementare, la quale non consentiva ai
propri iscritti di frequentare una scuola secondaria ma aveva la funzione di completare la formazione
elementare. Inoltre, secondo lui, tale scuola doveva permettere di evitare il sovraffollamento all’interno
degli istituti secondari, ma essa non ebbe un grande appoggio dalle famiglie italiane perché esse
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preferirono scegliere, per i propri figli, dei percorsi di studio che li avrebbero portati a compiere un
avanzamento sociale. Gentile, rimanendo sempre in linea con il proprio pensiero, cercò di raggiungere il
suo obiettivo diminuendo il numero dei licei classici e degli istituti magistrali in tutta Italia, provocando una
grande apprensione nelle famiglie le quali inviarono numerose lettere e telegrammi a Mussolini. Tuttavia,
dopo l’assassinio d Matteotti (di cui il fascismo e Mussolini stesso si sono presi la piena responsabilità)
Gentile e altri 3 ministri inviarono le dimissioni. Il Duce accettò solo quelle di Gentile, il quale fu sostituito
da Alessandro Casati che si ritrovò a dover affrontare gli esami di stato seguendo – per la prima volta- le
indicazioni della Riforma del 1923. I risultati degli esami furono disastrosi ed è per questo che il nuovo
Ministro promosse una serie di modifiche delle norme d’esame e una rimodulazione dei programmi e degli
orari delle discipline nei vari corsi di studio. Inoltre Casati istituì nuovi licei scientifici in 9 città italiane, ma la
sua permanenza come ministro durò poco perché diede le dimissioni nel 1925, anno in cui ebbe inizio il
regime fascista. Casati fu successo da Pietro Fedele, un fascista che ha smantellato la riforma Gentile
mediante una serie di provvedimenti tesi ad adeguare il sistema scolastico alle esigenze politiche del
regime. In questo senso era diventato necessario rendere meno rigorosa la selezione che impediva alla
grande massa degli studenti di accedere ai corsi di studio secondari ed è per questo che il Ministro – in un
primo momento- concesse una sessione d’esame straordinaria a coloro che erano stati respinti ad ottobre
e – in un secondo momento- approvò dei programmi d’esame meno rigorosi. Contro la politica di Fedele si
scagliarono numerose polemiche provenienti dai sostenitori della Riforma Gentile. Tra questi importante è
stato Ernesto Cordignola il quale ha affermato – in un discorso- che se l’Italia si lamenta della poca cultura e
della mancanza di carattere nella classe dirigente, da un lato; dall’altro non fa molto per migliorare la
situazione. Cordignola – inizialmente- è stato un sostenitore del fascismo e a tal proposito ha affermato
che quest’ultimo, nel periodo dell’azione diretta, è stato una magnifica scuola di coraggio ed eroismo, ma
nel momento in cui è salito al potere ha dimenticato quello che era il suo compito: eliminare dalla
mentalità degli italiani le ideologie liberali mediante un’azione culturale intensa e decisa. Per questo motivo
Cordignola puntò molto su Gentile, affermando che egli – con la sua riforma- aveva mirato a colpire nel
cuore la vecchia Italia per poi dargli una nuova coscienza, conforme agli ideali fascisti. Nonostante le
diverse polemiche mosse contro di lui e la sua opera, il ministro Fedele ha apportato una serie di modifiche
all’ordinamento degli studi voluto da Gentile: egli ha trasformato la scuola complementare in una scuola
secondaria di specializzazione; ha reintrodotto il tirocinio alle magistrali; ha mitigato gli esami e ha abolito
la nomina ministeriali per i rettori delle università e i membri del consiglio superiore della P.I. Tuttavia –
andando aldilà di ciò- la scuola, nel periodo fascista, è sempre stata un punto nodale per l’acquisizione e il
mantenimento del consenso. A tal proposito vediamo che già con la Riforma del 1923 i docenti sono stati
sottoposti al continuo controllo da parte dei dirigenti scolastici; nel 1929 è stato introdotto un testo unico
nella scuola elementare, mirato a formare una gioventù omologata al regime. In questi stessi anni è stata
istituita l’Opera Nazionale Balilla, la quale doveva essere frequentata dai giovani dopo la scuola e in cui i
maschi venivano formati nella prospettiva di diventare uomini forti e virili; le donne – invece- nella
prospettiva di diventare mogli, madri e donne di casa. Durante il periodo fascista le donne subirono un
colpo durissimo in riferimento alla loro libertà e autonomia: nel 1926 venne impedito alle donne di
insegnare la filosofia, la storia, il diritto, l’economia e le altre materie letterarie nei licei e negli istituti
tecnici; nel 1928 fu impedito ad esse di rivestire il ruolo di preside nella scuola media e nel 1929 Gentile
vietò alle donne l’accesso alla scuola Normale Superiore di Pisa. Dall’analisi di ciò si evince quanto fosse
potente questo nuovo regime, il quale utilizzò molto la scuola per poter diffondere le proprie idee e per
poter spingere le masse di cittadini ad accettarle come quelle più giuste. Non è un caso che il fascismo si è
servito – ancora- della scuola per avviare una sistematica persecuzione degli ebrei in Italia. Nel 1938 il
ministro Bottai emanò una serie di circolari le quali sancirono il divieto di iscrizione a scuola ai bambini
ebrei; il divieto di conferire insegnamenti e supplenze agli insegnanti di razza ebrea; il divieto di leggere e
studiare libri di autori ebrei; l’allontanamento di docenti ebrei dalle scuole. Infine, in questo stesso anno- è
stato emanato un decreto che ha sospeso dal servizio tutti gli insegnanti ebrei dalle scuole di ogni ordine e
grado.
2.2 LA PEDAGOGIA ANTIFASCISTA
Franco Cambi sostiene che non è mai stato elaborato un progetto culturale organico e unitario capace di
esprimere un’idea di uomo e di società alternativa a quella fascista e le cause di ciò sono molteplici. Tra
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queste, quelle più importanti sono: la presa di coscienza tardiva – da parte del Parlamento italiano - del
rischio rappresentato dal fascismo; e il sostegno dato a Mussolini dal re che, dopo aver lasciato le squadre
fasciste libere di effettuare la marcia su Roma, gli ha dato l’incarico di formare un governo. Quando
Mussolini ha presentato il suo progetto di governo, dotato di un carattere rivoluzionario e
antiparlamentare, egli ha ottenuto un consenso generale, a dimostrazione del fatto che nel Parlamento
vigeva la tendenza a favorire la nascita di un governo sensibile alle esigenze delle forze economiche e
capace di tenere la sinistra lontana. Da ciò si evince che – in quel momento - mancava, nel Paese, una
chiara percezione del pericolo legato al fascismo ed è per questo che non si poteva parlare di antifascismo,
fatta eccezione per le forze della sinistra. Una coscienza antifascista cominciò a consolidarsi dopo
l’assassinio di Matteotti, evento che mise in bilico l’opera di Mussolini la quale non fallì perché
l’opposizione era caratterizzata da una serie di conflitti interni. Da questo momento negativo, il fascismo si
rialzò più forte di prima ed è per questo che oltre ad andare contro le forze della sinistra, cominciò a
scagliarsi anche contro gli esponenti del movimento liberale. L’unico che venne tollerato nella sua azione
educativa e politica antifascista è stato Benedetto Croce, il quale era un intellettuale di fama internazionale
e – di conseguenza- colpirlo avrebbe creato troppo scalpore. Approfittando di questa sua situazione Croce
ha pubblicato sulle pagine de “Il Mondo” il Manifesto degli intellettuali antifascisti, all’interno del quale egli
ha mosso una critica nei confronti degli intellettuali fascisti, i quali non possono essere definiti cultori di
scienza e arte perché hanno contaminato politica, letteratura e scienza, il che è un errore; nei confronti del
modo di agire dei fascisti e nei confronti della nuova religione (basata sulla violenza e sulla repressione
della libertà individuale) di cui si facevano promotori. In questo stesso manifesto Croce ha invitato gli
uomini a guardare e a prendere come esempio i grandi eroi del Risorgimento, i quali sono partiti e morti
per la patria da un lato e, dall’altro, hanno sempre cercato di non mantenere nell’inerzia e nell’indifferenza
la nazione perché – in questo modo- sarebbero andati contro i loro principi. Il 1926 è stato un anno molto
importante per il fascismo per una serie di avvenimenti accaduti. In primo luogo, il re Vittorio Emanuele III
approvò una serie di leggi eccezionali che diedero al regime ulteriore potere; in secondo luogo, nel
novembre 1926 venne arrestato Gramsci e altri deputati comunisti; i parlamentari che avevano partecipato
alla secessione sull’Aventino persero la loro carica, venne varato il Testo Unico di Pubblica Sicurezza che
perseguiva i reati politici e – infine- fu istituto un Tribunale in cui si condannavano solo gli oppositori al
regime. Di fronte a questa politica così repressiva gli antifascisti si dileguarono emigrando in terre lontane.
Gli unici che rimasero a combattere la loro battaglia furono i comunisti e accanto ad essi si affiancarono
numerosi giovani e antifascisti presenti in ogni settore ( nelle scuole, nelle fabbriche) i quali, anche se non
agivano, rappresentavano sempre un punto di riferimento. Una figura che ha avuto un ruolo guida
nell’opposizione culturale ed educativa al fascismo è stato Benedetto Croce, il quale si proponeva di
indicare ai giovani dei valori alternativi a quelli ufficiali, in modo da orientarli verso l’acquisizione di una
compiuta autonomia intellettuale. La grandezza di Benedetto Croce è stata sottolineata anche da Alfieri, il
quale ha affermato che egli – nonostante il clima culturale che si è affermato durante il fascismo- ha
sempre operato in modo diretto e in modo indiretto (attraverso i suoi discepoli) sino al 1928, anno in cui è
stato stabilito che sui giornali quotidiani e sulle riviste di cultura non era consentito parlare di Croce, o – se
lo si faceva- ben poco. Lo strumento d’elezione con cui il gruppo riunito intorno a Croce operava era la
“Critica”, una rivista che i filosofo ha fondato nel 1903 e che è stata adottata – sino al 1933- da tutti i licei e
tutte le università. Attraverso questa sua rivista e le idee espresse in essa, Croce è riuscito ad incidere
profondamente sulla formazione culturale del Paese ed è per questo che è preso in considerazione da molti
autori. Garin ha affermato che Croce non si è impegnato solo in un’attività educativa, ma è intervenuto – in
modo costante- anche in ambito politico, rivolgendo le proprie opere storiche (che si rifacevano a problemi
reali) verso la modifica delle situazioni. Gramsci – invece - ha detto che se in Italia non c’è stata una riforma
religiosa di massa, con la filosofia di Croce questa è riuscita – in qualche modo – a manifestarsi. Infatti tale
filosofia ha mutato l’indirizzo e il metodo del pensiero; ha dato vita ad una nuova concezione del mondo e
ha distaccato gli intellettuali del Mezzogiorno dalle masse, facendoli partecipare ad una cultura nazionale
ed europea. Ancora, Salvemini ha scritto che gli italiani dovranno essere sempre grati a Croce perché egli è
stato costante (dal 1925 al 1943) nella sua opposizione al fascismo. Opposizione avvenuta utilizzando il
silenzio e spingendo i giovani a credere nella libertà. Inoltre Croce condannava qualsiasi forma di
disimpegno ed è per questo che in ogni suo scritto è sempre presente l’impegno politico altro, e cioè inteso
come espressione di valori fortemente sentiti in un determinato momento storico. Infine è importante
sottolineare che ciò che il filosofo ha scritto, lo ha messo anche in pratica, in quanto nei diversi periodi
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difficili che ha vissuto il nostro paese, egli ha sempre animato della sua passione politica la sua opera di
studioso e alimentato della sua cultura la partecipazione attiva alla vita nazionale. Accanto all’azione di
Croce si sono affiancati – per circa dieci anni di regime- le redazioni di alcune riviste culturali a tiratura
limitata le quali riuscirono a diffondersi in modo limitato. Tra queste molte furono costrette a sospendere
nel 1935; e nel 1933 il prefetto di Roma ha diffidato Giuseppe Lombardo Radice dal pubblicare la sua rivista
“l’Educazione Nazionale” - fondata nel 1919- in quanto (ha fatto notare Cives) egli professava in essa un
antifascismo indiretto, fatto di mancata adesione ed esaltazione al regime. Giuseppe Lombardo Radice
aveva scritto i programmi scolastici della Riforma Gentile, ma dopo l’assassinio Matteotti abbandonò il suo
incarico e cominciò ad essere perseguitato dai fascisti. Altre riviste importanti sono state: La Nuova Italia, la
Rivista di Pedagogia, Solaria, le quali tendevano tutte ad allargare l’orizzonte culturale, ad esercitare lo
spirito critico e ad abituare all’analisi di un tema fatto su determinati punti di vista. In questo periodo,
mentre il Parlamento tardava a prendere coscienza della vera essenza del fascismo, nacque una rete
informativa clandestina (attraverso pubblicazioni e fogli altrettanto clandestini) e fu attivata “l’Italia libera”,
un’associazione fondata nel luglio 1923 da un gruppo di ex combattenti della sinistra repubblicana, la quale
si proponeva di attuare una riforma politica e sociale tesa a superare il fascismo, senza cadere nel
bolscevismo. Dopo l’assassinio di Matteotti, l’associazione dette vita ad un’organizzazione clandestina sia
sul piano politico che su quello militare che voleva colpire il governo fascista, il quale dette vita ad una
repressione così forte che le sedi dell’Italia libera furono chiuse. Tuttavia, l’eredità di quest’associazione
venne raccolta da una serie di antifascisti i quali pubblicarono nel 1925 il bollettino “Non mollare”; anche
alcuni redattori e diffusori di questo foglio furono arrestati. Questa politica repressiva durò per molti anni
ed è per questo che molti leader politici e intellettuali emigrarono, soprattutto in Francia, dove ben presto
nacque un’organizzazione antifascista. In un primo momento si attivarono i comunisti, i quali nel 1923
confluirono nel Partito Comunista francese. Nel 1927 nacque la Concentrazione antifascista e nel 1929
molti personaggi fondarono a Parigi il movimento “Giustizia e libertà”.
**GIUSTIZIA E LIBERTÀ PER LA FORMAZIONE DI UNA COSCIENZA ANTIFASCISTA – di Salvemini**
Il principio sul quale si fondava il movimento “Giustizia e Libertà” era quello di elaborare nuove opinioni
collettive in una terra in cui si era liberi di esprimere il proprio pensiero e di diffondere in Italia i risultati
emersi dalle discussioni, nonché un pensiero adatto alle nuove necessità della lotta antifascista. “Giustizia e
libertà” convocava uomini di diversi partiti antifascisti, i quali dovevano avere il compito di dar vita ad una
resistenza attiva utilizzando il metodo della libertà. Questo movimento non domandava l’adesione a nessun
dogma, ma richiedeva l’impegno di dedicarsi a ristabilire in Italia le libertà personali e quelle politiche dei
cittadini. Infine, questo movimento, invitava i suoi aderenti ad eliminare – nel periodo di passaggio dal
regime fascista al regime libero - sia le strutture politiche ed economiche fasciste sia quelle che avevano
reso possibile il sorgere della dittatura.
2.3 GRAMSCI: LA PEDAGOGIA DELL’IMPEGNO
Gramsci è stato colui che – durante il periodo del regime fascista- ha elaborato una pedagogia dell’impegno
sociale e politico, espressa negli scritti che ha prodotto durante il lunghissimo periodo di detenzione.
Gramsci, a differenza di Marx che considerava l’economia il motore della storia, sosteneva che la
trasformazione della società dipendeva dalla sovrastruttura, rappresentata dalla cultura e dalle diverse
istituzioni educative come la scuola. Per questo motivo egli ha attribuito un ruolo fondamentale
all’educazione nel processo di trasformazione della società italiana, che doveva partire proprio dal sistema
scolastico. A tal proposito Gramsci ha criticato molto la Riforma Gentile in quanto essa, accanto alla scuola
per eccellenza (e cioè quella umanistica) ha introdotto un sistema di scuole particolari che – assecondando
le necessità pratiche emergenti dalla società- hanno contribuito ad accrescere i problemi di un sistema
scolastico in crisi. Inoltre, se la scuola tradizionale aveva una struttura oligarchica, essa non poteva essere
eliminata moltiplicando le diverse scuola professionali perché – in questo modo- non si è fatto altro che
incentivare le differenze presenti nella società. Ad un modello così elitario, Gramsci ha opposto quello di
una scuola unica iniziale in cui si dava agli alunni la possibilità di essere formati sotto diversi punti di vista.
Inoltre, la scuola pensata da Gramsci doveva assolvere il compito di fornire ai giovani una certa autonomia
di pensiero e azione e – in più- doveva occupare un periodo di tempo pari a quello che attualmente viene
occupato dalle elementari e della medie. Il grado delle elementari doveva durare 3 o 4 anni e oltre
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all’insegnamento delle prime nozioni strumentali, doveva puntare su quello dei diritti e dei doveri del
cittadino. I gradi successivi dovevano avere una durata non superiore ai 6 anni e perché un percorso
scolastico organizzato in questo modo potesse raggiungere gli obiettivi previsti, era necessario eliminare
quegli ostacoli che i bambini appartenenti a classi sociali più svantaggiate potevano incontrare. Ciò poteva
essere fatto istituendo più scuole dell’infanzia, in modo da dare ai bambini la possibilità di abituarsi alla
disciplina scolastica; o organizzando la scuola unitaria come collegio. Gramsci ha poi affermato che lo studio
è un lavoro molto faticoso e che- di conseguenza- per coloro che provenivano da una situazione di vita
meno agiata le difficoltà sarebbero state maggiori rispetto a chi viveva in condizioni in cui l’istruzione era
cosa primaria. Tuttavia egli non si perse d’animo e portò avanti il suo progetto della scuola unitaria, il cui
ultimo grado doveva essere strutturato con l’obiettivo di fornire ai giovani i valori fondamentali
dell’umanesimo; l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale. Inoltre, per Gramsci, l’ultimo grado
dell’istruzione doveva essere una scuola creativa, ossia una scuola che insegnasse ai giovani di acquisire una
nuova conoscenza attraverso uno sforzo spontaneo e autonomo, anche se sotto la guida del maestro.
Una scuola così strutturata era in grado di stabilire un collegamento tra lavoro intellettuale e pratico, tra
mondo culturale e mondo del lavoro, il quale doveva essere assicurato dalle università e le accademie che –
però- non hanno mai avuto rapporti reciproci. Le accademie – infatti- rappresentavano l’emblema del
distacco tra popolo e intellettuali; mentre le Università aprivano le loro porte solo a coloro che avevano
frequentato il liceo classico. Gramsci – invece- immaginò un nuovo clima culturale in cui alle accademie
spettava il compito di organizzare culturalmente i giovani che, dopo la scuola unitaria, entravano nel
mondo del lavoro; alle università quello di regolare la vita culturale. In riferimento alle università, Gramsci
sosteneva che quel rapporto personale che si veniva a creare tra professore e studente, quasi per caso,
doveva essere ampliato da un livello personale ad uno più sociale; ciò era possibile attraverso
l’introduzione di seminari, i quali potevano integrare l’insegnamento dalla cattedra. Infine, un’altra critica
che Gramsci mosse nei confronti del mondo universitario e degli studenti fu che essi, dopo la fine del loro
percorso di studi non avevano la possibilità di mantenere un legame vivo con questa istituzione.
2.4 LA RESISTENZA: UNA NUOVA STAGIONE EDUCATIVA
La crisi del regime fascista è iniziata a manifestarsi tra il 1936 e il 1939 in quanto esso perse il consenso da
molti intellettuali che – per molti anni- lo avevano sostenuto con la speranza che il corporativismo potesse
diventare una forma di governo alternativa al capitalismo e al socialismo. Nel momento in cui giunsero, in
Italia, gli echi dei diversi movimenti filosofici, letterari e culturali che stavano avvenendo in Europa, i giovani
cominciarono a rendersi conto che al di fuori della realtà in cui erano costretti a vivere, c’era una realtà più
complessa e articolata. L’insofferenza che nacque a causa di questa presa di coscienza divenne una vera e
propria avversione nei confronti del regime nel momento in cui vennero emanate le leggi razziali ed ebbe
inizio la persecuzione antisemita, cominciata con la pubblicazione (nel 1938) di un manifesto sul Giornale
d’Italia in cui venne messo in evidenza che le razze esistono e che la razza ebrea non apparteneva alla “pura
razza italiana”. Nello stesso anno queste linee di pensiero espresse sul manifesto vennero accettate anche
dalle autorità più alte perché ritenute coerenti con l’identità del regime; e un mese dopo il Consiglio dei
Ministri cominciò ad approvare una serie di leggi antisemite. Questo clima così pesante spinse molti giovani
ad allontanarsi – sia da un punto di vista ideologico che morale - dal fascismo e a formare dei gruppi
antifascisti o ad unirsi a quelli già esistenti per poter lottare e abbattere i falsi miti del fascismo, in vista
della edificazione di un sistema democratico. La ripresa dell’antifascismo – avvenuta negli anni che
precedettero la seconda guerra mondiale - non ha determinato la fine del regime, ma è molto importante
perché ha dimostrato che giovani, cresciuti con principi fascisti, all’interno di un sistema totalitario e
totalizzante, sono riusciti a formarsi una coscienza civile e a prendere una decisione non semplice. Questi
stessi giovani – infatti, costituiranno – tra il 1940 e il 1943, insieme agli antifascisti - i gruppi dirigenti della
Resistenza. La crisi che sta vivendo il fascismo cerca di essere risolta – in qualche modo- dal ministro Bottai,
il quale tentò di recuperare il consenso degli intellettuali pubblicando “Il Cantiere”, una rivista culturale
sulla quale vennero pubblicati temi di diverso genere e alla cui elaborazione parteciparono giornalisti,
poeti, filosofi, storici e artisti di grande calibro (come Montale, Ungaretti, Quasimodo, ecc). Tuttavia, molti
di questi personaggi ruppero la loro collaborazione a causa di contrasti ideologici e gli altri che restarono
per gli altri tre anni e mezzo di vita della rivista, produssero un qualcosa che si fece promotrice di una
cultura lontana da quella fascista perché impregnata di valori che si sono affermati dopo la caduta del
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regime. Nel momento in cui Mussolini dichiarò – il 10 luglio 1940 - l’entrata in guerra dell’Italia, si scatenò
un malcontento generale incentivato dal fatto che la dura realtà del conflitto mise in evidenza l’arretratezza
e l’inconsistenza delle forze delle truppe italiane. A ciò si aggiunse la carenza dei generi alimentari,
l’aumento dell’inflazione e i continui bombardamenti sulle fabbriche del nord. In questo clima di caos e
terrore il malcontento crebbe sempre di più e, per questo motivo, nel 1943 ebbero inizio una serie di
scioperi che, ad un certo punto, spaventarono l’alta borghesia industriale la quale – nonostante avesse
appoggiato Mussolini e il regime per 20 anni – si allontanò dal fascismo e pose le condizioni affinchè
Mussolini potesse essere arrestato e allontanato dal potere. Il 25 luglio 1943 il re fece arrestare Mussolini e
affidò il potere del governo a Badoglio, il quale non arrivò a compiere nessun opera di scioglimento del
partito fascista in quanto esso crollò in modo repentino, dimostrando la sua effettiva debolezza. Nei giorni
successivi il Comitato nazionale degli antifascisti presentò a Badoglio due dichiarazioni il cui messaggio
chiave era quello di dare un taglio a questa guerra che andava contro le tradizioni e gli interessi nazionali;
Badoglio li ricevette, ma rifiutò ogni impegno. Intanto il 10 luglio gli anglo-americani sbarcarono in Sicilia e,
in poche settimane, si impadronirono dell’isola e intensificarono i bombardamenti sulle città italiane; in
seguito essi aprirono delle trattative segrete con il Governo italiano che si conclusero con la firma
dell’armistizio il 3 settembre 1945. Tale armistizio venne reso noto l’8 settembre e ciò mise l’Italia nel caos.
I tedeschi- infatti- attaccarono il nostro paese e sia il re che Badoglio abbandonarono Roma si rifugiarono a
Brindisi, sotto la protezione degli alleati sbarcati in Puglia. Con questo loro comportamento, il re e Badoglio
lasciarono l’Italia indifesa e lasciarono ai tedeschi spazio libero per occupare il territorio, sottomettere e
sfruttare la nostra gente. La notizia dell’armistizio – infatti- colse di sorpresa l’esercito che rimase privo di
guida e di direttive d’azione; e lo stesso discorso valse per la marina e l’aviazione, che però riuscì a
raggiungere i capi di atterraggio previsti. Da ciò si evince – dunque- che l’Italia fu dominata, in questo
periodo, da un clima di passività e profondo smarrimento dal quale – però- emerse la forza morale
dell’antifascismo che si propose come politica alternativa a quella del re e di Badoglio. Il Comitato delle
opposizioni – infatti- lanciò un appello alla Resistenza a tutti i gruppi antifascisti, chiedendo di lottare
contro i tedeschi. Questa loro azione è stata molto importante – da un punto di vista storico- in quanto ha
rappresentato l’altra Italia: l’Italia del coraggio e della volontà di riscatto. La volontà di rompere dal passato
si è espressa nel lavoro di organizzazione della Resistenza armata, la quale ha dato vita ad un movimento di
liberazione in diverse parti di Italia. La Resistenza – infatti- è stato un movimento nato per andar contro
l’oppressione fascista, la quale voleva ridurre l’uomo a cosa. Gli antifascisti rifiutavano l’idea di un uomo
ridotto a cosa e si facevano portavoce della persona la quale desiderava che tutti gli uomini restassero tali
in quanto bastava offendere un unico individuo per ferire e lenire la dignità degli altri. Sulla base di questi
principi nacque la Resistenza che combatté – per circa 20 anni- una lotta molto dura utilizzando il silenzio e
il segreto. E ogni tanto nel silenzio di questa lotta sorda risuonava il nome di un caduto che, nel dire addio,
pareva incitare i compagni a continuare. Lo spirito di sacrificio che animò gli eroi della Resistenza può
essere considerato un fattore continuativo di rinnovamento sociale e politico in quanto esso si dimostrò
capace di animare e di nobilitare gli atti più umili della vita quotidiana. Per questo motivo la resistenza,
anche se è nata in guerra, poteva diventare pace, nel senso di modello sociale e politico da seguire. Dopo
l’armistizio, l’Italia si divise in due: a Sud rimase lo Stato monarchico; nel resto del Paese risorse il fascismo
sotto la protezione del nazismo. Ciò accadde perché Mussolini fu liberato dai tedeschi il 12 settembre 1943
e fondò a Salò la Repubblica Sociale Italiana, un nuovo Partito Fascista repubblicano e un esercito pronto a
combattere a fianco dei nazisti contro tutti gli oppositori, ma – in particolar modo- contro il movimento
partigiano il quale diede vita alla Resistenza nei confronti dell’esercito tedesco. La Resistenza cominciò ad
essere molto potente in quanto agì su più fronti: nelle fabbriche, i partigiani, spinsero gli operai alla lotta la
quale si concretizzò in una serie di scioperi ( a cui parteciparono diverse categorie di lavoratori) che
rallentarono la produzione per diversi mesi. Nel marzo 1944 l’attività di informazione e di educazione
all’impegno svolto dalla Resistenza, si è concretizzata in uno sciopero generale che ha dimostrato il rifiuto
nei confronti della politica fascista da parte di molti lavoratori e – nello stesso tempo- la forza del
movimento della Resistenza. Sul piano militare la Resistenza si organizzò in bande armate composte da
militanti provenienti dai diversi gruppi antifascisti, ai quali si aggiunsero – giorno dopo giorno- coloro che si
allontanavano dalle proprie abitazioni per evitare di essere deportati dai tedeschi; gli operai minacciati di
licenziamento; numerosi soldati e ufficiali dell’esercito; carabinieri lasciati senza una guida; giovani che ,
arruolati nell’esercito di Salò, disertavano appena ne avevano l’opportunità; e – infine- carabinieri che
erano stati invitati a partire volontariamente per la Germania. Quest’ultimi, dopo aver ricevuto la notizia,
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disertarono in massa, ma – nonostante ciò- alcuni furono presi con forza e costretti a partire. Anche se la
guerra portò con sé solo cose negative, d’altro canto è possibile affermare che – da un punto di vista sociale
e pedagogico- essa ha abbattuto la rigida divisione dei ruoli tra uomini e donne che fu impostata dal regime
fascista, il quale ridusse la donna a madre, moglie e curatrice del focolare. Con l’avvento della guerra gli
uomini furono costretti ad andare a combattere sul fronte e le donne a sostituirli nei loro lavori. In questo
modo molte donne cominciarono a lavorare in diversi settori della Pubblica Amministrazione, nelle
fabbriche, nei trasporti, ecc; acquisendo una libertà di movimento prima impensabile e – nello stesso
tempo- un nuovo ruolo sociale e una maggiore consapevolezza della propria libertà e autonomia che
difficilmente potrà essere abbandonata e dimenticata in futuro. Il contributo femminile è stato molto
importante anche nella Resistenza, in cui le donne svolgevano il ruolo di “staffetta”; un ruolo molto difficile
e rischioso, ma più adatto ad esse che avevano maggiore libertà di movimento e che destavano meno
sospetto degli uomini. Per tanto le donne diventarono indispensabili nel movimento della Resistenza, anche
perché esse furono pronte a combattere e a morire per il proprio ideale. La Resistenza è stato – per chi ne
ha fatto parte- un momento formativo in quanto essi hanno imparato a condividere ciò che era proprio
(anche in una situazione di disagio come quella della guerra) e a combattere per un unico fine e un unico
ideale. Il fine era quello di liberarsi dai nazifascisti; l’ideale quello di dar vita ad una nuova società, basata su
di un governo democratico e rispettosa dei bisogni e delle aspirazioni di tutti i cittadini. Questo forte
sentimento democratico si sviluppò sempre di più tra le file dei partigiani che – nei momenti di pausaelaborarono una serie di progetti finalizzati a promuovere una nuova cultura, un nuovo modello educativo
e una nuova scuola, più vicina ai bisogni e alle capacità di coloro che provenivano dalle classi sociali le quali
sono state sempre escluse dal sapere. Tra questi progetti, uno che ha avuto maggior successo è stato quello
proposto da 5 partigiani: egli chiesero di istituire – dopo la guerra- una nuova scuola, all’interno della quale
non dovevano esserci discriminazioni e corruzione, ma solo una molteplicità di opportunità formative
aperte a tutti. Questo progetto si tramutò in realtà in quanto dopo il conflitto venne istituita a Milano la
“Scuola ex partigiani” che si proponeva di formare delle coscienze civiche senza tener conto della loro
appartenenza politica e/o economica. Questa scuola venne strutturata sotto forma di convitto e ottenne un
finanziamento dal ministero dell’assistenza post-bellica. Gli insegnanti erano tutti di ruolo e – insieme al
preside e agli allievi- facevano di tutto per garantire un buon funzionamento dell’istituto. Questa scuolaconvitto fu la prima di una lunga serie di istituti simili, i quali nacquero in diverse città d’Italia dando ai
ragazzi una formazione che li ha permesso di superare con grande successo gli esami pubblici dei diversi
ordini e gradi. Tuttavia la sorte delle scuole-convitto venne segnata dalla svolta politica che si ebbe in Italia
nel 1948: i partiti di sinistra furono sconfitti e lasciarono lo spazio ad un governo di stampo moderato. In
questo contesto non si tenne conto dei risultati raggiunti dagli allievi di questi istituti e – di conseguenze- il
governo procedette nel tagliare i fondi a tali convitti-scuola che – a loro volta- furono costretti a chiudere.
Negli anni successivi tre convitti rimasero in attività: quello di Milano, Venezia e Genova; ma – alla finerestò in piedi solo quello di Milano il quale seguiva solo i giovani della scuola media inferiore. In questo
modo si pose fine a quello che era il desiderio dei membri della Resistenza: creare una scuola aperta a tutti
e strutturata democraticamente. Nonostante tutto, la guerra aveva portato i giovani contadini ad avere dei
contatti con altre realtà e – di conseguenza- a rendersi conto dei propri limiti culturali. La reazione di questi
fu quella di richiedere continuamente istruzione; ed è per questo che venne istituita dalle brigate partigiane
l’ora politica, durante la quale tutti i giovani combattenti si riunivano intorno ad un commissario politico e
tutti insieme discutevano su temi posti da ciascuno. L’attenzione era sempre alta in queste riunioni e tutto
ciò non ha fatto altro che alimentare – nella mente di questi ragazzi- il desiderio di creare una nuova società
e una nuova scuola, aperta a tutti e gratuita.
CAPITOLO III
VERSO UN NUOVO IMPEGNO PEDAGOGICO-POLITICO
La Resistenza è stata un’esperienza molto importante per la storia del nostro Paese in quanto essa ha
favorito la nascita e la crescita di uno spirito nuovo: quello democratico. La liberazione dalla guerra ha
suscitato – da un lato - una sensazione di sollievo; dall’altro un senso di smarrimento e di incertezza in
quanto con la fine del fascismo cadevano tutti gli ideali su cui si era retta la vita dell’Italia per 20 anni.
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Nel dibattito che si aprì tra le forze della Resistenza e quelle che si stavano muovendo per ricostruire il
Paese, si distinsero – immediatamente- due fronti: quello laico e quello cattolico, i quali avevano un’idea
diversa di democrazia e un’immagine altrettanto divergente dell’Italia futura. Il fronte cattolico poggiava
sulla Chiesa, punto di riferimento di tutti i credenti; il fronte laico era alquanto eterogeneo perché
comprendeva sia i liberali (guidati da Benedetto Croce) che i socialisti, che si proponevano di cambiare
l’assetto sociale in favore delle masse popolari. Il fronte laico era spinto dalle speranze di cambiamento
alimentate nelle masse operaie e contadine dalla lotta di Liberazione; mentre quest’ondata di
cambiamento non raggiunse il Sud, dove le masse popolari restarono prigioniere di un’ignoranza che le
spinse ad essere sempre sottomesse alla monarchia e al papato. Tuttavia, il problema che si pose a tutti –
sia laici che cattolici - fu quello di ricostruire delle condizioni di vita accettabili per il Paese che appariva
lacerato sia da un punto di vista materiale che da un punto di vista morale. In questa direzione si mosse il
governo alleato, il quale effettuò una serie di interventi in campo assistenziale, artistico ed educativo.
Quest’ultimo settore era stato quello più colpito; infatti Wasburne e i suoi collaboratori si resero conto
immediatamente delle condizioni di arretratezza in cui si trovava la scuola italiana ereditata dal fascismo,
ed è per questo che cercarono di trovare una soluzione. Nel nostro Paese la scuola era carente da un punto
di vista didattico, pedagogico, organizzativo, ma la cosa più grave era che essa appariva tagliata fuori dal
pensiero, dall’esperienza e dall’analisi scientifica mondiale inerenti all’educazione. Infine, la conseguenza
più drammatica ereditata dal sistema fascista è stata il determinarsi di una profonda frattura tra le
generazioni, ossa fra chi aveva ricevuto una educazione alla resistenza e i più giovani, i quali non
possedevano un retroterra politico-culturale. La costruzione di tale retroterra è – poi- avvenuta molto
lentamente e la conseguenza di ciò è stata la creazione di un’elitè culturale non sempre capace di opporsi ai
vecchi schemi aristocratici che cercarono di affermarsi nel dopoguerra. Intanto i partiti che hanno fatto la
resistenza dovevano scegliere quale doveva essere il primo governo dell’Italia liberata; tale decisione si
indirizzò verso Ferruccio Parri, leader del Partito d’Azione, nonché capo militare della resistenza stessa che
– però- risultò debole da un punto di vista politico. Infatti il governo cadde dopo pochi mesi a causa
dell’opposizione dei liberali alla politica economica proposta da Parri, ed esso fu sostituito da Alcide De
Gaspari, esponente della Democrazia Cristiana. L’istituzione di questo governo segnò il punto di svolta
verso una scelta politica di stampo moderato, aderente ai dettami della Chiesa e che – per oltre 40 anni- ha
fatto dell’Italia un paese poco dinamico. Nel periodo in cui in Italia c’era un predominio cattolico – in
ambito politico, il mondo si stava dividendo in due blocchi contrapposti a causa della guerra fredda nata
tra gli USA e l’Urss. L’Italia era inserita nel blocco occidentale, dominato dagli Stati Uniti; e ciò ha
influenzato anche l’impossibilità di un ricambio del governo in quanto in alternativa alla DC c’era uno
schieramento di sx egemonizzato da un forte partito comunista che non poteva avere responsabilità
governative a causa del suo legame forte con l’Urss. Il 2 giugno 1946 gli italiani furono chiamati ad
esprimere un doppio voto: uno relativo alla scelta dei componenti di un Assemblea Costituente, la quale
aveva il compito di scrivere una nuova Costituzione; uno sul referendum istituzionale tra monarchia e
repubblica. Dopo 25 anni, queste erano le prime votazioni che potevano essere definite “libere” e – per la
prima volta- fu concesso il diritto di voto anche alle donne. Dal referendum venne fuori che la scelta
istituzionale coincideva con la repubblica, mentre l’Assemblea Costituente cominciò il suo lavoro il 24
giugno 1946 e terminò il 27 dicembre 1947. La Costituzione entrò in vigore il 1 gennaio 1948. Intanto,
mentre nell’Assemblea Costituente tutti i partiti che avevano preso parte alla lotta per liberare l’Italia dal
dominio nazista lavoravano per dar vita ad una nuova carta fondamentale al Paese, De Gaspari cercò di
allontanare – gradatamente- la sinistra dal potere, provocando due crisi ministeriali: la prima si concluse
con un ridimensionamento del ruolo dei partiti di sx nell’esecutivo; la seconda con la loro esclusione che
rafforzò l’egemonia del partito cattolico. Nell’Assemblea Costituente si chiarirono due concezioni diverse
relative al rapporto Stato-istruzione: una laica e una cattolica. Per il fronte laico l’organizzazione scolastica
ed educativa doveva essere affidata allo Stato al quale spettava il compito di garantire – a tutti i cittadini- di
accedere a tutti i gradi dell’istruzione. Pertanto il carattere pubblico dell’istruzione era necessario per
garantire la libertà d’insegnamento, intesa come libertà all’interno dell’istituzione pubblica. Per il fronte
cattolico, invece, la responsabilità dell’educazione e dell’istruzione doveva essere condivisa tra Stato e
famiglia: le famiglie dovevano avere la possibilità di poter scegliere se far frequentare ai propri figli una
scuola Statale o non statale e lo Stato – dal canto suo- doveva garantire l’esercizio di tale diritto. Quindi – in
questa seconda prospettiva- la libertà di insegnamento coincide con la libertà di scegliere il percorso
scolastico più consono alla concezione educativa della famiglia. A tal proposito sono stati creati l’articolo 33
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e 34 nella Costituzione: il primo riconosce la libertà di insegnamento, il ruolo dello Stato come responsabile
dell’istruzione e il diritto dei privati di istituire delle scuole senza oneri per lo Stato; il secondo esplicita il
diritto di tutti di accedere ai più alti gradi dell’istruzione. Nel luglio 1946 si insediò il secondo governo De
Gaspari che affidò ad un cattolico, Guido Gonella, il ministero della Pubblica Istruzione in modo da
dimostrare alle gerarchie ecclesiastiche che la DC era sensibile alle aspettative della Chiesa. Gonella
sosteneva la tesi che assegnava allo stato una funzione di supplenza all’iniziativa privata dove questa
risultava insufficiente a soddisfare i bisogni sociali. Con la nomina di questo ministro iniziò un lungo periodo
di sintonia tra il potere politico e le gerarchie ecclesiastiche, il quale favorì il predominio dell’integralismo
cattolico nell’ambito dell’educazione. Ciò fu visibile già dai programmi per la scuola elementare del 1955
che assegnarono un preminenza assoluta all’insegnamento della religione cattolica. Tuttavia mentre – da
un lato- il centrismo democristiano attuò, in ambito educativo, una politica conservativa che bloccò il
cambiamento; dall’altro la cultura stava vivendo una stagione di profonde trasformazioni e scontri
ideologici, guidati dagli esponenti di due fronti: quello laico e quello marxista che – con il loro contributo e
le loro iniziative- arricchirono il dibattito pedagogico. Nel 1949 un gruppo di pedagogisti aderente al fronte
laico istituì la NEF, un’associazione presieduta da Codignola. La NEF operò in molti paesi, proponendosi di
diffondere nell’educazione una coscienza democratica e di abbattere tutti quei miti e quelle false ideologie
che andavano contro le esigenze della società. L’associazione operò concretamente per raggiungere i suoi
obiettivi; funzionò come centro di informazione e di ricerca sui problemi pedagogici; e – infine- cercò di
allargare l’ambito delle persone interessate a questi problemi e di indagarne gli aspetti più particolari per
poi diffonderli. Nonostante tutto l’associazione ha avuto vita breve, ma ha gettato i semi del rinnovamento
in ambito pedagogico. Un secondo gruppo di studiosi del fronte laico si raccolse intorno alla Nuova Italia,
una casa editrice fondata da Codignola già nel 1926, la quale – nel dopoguerra- divenne no strumento di
rinnovamento in campo educativo perché diffuse l’opera di Dewey e promosse un dibattito serrato teso
alla formazione civile alla luce dell’impegno di socialismo, liberalismo rivoluzionario e laicismo
intransigente. L’impegno della Nuova Italia procedette mediante la produzione di diverse collane di testi.
Codignola, proseguendo nella sua opera di rinnovamento della cultura, fondò – nel 1950- la rivista “Scuola
e città” che, presentandosi come luogo di discussione e di dibattito su tematiche relative all’istruzione e alla
cultura, ha aperto agli studiosi nuovi orizzonti e ha tenuto viva l’attenzione sulle scelte politiche riguardanti
l’istruzione, la quale tendeva a rispondere – in modo eccessivo- alle richieste del clero. Nel primo editoriale
della rivista, Codignola dettò le coordinate pedagogico-politiche di essa: egli mise per iscritto che il suo
progetto era quello di rinnovare la scuola mirando alla creazione di un istituto capace di rispondere e
soddisfare le richieste della società contemporanea. Tale rinnovamento non coincideva con il trapianto –
all’interno della scuola- di valori e metodi propri di altri paesi; bensì con il suscitare dibattiti, con il
presentare problemi che – nella modernità- hanno coinvolto la maggior parte dei paesi del mondo e con il
discutere tali questioni. Pertanto “Scuola e città” voleva essere un convegno internazionale di spiriti liberi i
quali, accomunati dall’idea che l’educazione ha una funzione liberatrice, si proponevano di realizzarla e
non di limitarsi a dibatterla in modo accademico. Inoltre questa rivista si presentava come una palestra per
coloro che volevano eliminare dalla scuola il tradizionalismo, il conformismo e l’ipocrisia; elementi che
hanno fatto perdere a quest’agenzia educativa il suo ruolo sociale e le sue responsabilità nei confronti della
collettività. In relazione a quest’ultimo aspetto, i principali attori di “Scuola e città” cercarono di creare un
nuovo rapporto tra la scuola e la società mostrando – in un primo momento- le iniziative e le esperienze
pedagogico-sociali che si sono realizzate o che si tentava di realizzare in altri paesi, ossia in quelli in cui la
scuola era consapevole delle proprie responsabilità nei confronti della società. Tuttavia, il punto su cui
battevano gli esponenti di questa rivista era quello di riformare la scuola. Ciò significava: strapparla dal suo
isolamento; restituirle una efficacia sociale, renderla partecipe dei problemi degli individui; utilizzare –
all’interno di essa- dei metodi non più passivi e antiquati, bensì idonei per la formazione di uomini liberi e
capaci di far fronte ai cambiamenti che investivano la società. Mentre da un lato Codignola scriveva ciò,
dall’altro affermava che il male della scuola aveva radici profonde le quali affondavano nelle idee di
numerosi educatori disincantati e delle famiglie. I primi consideravano la formazione di uomini liberi una
richiesta troppo retorica; le famiglie – invece- si preoccupavano solo di soddisfare degli interessi particolari
mandando i loro figli a scuola, senza curarsi che essi sono prima persone e poi alunni. Nonostante tutto
questo male poteva essere risolto dagli educatori coscienziosi e innovativi i quali hanno – nelle loro maniun potere molto forte (se utilizzato bene). Pertanto l’obiettivo che Codignola e i suoi collaboratori si
ponevano e che hanno messo bene in evidenza in questa rivista era quello di creare una scuola libera, viva,
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moderna e rivolta alla formazione di coscienze indipendenti e illuminate. Molti pedagogisti afferenti al
fronte laico (come Visalberghi, Laporta, Capitini) hanno apportato dei contributi importanti alla rivista la
quale, nel periodo successivo al 18 aprile 1948 dominato – politicamente- dal partito cattolico, ha guidato
una vera e propria battaglia per la difesa di una scuola laica. In questo modo “Scuola e città” è diventato il
punto di riferimento pedagogico per lo schieramento progressista che riteneva importante puntare su
un’educazione libera dai vincoli clericali per realizzare una società democratica. A tale scopo la rivista ha
denunciato l’aumento dei fondi – stanziati dallo Stato- nei confronti degli istituti privati e il clima di
restaurazione culturale reso evidente dal personalismo imposto come filosofia si stato. Inoltre essa ha
esercitato una critica nei confronti della Riforma Gonella, ritenuta non adeguata alle esigenze dello Stato
moderno. La rivista nel decennio 1950-1960 dominato dal centrismo democristiano, ha proposto un
progetto pedagogico più aderente alle esigenze di un paese democratico, in modo da dar vita ad una scuola
laica, nuova e aperte alle esperienze di Dewey. Dopo il 1962 la politica è stata investita dalla presenza della
componente socialista del governo e ciò ha determinato l’emergere – in ambito pedagogico- di un
atteggiamento di attesa e di una speranza di cambiamenti e riforme a lungo sperati. In questo periodo si è
passati da una pedagogia centrata sull’insegnamento di Dewey, ad una maggiore attenzione al dato
sperimentale, e ad una didattica di ispirazione piagettiana. La rivista “Scuola e città” ha svolto un ruolo
molto importante per la cultura italiana in quanto l’ha condotta al di fuori di quei limiti imposti dal fascismo
proponendo lo studio di autori e temi di respiro internazionali, la conoscenza dell’opera di Dewey e –
quindi- la consapevolezza che il rapporto tra la scuola e la società rappresenta l’architrave dell’educazione.
Il gruppo che si è raccolto intorno alla rivista “scuola e città” ha costituito la “Scuola di Firenze”, la quale è
stata considerata molto importante perché ha dato vita ad un profondo rinnovamento culturale in ambito
pedagogico attraverso un lavoro che ha coinvolto diversi settori e che ha fatto emergere un nuovo modello
di società, una nuova concezione di cultura e un nuovo modo di fare scuola. Secondo Cambi è essenzialenella formazione di un docente consapevole- la lettura e l’analisi dei saggi di autori come Borghi, Santoni e
Tomasi all’interno dei quali è stata ricostruita l’antistoria d’Italia e messe in evidenza le condizioni storiche
in cui sono maturate determinate politiche e le conseguenti strategie pedagogiche. Borghi, per esempio, in
un suo saggio ha proposto un’immagine inedita e diversa da quella tradizionale del rapporto tra pedagogia
e politica: per l’autore tale rapporto è necessario ed è per questo che esso non deve assumere l’identità di
un servaggio della pedagogia rispetto alla politica, bensì quella di un’interazione tra entità autonome.
Inoltre, il gruppo dei redattori della rivista “scuola e città” – insieme ai docenti maggiormente aperti alle
innovazioni- hanno portato avanti due battaglie importante: 1) la prima era contro il tentativo delle forze
politiche cattoliche di confessionalizzare la scuola; 2) la seconda era contro coloro che si opponevano
all’istituzione di una scuola media unica la quale avrebbe messo fine alla divisione discriminante tra chi era
destinato (per censo ed estrazione sociale) a continuare gli studi e chi no. La scuola media unica è nata nel
1962 e con ciò è caduto uno dei pilastri fondamentali della Riforma Gentile la quale proponeva la selezione
scolastica sin dalla scuola di base. Dopo di questo, la Riforma ha perso un altro punto forte nel 1969 con la
liberalizzazione degli accessi universitari. Il 1970 è stato un anno molto particolare in quanto la scuola di
Firenze cominciò ad avvertire la crisi che stava attraversando la cultura italiana – a causa delle contestazioni
giovanili del 1968- e che presto è stata la principale causa della sua disgregazione.
3.2 L’EDUCAZIONE ALLA RESPONSABILITÀ E ALLA LIBERTÀ
Nel 1955 Lucio lombardo Radice e Dina Bertoni Jovine, due esponenti del fronte marxista della pedagogia,
hanno fondato una nuova rivista intitolata “Riforma della scuola” la quale si proponeva – come finalità
ultima- quella di diffondere all’interno dell’istituzione scolastica uno spirito scientifico. Nella prima edizione
della rivista Radice ha scritto che la scuola dell’epoca era una scuola arretrata e incapace di rispondere alle
richieste della società. Questo pensiero non apparteneva solo agli esperti del settore educativo, ma
all’intera opinione pubblica ed essa si è costruita piano piano a partire da dieci anni prima, durante i quali la
crisi della storia ha messo in discussione tutte le strutture della società italiana, compresa la scuola. Per
quest’ultima una soluzione si vedeva nell’elaborazione di una riforma che – dopo- fu elaborata da un
ministro conservatore all’interno di un governo altrettanto conservatore. Tale riforma fu quella del ministro
Gonella, la quale rimase nella rivista ministeriale – nonostante il fatto che se ne è parlato e scritto. Dopo di
essa non si è parlato più di “riforma della scuola” e- secondo Radice- essa era troppo matura per le
esperienze fatte dalla scuola italiana, la quale ha vissuto il fallimento di una riforma globale e la graduale
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attuazione di una riforma silenziosa, diffusa non mediante le leggi, bensì attraverso le circolari. Per questo,
nel campo della scuola, si è cominciato ad optare per l’attuazione dei principi costituzionali, il che
equivaleva a dire istituire una scuola dell’obbligo all’interno della quale bisognava introdurre un elemento
culturale nuovo: lo spirito scientifico. All’interno dell’istituzione scolastica, l’insegnamento doveva essere
dominato dallo spirito scientifico e l’istruzione doveva porsi come scopo fondamentale la formazione di una
mentalità scientifica, ossia della capacità del soggetto di ragionare, sperimentare e pensare con la propria
testa. Pertanto la scuola – secondo gli esponenti della pedagogia marxista- non doveva formare dei retori
o dei tecnici, bensì dei cittadini consapevoli, dei lavoratori e dei costruttori. I maggiori collaboratori di
questa rivista si sono – poi- concentrati sui collettivi pedagogici naturali, ossia: la classe, l’istituto, il
consiglio, ecc e hanno criticato quegli artifici creati per far nascere il senso della collettività e della
collaborazione. Essi consideravano la classe come il centro operoso di lavoro, collaborazione, democrazia e
spirito d’iniziativa e di costruzione, all’interno della quale formare degli uomini capaci di andare contro ciò
che era destinato ad appassire e perire. Alla rivista, oltre a Radice e Jovine, collaborarono molti studiosi di
area marxista i quali hanno dato vita ad un modello pedagogico autonomo riprendendo il pensiero di
Gramsci e criticando la pedagogia di Dewey. Tuttavia l’elemento trainante della rivista è stato Lucio
Lombardo Radice. Egli è stato il figlio di Giuseppe Lombardo Radice, il quale ha elaborato i programmi per
la scuola primaria nella Riforma Gentile e, dopo il decreto-legge del 28 agosto 1931, è stato costretto a
prestare giuramento al regime fascista per evitare che la propria famiglia finisse in miseria e povertà.
Lucio Lombardo Radice ha ricevuto un’educazione improntata su quei valori che il padre aveva messo in
evidenza nei programmi per la scuola elementare da un lato; dall’altro è stato molto influenzato dalla
mamma che lo ha fatto avvicinare alla matematica e alla cultura tedesca. Dopo il liceo classico, Radice si
iscrisse a matematica dove fu guidato da professori che egli stesso definiva”uomini di doppia cultura”, ossia
scienziati e umanisti insieme. Gli anni della università sono stati gli anni in cui egli è maturato anche da un
punto di vista politico: a tal proposito bisogna dire che egli è entrato nel 1936 in un gruppo di giovani che,
in seguito, è diventato il nucleo fondamentale del Partito Comunista della Resistenza. Fu arrestato due
volte e dopo la sua seconda liberazione (avvenuta nel 1943) ha collaborato – dapprima come professore e
poi come presidente- all’esperienza del convitto per partigiani e reduci di Roma, in modo da poter rendere
pratica la sua idea di scuola operaia, ossia di un’istituzione in grado di favorire la rapida promozione
culturale almeno di un avanguardia operaia. La fondazione della rivista “Riforma della scuola” è stato il
punto d’approdo di un’attività che Radice ha svolto all’interno del Partito Comunista, il quale non si era mai
occupato a fondo dei problemi legati alla scuola; e nel primo numero di tale rivista egli si è focalizzato su
alcuni punti in particolare. Prima di tutto Radice si proponeva di attuare la Costituzione all’interno della
scuola, ma soprattutto nella scuola dell’obbligo. In secondo luogo egli voleva dar vita ad una riforma della
scuola la quale doveva essere il punto di arrivo di una battaglia culturale, politica e di costume in quanto
ogni riforma significativa è sempre stata l’affermazione di una cultura, di una concezione dell’uomo e della
società infine, Radice riteneva che l’elemento culturale nuovo da introdurre all’interno della scuola era lo
spirito scientifico il quale è stato considerato una componente essenziale del nuovo umanesimo, ossia di
questo periodo in cui alle generazioni non si proponeva più un ideale dell’umanità lontano e fermo (come il
mondo dei greci e dei romani) bensì uno molto più recente: quello emerso dal Rinascimento.
Una delle idee principali che Lombardo Radice ha messo in evidenza già nel primo editoriale della rivista è
che il problema principale che la scuola italiana doveva porsi era quello di dare la possibilità – ai giovani- di
acquisire una mentalità scientifica come punto di partenza per una organica e completa formazione
culturale. Perché ciò potesse avvenire la scienza non doveva essere pensata come un aggregato di risultati
pazienti e geniali, bensì come un’esperienza destinata a sviluppare nuove esperienze e ad orientare il
lavoro degli studenti. Inoltre, nella scuola proposta da Radice, occorreva ripensare non solo le scienze, ma
anche le discipline umanistiche in modo da rappresentare il cammino dell’umanità come un processo
globale che investe ogni settore della vita culturale e non come una successione di percorsi settoriali che
non hanno nessuna correlazione tra loro. In un saggio scritto per una rivista tedesca e – in seguito pubblicato anche sulla propria rivista, Radice ha affermato che il compito della scuola era quello di
preparare gli alunni in qualità di uomini adatti alla società futura la quale si prospettava in modo diverso
rispetto a quella sua contemporanea. L’ipotesi formulata da Radice, in riferimento alla comunità del futuro,
era quella di una società dominata dal prevalere del lavoro intellettuale-creativo su quello manualeesecutivo e caratterizzata dalla presenza di lavoratori medi che, dal punto di vista culturale, potranno
essere paragonati agli scienziati medi dell’epoca. Pertanto, come gli scienziati studiavano durante tutto il
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corso della loro vita, così i lavoratori dovranno studiare per lavorare, e continuare ad istruirsi per
mantenere il lavoro; di conseguenza – in linea ad una società del genere - bisognava riformare l’istruzione e
adeguarla alle esigenze future. La riforma proposta da Radice non si proponeva di avere un’influenza solo
sul mondo della scuola, ma sulla cultura in generale ed essa può essere riassunta in diversi punti: 1) il primo
punto mette in evidenza l’esigenza di passare da un patrimonio enciclopedico ad un possesso di metodi e di
quadri strutturali; 2) il secondo punto mostra l’esigenza di trasformare la scienza d’avanguardia in cultura
elementare di massa: a tal proposito bisogna dire che, anche se in passato, è avvenuto che una capacità di
pochi è diventata (con il passare del tempo) una capacità di tutti (come il leggere, lo scrivere e il far di
conto), nella società moderna il discorso era diverso in quanto le caratteristiche delle nuove competenze
richieste e la rapidità dei processi di cambiamento non hanno consentito lo sviluppo del processo di
democratizzazione della cultura; 3) Il terzo punto mette in luce che occorreva passare dalla esposizione
sistematica del sapere alla messa in evidenza degli esperimenti cruciali e delle ipotesi che sono stati dei
punti di svolta nello sviluppo della scienza e della cultura; 4) Il quarto punto indica che se la scuola lavorava
per preparare i giovani al futuro, essa doveva impegnarsi per trasmettere a quest’ultimi il coraggio
intellettuale, ossia la capacità di non considerare mai assoluta una conquista e di esplorare strade che al
senso comune sembrano assurde. Inoltre la scuola doveva impegnarsi nel dare ai discenti la possibilità di
sviluppare un’indipendenza mentale e la capacità di correggere ipotesi, di modificare i propri schemi
intellettuale e di apprendere con spirito critico.
Molto importante, per Lombardo Radice, era anche formare dei cittadini che fossero – nello stesso tempolavoratori e viceversa. Per fare ciò bisognava riprendere in considerazione il valore politico dell’educazione
che, in questo senso, non coincide necessariamente con l’istruzione. Riprendere in analisi il rapporto tra
politica ed educazione significava unire alla preparazione specialistica lo studio dei fenomeni globali in
quanto solo in questo modo i giovani maturano sia il gusto per la ricerca specializzata che la passione per i
problemi della società. Infine Lombardo Radice, esaminando il rapporto tra il nostro Paese (dominato da un
forte capitalismo) e la scuola ha trovato una forte contraddizione. Le classi dirigenti, le quali puntavano ad
un potere nelle mani di pochi, si sono ritrovati costretti ad aprire le porte di un’istruzione scientificamente
qualificata a masse crescenti di giovani introducendo nell’educazione idee democratiche e dando la
possibilità alle classi sociali di estrazione più bassa di prendere il sopravvento e modificare il sistema. Infatti,
una scuola che educhi all’intelligenza e che si propone di formare globalmente i lavoratori poteva portare
ad una modifica della società in senso democratico in quanto la democrazia richiede che stati sempre più
ampi di popolazione partecipino ai processi decisionali in modo consapevole. Tale consapevolezza poteva
essere maturata in una scuola aperta a tutti e capace di fornir ai giovani l’acquisizione del metodo
scientifico.
3.3 PER UNA PEDAGOGIA DELLA POLITICA
Ripercorrendo la storia della pedagogia è possibile vedere il legame che essa ha sempre avuto con la
politica. Tale rapporto, infatti, è nato nell’antica Grecia e, più precisamente, all’interno delle polis; poi si è
manifestato nuovamente durante la stagione dell’Umanesimo, nel 1700 grazie agli ideali emersi con la
Rivoluzione francese e, infine, si è consolidato nel pensiero di Marx nel 1800. Questo legame pedagogiapolitica si è riaffermato nel corso del 1900 con l’avvento dei totalitarismo e con l’opposizione culturale e
pedagogica ad essi e ciò può essere analizzato meglio prendendo in considerazione due grandi personaggi:
Gentile e Gramsci. Essi hanno elaborato e presentato dei modelli pedagogici dotati di una connotazione
politica. Il primo avanzò l’idea di una educazione nazionale (che in seguito divenne funzionale agli interessi
del fascismo); il secondo si è fatto promotore di un’educazione finalizzata ad emancipare le classi popolari.
La Resistenza e la Ricostruzione sono stati due momenti importanti non solo da un punto di vista storico ma
anche educativo, in quanto essi hanno dato una nuova energia alla pedagogia accentuandone la
declinazione sociale e politica. L’opposizione al fascismo e la voglia di ricostruire un Paese lacerato, sia da
un punto di vista morale che materiale, hanno aperto nel dibattito pedagogico un filone di ricerca volto
all’impegno civile sia nella battaglia per l’alfabetizzazione di massa, sia per la formazione di una coscienza
democratica. Tra i diversi esperimenti messi in atto è importante ricordare la “Scuola-città Pestalozzi” nata
a Firenze per opera di Ernesto e Annamaria Codignola i quali cercarono di creare una scuola in cui si
seguissero le direttive pedagogiche di Dewey; pertanto l’istituzione scolastica doveva essere intesa come
democrazia e come luogo in cui gli allievi prendevano coscienza dei propri diritti e doveri. La dimensione
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politica della pedagogia ha trovato terreno fertile anche durante la guerra fredda in quanto i cattolici, i
marxisti e i laici presentarono dei modelli educativi antitetici tra loro i quali vennero messi a confronto.
Tuttavia la contrapposizione tra queste correnti non è stata negativa per il sapere pedagogico perché esso
si è strutturato come ambito culturale plurale, aperto ad apporti differenti e capace di superare il blocco
nato con la pedagogia di Gentile. Quindi, lo scontro-confronto tra laici, marxisti e cattolici si è riversato
positivamente sulla scuola pubblica in quanto ha contribuito a fare di essa un’istituzione aperta a diverse
correnti culturali e ideologiche e, di conseguenza, ad assumere un’identità democratica. Dall’analisi di ciò si
evince che la scuola pubblica ha dato un grosso contributo nella formazione del nuovo tessuto sociale e
culturale del Paese e per oltre 60 anni è stata la “palestra della democrazia” capace di reggere agli urti
provocati dai reazionari e ai tentativi di destabilizzazione; capace di rispondere alla contestazione
studentesca del 1968 e alla continua domanda politica di conoscenza e partecipazione. Oggi, l’impegno
pedagogico-poltico sembra un ricordo in quanto Tangentopoli, prima, e la delegittimazione dei tradizionali
partiti politici, poi, ha aumentato il divario tra i cittadini e lo stato, tra i cittadini e la politica e ha
determinato lo sviluppo di una totale indifferenza nei confronti della repubblica. Su quest’ultimo aspetto,
importante è stato il pensiero di Alexis de Tocqueville il quale intravedeva nella diffusione della democrazia
una progressiva stagnazione della vita politica, nonché la tendenza della società civile ad estraniarsi dalla
vita politica e a chiudersi nell’individualismo. La pedagogia, prendendo in considerazione la crisi della
politica come crisi dell’educazione, ha cercato di rinsaldare il suo rapporto con la politica stessa e di non
appiattirsi su posizioni che la volevano relegata unicamente allo studio dei processi di insegn./appren. e alle
pratiche scolastiche. Antonia Criscenti ha affermato che era necessario ripartire dal pensiero di Lombardo
Radice il quale ha affermato con forza il ruolo della pedagogia come scienza che educa alla partecipazione e
che tende verso la strutturazione di una coscienza critica la quale permette all’individuo di denunciare le
ingiustizie sociali e gli abusi fatti dai detentori del potere. Inoltre egli sosteneva che la scuola era il luogo
deputato all’educazione politica e allo sviluppo dello spirito scientifico, pertanto non era possibile pensare
ad un’istituzione scolastica che seguiva tale direzione all’interno di uno Stato costituito da privilegiati e
nullatenenti, da oppressi e oppressori, il quale doveva essere cambiato. Infine Lombardo Radice sosteneva
che la separazione del rapporto tra scuola e politica era solo il principio mistificante di una pretesa
concezione del rapporto educativo. Su quest’ultimo punto hanno espresso il loro parere anche altri due
studiosi: Giuseppe Spadafora e Raffaele Mantegazza. Il primo sosteneva che il rapporto politica-educazione
era uno tra i più coinvolgenti nell’ambito della pedagogia del Novecento. Il secondo affermò che la
pedagogia doveva riavvicinarsi alla storia, alla teoria e alla politica se essa voleva essere pensata ancora
come scienza dell’emancipazione e della liberazione dell’uomo. Dall’analisi di ciò è emersa la necessità di
aprire un dibattito sul rapporto pedagogia-politica partendo proprio dall’apatia e dal disinteresse nato
nell’ultimo secolo nei confronti della politica, i quali possono mettere a rischio la tenuta del sistema
democratico che si regge sul consenso dei cittadini e sulla condivisione di leggi che riguardano la vita di
tutti. La situazione di crisi politica che sta attraversando il nostro paese e il rapporto che si è creato tra le
istituzioni e i cittadini ha determinato una frattura pericolosa tra la gente e la politica alla quale è stato dato
un valore molto forte sia prima che dopo la caduta del fascismo. Dopo il secondo conflitto mondiale si sono
affermati in Italia due grandi partiti politici: la DC e il PCI. Essi (anche se si trovavano su due fronti separati)
hanno contribuito al consolidamento delle istituzioni democratiche e sono diventati dei centri di
aggregazione per tutti i cittadini che cominciarono ad acquisire diverse conoscenze politiche e partecipare a
numerosi dibattiti e discussioni (soprattutto nel PCI). L’allontanamento delle masse dalla politica è stato
determinato da una serie di eventi manifestatisi in successione: la fine delle grandi utopie, il crollo del muro
di Berlino, il fenomeno del rampantismo degli anni ’80, lo scandalo di tangentopoli e la scomparsa dei due
partiti che per oltre 40 anni hanno fatto la storia della politica d’Italia. Tuttavia, oggi appare indispensabile
rinsaldare il rapporto tra pedagogia e politica in quanto, riprendendo le parole di Cambi, la politica si è
riconosciuta e delineata come una grande matrice della pedagogia, come fattore chiave dell’educazione e
come il momento più generativo dei processi educativi. Su tale questione, ha affermato Cambi, Dewey e
Gramsci sono stati grandi antagonisti che, in realtà, hanno delineato il rapporto tra politica e pedagogia che
possono essere definite opposte e complementari. La pedagogia, infatti, cerca di creare un contatto con la
politica ma, nello stesso tempo, vuole rivendicare la propria autonomia. La politica vuole distaccarsi dalla
pedagogia, ma in realtà non fa altro che determinarla e gestirla. Pertanto, questo rapporto è necessario ed
è proprio per questo motivo che si da molta fiducia alla scuola italiana la quale, nonostante le diverse
critiche mosse dai mass media, rappresenta una risorsa fondamentale per far avvicinare i cittadini alle
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istituzioni. Tuttavia ciò è possibile solo se si riforma la scuola in senso democratico, quindi accettato dalla
comunità. Per questo motivo la scuola non po’ essere pervasa dalla politica, ma deve fare in modo che tutti
i suoi operatori si avvicinano ad essa e ai modi in cui si articola nel contesto sociale in cui la scuola opera.
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RIASSUNTO: IL PENSIERO POLITICO DEL NOVECENTO – Carlo Galli
INTRODUZIONE
La politica del XX secolo è determinata da una serie di fattori che l’hanno caratterizzata:
- l’irrompere delle masse nella società;
- l’espandersi dell’economia capitalistica;
- l’affermazione dei partiti ideologici e dei totalitarismi che, successivamente, sono stati sconfitti;
- le costrizioni della tecnica;
- il dilagare del conflitto e l’affermarsi della democrazia.
Inoltre, nel corso del novecento, la politica è uscita dalle istituzioni, le ha sfidate e le ha modificate con
processi i cui esiti hanno messo in luce sia la potenza che i limiti e le contraddizioni del progetto politico
moderno. Il novecento è stato riconosciuto sia come secolo breve che come secolo lungo. Hobsbawm ha
affermato che esso è un secolo breve, il quale ha inizio nel 1914 e si conclude – in una prima tappa- nel
1945; in una seconda tappa nel 1989. Per Maier, invece, il 1900 è un secolo lungo in quanto è iniziato nel
1870 (anno in cui l’Europa si è avviata verso la modernizzazione) e si è concluso negli anni ‘70/’80 del 1900.
Accanto a queste partizioni ci sono altre periodizzazioni:
- quella che va dal 1870 al 1914, la quale coincide con il periodo in cui c’è stato il superamento intellettuale
delle coordinate della modernità politica;
- quella che va dal 1914 al 1922 che comprende una miscela tardo-moderna di tecnica, violenza, ideologia e
nichilismo i quali si sono manifestati in guerre e rivoluzioni;
- il primo dopoguerra, durante il quale si è affermato un potere tecnico, carismatico e invasivo sfociato nei
totalitarismi e nelle risposte democratiche alla crisi economica mondiale del 1929;
- il secondo dopoguerra, caratterizzato da una pace apparente perché – in quegli anni- dominava la guerra
fredda, le guerre di liberazione coloniale e le ribellioni del 1968. Inoltre in questa fase del 1900 la società è
stata regolata e governata da poteri che si sono legittimati solo per il loro successo economico;
- gli anni ’80, durante i quali c’è stata una forte accelerazione delle dinamiche dell’economia di mercato;
- e, infine, ci sono gli anni 1989-1991 in cui c’è stato il crollo del comunismo e la divulgazione del
capitalismo che – da un lato- ha prodotto omogeneità, dall’altro contraddizioni e conflitti i quali da locali
sono divenuti globali.
Le masse sono il prodotto dei processi economici sviluppati dopo il 1870, i quali hanno potenziato la
produzione industriale attraverso il coinvolgimento dell’intera società. Da ciò si evince che nel 1900 la
politica si è indirizzata verso l’allargamento della cittadinanza e l’organizzazione della comunità, cercando di
realizzare la democrazia dentro e oltre lo Stato. Tale obiettivo si è realizzato al di fuori della politica liberale
ed elitaria del 1800 ed è stato reso possibile dall’elaborazione di ideologie (come quella socialista e
comunista, quella fascista e nazionalsocialista) le quali, anche se con intenti opposti, hanno cercato di dare
identità e potenza alle masse. Inoltre le ideologie hanno costituito l’anima dei partiti di massa e hanno
fornito a questi l’energia per rompere la rigidezza e le limitazioni dello Stato liberale e per attuare processi
di riforma che sono andati verso i totalitarismo o verso lo stato sociale.
La tecnica, ossia l’artificialità del mondo e della vita umana, durante il XX secolo è stata sottoposta al
controllo della ragione e si è dimostrata come l’orizzonte nel quale si è svolta la vita associata. Essa infatti- ha condizionato e determinato gli sviluppi della politica grazie alle sue logiche, alla sua potenza e
alle sue contraddizioni, tra le quali una molto importante è quella che mette in evidenza che la tecnica da
elemento di emancipazione dell’umanità, si è affermata come elemento di dominio.
Il conflitto politico del 1900 è stato generato dal fatto che tutti gli avvenimenti i quali hanno costruito la
trama di questo secolo hanno generato fronti polemici, plurimi e mobili sui quali si sono confrontati e
scontrati attori storici e pensatori della politica. Ad esempio, intorno all’industrializzazione prima, e
all’inclusione delle masse poi, si è coagulata una delle fratture più importanti della storia: quella tra il
capitalismo e il comunismo; quella tra la democrazia liberale e democrazia socialista. Le ideologie hanno
avuto la potenza di trasformare in conflitto politico le contraddizioni economiche -da un lato- e – dall’altrohanno fatto della politica del Novecento in vero campo di battaglia la cui sfida principale è stata quella di
individuare modelli di cittadinanza universale per far entrare le masse nella vita politica democratica.
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L’inclusione delle masse nella democrazia non è avvenuta in modo lineare, ma ha comportato una serie di
contraddizioni ed esclusioni che si sono manifestate in conflitti e in una mobilitazione permanente. Le
democrazie liberali hanno dato un’interpretazione pluralistica della democrazia, intendendola come un
sistema politico che se ben governato consente il libero fiorire della singolarità e delle collettività. Nella
prima fase del secolo la socializzazione della politica è avvenuta attraverso la costruzione politico-partitica
della nazione e della classe, le quali sono riuscite ad affermarsi nel corso del primo conflitto mondiale
intrecciando conflitti interni ed esterni. Infine ci sono stati i totalitarismi che hanno rappresentato la
continuazione della guerra fin dentro la pace e hanno risposto alle sfide del secolo organizzando forme
politiche democratiche capaci di realizzare la mobilitazione ideologica e polemica di tutto l’uomo e di tutta
la società proponendosi non un obiettivo pluralistico ma fortemente monistico (ossia singolo). Nel corso del
XX secolo i fronti di conflittualità ideologica e politica sono cambiati: dall’antifascismo (che ha dominato
tutto il periodo della seconda guerra mondiale) si è passati all’anticomunismo; dopo la caduta del
comunismo si è affermato l’antitotalitarismo e l’anti-terrorismo che ha posto le società democratiche
dell’Occidente contro dei nemici nuovi e molto forti. Ulteriori fronti di conflittualità sono stati prodotti
dall’espandersi globale delle forme occidentali di socializzazione e produzione, che ha risvegliato i popoli
del Terzo mondo i quali hanno cominciato a ribellarsi. Il quadro della complessità e delle contraddizioni è
stato ulteriormente complicato dalle insorgenze che si sono verificate nell’Occidente democratico (durante
il ’68) e dalla globalizzazione che ha segnato la fine della guerra fredda. La tecnica ha, poi, generato fronti
intellettuali di conflitto in quanto da un lato ci sono coloro i quali sostenevano che essa fosse un problema;
dall’altro ci sono quelli che la ritenevano una soluzione dei diversi problemi esistenti. Altri ancora hanno
sostenuto che non bisogna criticare la tecnica ma l’economia. Infine la democrazia, prima di realizzarsi
come democrazia sociale, si è manifestata in diverse forme anche contrastanti con la sua natura, quali: la
democrazia totalitaria, la democrazia popolare, etnica, ecc che nel loro insieme testimoniano che questa
forma di governo è stata la protagonista di tutte le questioni del secolo.
Le dinamiche della politica del 1900 spiegano perché il pensiero politico di questo secolo è stato esposto a
tensioni molto gravi le quali non hanno permesso a nessuno dei concetti e delle forme politiche della
tradizione di resistere alle sfide di questo tempo. Per questo motivo lo Stato ha assunto diverse forme
giuridiche; la rappresentanza del popolo ha cessato di avere il suo snodo centrale nel parlamento, passando
nell’esecutivo; il soggetto individuale si è trasformato da quelIo trascendentale a quelIo diverso e – infinein quelIo dominato e massificato dal conformismo; le soggettività politiche del 1900 – ossia la nazione e la
classe- hanno perso la loro capacità propulsiva e la loro consistenza lasciando il posto a nuove soggettività
completamente diverse: la donna, i giovani e i migranti. Alla centralità del soggetto si è sostituita quella del
corpo e della vita. La società, che non può essere pensata né come separata dallo stato e dalla politica né
come terreno d’azione delle istituzioni, è stata definita come origine di nuove questioni e conflitti la cui
soluzione esigeva una nuova energia politica: i partiti, e una nuova legittimità: quella conferita alle grandi
ideologie di massa. Tuttavia, nel corso degli anni ’80, la progettualità dei partiti è stata sfidata dalla pretesa
che l’economia di mercato doveva essere l’orizzonte di legittimazione della politica, la quale doveva
limitare la propria azione e renderne possibile l’autoregolazione. In questo modo i partiti sono stati
impoveriti e la politica è stata riproposta come la dimensione in cui si rendono manifesti i poteri globali, le
contraddizioni e le esigenze generate dall’insufficienza del mercato a determinare e regolare una libera vita
umana. Da ciò si evince che il Novecento è stato dominato dalle crisi che hanno attraversato gli spazi
tradizionali della politica, sia in senso geografico che istituzionale; crisi che nascevano dal manifestarsi di
contraddizioni interne al progetto moderno il quale vuole che la politica sia il prodotto della ragione
umana. Il primo obiettivo del pensiero politico del 1900 è quello di individuare il razionalismo moderno; a
questo si è affiancato l’impresa di ricostruzione ideologica della politica “oltre lo Stato”, la ricostruzione
democratica della statualità e- infine- le destrutturazioni, che si presentano come il superamento (anche
intellettuale) di un quadro politico che è stato modificato dagli eventi del 1989 e del 2001. Dall’analisi di
quanto detto si deduce che il 1900 è un secolo ricco di contraddizioni. Una prima contraddizione coincide
con il fatto che questo secolo è stato caratterizzato da una serie di richieste di emancipazione da un lato,e dall’altro- da trend di accrescimento e approfondimento del dominio. In secondo luogo il XX secolo è stato
un periodo di crisi e di estrema violenza, ma nello stesso tempo è stato un secolo in grado di associare
questi eventi negativi all’elaborazione delle teorie dei diritti dell’uomo, civili, politici, sociali, culturali sia
dei singoli che dei gruppi e di forme della pace. Da un punto di vista spaziale, l’Europa conosce – nel 1900la più piena centralità nell’elaborazione teorica e nell’intensità dei fenomeni politici; ma – al tempo stesso50
è attraversata da una serie di contraddizioni che la portano ad essere l’oggetto della politica altrui e a dover
riconoscere la marginalità della propria esistenza. Da un punto di vista politico, le contraddizioni si
manifestano anche nella democrazia, la quale è sfidata nella sua vocazione universalistica e nel suo
legittimarsi come estendibile all’intera umanità, dal rifiuto e dalle critiche di chi la vede come una
manifestazione della cultura occidentale. In questo modo, le alternative che sono state elaborate nel corso
del XX secolo rispetto la democrazia sono state sconfitte, ma la vigenza di categorie e delle istituzioni della
modernità non implica che la loro efficacia non sia in bilico e che molti problemi (colti dalle critiche
intellettuali) siano stati risolti. Essi – infatti- sono stati trasformati ma restano ancora insoluti. Come questi
problemi, anche la lotta che intellettuale intorno alla modernità – che è divampata x tutta la durata del
secolo- si ripresenta oggi sotto una forma mutata, diversa. Infatti, gli sforzi del pensiero politico stanno
andando in diverse direzioni: da un lato protendono verso la riaffermazione delle logiche esplicite del
Medioevo; da un altro si indirizzano verso una critica radicale della ragione moderna e – infine- si orientano
a salvare dalla modernità alcune indicazioni e orientamenti umanistici, liberandoli dalle logiche di dominio
che li pervadono e adattandoli ad un nuovo mondo con nuove problematiche da affrontare. L’obiettivo di
questa terza posizione è quello di pensare a delle soggettività né subalterne né totalizzanti; a delle
istituzioni non dominanti; a delle identità non escludenti; a delle tecniche non manipolative; a dei conflitti
non distruttivi; ad una politica che sia più lineare e priva di contraddizioni. Infine bisogna sottolineare che la
contraddizione più grande del XX secolo è quella di aver ospitato una grande stagione di pensiero politico e
politica pratica- da un lato-; e dall’altro di aver proceduto con una destituzione di senso della politica e con
una declassazione di essa a fenomeno di accompagnamento di altre logiche e linguaggi (come l’economia,
la tecnica, ecc.).
CAPITOLO I
LA CRISI DELL’ORDINE POLITICO MODERNO
Con la rivoluzione del 1848 la coscienza europea ha conosciuto una crisi che è stata colta non solo dai
rivoluzionari e dai controrivoluzionari, ma anche da un grande filosofo : Kierkegaard, il quale sosteneva che
l’ingresso delle masse nella politica segnava la fine dell’omogeneità della società borghese. Inoltre il filosofo
danese ha affermato che dopo gli avvenimenti del 1848 sarebbe stato impossibile promuovere
l’uguaglianza tra uomo e uomo in un contesto liberale, e che la borghesia non era stata all’altezza del
compito storico-politico che si era assunta: ossia quello di civilizzare il genere umano. Tuttavia questa
sfiducia nelle istituzioni politiche e nella cultura razionalistica è stata superata con il positivismo e la
socialdemocrazia, i quali sono stati colpiti dalla crisi intellettuale e politica che ha colpito l’Europa dal 1880
al 1945. Verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX la borghesia è andata incontro a gravi difficoltà
dipendenti, soprattutto, dalle modifiche dell’assetto sociale: infatti la politica liberale viene sfidata dalla
democrazia di massa da un lato e dalle profonde contraddizioni di classe dall’altro. Da un punto di vista
concettuale, la crisi della politica liberale si è riverberata su tutte le categorie politiche moderne, e in
particolare su quella del soggetto, su quella di razionalità e su quella di progresso. Dopo la crisi del
liberalismo si è dato inizio ad una serie di tentativi di rifondazione della politica: infatti vediamo che c’è
stata – in politica- l’irruzione delle masse organizzate in partiti, la quale ha segnato la fine del nesso
ottocentesco tra Stato e individuo; poi sono entrati in scena nuovi attori della politica i quali non sono più
contenibili all’interno delle istituzioni e che agiscono in base alle ideologie proponendosi di dare sostanza
all’astrattezza della politica moderna. Le ideologie, anche se sono diverse tra loro, si propongono tutte di
affrontare la crisi del rapporto tra il soggetto e lo Stato; in più esse sono importanti perché servono a
motivare, mobilitare e orientare politicamente le masse, rendendole protagoniste della politica o vittime
(come nel caso dei totalitarismi). I totalitarismi sono stati i protagonisti politici della prima metà del
Novecento, i quali sono riusciti a diffondere solo distruzione e oppressione. Pertanto possiamo dire che
l’inizio del XX secolo ha conosciuto la pianificazione e il dominio totalitario da un lato e – dall’altro- ossia in
contesti meno violenti, il depotenziamento del conflitto ideologico (divenuto competizione elettorale tra
elitè); l’estensione dei compiti amministrativi dello Stato e la fine dell’egemonia del legislativo e il prevalere
dell’esecutivo. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo si è sviluppata una crisi che ha innervato
diversi settori. In questo periodo, infatti, l’uomo non aveva più fiducia né nelle sue capacità di gestire il
51
mondo, né nella capacità della storia di spiegare il corso degli eventi. L’idea di civiltà e di cultura non
sembra più capace di dare un senso al mondo e all’agire dell’uomo. Le strutture sociali, politiche ed
economiche che determinano la vita dell’individuo rivelano la loro artificialità, il loro essere maschere che
nascondono la tragicità della vita. Questa crisi investe, poi, anche la filosofia politica la quale si è ritrovata a
dover fronteggiare la crisi delle istituzioni borghesi e in particolare quella dello Stato e della sovranità
rappresentativa realizzata nel parlamento, che è stata sottoposta a forti tensioni dai processi di
democratizzazione che hanno portato sulla scena , prima sociale e poi politica, dei nuovi soggetti; le masse
proletarie. Alla luce di ciò si deduce che il progetto universalista dello Stato moderno più che fondarsi su
valori universali di libertà e uguaglianza, si è basato sulla violenza e sulla forza. Per questo motivo, in questo
secolo, è stato individuato il concetto di nichilismo da alcuni pensatori.
1 NIETZSCHE
Nietzsche è stato il primo pensatore a considerare il nichilismo come la chiave interpretativa del moderno.
In Nietzsche il termine nichilismo assume il senso letterale di “volontà del nulla” in quanto esso indica
quella condizione di mancanza di senso nata con la perdita della forza da parte delle risposte ai problemi
della vita reale. Tale perdita dei valori, delle certezze può essere inquadrato in un processo storico che ha
segnato tutta la storia del pensiero europeo e che ha spinto l’uomo a voler fuggire dalla realtà concreta.
Nietzsche ha sempre interpretato lo spirito greco prendendo in considerazione due concetti opposti: lo
spirito dionisiaco, ossia quello delle passioni; e lo spirito apollineo, e cioè quello della ragione; e in
riferimento a ciò sosteneva che fin quando lo spirito apollineo e quello dionisiaco hanno vissuto in perfetta
armonia la civiltà greca fu vitale (anche se non serena). In seguito, con la nascita della filosofia di Euripide,
di Socrate e di Platone lo spirito apollineo ha sopraffatto quello dionisiaco, nel senso che la filosofia ha
imposto i propri valori razionali su quello che è la vera essenza della vita: le emozioni, la creatività, l’orrore.
Quindi la filosofia è, per Nietzsche, un gesto difensivo che – mediante l’invenzione teorica di un mondo
ideale e trascendente - ha opposto strutture e variabili stabili al caos della vita. Ma, nello stesso tempo,
essa ha dato inizio alla decadenza dei valori che il filosofo trova realizzata nella sua contemporaneità
affermando che il nichilismo è quel processo che ha messo in luce i valori assoluti sui quali si sono formate
molte coscienze umane che non sono altro che finzioni e invenzioni. Il nichilismo di Nietzsche attraversa
anche 3 settori importanti: la metafisica (che coincide con la verità), Dio (che coincide con l’oggettività e la
salvezza) e lo Stato, i quali sono tutti privi di valore.
METAFISICA: Non è altro che una costruzione dell’uomo che, essendo incapace di vivere in una realtà così
caotica e dolorosa, si è costruito delle illusioni per poter andare avanti. Infatti il filosofo parlerà di un
mondo vero che è finito per diventare una favola.
RELIGIONE: è un’espressione di paura davanti alla tragica conflittualità dell’essere e della vita. In particolar
modo, il cristianesimo si presenta come una “religione del risentimento” dei deboli nei confronti dei più
forti in quanto i primi, essendo incapaci di affrontare i secondi, li hanno sottomessi moralmente e
psicologicamente dando vita ad una tavola di valori esattamente opposti a quelli vitali. In questo modo
vediamo che Nietzsche ha accettato la metafora hegeliana del servo-padrone, ma l’ha capovolta
completamente opponendo all’idea del mondo alto che nasce dal mondo dei deboli, il concetto della
“morte di Dio” ossia della perdita di tutti i valori.
STATO: oltre alla metafisica e alla religione, anche la politica è nulla per Nietzsche. Infatti lo Stato, il suo
ordine e i suoi valori nascono dalla violenza; una violenza ipocrita in quanto ha il bisogno di nascondersi
dietro il diritto e valori alti.
Il nichilismo di Nietzsche viene definito nichilismo incompleto in quanto esso è dominato da un “bisogno di
verità” che si traduce nella nascita di nuove verità ideali capaci di sostituire i valori tradizionali. In ambito
politico queste nuove verità sono : il nazionalismo, lo sciovinismo, il socialismo, l’anarchismo e la
democrazia. La democrazia è, per il filosofo, sinonimo di mediocrità, di conformismo di massa e di spirito di
risentimento. Questa forma di governo viene riconosciuta come la forma tipica di una civiltà “degli zeri
sommati” in quanto ognuno è uno zero che ha uguali diritti; in più la democrazia è espressione del
conformismo perché l’uomo non riconosce più la sua forza e si affida completamente allo Stato. Inoltre per
Nietzsche la democrazia liberale borghese è uguale al socialismo perché entrambe si fanno portavoce
dell’uguaglianza tra i cittadini; ma come queste due forme di governo, il filosofo è convinto che tutte quelle
della sua epoca possono essere considerate simili in quanto tutte sono sottomesse alla forza conformistica
52
della democrazia. Dall’analisi di ciò si deduce che il nichilismo incompleto rappresenta l’emergere della crisi
finale della ragione occidentale, crisi che è stata vissuta in due modi: 1) come disperazione e decadenza da
chi ha subito il fallimento delle logiche razionalistiche; 2) come potenza da chi ha detto si alla vita.
Quest’ultima forma di nichilismo viene definita “nichilismo estremo” perché non vengono distrutti solo i
valori tradizionali, ma anche il luogo che questi occupavano, ossia il mondo della trascendenza. Il nichilismo
si distingue ulteriormente in nichilismo passivo e nichilismo attivo. Il primo è sinonimo di declino e regresso
dello spirito in quanto si limita a descrivere il declino dei valori. Il secondo rappresenta il segnale della
crescita della potenza dello spirito la quale si manifesta nel fatto di velocizzare la distruzione dei valori
tradizionali per poter preparare la strada a qualcosa di nuovo. In questa forma di nichilismo, che Nietzsche
considera propria, comincia a farsi strada il concetto di “volontà di potenza” anche perché esso implica una
parte distruttiva e una costruttiva.
1.2 L’ETERNO RITORNO
La forma più estrema del nichilismo è il nulla eterno (ossia la mancanza di senso perenne). Nietzsche parla
di nulla eterno in quanto uno dei concetti fondamentali del suo pensiero filosofico è quello dell’eterno
ritorno il quale cerca di fornire una sistemazione e una radicalizzazione del nichilismo attraverso il recupero
di una concezione arcaica del tempo ciclico. L’idea dell’eterno ritorno mette in evidenza che nella vita tutto
è destinato a ripetersi, ponendosi, in questo modo, contro la tesi cristiana che prevede l’esistenza di un
inizio (la creazione) e una fine (la redenzione). Inoltre, per Nietzsche, l’eterno ritorno segna il passaggio
dall’uomo che dice di no alla vita all’uomo che dice di si e che riscatta la finitezza umana da ogni
costruzione trascendente per vivere la realtà in modo affermativo.
1.3 IL SUPERUOMO E LA VOLONTÀ DI POTENZA
Colui che riesce a dire di si alla vita accettando la dimensione tragica di essa, colui che riesce a far propria la
prospettiva dell’eterno ritorno, colui che riesce a reggere la morte di Dio e lo smarrimento delle certezze
assolute non è l’uomo normale, ma il “superuomo” e, più esattamente, l’oltreuomo la cui immagine oscilla
tra quella della bella individualità e quella dell’avventuriero. Il superuomo non è un uomo che ha
potenziato le facoltà dell’uomo normale, ma è un nuovo uomo il quale ha superato gli atteggiamenti, le
credenze e i valori dell’individuo tradizionale e ha rivendicato la natura terrestre e corporea della vita.
Tuttavia questa liberazione dall’autorità umana e divina non riguarda tutti gli uomini , ma solo una ristretta
elitè di soggetti che, in quanto razza dominatrice, ha bisogno della schiavitù. Questo atteggiamento
antiegualitario e antidemocratico di Nietzsche vuole mettere in evidenza che il vero uomo è colui che è in
grado di distinguersi dalla massa e con il concetto di superuomo il filosofo non vuole far altro che criticare
gli ideali politici del suo tempo, tutti sottomesi ai diritti di uguaglianza e alla democrazia. Un altro grande
tema del pensiero nietzschiano è quello della volontà di potenza, che egli definisce come l’intima essenza
dell’essere. La volontà di potenza coincide con la volontà redentrice, capace di conciliarsi con il tempo e di
liberarsi dal peso del passato. Inoltre essa è una forza espansiva e votata all’autoaffermazione e si identifica
sia con il modo di essere del superuomo che con l’essenza dell’eterno ritorno. La figura di Nietzsche è stata
associata, per molti anni, alla cultura nazifascista in quanto egli aveva parlato di una razza di nuovi
dominatori che si sarebbe servita dell’Europa democratica per poter gestire le sorti della terra e per poter
plasmare l’uomo stesso attraverso delle leggi abbastanza dure. In effetti questo atteggiamento
antiegualitario e antidemocratico lo si può estrapolare anche dall’atto teorico e pratico di oltrepassare se
stessi. Nietzsche ha cominciato ad affermarsi come un pensatore solo dopo la seconda guerra mondiale e
ad esso sono state attribuite diverse interpretazioni: c’è chi lo ha riconosciuto come pensatore terminale in
cui la modernità si dissolve; chi lo ha considerato l’emblema della volontà di potenza della cultura
occidentale e chi come il profeta di un’umanità liberata. Tuttavia Nietzsche ha offerto un’analisi impolitica
della politica, nel senso che egli rifiutava il valore stesso della politica e ha proposto una soluzione apolitica
piuttosto che di destra alla crisi politica. Tuttavia Nietzsche è molto importante da un punto di vista del
pensiero filosofico-politico novecentesco perché la sua filosofia contiene gran parte della filosofia politica
del XX secolo.
2 TONNIES
Il nichilismo e il comunismo, temi fondamentali del pensiero politico della seconda metà dell’800, sono
presenti anche nella riflessione intellettuale di coloro che diedero vita alla stagione della sociologia classica,
la quale prendeva come punti di riferimento proprio Marx e Nietzsche. Tonnies è un grande sociologo che si
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è formato – da un punto di vista intellettuale- sotto l’influenza di questi due autori. Egli, innanzitutto, criticò
la borghesia colta guielmina in quanto incapace di fare i conti con le logiche dell’uguaglianza e con
l’individuo. Fu proprio l’uguaglianza il terreno nel quale Tonnies incontrò Hobbes, un autore che in seguito
ha studiato in modo più approfondito e con il quale si è confrontato. Tale confronto è stato molto
importante perché è bene partire proprio da esso per comprendere la politica di fondo della sociologia di
Tonnies. Secondo quest’autore all’interno della società moderna c’erano degli squilibri di dominio ed è per
questo che bisognava porre le condizioni che favorissero l’espansione dell’hobbsiano “dominio della
ragione” il cui esito ultimo è la democrazia. La fama di Tonnies è legata alla sua opera “Comunità e società”
all’interno della quale egli mette in contrapposizione due forme di rapporto sociale: quello della comunità,
in cui le volontà umane sono unite, e quello della società, dove i protagonisti sono separati. Da ciò si evince
che la comunità è caratterizzata da un’unità reale e organica, mentre la società da una formazione ideale e
meccanica. Inoltre molti hanno interpretato quest’opera di Tonnies come l’espressione della nostalgia per
la comunità come forma di convivenza del passato. Invece l’obiettivo del sociologo, attraverso questa
opera, era quello di dar vita a delle società fondate su una volontà generale, la quale non è altro che il
frutto delle volontà individuali. Questa diretta coincidenza tra volontà individuale e collettiva mette in
evidenza: da un lato, l’esistenza di una forma di relazione sociale le cui tracce sono individuabili in ambiti
ristretti (la famiglia, il vicinato); dall’altro lato una riflessione critica sui limiti dell’individualismo moderno.
Un concetto centrale nel pensiero di Tonnies è quello del diritto naturale, il quale rappresenta lo standard
razionale a cui devono essere condotte le forme di relazione non azionali che sopravvivono come residui
della tradizione ma che all’interno della società hanno riprodotto uno stato di natura che lo Stato avrebbe
dovuto cancellare. La modernità, secondo il sociologo, si presenta come tensione al futuro che fa del
progresso e della rivoluzione le sue più rilevanti determinazioni concettuali. Inoltre la modernità è l’epoca
della razionalizzazione e la sociologia è la scienza che consente di comprendere il governo. Per quanto
riguarda quest’ultimo punto, Tonnies ha sviluppato la concezione progettuale della sociologia recuperando,
dal pensiero di Hobbes, la categoria di rappresentanza attraverso la quale lo Stato diventa capace di
rappresentare i movimenti della società e di gestire le tensioni generate dalla questione sociale.
3 WEBER
Max Weber ha maturato la sua personalità scientifica e politica a stretto contatto con i temi e i protagonisti
del liberalismo nazionale tedesco. Dopo i suoi studi universitari egli ha puntato su un’analisi storico-sociale
del diritto, soffermandosi su temi politici e culturali che ha esposto nelle sue prime due opere. Questi temi
sono: il capitalismo, che rappresenterà il fulcro di tutto il suo pensiero; la questione agraria e il conflitto tra
città e campagna. Weber viene riconosciuto – più comunemente- come un grande sociologo ed egli si è
aperto verso la sociologia dopo un’esperienza concreta: un’inchiesta svolta sulle condizioni dei lavoratori
agricoli nelle terre della Prussia. Da questa esperienza egli ha scoperto il capitalismo che, secondo il
sociologo, si presentò come una potenza sovversiva e nichilistica in quanto ha segnato il tramonto di un
intero universo di valori che sono stati sostituiti dalla mediazione oggettiva e astratta del salario monetario.
Inoltre – per Weber- il capitalismo è una potenza oggettiva destinata a dominare sia il presente che il futuro
con modalità ai cui condizionamenti non ci si può sottrarre. In più il sociologo tedesco si è interrogato
anche sul soggetto, ossia sull’uomo che sta all’origine del capitalismo, in quanto è proprio partendo dallo
studio e dalla comprensione degli orientamenti dei singoli, che si può interpretare il mondo sociale e , di
conseguenza, giungere alla costruzione del tipo ideale. Nella sua opera di sociologia delle religioni Weber
ha esposto che specifiche motivazioni ideali hanno ben definito la costellazione in cui si è formato il
capitalismo. La dottrina della predestinazione, promulgata dal protestantesimo, ha spinto i credenti a
trovare delle conferme della propria elezione; conferme alle quali sono giunti dirigendosi verso un
disciplinamento dei propri impulsi mediante il lavoro, ponendo così le basi di una condotta di vita metodica
e razionale, nonché funzionale all’affermarsi del tipo d’uomo capitalistico. Secondo Weber, alle origini del
capitalismo c’era una forma specifica di soggettività: quella della moderna borghesia, la quale era capace di
dare un senso, attraverso il proprio autodisciplinarsi, alla vita terrena in cui l’uomo non può trovare la
salvezza mediante le opere. Infatti il grande passo avanti che è stato fatto dal protestantesimo (rispetto al
cattolicesimo) è quello di aver spostato il baricentro dell’agire del credente dall’oggettività delle opere e dei
sacramenti alla soggettività della coscienza. In seguito, questo schema interpretativo delle origini del
capitalismo è stato inserito in un processo di razionalizzazione e disincanto del mondo che ha caratterizzato
la storia dell’Occidente; disincanto del mondo che è stato inaugurato dal gesto con cui la religione giudaico54
cristiana ha collocato la profezia della salvezza in una dimensione ultraterrena e oltremondana, liberando –
in questo modo- la vita mondana dall’animismo magico e affidandola alla ragione. Tuttavia questo processo
di razionalizzazione ha alla base una logica che lo ha spinto a ritorcersi contro quelle motivazioni le quali
sono state la causa della sua genesi. Ciò significa che la borghesia presente all’origine del capitalismo viene
nullificata da quest’ultimo il quale si è cristallizzato in una serie di rapporti sociali coattivi e imposto con la
sua oggettività sui soggetti. In questo modo il soggetto moderno ha ceduto il posto ad una nuova
oggettività, ossia al suo stesso lavoro che è diventato qualcosa di estraneo ad esso. Dall’analisi di ciò si
deduce che il pensiero di Weber è dominato – in gran parte- dalla preoccupazione relativa al destino della
borghesia (la quale rappresenta l’emblema dell’uomo della modernità) e dal timore che i valori classici
dell’illuminismo e del liberalismo si mostrino inconsistenti di fronte alle tendenze tecniche dominanti nel
presente, le quali stringono l’impresa capitalistica e lo Stato nella burocratizzazione universale. Due figure
della soggettività moderna che sono state marginalizzate – secondo Weber- da questo numero crescente di
strutture burocratiche che funzionano come delle macchine sono: l’imprenditore e l’uomo politico; ad essi
si aggiunge anche l’intellettuale, il quale nella realtà moderna è stata messa alla prova la sua capacità di
tenere sotto controllo il senso complessivo del suo sapere.
3.2 IL PENSIERO POLITICO
Il valore politico in cui Weber ha creduto sin dall’inizio della sua attività e per molto tempo è stato quello
dello Stato nazionale; mentre i principali problemi sui quali si è soffermato nel 1895 sono stati: quello della
composizione sociale della nazione tedesca e quello dell’unificazione della Germania. Per quanto riguarda
il primo punto, decisiva è stata l’analisi della trasformazione degli junker avvenuta dopo l’avvento del
capitalismo. Infatti questa nuova forma di economia ( e di conseguenza vita politico-sociale) ha messo in
crisi il ruolo degli junker (proprietari terrieri)e ha aperto il problema di un rinnovamento della classe
dirigente la quale doveva avere il compito di spingere la Germania verso il capitalismo in modo che il
secondo Reich potesse ambire alla conquista di una potenza politica mondiale. Da ciò si deduce che c’era
bisogno di un’educazione politica mediante la quale la borghesia sarebbe uscita dalla sua condizione di
minorità e si sarebbe candidata per assumere la guida del paese. Per quanto riguarda il secondo punto è
importante sottolineare che la lotta per il mantenimento e l’esaltazione della propria nazionalità spingeva
sempre di più l’unificazione della Germania. Per realizzare ciò Weber, inizialmente, cercò appoggio nel
proletariato e nei membri del partito della socialdemocrazia; ma, in seguito, si rese conto che per giungere
all’unificazione del paese bisognava procedere con la democratizzazione interna del paese. Un momento
decisivo per il pensiero politico di Weber è stata la prima guerra mondiale. Infatti, dopo questo conflitto la
democratizzazione, così come la burocratizzazione, sono apparsi come due avvenimenti politici inevitabili
ed è per questo che il problema sul quale si è concentrato Weber era quello di individuare le forme
costituzionali in cui si sarebbe realizzato il governo. Weber si è proposto di superare lo Stato autoritario e il
suo modo di gestire il potere proponendo l’attuazione di una riforma costituzionale che sancisse la
dipendenza del governo dal Parlamento e che eliminasse l’impossibilità che il cancelliere sia il membro del
Parlamento. Pertanto la centralità politica del Parlamento non sta nel fatto che esso produce a
rappresentanza politica, piuttosto nel fatto che esso costituisce l’arena in cui i capi-partito si confrontano
per ottenere la leadership e in cui imparano a gestire il governo burocratico. L’analisi di Weber verte su una
debolezza della Germania imperiale: ossia la sua incapacità di fare politica (intesa come azione rischiosa) e
la tendenza a sostituirla con la razionalità tecnico-burocratica la quale ha solo capacità organizzative.
Tuttavia Weber ha sottolineato che questo non è un problema della Germania, ma è il destino di tutta la
modernità. Un’altra caratteristica della politica per Weber è quella di essere lotta, conflitto tra diverse
posizioni ideali, il che è, da un lato, manifestazione del destino nichilistico della politica moderna; dall’altro
l’unico elemento dal quale può derivare l’energia e la vitalità di una forma politica. In uno dei suoi saggi
confluiti nell’opera “Economia e società” Weber ha affermato che esistono tre tipi di poteri legittimi:
- il potere tradizionale, il quale poggia la propria legittimità, sulla convinzione che chi lo esercita derivi
questo potere dalle tradizioni classiche;
- il potere razionale, la cui legittimità deriva dalla credenza nella legalità di ordinamenti e procedure;
- il potere carismatico, la cui legittimità consiste nel riconoscimento del carattere straordinario di un capo.
Il potere razionale è quello proprio dello Stato moderno che, a causa sei suoi caratteri impersonali, tende
verso la tecnicizzazione e la burocratizzazione le quali aumentano le procedure. Per contrastare questa
tendenza è necessario che l’insieme dei valori e il loro conflitto possano dispiegarsi mediante la tecnica e la
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burocrazia. Lo Stato moderno è per Weber strutturato da elementi razionali, ma nello stesso tempo la sua
prima realizzazione storica risale al periodo medioevale in cui le città medioevali hanno usurpato il potere
del principe e si sono imposte come un gruppo politico illegittimo e rivoluzionario. Il sociologo punta molto
su quest’ultimo aspetto in quanto egli è convinto che la politica trae la sua forza e la sua energia proprio
dalla rivoluzione. Tuttavia egli traduce in senso carismatico l’elemento rivoluzionario della politica e per
questo ha proposto una democrazia parlamentare in cui il presidente della repubblica realizzi una
democrazia dei capi. Infine bisogna dire che il tipo di dirigente al quale si rivolge, negli ultimi anni della sua
attività,è quello capace di coniugare passione e sobrietà, etica della convinzione e etica della responsabilità.
CAPITOLO 3
IL MARXISMO: 1900 - 1920
Una delle principali ideologie del XX secolo è quella del marxismo, anche se per questa corrente di pensiero
con il termine “ideologia” si intende la falsa coscienza dell’oggettività economica e politica nonché le idee
imposte dalla classe dirigente, la quale è incapace di intendere le reali connessioni e le contraddizioni del
sistema sociale; elementi, questi, che vengono presi in considerazione dalla scienza del proletariato.
All’inizio del XX secolo si è assistito ad una profonda trasformazione del quadro teorico del marxismo in
quanto gli esponenti di questo pensiero non hanno più visto la rivoluzione come un avvenimento
necessario per la collocazione al potere del proletariato, bensì come un’azione politica volontaria e non
affidata ad automatismi storico-dialettici.
1 LUXEMBURG
Rosa Luxemburg ha opposto al riformismo e al revisionismo il primato della coscienza di classe del
proletariato e della sua azione politica. Per la Luxemburg le contraddizioni del capitalismo sono inevitabili e
solo il movimento operaio ha la possibilità di trasformarle in crisi che giungeranno ad una soluzione. Inoltre
questa marxista, avvicinandosi al pensiero di Lenin, sostiene che la nuova fase dello sviluppo del
capitalismo (ossia l’imperialismo) invece di attenuare il carattere contraddittorio di questa forma di
governo, lo accentua richiedendo l’intervento attivo del proletariato. Nonostante tutto la Luxemburg non
può essere comparata a Lenin in quanto se ne allontana in riferimento alla questione dell’organizzazione
proletaria. Infine la Luxemburg concepisce la lotta politica secondo il punto di vista della totalità, il quale
mette in evidenza che è importante mantenere uniti i momenti della tattica, della strategia, della lotta
politica e dell’obiettivo finale; ed essa fa leva sulla capacità spontanea delle masse di essere protagoniste
attive della rivoluzione.
2 SOREL
George Sorel è un altro protagonista del marxismo, il quale si è proposto di combattere e superare la
corruzione e la decadenza della società moderna facendo appello al sindacato (e non ai partiti) e puntando
sull’azione diretta degli operai (e non sulla mediazione politica). Nell’ambito della condanna al sistema
democratico e parlamentare Sorel fa rientrare anche: 1) la filosofia che ne è alla base; 2) i meccanismi e i
procedimenti; 3) la tattica impiegata dalle organizzazioni proletarie le quali cercano di avvalersi dello
sciopero politico solo per trasferire il potere da un gruppo politico all’altro senza permettere allo Stato di
perdere la sua forza.
Per Sorel le contraddizioni presenti nella società borghese e rilevate dal marxismo possono essere superate
solo spezzandole, e non attraverso la dialettica. Per questo motivo egli promuove la moralità della violenza,
opposta alla brutalità dello Stato, la quale si esprime nel mito dello sciopero. Sorel parla di mito perché
quest’ultimo è il prodotto di una volontà di credere che articola le energie inconsce degli uomini e risveglia i
desideri di riscatto sociale. Inoltre egli è convinto che durante l’esperienza in fabbrica gli operai
acquisiscono sentimenti di solidarietà e disciplina politica che, in seguito, si trasformano nella violenza dello
sciopero generale, il quale rappresenta un atto rivoluzionario che mira a dar vita ad una società libera da
forme istituzionali. Per Sorel il soggetto politico che deve agire mediante lo sciopero è il sindacato ( e non il
partito) in quanto lo sciopero non deve mirare verso un’idea politica specifica e, in più, non deve adeguarsi
alle leggi della società. Esso, infatti, è una catastrofe che concentra ed esaurisce in sé tutta l’energia del
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proletariato e che spinge la borghesia ad aprirsi allo scontro, promuovendo l’avvento di una società dei
produttori che si amministrano da sé. Le idee di Sorel hanno avuto un grande consenso nel corso del XX
secolo, tant’è vero che molti intellettuali sono stati influenzati proprio da queste.
3 LENIN
Nell’ottobre del 1917 scoppiò la rivoluzione marxista in Russia la quale era un paese ancora molto arretrato
sotto diversi punti di vista (politicamente, economicamente, culturalmente). Pertanto tale avvenimento
non è stato altro che una smentita del progressismo gradualista di impronta socialdemocratica. Il maggior
rappresentante di questo progressismo era il partito menscevico, per il quale il socialismo si sarebbe
dovuto affermare in un paese economicamente e socialmente maturo. La Russia, che era un paese ancora
arretrato, doveva svilupparsi proprio in questo senso attraverso la rivoluzione che, però, per i bolscevichi
non era altro che l’occasione per puntare ad una dittatura del proletariato e dei contadini attraverso
l’immediata presa di potere da parte di queste classi. Lenin è stato il leader di questa rivoluzione e il suo
pensiero politico, considerato da lui una versione ortodossa del marxismo, è in realtà una forzatura
attivistica della politica sia per il modo di intendere il proletariato, sia per il modo di concepire la relazione
tra rivoluzione democratico-borghese e rivoluzione socialista. Per Lenin la politica proletaria aveva il
compito di sostituire quella istituzionalizzata e statalizzata mediante la diretta partecipazione delle masse
all’organizzazione democratica dello Stato. Ciò è stato possibile attraverso l’istituzione dei soviet, ossia di
consigli che non hanno una rappresentanza politica (come il Parlamento) ma che esprimono l’immediatezza
del potere operaio. Tuttavia per valorizzare questa immediatezza è necessario passare per un momento di
mediazione politica e cioè attraverso la macchina del partito, il quale rappresenta un’avanguardia
centralizzata che orienta e dà forma al movimento della classe operaia. Partendo dal presupposto che la
coscienza socialista è importata nella lotta di classe dal proletariato e non è un qualcosa che nasce
spontaneamente, Lenin ha affermato che il compito della classe operaia è quello di elaborare una coscienza
tradeunionista, chiarendo che essi non hanno nessun ruolo nell’elaborazione della teoria rivoluzionaria
socialista ma partecipano a questo sistema come teorici del socialismo. Quindi il compito fondamentale del
partito è quello di lottare contro lo spontaneismo, ossia con le forme di rivendicazionismo sindacale.
Nel “Manifesto” di Marx ed Engel i comunisti avevano una funzione complementare a quella del
proletariato e non sostitutiva; con Lenin il partito assume il ruolo di motore essenziale della rivoluzione in
quanto egli è convinto che le masse devono essere educate e politicamente guidate per affrontare una
rivoluzione. Da ciò derivano due cose importanti: 1) l’insistenza della creazione di un partito separato dalle
masse; 2) in secondo luogo la sovrapposizione tra il partito e la classe operaia, concepita come materiale da
plasmare e dirigere.
La stessa concezione attivistica è possibile trovarla anche nella prospettiva di rivoluzione e democrazia di
Lenin. In un suo opuscolo egli ha sottolineato che la borghesia russa non era in grado né di promuovere né
di dirigere un processo rivoluzionario ed è per questo che le trasformazioni economiche e politiche del
paese dovevano essere guidate e promosse da un’alleanza tra proletari e contadini. Da ciò si evince che, da
un lato, la rivoluzione borghese doveva essere guidata dal proletariato e, dall’altro, che la repubblica
democratica avrebbe dovuto assumere il profilo di una dittatura degli operai e dei contadini. Questo
passaggio al marxismo sovietico (avvenuto con Lenin) non dipende solo dalle specificità della Russia, ma
anche dall’idea diffusa da Marx che la repubblica democratica è l’ultima forma politica della società
borghese. La libertà, aveva affermato il teorico del comunismo, si sarebbe realizzata in un governo che
avrebbe superato la democrazia borghese ponendosi, non come organo sovrapposto alla società, piuttosto
come organo ad essa sottoposto. Ritornando a Lenin, esso puntava molto sui soviet i quali divennero
l’autentica espressione della democrazia rivoluzionaria e proletaria e in più in coincidenza con la loro
nascita furono messi in diretto collegamento con l’esperienza comunarda in modo che essi non potessero
essere considerati sono delle organizzazioni di lotta, ma un principio di forma politica da opporre alla
democrazia di tipo parlamentare. La Comune di Parigi del 1870 è stata considerata come una anticipazione
dell’esperienza di vita autonoma delle masse e di partecipazione all’organizzazione democratica che
rappresenta la condizione necessaria per edificare lo Stato proletario. Con la nascita dello Stato sovietico (il
quale è uno Stato transitorio) cominciarono a comparire i primi problemi che hanno spinto Lenin ad
indicare con il termine “noi” non più i lavoratori nel loro insieme, ma il partito comunista e i suoi organi
dirigenti i quali governano in nome del proletariato senza, però, offrirgli un’offerta alternativa. Partendo da
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questo punto Lenin nel 1920 si rese conto che era impossibile creare una dittatura democratica e una
democrazia diretta,pertanto con l’abrogazione delle vecchie forme democratiche è stata eliminata anche la
democrazia all’interno dei Soviet e dello stesso Partito comunista del governo, il quale era retto dal
principio del centralismo democratico. Per quanto riguarda il centralismo democratico possiamo dire che il
momento centralistico si esprimeva nell’attività direttiva del centro verso la base; il momento democratico
scaturiva dalle discussioni della base e dalle deliberazioni da parte della maggioranza presente al congresso.
Infine Lenin, in una sua opera, ha fatto un’analisi anche dell’imperialismo e a tal proposito ha affermato che
esso può essere inteso come lo stadio monopolistico del capitalismo e che si caratterizza in base a 5
elementi:
- la concentrazione della produzione e del capitale;
- la fusione del capitale bancario con quello industriale; la formazione del capitale finanziario;
- il ruolo svolto dall’esportazione dei capitali;
- il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti;
- la spartizione del mondo in zone di dominio coloniale da parte delle maggiori potenze capitalistiche.
CAPITOLO IV
I NAZIONALISMI EUROPEI
L’ideologia che ha conteso al marxismo il primato politico è stato il nazionalismo, un’ideologia che mirava
all’esaltazione del ruolo della nazione e che ha assunto diversi significati nel corso del tempo:
- nel corso della rivoluzione francese questo concetto combaciava con l’ideale di libertà;
- tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 ha assunto delle caratteristiche di reazione.
Infatti la dissoluzione della razionalità politica liberaldemocratica e parlamentare ha generato, in quel
periodo, una serie di reazioni irrazionalistiche, antiborghesi, antiparlamentari e antiliberali il cui contenuto
principale era la nazione. Il nazionalismo si è diffuso in tutta Europa, ma si è avvertito particolarmente in
Italia, Germania e Francia. Nei primi 2 paesi (Italia e Germania) esso è nato come reazione alla debolezza
della società civile, alla fragilità delle istituzioni e alle contraddizioni che percorrevano il corpo sociale. In
Francia il nazionalismo è stato il veicolo dell’opposizione controrivoluzionaria agli ideali diffusi con la
rivoluzione francese. Il nazionalismo è sorto come ideologia rivoluzionaria nel corso della rivoluzione
francese, radicandosi in correnti di pensiero che collegavano il concetto di nazione con quello di umanità. In
seguito (ossia verso la fine dell’800) questi due concetti sono stati dissociati e ciò ha comportato una
trasformazione del concetto di nazionalismo che da teoria potenzialmente progressiva è diventata
un’ideologia reazionaria la quale: 1) nega gli ideali egualitari e cosmopoliti; 2) nega la capacità dell’individuo
di agire con razionalità e in termini universalistici; 3) esalta le disuguaglianze di origine storico-tradizionale;
4) considera l’uomo come un essere dominato dalle passioni e, quindi, bisognoso di autorità e gerarchia.
L’autorità deve essere assegnata alle istituzioni che possono usare la forza per governare i soggetti. Inoltre,
per i nazionalisti, la verità, intesa come adeguazione alla realtà storica, non è altro che una finzione. La
verità, infatti, è il prodotto dell’azione politica, che diventa mito, ossia un costrutto che non dipende da un
atto astratto dell’intelletto ma da un’apprensione immediata e intuitiva degli interessi di una nazione o di
un popolo, e che nel momento in cui trova la sua rappresentazione concreta in un comando politico è
capace di promuovere gli effetti desiderati a prescindere dai formalismi delle norme giuridiche e dai
compromessi della mediazione politica. Il nazionalismo ha acquistato un ruolo politico durante la seconda
rivoluzione industriale e nel periodo in cui è stato posto il problema dell’integrazione delle masse, le quali
precedentemente non potevano partecipare alla vita politica. In questo periodo, invece, è stato chiesto alle
masse di contribuire alla realizzazione di un buon destino per la nazione in quanto solo in questo modo
c’era la possibilità di neutralizzare sia i conflitti sociali che la dialettica democratica. Il nazionalismo, poi, è
diventato una sorta di religione secolarizzata, ossia uno strumento per trasmettere l’idea di nazione e per
realizzare l’integrazione e l’unità del popolo andando aldilà delle divisioni di classe. L’occasione storica per
attuare questo progetto è stata la prima guerra mondiale, la quale ha portato alla realizzazione della
nazionalizzazione delle masse ed è stata il primo grande passo verso la crisi della moderna forma-Stato.
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1 NAZIONALISMO TEDESCO
Il nazionalismo tedesco esalta molto il concetto di popolo ( che sostituisce quello di nazione) in quanto
attraverso di esso si cercava di realizzare un’identità tedesca più forte e stabile rispetto a quella offerta
dalla forme politiche deboli e invecchiate e, in particolar modo, dalla repubblica parlamentare.
Quest’identità doveva essere, per i tedeschi, naturale e storica, ed è per questo che essi l’hanno ricercata
nelle origini germaniche e nella cultura greca classica, nonché nel mondo barbarico germanico e nel
medioevo. Il nazionalismo tedesco esalta il concetto di popolo, il quale deve essere un tutt’uno con quello
di nazione, in quanto nella nozione popolo-nazione si esprime sia un radicamento, sia un destino, sia un
diritto di sangue e cultura (ossia il valore originario del popolo tedesco), sia un dovere ( e cioè quello di
realizzare l’unità del popolo tedesco, decontaminandolo da tutte le commissioni alle quali è stato costretto
nel corso della storia e liberandolo dalla cultura occidentale). Per “cultura occidentale” i tedeschi
intendevano la cultura della Francia e dell’Inghilterra (molto potenti da tutti i punti di vista), che la
Germania si propose di superare proprio attraverso il suo spirito nazionale e popolare, espressione della
sua vitalità naturale e non di un artificio razionalistico. Nel corso del XX secolo il nazionalismo tedesco ha
assunto sempre di più il carattere di un’ideologia antisocialista e antiborghese, oltre che irrazionalistica e
decadentistica nei confronti delle contraddizioni che attraversavano la società e la politica moderne. Esso
aveva una profonda avversione contro il socialismo in quanto quest’ultimo voleva porsi come una terza via
alternativa al capitalismo e al comunismo, ma – in realtà- non sarà altro che un movimento il quale ha
rafforzato le classi più alte della borghesia e spinto sempre più in basso quelle più umili. Inoltre il
nazionalismo è finito per essere anche antimoderno, il che contrastava con la sua volontà di potenza; in
realtà esso voleva trovare il modo di essere moderno nella pratica e antimoderno nello spirito. La soluzione
migliore a tutto questo sembrò essere il razzismo, tra i quali quello anti-semità è stato il più forte perché è
stato un razzismo generale, e cioè finalizzato ad eliminare tutti coloro che potevano contaminare la nazione
(quindi non solo gli ebrei, i quali avevano la colpa di aver contaminato la cultura occidentale con le
ideologie moderne). Tuttavia è importante sottolineare che il nazionalismo ha avuto una così grande
diffusione nelle coscienze tedesche in quanto esso non è stato appoggiato solo da autori minori, ma dalla
maggior parte della cultura media universitaria e da grandi personaggi.
SPENGLER: In Spengler il nazionalismo è stato uno strumento di critica all’intera civiltà moderna. Il punto di
partenza del pensiero di Spengler è che la civiltà può essere paragonata ad un organismo vivente, ed è per
questo che egli – nella sua opera maggiore- parla della cultura come di un organismo fornito di un proprio
ciclo vitale. Per Spengler la cultura è l’unità fondamentale dello sviluppo storico in quanto essa nasce,
cresce e giunge alla morte seguendo sempre le medesime fasi. Ogni cultura nasce a partire dall’umanità
primitiva: il presupposto e il segno di questo sorgere è la nascita della città, in cui si compie lo sviluppo
dello spirito e in cui si costruiscono i popoli, ossia comunità di razza e di lingua che, acquisendo coscienza
della propria unità, si organizzano in nazioni. Da ciò si evince che popoli e nazioni costituiscono il
presupposto dell’organizzazione politica di ogni cultura, anche se il fondamento di questa si trova nella
“razza” la quale può essere compresa solo per mezzo di un’intuizione immediata. Durante la fase di crescita
della cultura viene realizzato un complesso di possibilità biologicamente dato in cui si esprime il ciclo vitale
da cui essa è determinata e che stabilisce una volta e per sempre la sua fisionomia. Nel momento in cui tale
eredità biologica si esaurisce la cultura è destinata a spegnersi. Per Spengler, il percorso conclusivo di una
cultura può essere indicato con il termine civiltà, la quale indica degli Stati più estesi e più artificiali di cui
sia capace una specie superiore di uomini. Il mondo della civiltà è il mondo della decadenza e della
razionalità utilitaria, ossia di quell’irrigidimento intellettuale che corrisponde allo spirito dell’esattezza. In
poche parole il mondo della civiltà è il mondo della scienza e delle forme consolidate della organizzazione
tecnico-scientifica del mondo sociale. Nella sua opera più importante Spengler ha individuato otto culture,
tra le quali c’è quella occidentale che egli ha analizzato. In riferimento alla cultura occidentale egli ha
affermato che in età classica essa è stata caratterizzata dallo spirito apollineo; in età moderna dallo spirito
faustiano, orientato alla forza e alla sottomissione della natura. La modernità è caratterizzata dal
rovesciamento di tutti i valori e il socialismo-secondo Spengle- rappresenta l’espressione di questa crisi
etico-religiosa la quale deriva dal rovesciamento del rapporto politica ed economia: infatti la politica non
dirige più l’economia, ma è subordinata ad essa. Il regime che rifletteva tale situazione era la democrazia
che rappresenta l’ultima fase del processo evolutivo della civiltà e che implica il ritorno allo stato primitivo
dominato da masse informi e improduttive. Per quanto riguarda il pensiero politico di Spengler è
importante sottolineare che esso va contro una serie di elementi, quali: il liberalismo, il regime
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parlamentare, il predominio dei partiti, l’organizzazione capitalistica del lavoro e la tecnica la quale viene
intesa come lo sviluppo parallelo della burocratizzazione, industrializzazione e dell’imperialismo , il quale fa
si che le funzioni della politica vendano assorbite da una potenza che diviene sempre più esterna all’uomo.
In questo senso il progresso viene inteso come decadenza. Alla luce di tutto ciò Spengler afferma – da un
lato- di restaurare l’autorità dello Stato e le strutture morali e politiche pre-moderne; dall’altro –
guardando la situazione degli Stati in tutto il mondo- ha ritenuto di poter scorgere la decadenza in atto
della civiltà occidentale. Il pensiero politico di Spengler non fu accolto completamente, ma nonostante
tutto, egli fu un punto di riferimento nella “rivoluzione conservatrice”, ossia del pensiero di dx nella
Germania della Repubblica di Weimar. Inoltre egli non aderì mai al nazismo.
1 NAZIONALISMO FRANCESE
Il nazionalismo francese è nato per ostacolare i valori diffusisi con la rivoluzione francese. Tuttavia esso non
va contro quanto di “nazionale” si esprimeva nella rivoluzione, ma contro il suo universalismo. In più tale
esasperazione della nazionalità deriva anche dall’ansia di rivincita che la Francia provava contro la
Germania, che la sconfisse nella guerra del 1870. Come in Germania anche in questa seconda nazione
europea il nazionalismo sfociò nel razzismo antisemitico. I principali esponenti del nazionalismo francese
sono stati: Maurice Barrès e Charles Murras.
MAURICE BARRE’S prese atto della direzione politica verso la quale protendeva la Francia nel corso della
seconda rivoluzione industriale e, per questo, ha teorizzato l’opportunità di una convergenza d’interessi tra
capitale e lavoro: ciò significa che la lotta di classe e la competizione tra i partiti politici devono essere
sostituiti dalla solidarietà nazionale, in modo da difendere gli interessi supremi del paese. La concretezza di
Barrès la si trova anche nella sua idea di Francia, la quale viene concepita come una molteplicità di forme di
vita e tradizioni autonome che confluiscono nell’ambito della nazione. Da un punto di vista politico, Barrès
ha proposto il federalismo democratico e repubblicano contro lo statalismo in quanto – da un lato- voleva
dare al popolo la possibilità di autogovernarsi direttamente, senza la mediazione di organi rappresentativi;
dall’altro, voleva tutelare tutte le particolarità concrete che sono state ignorate dal razionalismo centralista.
Sul piano economico-sociale Barrès ha proposto una sorta di socialismo corporativo, nazionale,
protezionistico e basato sulla proprietà collettiva, la quale è stata molto importante perché ha riportato i
lavoratori verso la solidarietà nazionale per effetto della loro trasformazione da salariati a soci dell’impresa
produttiva.
CHARLES MURRAS altro grande esponente del nazionalismo francese, il quale è stato leader e teorico del
movimento di estrema destra francese: “action francaise” mediante il quale si proponeva di andare contro
la rivoluzione (intesa come evento che ha provocato uno scostamento dai valori della tradizione) e di
ripristinare la monarchia nel popolo francese perché era convinto che la decadenza dell’uomo è stata
determinata dalla caduta di questa forma di governo. La monarchia – per Murras- doveva essere
tradizionale, antiparlamentare, ereditaria e decentralizzata; ed essa – secondo l’autore- svolgeva una
funzione unitaria in quanto assicurava i valori della nazione intesa come continuità della tradizione, stabilità
delle gerarchie naturali e mantenimento del corporativismo sociale. Il nazionalismo di Murras è stato
definito nazionalismo positivista perché si basa sulla scienza e sulla storia che egli ha proposto come le
ipotesi di una politica naturale fondata sulla nazione (intesa come continuità biologica e storica) e sulla
monarchia (intesa come l’unica istituzione che garantisce il decentramento). Dal punto di vista intellettuale,
Murras considerava Rousseau la “causa formale” della rivoluzione in quanto l’individualismo – di cui egli è
stato promotore- implica l’incapacità di riconoscere l’oggettività nella politica. Infine Murras ha dato molta
importanza anche al cattolicesimo perché era convinto che non esiste una politica ordinata se non ci sono
la religione e la Chiesa con la loro autorità. Tuttavia egli si definiva “cattolico-ateo” in quanto si limitava a
valorizzare, nel cattolicesimo, gli aspetti ordinativi e gerarchici.
2 NAZIONALISMO ITALIANO
Il nazionalismo, infine, si diffuse anche in Italia. In questo periodo il nostro paese era molto arretrato sia da
un punto di vista economico che da un punto di vista sociale e gli obiettivi che ci si proponeva di
raggiungere attraverso il nazionalismo erano diversi:
- completare il processo di unificazione;
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- dare avvio ad una politica di espansione coloniale, la quale era molto utile per l’espansione del paese e
per risolvere i problemi dell’emigrazione e del Mezzogiorno.
I principali interpreti del nazionalismo italiano sono stati: Alfredo Oriani, Alfredo Rocco, Enrico Corradini e
Gabriele D’Annunzio, il quale è diventato il vate della nuova Italia.
ALFREDO ORIANI nella sua interpretazione relativa al nazionalismo è andato a ritroso in quanto ha studiato
gli eventi del Risorgimento per denunciare la decadenza della vita politica italiana negli anni successivi
all’unificazione e per suggerire una forma di rinascita morale affidata ad una aristocrazia spirituale.
ERNESTO CORRADINI è un teorico del nazionalismo italiano che ha elaborato una teoria molto particolare
in quanto improntata su una sorta di lotta darwiniana. Egli – infatti- ha affermato che esistono nazioni
povere o proletarie e nazioni ricche le quali entrano in lotta, così come le classi sociali. Infatti il
nazionalismo non è altro che il trasferimento della lotta di classe alla lotta tra le nazioni, la quale giustifica –
anche- l’espansione coloniale di un paese. L’Italia – secondo Corradini- è una nazione proletaria, nel senso
che le spetta il compito di guadagnarsi il proprio spazio vitale e di sviluppare quella missione di civiltà che è
radicata nella sua storia. Pertanto il nazionalismo italiano deve partire proprio dalla concezione che il
nostro paese è una nazione proletaria e questo concetto unito a quello di socialismo nazionale,
costituiscono gli assi portanti della concezione politica di Corradini. Il socialismo nazionale è ciò che deve
essere il nazionalismo, ed è per questo che è fondamentale assimilare le forme politiche della moderna
lotta di massa per poi trapiantarle nel mondo produttivo della borghesia imprenditoriale, la quale
costituisce l’elemento trainante della rinascita nazionale. In più – secondo Corradini- la missione di civiltà
cui l’Italia è destinata, implica la formazione delle classi produttive contro quelle parassitarie e
un’educazione degli italiani finalizzata alla formazione di una morale improntata sull’idealismo guerriero.
Infine Corradini è stato fautore di uno Stato forte, capace di organizzare politicamente e moralmente i
cittadini; uno Stato organico e imperialista guidato dalle aristocrazie, le quali rappresentavano quelle
maggiormente consapevoli agli interessi del Paese.
ALFREDO ROCCO è stato un esponente del nazionalismo italiano che, in seguito, è diventato il più
significativo legislatore del fascismo. Egli si ispirava alle concezioni del diritto tedesco in quanto metteva in
luce l’importanza del ruolo fondante dell’autorità dello stato, andando contro qualsiasi forma di
liberaldemocrazia e di parlamentarismo. Per Rocco la libertà del cittadino non deriva da una naturale
propensione dell’individuo, ma spetta allo Stato il compito di decidere quale libertà concedere ai propri
cittadini. Questo profondo statalismo di Rocco lo si può individuare anche nella relazione sul disegno di
legge relativo alle attribuzioni del capo del governo, in cui sono state anticipare le linee guida delle leggi
fascistissime. Per Rocco lo Stato doveva essere forte ed egli è stata una figura importante perché ha dato
vita al corporativismo, ossia a varie organizzazioni formate da lavoratori e datori di lavoro appartenenti allo
stesso rango produttivo, i quali hanno il compito di svolgere un’attività di collaborazione con lo Stato e di
affermare una solidarietà nazionale. Il corporativismo proposto da Rocco era simile al corporativismo
cattolico,ma presentava delle finalità diverse: esso – infatti- trasferiva l’idea della collaborazione delle classi
in un prgetto di sviluppo industriale e di una politica di potenza e, oltre ad essere inquadrato, autoritario e
disciplinato dallo Stato, era anche monistico. Infine bisogna dire che il corporativismo nazionalista è stato
ereditato dal fascismo, il quale lo presentava come alternativo al capitalismo e al socialismo.
GABRIELE D’ANNUNZIO, ben presto, il leader della corrente nazionalista e approfittò della situazione
difficile che si era creata in Italia dopo la prima guerra mondiale per raggiungere i suoi obiettivi. Tale
situazione era dominata da un lato dall’occupazione dell’industria; dall’altro dall’idea diffusa nelle coscienze
di una vittoria mutilata. In questo contesto D’annunzio fu considerato il vate della nuova Italia ed esso
rappresentò una figura molto temuta da Mussolini in quanto poteva oscurarlo; per evitare ciò il duce portò
il letterato dalla sua parte dandogli un titolo nobiliare.
CAPITOLO 5
LIBERALISMO E PENSIERO DEMOCRATICO
Il pensiero politico cattolico si presenta – da un lato- come una proposta ideologica, ossia come una
dottrina d’azione e di intervento nell’ambito della politica; dall’altro come una critica alla modernità.
Nel XIX secolo l’atteggiamento della Chiesa nell’ambito socio-politico ha impedito per lungo tempo ogni
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possibilità di creare un accordo con le correnti razionalistiche che dominavano la modernità. L’esempio più
emblematico di tale atteggiamento è stata l’enciclica “ Quanta cura” nella quale è stata riassunta l’essenza
del razionalismo moderno (dal punto di vista della Chiesa) ed è stata messa in evidenza la tendenza ad
opporre alle ideologie e alle istituzioni moderne la visione di un cattolicesimo autosufficiente, dotato di un
proprio sistema dottrinale (fondato sui principi filosofici della scolastica) e basato su una struttura
gerarchica che vedeva al vertice il papa e la sua infallibilità. Questo atteggiamento della Chiesa è stato
definito “intransigente” e coincide con il pontificato di Leone XIII, il quale ha emanato un’altra enciclica
molto importante: l’enciclica “Rerum novarum” che è dominata dal pensiero tomista, ossia da quel
pensiero che prendeva le distanze dagli aspetti più ostili della cultura controrivoluzionaria della
Restaurazione e che mirava a recuperare la distinzione tra titolarità ed esercizio del potere, in modo da
poter permettere alla Chiesa di distanziarsi dal legittimismo e accostarsi in maniera non più ostile nei
confronti della democrazia, anche se essa ha continuato a mantenere una visione gerarchica della realtà, la
quale viene intesa come un ordine creato e governato da Dio. Il nucleo centrale dell’enciclica “rerum
novarum” è quello che si riferisce alla questione sociale in quanto all’interno di una prospettiva che
sottolinea la necessaria cooperazione tra Chiesa, Stato, datori di lavoro e lavoratori, tale enciclica insiste
sulla necessità di creare un connubio tra il diritto alla proprietà privata (riconosciuto alla Chiesa) e le ragioni
della solidarietà sociale (che impongono un intervento a favore degli strati sociali più poveri). Alla luce di ciò
la Rerum Novarum ha posto le basi per un aggiornamento della predilezione cattolica nei confronti delle
comunità intermedie tra Stato e cittadino: infatti c’è stato – in questo periodo- il riconoscimento
dell’associazionismo operaio e l’impegno della Chiesa a suo sostegno, i quali hanno segnato una svolta ricca
di implicazioni nello sviluppo storico dei paesi dove la presenza cattolica è stata molto forte; e – da un
punto di vista teorico- l’inizio della sussidiarietà secondo la quale lo Stato – solo in caso di necessità- può
sostituire la propria iniziativa alla responsabilità personale e all’azione delle comunità intermedie.
L’ITALIA: Verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo molti pensatori cattolici hanno preso spunto
dall’insegnamento di Leone XIII, soffermandosi – principalmente- sulla questione relativa alla solidarietà
sociale se pur restando ancorati alla visione di un ordine razionale e naturale di cui la Chiesa è sempre stata
custode inflessibile. Un pensatore importante è stato Giuseppe Toniolo, il quale è stato influenzato da
Rosmini, Minghetti, dalla scuola dell’economia tedesca e dal tomismo di Lovanio. Alla base del suo pensiero
c’era l’idea che l’economia fosse sottomessa ad una serie di elementi di natura spirituale, religiosa e
morale e la sua tendenza a sottolineare come la Chiesa e la religione abbiano avuto una grossa influenza
sullo sviluppo della storia ha dimostrato come Toniolo si ispirava alla tradizione neoguelfa. Inoltre, il suo
interesse per le società intermedie e per le corporazioni medioevali si è inserito in una prospettiva che
affidava al cattolicesimo sociale il compito di ripristinare una visione organicistica e corporativa della
società, il cui bene comune doveva portare ad un graduale progresso dei ceti inferiori.
Tra i maggiori esponenti del cattolicesimo politico, che ha proposto un progetto di restaurazione di un
nuovo ordine cattolico, ricordiamo Romolo Murri, il quale si ispirava al pensiero tradizionale della Chiesa,
ossia che la realtà si basava su di un ordine gerarchico. Tuttavia il pensiero di Murri presentarono una serie
di elementi innovativi: 1) la prospettiva di un’alleanza tra Chiesa e proletariato; 2) l’accettazione del
metodo liberale della competizione tra i partiti; proponendosi come obiettivo quello di trasformare lo Stato
liberale e realizzare un nuovo guelfismo sociale. Seguendo tale prospettiva Murri ha abbandonato
l’orizzonte tomista entro il quale ha collocato il suo progetto di rinnovamento inizialmente e ha cominciato
a riconoscere lo Stato come una forma di mediazione del conflitto sociale. In questo contesto, la
democrazia- anche se continuava a presentarsi come la forma politica che garantisce la partecipazione del
popolo nella vita sociale- cominciò ad apparire come il risultato di un incremento graduale della coscienza
individuale verso nuove forme di responsabilità sociale. A tale concezione si ispirò la “lega democratica
nazionale”, un gruppo di giovani democratici cristiani che, guidati da Murri, si opponevano all’orientamento
clerico-moderato (proposto dalla Chiesa). Questa esperienza è stata importante perché ha permesso di
creare un contatto tra la tradizione democratica cristiana e quella cattolico-liberale di cui Luigi Sturzo è
stato il maggior esponente. Murri, invece, è stato considerato uno dei principali esponenti del modernismo,
il che non può essere accettato per vero perché il pensiero di questo esponente del cattolicesimo politico e
quello di tale corrente presentavano punti estremamente divergenti. Il modernismo è stata una corrente di
pensiero (nata agli inizi del 1900) che si proponeva si riavvicinare la cultura ecclesiastica ufficiale agli
sviluppi del pensiero moderno, liberando la Chiesa dalle sue visioni sia della cultura che della politica ormai
superate; rimpiazzando il tomismo con la filosofia moderna e sostituire l’apologetica (dottrina che si
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propone di dimostrare le verità di una religione) con il metodo dell’immanenza quale via per giungere alla
conoscenza del trascendente. La manifestazione più significativa del modernismo la troviamo nelle opere
di Ernesto Buonaiuti, il quale ha proposto un rinnovamento orientato in senso terreno e mondano.
L’interpretazione escatologica (dove per escatologia si intende quella dottrina filosofica che si propone di
studiare il destino ultimo dell’uomo) del messaggio cristiano ha portato Buonaiuti ad accostare l’annuncio
evangelico della liberazione terrena alle speranze presentatesi con il socialismo moderno, riprendendo
l’originario escatologismo cristiano in funzione di un socialismo cristiano il quale si proponeva di affermare
l’identità tra sentimento religioso e speranze di rinnovamento sociale. Lo sforzo di conciliare la Chiesa con
l’evoluzione della politica moderna è stato fatto anche dal liberalcattolicesimo di Luigi Sturzo, che era un
sacerdote, un padre del popolarismo ed esponente di rilievo del pensiero liberale cattolico il quale mirava a
sganciare il laicato dalla tutela della gerarchia sia sul piano politico che sul piano sociale. Sturzo rimase
estraneo ai movimenti della Democrazia cristiana, ma riteneva che il movimento politico dei cattolici
doveva avvenire negli istituti democratici per poter difendere l’autonomia della personalità individuale, la
libertà dell’iniziativa privata, la priorità dell’individuo rispetto alle istituzioni e la sua libertà di coscienza. A
partire dal 1920 il pensiero cattolico si è ritrovato a doversi confrontare con le ideologie nazionalistiche e
un altro fattore che ha messo in luce una serie di problemi politico-sociali è stata la crisi del 1929 alla quale
Pio IX ha fatto riferimento in una sua enciclica.
LA FRANCIA: La cultura cattolica francese era talmente ricca che invece di esprimere l’esigenza di trovare
un compromesso con la modernità, ha espresso una critica radicale e progressiva nei suoi confronti. Per
questo la cultura cattolica francese è stata quella più sensibile alla denuncia del capitalismo e della
ricchezza e ai limiti della democrazia liberale. Inoltre la sua espressione più significativa è stata il
personalismo sociale o comunitario, nel quale è emersa una tendenza polemica simile a quella di Leon Bloy
che vedeva nel borghese, nella sua ipocrisia e nel suo egoismo, l’anticristo. Il personalismo è un movimento
nato in Francia nel 1930 intorno alla rivista “Espirit” e sotto la guida di Mounier. Esso si proponeva di
affermare il valore assoluto della persone contro l’oppressione delle strutture e di unire l’istanza
individualistica con quella comunitaria, ossia di fondere il pensiero di Marx e di Kierkegaard. L’esigenza di
superare lo spiritualismo e il materialismo si è tradotto – sul piano politico- in una concezione che mirava a
superare sia i limiti dell’individualismo, sia quelli del collettivismo. Nell’articolo programmatico della rivista
“Espirit”, Mounier ha messo in evidenza che il nuovo Rinascimento doveva avere al centro la persona e non
l’individuo, in quanto il rapporto tra persona e persona non è un rapporto utilitaristico come quello tra
individuo e individuo. Inoltre la persona non è un’astrazione biologica, psicologica ed economica (come
l’individuo) bensì un’attività vissuta di auto creazione che coglie e conosce se stessa nel proprio atto. Da
questo antiliberalismo di Mounier deriva anche il suo pensiero antimarxista e la sua concezione secondo la
quale alla base del rinnovamento sociale ci doveva essere la valorizzazione della persona, intesa come
apertura agli altri e a Dio. Nella prospettiva di Mounier la vita politica poteva essere riscattata mediante
uno slancio profetico, il quale metteva in evidenza la forza della fede. Inoltre, per conservare l’interiorità è
necessario uscire dalla propria dimensione egocentrica in quanto la persona è un “dentro” che ha bisogno
del “fuori”, ossia ha bisogno dell’altro senza il quale non potrebbe definirsi effettivamente persona. Al
capitalismo e al liberalismo Mounier ha, invece, opposto una serie di rivendicazioni di natura sociale e
politica: sul piano sociale il personalismo propugnava il riconoscimento dei diritti dell’uomo e della donna,
la socializzazione priva della statalizzazione di quei settori produttivi che si sono sempre alienati da un
punto di vista economico- sociale; il primato del lavoro sul capitale; il primato del servizio sociale sul
profitto e quello della responsabilità personale nei confronti delle strutture anonime e impersonali. Sul
piano politico Mounier ha proposto una “teoria personalista del potere” la quale puntava sul diritto inteso
come strumento di garanzia istituzionale contro il totalitarismo del potere non limitato. A tal proposito è
stata necessaria una limitazione del potere condizionante dello Stato; l’istituzione di un potere centrale
equilibrato dal potere delle autonomie locali; l’indipendenza del potere giudiziario; la possibilità data ai
cittadini di ricorrere alle vie legali per contrastare una decisione dello Stato e la limitazione dei poteri della
polizia. Da ciò si evince che per il filosofo la vera sovranità non era quella popolare, ma la sovranità del
diritto in quanto organizzazione razionale dell’ordine giuridico. Nel secondo dopoguerra Mounier modificò
il suo orientamento perché pare che cominciò a sostenere l’idea dell’azione profetica come alternativa
all’azione politica. Egli sosteneva che la cristianità borghese e feudale non solo era morta, ma – in più- non
poteva essere considerata un principio dotato di valore normativo e, di conseguenza, ad essa non spettava
nessun ruolo direttamente politico. Tuttavia ciò non ha impedito che la sua missione, rivolta ad un mondo
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ultraterreno, non potesse realizzarsi in modo indiretto anche sul piano mondano, dato che per Mourier non
esistevano 2 storie separate (la storia sacra e la storia profana) , ma una sola storia: quella dell’umanità in
marcia verso il regno di Dio.
Maritain: La volontà di istituire una nuova cristianità fondata sulla centralità della persona collocata in
diverse strutture sociali e capace di superare la democrazia anarchica del liberalismo cattolico, rappresenta
il perno fondamentale del pensiero di un altro esponente del cattolicesimo: Maritain. Egli ha opposto ai
mali e alle deviazioni dell’epoca moderna la filosofia tomista in vista dell’umanesimo integrale, che è stato
un altro nodo cruciale del suo pensiero. Per Maritain il problema dell’umanesimo è molto importante per
un cristiano in quanto attraverso tale questione egli è capace di delineare il suo atteggiamento nei
confronti del mondo, della cultura e dei propri valori. Inoltre tale esponente del cattolicesimo ha affrontato
tale problema prendendo in considerazione la distinzione fatta tra individuo e persona: con il termine
individuo si indica un principio materiale ed empirico; con il termine persona si fa riferimento alle
dimensioni più alte e profonde dell’essere. In seguito, Maritai si è avvalso di questa distinzione anche per
ricostruire la storia del mondo moderno, che egli ha inteso come una storia di progressiva spinta verso
l’individualizzazione e l’alienazione della persona al quale ha opposto il suo umanesimo integrale, ossia un
umanesimo che non mette al centro solo l’uomo, bensì il rapporto tra l’uomo e il divino. Solo seguendo
questa direzione si sarebbe evitata la tragedia dell’umanesimo, che si è manifestata nel nazismo. Anche se
il personalismo tomista presenta delle analogie con quello comunitario di Mounier, alla base di queste due
concezioni ci sono delle differenze che ci permettono di distinguerle l’una dall’altra. La prima differenza sta
nell’idea di individuo: per Maritain l’individuo ha un proprio statuto di legittimità anche se egli condanna
l’attribuzione di dignità personale conferita all’individuo stesso in quanto essa implica il sacrificio e la
subordinazione della persona; Per Mourier l’individuo non è altro che la dissoluzione della persona nella
materia. Da ciò si evince che la dottrina tomista di Maritain riconosceva alla vita politica uno spazio di piena
legittimità in quanto il rapporto tra ispirazione cristiana e regime democratico implicqa l’esigenza di
distinguere il piano temporale da quello spirituale e – quindi- di riconoscere alla politica una dimensione di
piena laicità. Un’altra differenza che c’è tra Maritain e Mourier è che per il primo l’azione profetica non è
sostitutiva a quella politica, ma rappresenta una dimensione organica e strutturale di questa in quanto la
politica può essere costituita da forme di razionalizzazione che mirano al successo immediato e prive di
sentimento sacrale, ma – nello stesso tempo- anche da forme di razionalizzazione che sono compatibili con
la razionalità trascendente della morale.
2 LIBERALISMO E PLURALISMO
Verso la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo la questione relativa alla trasformazione del liberalismo in
democrazia era meno centrale rispetto alla seconda metà del XX secolo. Tuttavia – in questo periodo- ci
sono state diverse correnti ideali che hanno accettato le tesi di chi sosteneva la completa perdita della
cultura liberale e l’estraneità di principio della nuova democrazia.
IL PENSIERO INGLESE: Sulla scena politica e intellettuale inglese il liberalismo è stato impegnato in un’opera
di trasformazione fino alla fine del XIX secolo. E, in questo senso, molti hanno tentato di organizzare una
democrazia industriale, nonché di garantire la democrazia politica mediante il pluralismo. Il pluralismo è
stata una dottrina che proponeva un modello di società costituito da piccoli gruppi o centri di potere non
necessariamente in pieno accordo tra loro. La differenza che c’è stata tra il pluralismo e le altre correnti di
pensiero antistataliste è che esso non ha opposto l’individuo allo Stato-tutto in quanto sosteneva che
l’individualismo e lo statalismo fossero complementari perché entrambe consideravano irrilevanti tutte le
aggregazioni sociali basate su legami volontari. Pertanto il pluralismo ha sostituito al dualismo Statoindividuo una relazione triadica, in cui all’individuo e allo Sato si sono affiancate le strutture che
rappresentavano dei settori omogenei all’interno della società, sia da un punto di economico che da uno
culturale. Le fonti storiche del pluralismo sono diverse; tra queste ricordiamo: 1) la teoria degli ordini
intermedi di Montesquieu (utile per distinguere il governo monarchico da quello dispotico o repubblicano);
2) la dottrina dei “corpi sociali” di Grieke, dove per corpi sociali si intendevano quelle comunità intermedie
tra lo Stato e l’individuo modellati su corporazioni medioevali; 3) le pagine di Tocqueville sulla vita
associativa presente nella democrazia americana;4) gli scritti di Proudhon, che opponeva alla società
organizzata dallo Stato una molteplicità di associazioni umane volontarie alle quali veniva affidato il
compito di promuovere l’emancipazione umana. Come le fonti, anche e varianti moderne del pluralismo
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sono diverse; tra queste ricordiamo: 1) il pluralismo cristiano-sociale, per il quale le varie aggregazioni
sociali erano disposte secondo un ordine gerarchico che attribuiva ad ognuna un ruolo e un’importanza in
base alla funzione svolta; 2) il pluralismo democratico, che poneva tutti i centri di potere su uno stesso
piano per contribuire a ridimensionare l’autorità dello Stato, ad assicurare il consenso e limitare i conflitti.
L’esponente più importante del pluralismo socialista-democratico è stato Laski, il quale ha affrontato il
tema della sovranità per criticare il principio monistico dello Stato moderno. Secondo questo autore,
l’accentramento statalista e la disciplina delle funzioni amministrative e sociali verificatesi durante la 1°
guerra mondiale non potevano essere considerati come l’avvio ad un processo che si proponeva di trovare
delle risposte ai bisogni della vita associata, ma come il risultato di un’estrema esaltazione della sovranità,
destinata a fallire nei confronti della sfida rappresentata dalle plurali appartenenze degli individui. A tal
proposito è importante sottolineare che le appartenenze di gruppo possono risultare più radicate
dell’appartenenza statale in quanto lo Stato non è altro che una delle diverse unità collettive in cui gli
individui esprimono il loro impulso associativo. Di conseguenza lo Stato non deve avere la pretesa di
assumere il profilo di una sfera politica in sé conclusa e – in più – il suo compito non doveva essere quello di
imporre unità alla società, ma quello di articolare i diversi interessi che si manifestavano nei corpi collettivi
a formazione volontaria. Ciò ha dimostrato che le appartenenze a dei gruppi potevano dimostrarsi più forti
nei confronti dell’appartenenza allo stato. Secondo Laski alla destrutturazione della statualità e al
pluralismo della realtà politica doveva accompagnarsi una costituzione federale la quale doveva superare il
monismo giuridico dello stato e puntare sull’istituzione di una struttura coordinata e non più gerarchica.
Questo decentramento, più che territoriale, doveva essere un decentramento funzionale in quanto il ruolo
politico affidato allo Stato non poteva incorporare la funzione economica, la quale doveva essere affidata
ad associazioni capaci di mettere in luce le esigenze dei lavoratori. La pluralità delle forme di
rappresentanza ha rappresentato la necessaria adeguazione alle molteplici esigenze della convivenza (sia
da un punto di vista politico, che da un punto di vista amministrativo). Questa prospettiva di Laski
presentava delle analogie con quella del movimento inglese delle “industrial guildes” il quale rivendicava
alle gilde (che erano nuclei di produttori) i compito di creare le condizioni per l’istituzione di un assemblea
legislativa a rappresentanza funzionale che doveva affiancare il Parlamento. Mentre la Fabian Society
vedeva nella gestione statale dell’economia una condizione necessaria per avviare un processo di riforma
sociale, il Guild Movement opponeva l’autogestione industriale, capace di rendere i lavoratori partecipi
della vita industriale. La prospettiva secondo la quale bisognava ridimensionare i margini di intervento dello
Stato e assegnare al governo un ruolo complementare alle associazioni, è stato abbandonato da Laski nella
seconda fase del suo pensiero durante la quale egli ha dato un ruolo importante al riformismo statale. A tal
proposito, egli cominciò a sostenere che i gruppi volontari erano assoggettati al controllo dello stato e che
la conciliazione tra l’uno e i molti, tra l’interesse pubblico e quello privato, non discendeva da nessuna
armonia prestabilita ma dall’impiego di tecniche specifiche di mediazione politica. Nella terza fase del suo
pensiero Laski cominciò a pensare che lo Stato e l’individuo si configuravano come due poli oppositivi della
dialettica politica: mentre lo Stato assumeva il profilo della necessità e della coercizione, l’individuo si
radicava nel regno della libertà, ossia in quel regno che Laski considerava negativamente perché privo di
freni e capace di spingere l’individuo a scegliere la propria via senza subire nessuna influenza.
Nel momento in cui Laski si è reso conto che la trasformazione della comunità dipendeva da una serie di
avvenimenti di natura economica piuttosto che politica, si avvicinò al marxismo in quanto solo l’esperienza
del comunismo appariva in grado di rimpiazzare i “rapporti di cassa” tra gli uomini mediante dei rapporti di
solidarietà e di integrazione. Un altro personaggio che – come Laski – ha avuto un orientamento politico
liberale e, in seguito, si è avvicinato al marxismo è stato Callingwood, il quale ha subito l’influenza della
filosofia di Croce. Dal filosofo napoletano egli ha appreso: 1) il principio secondo il quale lo sviluppo
spirituale dell’individuo può essere paragonato ad un processo di progressiva emancipazione sia dalle
passioni interne che dalle costrizioni esterne; 2) l’identificazione di libertà e coscienza. Quest’ultimo
aspetto lo ha portato a concepire il liberalismo come un metodo politico basato sulla soluzione dialettica
dei problemi, in linea con la libertà di coscienza verso la quale tende la coscienza umana. Infine, il confronto
con l fascismo, ha portato Collingwood a difendere un ideale di civiltà intesa come un’associazione
volontaria di individui, la quale nasce dalla libertà individuale e si propone come obiettivo la riduzione della
forza nell’ambito delle relazioni sociali e politiche.
IL PENSIERO STATUNITENSE: Il pensiero liberale e democratico degli Stati Uniti ha conosciuto uno sviluppo
diverso rispetto a quello dei paesi europei in quanto esso non si è ritrovato a doversi confrontare con la
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crisi politica che ha attraversato per lungo tempo il nostro continente. Tuttavia le istituzioni liberali e
democratiche della politica statunitense vivevano uno sviluppo abbastanza tumultuoso, ma nonostante ciò
hanno sempre conservato la loro efficienza e la loro capacità di affrontare le sfide. In questo contesto, in
cui è nato il New Deal (e cioè un nuovo rapporto tra economia e politica) John Dewey ha fatto una lunga
riflessione – orientata verso la democrazia - sul liberalismo. Dewey è stato accomunato al liberalismo
inglese del secondo Ottocento perché come questo movimento si proponeva di superare il liberalismo
tradizionale, ma ciò che lo distingue e lo rende unico è la critica che ha mosso nei confronti della società
capitalistica, della quale ha denunciato le distorsioni causate dal controllo di una ristretta minoranza sui
mezzi di produzione. Per Dewey le coercizioni (ossia le pressioni) alla libertà non provenivano dalla sfera
pubblica, ma dal conflitto tra le forze produttive e i rapporti di produzione e la richiesta di libertà
individuale - promossa dai liberali – poteva realizzarsi solo mediante il riordinamento pianificato
dell’economia. Inoltre, per Dewey, il liberalismo poteva superare la propria crisi rinunciando ai postulati
liberisti e conferendo all’autorità pubblica il compito di regolare tutte le fasi del ciclo economico all’interno
di un quadro di sviluppo pianificato a fini sociali. Di conseguenza, la dottrina che limitava le funzioni dello
Stato a compiti di polizia, è stata superata con una politica di interventi pubblici il cui obiettivo era quello di
correggere le condizioni di non libertà all’interno dei rapporti sociali. Pertanto la libertà individuale era
destinata ad essere perduta in assenza di una socializzazione delle forze produttive. Su quest’ultimo
aspetto il pensiero di Dewey è stato caratterizzato da una serie di oscillazioni in quanto – in un primo
momento- sembrava che l’organizzazione pianificata dell’economia doveva essere affidata ad una
pianificazione democratica che, però, è stata promossa mediante dei mezzi capitalistici i quali hanno
mantenuto intatta la proprietà privata dai mezzi di produzione. In un secondo momento Dewey è sembrato
orientato verso una politica che mirava a socializzare le forze di produzione disponibili, così come accadeva
nella Russia sovietica. Dewey, tuttavia, riteneva che l’elemento propulsivo del progresso sociale doveva
essere individuato nel metodo scientifico( ossia nella tecnica di osservazione dei fatti, costruzione delle
ipotesi e verifiche delle conseguenze attraverso la sperimentazione attiva) il quale non era riuscito a
realizzarsi sino a quel momento a causa del ritardo culturale che persisteva all’interno della prassi politica.
Infatti, solo in un ordine razionalmente organizzato i vantaggi resi possibili dalla comprensione scientifica
della natura potevano essere considerati degli elementi positivi per l’uomo, anche se l’applicazione del
metodo scientifico per la soluzione dei problemi sociali era ostacolata dalle differenze di opinione su ciò
che fosse benefico o dannoso da un punto di vista sociale. Tuttavia esisteva, per Dewey, un fine
indiscutibile: la crescita, concepita come la realizzazione graduale delle potenzialità umane per effetto
dell’interazione tra impulso e abitudine. Da un punto di vista politico Dewey si è fatto promotore della
concezione pluralistica della società, giudicata come quella ideale per raggiungere il fine dell’uomo: la
crescita. Per Dewey il pluralismo si configurava come un antidoto contro ogni forma totalitaria di
assorbimento delle associazioni primarie nelle associazioni secondarie, o – più precisamente- di
assorbimento di tutti i valori sociali nell’ambito politico. Anche se il pluralismo si presentava come uno dei
nuclei fondamentali del suo pensiero, Dewey affermava che il compito dello Stato era quello di fare
l’arbitro o il “direttore d’orghestra” e di individuare cosa – di positivo- esso poteva dare per incrementare le
condizioni favorevoli al processo di crescita. E poiché le condizioni di vita di gran parte della cittadinanza
potevano ostacolare il processo di crescita, un altro compito dell’autorità politica era quello di intervenire
anche negli affari di famiglia, del clan e del quartiere. Infine, per evitare che questa forma politca sfociasse
nel totalitarismo, Dewey ha messo bene in chiaro che il criterio di legittimità con il quale bisognava valutare
l’intervento dello stato doveva essere il “bene pubblico”, il quale doveva essere inteso come il principio
direttivo e il criterio di riferimento dell’attività di governo.
IL PENSIERO ITALIANO: In questi anni, il pensiero liberalista italiano non ha degli esponenti di rilievo
(mettendo da parte Croce) in quanto esso – e in particolar modo quella parte che non scivolo nel
nazionalismo e nell’autoritarismo- fu condizionato dalla necessità di resistere e opporsi a Crispi prima, al
nazionalismo in seguito e al fascismo infine. Guglielmo Ferrero è stato un liberaldemocratico che ha
combattuto contro Crispi e contro Mussolini e che ha maturato un pensiero secondo il quale l’assenza di
misura che ha caratterizzato l’uomo e la società ha proiettato sulla condizione umana l’ombra della paura:
paura della natura; paura degli altri; paura del futuro. Sulla base di questa prospettiva Ferrero ha delineato
una vita sociale come una condizione simile allo stato di natura proposto da Hobbes; ma – nello stesso
tempo- ha sottolineato che è proprio dal disordine e dalla paura che è nata la civiltà, concepita come
costruzione razionale di un ordine capace di ripristinare la pace e la sicurezza. Pertanto la civiltà e le sue
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forme sono state considerate – in base a tale prospettiva- come l’esito dello sforzo di annullare la paura o
di ridurre al minimo l’incertezza che travagliava la vita degli uomini. Lo strumento di questo sforzo è stato il
potere, che può essere concepito come una funzione obbligatoria finalizzata a promuovere strategie rivolte
a ridurre la paura ai livelli più bassi e a controllare il timore reciproco che ciascuno prova nei confronti dei
propri simili. Tuttavia il potere è caratterizzato da un paradosso: esso – per adempiere il proprio compito- è
costretto ad avvalersi di mezzi coattivi (ossia costrittivi), affidandosi alla paura la cui rimozione è il fine della
politica. La risposta a questo paradosso è stata individuata – da Ferrero- nella convergenza tra potere e
società, la quale permetteva di ridurre la paura reciprova tra i governanti e i governati. Infatti, secondo
Ferrero, la stabilità dell’ordine sociale non era stabilito solo dalla coercizione, ma era necessario il consenso
il quale si realizza nel momento in cui una serie di credenze e valori condivisi sono in grado di operare come
principi normativi. Ferrero, poi, ha affermato che solo la legittimità (la quale proviene dal basso e non
dall’alto) è in grado di liberare il potere dalla paura: infatti laddove il potere era legittimo, la sovranità
assumeva il carattere di un contratto tra le autorità e i soggetti il quale si configurava come l’esito di una
convergenza tra l’unità politica nel potere sovrano e i valori, i costumi e gli interessi più diffusi. Per questo
motivo Ferraro da molta importanza ai principi di legittimità, i quali si sono alterati da un’età all’altra
perché – ad un certo punto- i principi vigenti non erano più in grado di rispondere alle esigenze sociali e,
per questo, era necessario sostituirli con altri capaci di adempiere questo compito. Nel periodo di
transizione, ossia nel momento in cui il vecchio principio non era stato ancora sostituito da quello nuovo, si
generava una situazione di illegittimità nella quale ricompariva la paura del potere, e in particolare di quello
rivoluzionario. Pertanto Ferrero ha distinto, nell’ambito della rivoluzione francese, due logiche: la logica
della distruzione della legittimità invecchiata e la logica dell’edificazione di una nuova legittimità. Per
Ferrero la democrazia corrispondeva ai valori della rivoluzione culturale affermatasi con la modernità, ed
essa poteva essere considerata legittima solo se il potere riconosceva alle minoranze sia il diritto ad
opporsi, che il diritto a poter diventare maggioranza mediante l’osservazione delle libertà politiche sancite
dalle carte costituzionali. Infine, Ferrero, nonostante fosse un antifascista è giunto a criticare anche il
marxismo perché esso – con la sua concezione di democrazia- trasformava la società in uno spazio
conflittuale entro il quale il partito della rivoluzione e quello della conservazione finiscono per affrontarsi in
base alla logica distruttiva della paura reciproca.
Il liberalismo democratico e il liberalsocialismo
In Italia una riflessione molto importante è stata quella di Gobetti (esponente del liberalismo democratico)
e di Rosselli (esponente del liberalsocialismo) i quali sono stati segnati dalla preoccupazione di resistere al
fascismo e dall’intenzione di rivedere la tradizione liberale a partire dai problemi generati dalla questione
operaia e dal socialismo. Gobetti si proponeva di creare una classe politica consapevole della necessità
della partecipazione dei ceti popolari nell’ambito politico; Rosselli ha cercato di attuare una nuova sintesi
tra liberalismo, socialismo e democrazia intesa come condizione e presupposto per la costruzione di uno
stato autenticamente democratico. Tuttavia, entrambe si proponevano di rilegittimare il liberalismo ed
entrambe si sono trovati ad affrontare la risposta fascista che i ceti politici tradizionali hanno dato alla crisi
politica e sociale del primo dopoguerra. Inoltre questi due esponenti del liberalismo italiano sono entrati in
aperto conflitto con il fascismo perché in esso vedevano realizzata la conferma della debolezza civile della
borghesia italiana. Gobetti è stato un personaggio di spicco perché ha elaborato il concetto di “rivoluzione
liberale” il quale – da un lato- si ispirava al liberalismo di Salvemini; dall’altro assimilava criticamente
l’approccio alla democrazia di massa teorizzato da Gramsci. In questo senso, per Gobetti,la rivoluzione
liberali si sarebbe dovuta affidare alla capacità di iniziativa della classe operaia, la quale non doveva essere
guidata da un partito socialista ma da un elitè intellettuale ispirata agli ideali del liberalismo. Come
abbiamo detto Gobetti andò contro il fascismo anche perché vedeva in esso una serie di aspetti illiberali; in
più, questa avversione nei confronti del nuovo regime lo ha portato ad approfondire una serie di studi
sull’unità d’Italia; studi che lo hanno condotto a considerare il Risorgimento come una rivoluzione fallita
perché caratterizzata dall’assenza delle classi popolari. Secondo Rosselli, la cui riflessione è stata
influenzata dall’esperienza fascista, il socialismo si sarebbe ripreso dalla sconfitta subita da parte del
fascismo solo se si liberava dall’eredità marxista per poi pori lungo una linea di continuità con la tradizione
liberale. Inoltre, per Rosselli, il protagonista della rinascita della civiltà liberale doveva essere la classe
operaia, la quale doveva essere il personaggio principale anche nella “rivoluzione della libertà” destinata a
tradursi, dal punto di vista istituzionale, in uno stato democratico basato su una pluralità di organizzazioni;
e – da un punto di vista economico- in uno stato a economia mista o a due settori, e cioè in cui imprese
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private coesistono con settori nazionalizzati. Un altro personaggio italiano importante, esponente del
libersocialismo è stato Calogero il quale si è distinto da Rosselli perché egli procedette in direzione di una
revisione del liberalismo, e in particolare della crociana “religione della libertà”. Egli considerava la libertà al
singolare come presupposto per raggiungere le libertà al plurale, le quali si sostanziavano nei diritti civili e
sociali che andavano garantiti a tutti i cittadini. Pertanto il liberalsocialismo comportava sia la democrazia
politica, sia la democrazia economica; il che coincideva con il tentativo di conciliare giustizia e libertà
andando contro la teoria di Croce il quale subordinava la giustizia alla libertà.
3 POLITICA ED ECONOMIA
Durante le due guerre mondiali il pensiero democratico ha offerto una serie di risposte sia teoriche che
pratiche e le seconde sono state molto importanti perché riguardavano la modificazione del rapporto
moderno tra politica ed economia. Uno dei postulati principali della pratica politica dei paesi industrializzati
dell’800 è stata la distinzione tra Stato liberale, società ed economia. Tuttavia questa situazione ha
cominciato a modificarsi ( a partire dagli anni ’80 del XIX secolo ) a causa di una serie di fattori di natura sia
sociale che economica. Da un punto di vista politico-sociale, l’ampliamento del suffragio e la rinascita dei
partiti di massa hanno trasformato i processi di decisione politica e promosso l’affermazione di una
legislazione sociale. In questo contesto, poi, nacque lo Stato interventista il quale si assunse una serie di
responsabilità dirette nel finanziamento e nell’amministrazione di programmi di assicurazione sociale. Da
un punto di vista economico lo Stato ha assunto un ruolo diretto nell’economia, aggiungendo funzioni
economiche al suo apparato politico-rappresentativo le quali erano orientate alla valorizzazione dei diversi
settori di capitale. Durante la prima guerra mondiale questa tendenza è stata accentuata notevolmente
perché tutto il mondo della produzione si mobilitò proponendosi degli scopi bellici; ma dopo questo grande
conflitto la situazione non è tornata più come prima a causa della nascita del bolscevismo, del nazismo e
del fascismo. Una svolta decisiva – da un punto di vista economico- si è avuto con la crisi economica del
1929 che si è abbattuta su tutti i paesi industrializzati. La dimensione gigantesca di questa ondata
regressiva ha imposto un intervento più massiccio dello Stato, ed è per questo che si è cominciato a
pensare alla pianificazione dello Stato sull’economia. Mentre nel fascismo e nel nazismo l’intervento dello
Stato in materia economica assunse l’aspetto del corporativismo fascista e della debole pianificazione
nazista, in Russia la situazione fu diversa. Infatti, nonostante fu istituita una nuova politica economica (la
NEP), nel 1928 venne lanciata la politica dei “piani quinquennali”, dove per piano quinquennale si
intendeva uno strumento di governo dell’economia destinato a dimostrare la superiorità del socialismo nei
confronti del capitalismo. Tuttavia la funzione dei piani è stata – sin dall’inizio- di natura politica più che
economica in quanto essi erano finalizzati ad una gestione di tipo militare della vita produttiva piuttosto
che ad una distribuzione più equilibrata delle risorse. Mentre nel marxismo teorico della scuola di
Francoforte ci si è soffermati a promuovere il dibattito sul capitalismo di Stato e sul suo rapporto con il
capitalismo classico, nella socialdemocrazia eurpea si è affermata la tendenza ad immaginare un riassetto
popolare della sfera politica nei suoi rapporti con la società, mediante un controllo pianificato dello Stato
sulle nuove forme di un’economia capitalistica, ormai simili a quelle di un’economia socialista. Il planismo
europeo – ossia l’insieme delle correnti socialdemocratiche favorevoli alla pianificazione- ha rinunciato a
qualsiasi forma rivoluzionaria, alla quale ha sostituito sia una accentuazione della dimensione nazionale dei
problemi sia una definizione delle tappe intermedie e della loro forma economica e istituzionale. I principali
esponenti del planismo sono stati: Rathenau; Hilferding che ha analizzato il capitalismo organizzato come
uno stadio preliminare del socialismo in virtù dei principi di pianificazione e organizzazione scientifica che lo
informano; e – infine Hendrik de Man. Infine bisogna dire che il planismo socialdemocratico condivideva
con il partito comunista l’orientamento che si proponeva di porre la questione della pianificazione
economica come soluzione alla contraddizione strutturale tra forze produttive e rapporti di produzione;
mentre aveva pochissimi punti in comune con le soluzioni corporative fasciste.
IL NEW DEAL: Agli inizi del 1900 sia le democrazie europee che gli Stati Uniti si ritrovarono a gestire la crisi
dell’economia e ad inventare nuove forme di passaggio alla politica economica, ossia nuovi interventi dello
Stato nell’ambito economico. In questo contesto di crisi molto importante è stato in New Deal, un
programma di riforme sociali ed economiche proposte dal presidente Roosvelt, il quale si proponeva di
trasformare il rapporto tra economia e politica. Il presupposto dal quale partiva il New Deal era quello che
bisognava correggere il vecchio automatismo di mercato attribuendo allo Stato dei compiti inediti, ma
nonostante la constatazione del fallimento del sistema del lassez faire (ossia di un sistema che proponeva la
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libertà di commercio) Roosvelt voleva apportare delle modifiche nell’ambito economico conservando il
regime dell’impresa privata. L’idea che dominava il New Deal era quella che il rilancio dell’economia fosse
stato possibile non tanto sostenendo i prezzi per incrementare i profitti, ma eliminando la disoccupazione
all’interno della società e spingendo i cittadini a riacquistare le merci e i prodotti delle proprie industrie e
dei propri campi. Per questo motivo fu attuato un piano di interventi sociali destinato a favorire la ripresa
delle attività produttive (gestite principalmente dallo Stato) e a dare inizio ad una sorta di circolo virtuoso.
Il principale sostenitore del New Deal è stato un economista inglese: Keynes, il quale in firerimento al
funzionamento del capitalismo ha formulato un’interpretazione alternativa e che ha superato quella
classica, la quale – secondo questo economista- aveva avuto come conseguenza le politiche liberiste del
laissez faire.
CAPITOLO 6
I TOTALITARISMI
Una delle più importanti manifestazioni del tentativo di riorganizzare il rapporto tra individuo e Stato,
nonché tra economia e politica, è stata data dai totalitarismi i quali si sono serviti dell’ideologia per
raggiungere i loro obiettivi. Nel periodo che va dalla prima alla seconda guerra mondiale, in Europa sono
stati fatti una serie di esperimenti politici che sono stati definiti “totalitari” in quanto proponevano la
politica come una dimensione “totale”, e cioè capace: 1) di penetrare tutta la società annullando la sua
separazione tradizionale in diversi ambiti; 2) di coinvolgere tutto l’individuo senza accettare le logiche della
rappresentanza politica moderna fondate sulla distinzione tra uomo e cittadino, fra pubblico e privato. Il
termine “totalitario” cominciò a circolare già a partire dagli anni ’20 tra gli oppositori del fascismo; e fu
utilizzato per la prima volta da Giovanni Amendola in senso negativo. Dopo un po’ fu lo stesso Mussolini a
far proprio questo termine, utilizzandolo in senso positivo, ossia per indicare la volontà del regime di
portare tutta la società all’interno dello Stato. Tuttavia il fascismo, più che totalitario, si presentò come
autoritario ed è per questo che oggi si tende a definire come totalitarismi veri e propri il nazismo e il
comunismo che (a differenza del fascismo) non amavano usare questo termine perché il primo preferiva
connotare la propria politica e il proprio regime in senso razziale e popolare; il secondo si proponeva come
rivoluzionario, sovietico e socialista. A partire dagli anni ’50 è stata compiuta una riflessione teorica su che
tipo di politica potesse essere definita totalitarismo o meno. Importante è stata l’interpretazione di Hannah
Arendt la quale diede al termine “totalitarismo” una risonanza filosofica, una profondità storica e valenza
polemica in quanto l’equiparazione di nazismo e comunismo è stata rifiutata a lungo dalla sinistra. Al giorno
d’oggi sono state stabilite delle caratteristiche precise che permettono di definire una forma di governo
totalitaria; esse sono: a) un’ideologia totalizzante che, rifiutandosi di riconoscere l’oggettività della realtà,
ne proclama l’assoluta trasformabilità; b) la presenza di un partito unico che si sostituisce allo Stato e si
proclama come centro del potere e detentore del monopolio della violenza; c) la presenza di un capo
carismatico che stabilisce un rapporto diretto con le masse; d) l’uso non legale della politica e l’uso
terroristico del potere dello Stato e del partito contro la società; e) il controllo pieno da parte del potere
politico su comunicazione ed economia. Dall’interpretazione storico-politca è emerso che le questioni
principali – per quanto riguarda le dinamiche totalitarie – sono tre: 1) la comparabilità tra loro di fascismo,
comunismo e nazismo; 2) la continuità o la discontinuità dei totalitarismo rispetto allo Stato borgheseliberale; 3) l’interpretazione del loro conflitto in termini di guerra civile.
Per quanto riguarda l’origine e il significato politico del totalitarismo è importante sottolineare che esso – in
primis- può essere considerato una risposta alla crisi dello Stato e del soggetto, generata dalla incapacità
dello Stato liberale ottocentesco di contenere nelle proprie forme e nelle proprie istituzioni immensi
potenziali umani, tecnologici ed economici-industriali; di conseguenza, se l’ingresso di una società di massa
all’interno della scena politica è stata la caratteristica del XX secolo, il totalitarismo ha fornito una risposta
a questa novità sociologica mediante una strategia di annullamento dei limiti e dei confini tra Stato, società
e individuo, nonché tra politica, etica ed economia proponendosi di realizzare la promessa di un modo
radicalmente nuovo. Inoltre il totalitarismo è stato anche:
- uno sforzo mobilitante e conflittuale per la realizzazione di un’ideologia specifica;
- una forma di vendetta contro le passate oppressioni e sconfitte;
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- al cambio delle classi dirigenti e, quindi, la fine della società borghese e l’inizio di dell’epoca della tecnica e
dell’economia ipertrofica, rispetto alle quali la politica si presentava, attraverso i partiti totalitari, come
un’istanza ancora più forte perché capace di servirsi di tecnica ed economia distruttivi in vista di una
rigenerazione futura.
Tuttavia va sottolineato che l’ingresso delle masse sulla scena politica e il ruolo crescente della tecniche
non sono stati di per sé totalitari ma, in realtà, le masse sono state le prime vittime dell’inganno e della
violenza dei totalitarismi e la tecnica non ha espresso una diretta intenzionalità terroristica. Inoltre è
importante distinguere i valori ultimi verso i quali protendevano i totalitarismi, ossia fare una distinzione tra
l’emancipazione socialista (propria del comunismo) e il dominio germanico sul mondo (proprio del nazismo)
in quanto queste due forme di totalitarismo si sono affrontate in una lotta mortale durante la seconda
guerra mondiale. Nonostante tutto sono caratterizzati da una serie di tratti distintivi che li accomunano.
Il regime totalitario poteva essere indicato come l’opposto dello Stato (ed è per questo che non è corretto
parlare di Stato totalitario) in quanto la politica formale e istituzionalizzata era negata dalla tensione del
totalitarismo verso il Bene o il Valore ultimo; la stabilità dello Stato era contraddetta dalla mobilitazione
permanente che il totalitarismo portava con sé; lo spazio politico dello Stato – che conteneva diversi spaziè stato ridotto ad un unico spazio totale. In più, i regimi totalitari hanno perso completamente il senso della
differenza tra guerra e polizia; tra esterno ed interno: all’esterno essi hanno condotto delle campagne di
polizia (e non guerre) contro dei criminali da sterminare. Esempio di ciò è stata l’azione nazista durante la
seconda guerra mondiale. All’interno i regimi totalitari hanno condotto delle vere e proprie guerre contro i
diversi nemici che albergavano nella società. questi nemici sono stati: il nemico reale, il quale coincideva
con l’oppositore dichiarato al regime; il nemico potenziale, che rappresentava colui che sarebbe potuto
diventare un oppositore del regime a causa della sua appartenenza ad un preciso gruppo sociale; il nemico
“oggettivo” il quale veniva individuato di volta in volta a seconda delle esigenze del momento; e – infine- il
nemico biologico, come sono stati gli ebrei per i nazisti.
1 IL FASCISMO
Il fascismo e il nazismo sono nati in Europa nel momento in cui la dissoluzione della politica dello Stato
liberale e costituzionale ha dato origine ad una serie di tendenze ostili nei confronti della tradizione; ma – in
realtà- la loro incubatrice è stata la prima guerra mondiale e le dinamiche estreme che essa ha comportato.
Infatti sia il nazismo che il fascismo non derivarono le proprie motivazioni da organiche premesse dottrinali,
ma entrarono in gioco proponendosi di evitare di vincolarsi all’interno di programmi ideologici
circostanziati. Il fascismo nacque da un bisogno d’azione e fu azione in quanto esso si fondava sul principio
che in politica l’azione è più creatrice del pensiero; in più esso si è sempre dimostrato come un’ideologia un
po’ contraddittoria perché incorporava in sé diversi aspetti contrastanti. Tuttavia è stato il nazionalismo
italiano a fornire al fascismo gran parte del suo corpus dottrinale (almeno in origine), ma la differenza tra
nazionalismo e fascismo è stata che il primo fu un fenomeno esclusivamente borghese o aristocratico; i
secondo è esistito grazie alla mobilitazione delle masse in quanto esso è entrato a far parte di
quell’orizzonte politico che si proponeva di fare i conti con le masse. Per questo motivo il fascismo – oltre
che un’opposizione- incontrò anche un largo consenso, almeno dal 1929 al 1938, o comunque sino alla fine
della seconda guerra mondiale. Anche se il fascismo ha coltivato la retorica dei valori tradizionali della
nazione, esso non è stato un movimento tradizionalista: infatti non si richiamava né alla Chiesa né alla
monarchia (le quali erano le istituzioni principali dell’ordine conservatore) ma ha tentato di sostituirle
basandosi su principi completamente innovativi. Tali principi sono stati: 1) una leadership fondata sul culto
carismatico del capo, nel senso che tutti i cittadini dovevano identificarsi nel Duce; 2) il monopolio della
rappresentanza politica da parte di un partito unico di massa organizzato gerarchicamente; 3) il tentativo di
incorporare l’insieme dei rapporti economici, sociali, politici e culturali all’interno di strutture di controllo
dello Stato o del partito. In un primo momento, il fascismo (così come il nazismo) si è presentato come un
movimento rivoluzionario della controrivoluzione in quanto incorporava – all’interno dei Programmi dei
fasci di combattimento del 1919 – una serie di richieste democratiche che interessavano diversi settori: dal
punto di vista politico il Programma chiedeva il suffragio universale, la rappresentanza proporzionale, il
diritto di voto e l’eleggibilità per la donna, ecc.; da un punto di vista sociale si puntò verso il miglioramento
delle condizioni di lavoro degli operai e verso la loro partecipazione nella vita dell’impresa; da un punto di
vista finanziario ci fu l’introduzione di un’imposta fortemente progressiva sul capitale, la revisione dei
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contratti di forniture di guerra, il sequestro della max parte dei profitti di guerra. La formulazione ideologica
del fascismo presentava – dunque- delle tendenze rivoluzionarie; carattere questo che è rimasto vivo per
tutti gli anni in cui è vissuto tale regime e che lo ha fatto presentare sempre come caratterizzato da
un’ambivalenza ideologica generata dal fatto che all’interno di esso è sempre rimasta attiva quella parte
che ha continuato a sognare la rivoluzione. Solo nel momento in cui il fascismo è salito al potere ha
provveduto a dotarsi di un complesso dottrinale in grado di fondare la propria legittimazione politica e
storica su di un compiuto sistema ideologico. La dottrina del fascismo presentava delle differenze rispetto a
ciò che era stato messo in evidenza nei Programmi dei fasci di combattimento del 1919; una novità
rilevante è stata l’esplicito abbandono del principio di uguaglianza e di maggioranza. Poi – ancoraall’individualismo e alla lotta di classe socialista sono stati opposti, più che la nazione, l’autorità dello Stato
la cui forma istituzionale (democratica o monarchica) non era rilevante. Da ciò si evince che con il fascismo
l’idea di nazione è stata subordinata da quella di Stato in quanto secondo l’ideologia di questo regime non è
la nazione che genera lo Stato, ma è lo Stato – inteso come espressione di una volontà etica universale- che
crea la nazione conferendo volontà e vita morale ad un popolo diventato consapevole della propria
missione universale. In questo contesto è risultato importante sostituire la lotta di classe e la lotta tra i
partiti con l’integrazione totalitaria delle masse nella vita politica e affidare allo Stato il compito di
proiettare all’esterno la compattezza nazionale del Paese nel conflitto contro le potenze plutocratiche.
Il fascismo si è avvalso del partito unico e della corporazione per realizzare la fusione tra il popolo e lo
Stato e da un punto di vista economico è stato un organismo fondato sul solidarismo corporativo.
LA corporazione serviva ad attuare – sotto il controllo dell’esecutivo- la disciplina integrale, organica e
unitaria delle forze produttive in funzione della potenza politica e degli interessi dello Stato. Da un punto di
vista politico, il modello corporativo intendeva porsi come un modello opposto a quello rappresentativo
democratico, in quanto esso si prefigurava come una democrazia organica, anticonflittuale e interclassista
in cui l’individuo contava come espressione di interessi precisi ed organizzati. Anche se il corporativismo
fascista riprendeva alcuni punti del modello di Sorel e dei modelli corporativi elaborati dal pensiero
cristiano-sociale del XIX secolo, esso si è differenziato da quello tradizionale perché non era societario e
pluralista, ma monistico e statalista in quanto di proponeva di realizzare l’unità economica nei suoi diversi
elementi e subordinarli all’autoritarismo dirigista. Tuttavia il corporativismo non fu interamente realizzato
nella pratica. Nel fascismo un ruolo molto importante era quello del partito, anche se questo era
subordinato allo Stato e basato sul culto del capo carismatico. Al partito venivano conferite due funzioni
diverse: da un lato, quella di assicurare allo Stato il consenso volontario del popolo; dall’altro, quella di
selezionare gli elementi migliori della “schiatta” italiana, alla quale spettava il compito di trasferire nel
mondo la civiltà della romanità imperiale. Quest’idea di nazione dispensatrice di civiltà non poteva essere
separata da quella della “superiorità” della razza, che ha assunto un ruolo importante più nel nazismo che
nel fascismo.
2 IL NAZISMO
Il nazismo (così come il fascismo) non è nato da un pensiero specifico, ma da un insieme di idee e principi
derivanti da forme diverse. Anche se il nazionalismo e il fascismo vengono presentati come due forme di
nazionalismo, presentano delle differenze importanti: il nazionalismo era una forma totalitaria e non solo
autoritaria; il nazionalismo ha fatto un maggior uso terroristico del potere politico ed è stato caratterizzato
da un’ideologia mobilitante; il nazionalismo ha riversato il delirio di onnipotenza nella formazione di un
uomo nuovo; il nazionalismo presentava un rapporto diverso, rispetto al fascismo, tra partito e Stato. Sino
al 1929 il nazionalsocialismo rappresentava una forza minoritaria all’interno della società tedesca anche se
esso riprendeva gli umori di coloro che desideravano una rivincita nei confronti della sconfitta contro la
Francia e nei riguardi delle condizioni imposte alla Germania con la pace di Versailles. Tuttavia con
l’avvento della crisi economica del 1929, che ebbe delle ripercussioni in tutti i settori, il partito
nazionalsocialismo (nazismo è l’abbreviazione) è riuscito ad ottenere la maggioranza nelle elezioni
politiche. Molti storici hanno considerato il regime nazista come un sistema caotico, non omogeneo e
caratterizzato dal conflitto tra diversi centri di potere, tenuti uniti solo dalla volontà di Hitler. Tuttavia, il
nazismo presenta dei caratteri particolari come l’importanza data al partito. Infatti, a differenza del
fascismo, in questo caso il partito sta al di sopra dello Stato e ad esso è stata attribuita una diretta
responsabilità politica e una funzione “sovra legale” e onnipervasiva. Di conseguenza, il partito si
presentava come l’unica istanza di legittimità, oltre a quella del popolo e del Capo e come l’unico soggetto
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politico capace di realizzare l’organizzazione della società e la mobilitazione del popolo. Per questo motivo
lo Stato nazista è stato uno Stato-partito. Il totalitarismo nazista si è configurato come un regime di
perenne mobilitazione distruttiva della società da parte di un potere politico che operava secondo logiche
di esclusione e mediante delle modalità di non tutela proponendosi come obiettivo la costruzione
dell’uomo nuovo. In questo modo, il nazismo ha provocato una censura nei confronti sia dello Stato di
diritto, che nei riguardi dello Stato inteso come comunità etica di destino e non solo come associazione di
produttori. Dall’analisi di ciò si evince che per il nazismo lo Stato non era altro che uno strumento il cui fine
era la conservazione della razza. A tal proposito molto particolare è la riflessione di un politologo e giurista
tedesco: Ernest Fraenkel, il quale ha parlato di “doppio Stato”, ossia della compresenza di uno Stato
normativo, necessari per garantire la presenza di un’economia capitalistica; e di uno Stato direzionale il
quale doveva eliminare tutti i nemici del Reich. Il popolo veniva inteso, dal nazismo, come razza e come
comunità popolare. Tuttavia è sul concetto di razza che il regime tedesco si è soffermato maggiormente in
quanto il suo misticismo irrazionalistico della razza superiore è stato influenzato (o meglio ha avuto origine)
da una serie di teorie razziste nate tra la l’800 e il ‘900 in Europa. Già verso la metà del 1800 un francese,
Gobineau, sosteneva che la razza fosse il fondamento della civiltà, la quale era destinata a tramontare se la
razza andava incontro alla degenerazione, ossia se la purezza del suo sangue si mescolava con il sangue di
altre razze. La razza biana (che derivava dagli ariani) rappresentava l’unica matrice creativa fra tutte le
civiltà, ma la sua decadenza impediva l’istituzione di un progetto politico capace di discriminare le razze
inferiori. L’affermazione di un razzismo “attivo” è avvenuta nel momento in cui queste idee di Gobineau
sono state prese in considerazione e diffuse dapprima da Wagner (un grande musicista tedesco) e – in
secondo luogo- da Chamberlain il quale ha dato un contributo decisivo alla popolarizzazione del mito ariano
mediante l’identificazione della razza superiore con quella tedesca. Il massimo testo espositivo del razzismo
nazista è stata l’opera di Alfred Rosenberg: “il mito del XX secolo” nella quale ogni creazione dell’uomo e
addirittura la verità è stata ricondotta alla razza. Il mito del XX secolo consisteva nella creazione di un nuovo
uomo, ossia nel risveglio della razza nordica la quale aveva il compito di produrre il proprio eroe e
organizzarsi come comunità di uomini superiori pronti a realizzare il proprio mito organico e gerarchico
all’interno dello Stato del popolo-nazione. Il nemico più terribile da combattere era la razza ebraica, la
quale mirava ad impadronirsi del mondo e di distruggere la razza superiore mediante la diffusione
dell’egualitarismo democratico, sociale o cristiano. Le contraddizioni del partito nazionalsocialista sono
state messe in evidenza nei 25 punti del programma del Partito dei lavoratori tedeschi, al quale aderì anche
Hitler nel momento in cui si trasformò in Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi. I 25 punti erano
una mescolanza di parole d’ordine nazionaliste, razziste, autoritarie e populiste che hanno spinto il popolo
ad accettare e appoggiare i principi di questo nuovo regime. Nel momento in cui Hitler salì al potere scelse
per il proprio movimento la denominazione “partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi”, adottò la
bandiera rossa e istituì il primo maggio come festività per i lavoratori. Nel 1936, con l’annuncio del “piano
quadriennale”, l’influenza dello Stato e del partito nazionalsocialista è aumentato radicalmente
sull’economia, tant’è vero che essa è stata limitata da una serie di imposizioni e interventi della dirigenza
politica, ma non al punto di poter definire il sistema economico tedesco come un’economia pianificata
dallo stato, infatti, nella Germania nazista lo Stato controllava l’economia nel quadro di uno sviluppo
concentrato tra lo Stato stesso e l’industria privata, aggregata in corporazioni. La fonte principale
dell’ideologia nazista è stato il Main Kampf di Hitler, ossia il libro nel quale sono stati scritti tutti quei
principi che in seguito sono stati attuati durante il regime nazista. Lo Stato per Hitler doveva essere Stato di
popolo in polemica contro lo Stato totale; e questa idea di stato, così come quella di popolo e di partito, si è
collocata in una Weltashauung, ossia in una visione del mondo, basata sulla legge del più forte. In questo
senso la storia veniva concepita caratterizzata da una lotta continua tra razze pure e razze inferiori. In
aggiunta a ciò si è affermato che il compito del nazismo era quello di dar vita d una rinascita razziale della
Germania in modo da assicurare al popolo tedesco lo spazio vitale in cui realizzare l’impero razziale
germanico il quale prevedeva da un lato l’eliminazione della razza ebrea; dall’altro la sottomissione
dell’elemento non tedesco, e soprattutto slavo. Il principio di funzionamento di questo sistema politico è
stato il Fuhrerprinzip il quale metteva in evidenza che ogni livello e ogni istanza doveva essere gestito da un
uomo solo, sa un capo che non doveva prendere in considerazione i pareri e le volontà dei sottoposti,
piuttosto prendersi tutte le responsabilità delle proprie azioni e tener conto di una capo di livello superiore
(come, per es., Dio). Il Fuhrer concentrò in sé tutti i poteri e quando, il 2 agosto 1934, morì l’ultimo
rappresentante del potere legale Hitler unì alla sua potenza anche le cariche di presidente e di cancelliere. Il
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Fuhrerprinzip è stato talmente potente da invadere la società e lo Stato tedeschi in tutte le loro
articolazioni e da confermarsi come unica istanza unificante degli innumerevoli elementi che costituivano il
pluralismo del potere nazista. Infine il Fuhrerprinzip, che andava contro la forma moderna dello Stato e la
sua legalità, ha istituito una personalizzazione del comando che mancava da molti anni in Europa. Il tema
dell’antisemitismo è bene analizzarlo a parte a causa del suo grande rilievo nell’ideologia e nella pratica
della politica razzista. Esso, infatti, non è stato uno strumento del nazismo, ma la sua vera essenza in
quanto Hitler ha utilizzato l’antisemitismo per accaparrarsi l’appoggio dei ceti superiori, del proletariato e
della piccola borghesia, uscita molto provata dalla crisi del 1929. Inoltre, l’antisemitismo rappresentava una
personale ossessione di Hitler che egli ha trasformato in un vero e proprio sterminio della razza ebraica, la
quale veniva vista come l’unica vera minaccia per gli ariani perché essa mirava a dominare tutto il mondo
diffondendo ideologie universalistiche che indebolivano la razza superiore. In linea con questi principi Hitler
ha realizzato una politica antisemita molto dura e spietata che, infine, con i suoi risultati ha messo in
evidenza cosa c’era di implicito nel razzismo: l’idea che l’umanità non sia unita; non poteva esistere
nessuna forma di comunicazione razionale capace di coinvolgere tutti gli uomini, nessuna storia e
destinazione spirituali della presenza dell’uomo nel mondo; solo distruzione cieca, automatica e naturale,
espressione di un nichilismo completo. Infine, il punto d’arrivo di tal filosofia è stato la distruzione.
3 IL COMUNISMO SOVIETICO
La Russia è stata la culla del comunismo, nonché degli sviluppi totalitari di esso. Il carattere totalitario di
questa forma di governo è stato avviato dal pensiero e dall’opera di Lenin ma, in seguito, si è consolidato
con il governo di Stalin, il quale stravolse le istituzioni e gli strumenti creati da Lenin in quanto si proponeva
di creare una politica dispotica all’interno e una politica estera di potenza. Il sistema staliniano non si è
sviluppato con molta facilità in quanto ha trovato un aspra opposizione in due figure: Nicolaj Ivanovic
Bucharin e Lev Davidovic Trockij. Bucharin era stato uno dei protagonisti della nascita e dei primi sviluppi
dello stato sovietico, ma aveva maturato il suo pensiero andando oltre le contingenze politiche. Egli
riteneva che il rapporto sempre più stretto tra politica ed economia (il che rappresentava un carattere del
capitalismo) poteva rappresentare un fattore duraturo di stabilizzazione economica e, alla luce della nuova
struttura del capitalismo di Stato, era convinto che fosse necessario revisionare il rapporto tra struttura e
sovrastruttura in quanto gli apparati regolativi dello Stato divennero parte integrante di essa. Accanto a
questa critica nei confronti del capitalismo occidentale, Bucharin fece un’analisi sull’esperienza sovietica e
si propose di opporre alla logica autoritaria di industrializzazione forzata l’idea di un socialismo basato su un
rapporto di interdipendenza tra razionalizzazione produttiva e crescita del mercato interno. Quest’ultima
caratteristica del pensiero di Bucharin lo ha posto come uno dei principali ispiratori della Nep (ossia della
nuova politica economica), la quale prevedeva la parziale liberalizzazione del mercato e lo sviluppo della
piccola industria e del commercio privato. Un oppositore della Nep è stato, invece, Trockij, il quale
sosteneva che il mondo agricolo non era altro che un oggetto di sfruttamento ai fini dell’industria. Egli,
dopo essere stato sconfitto da Stalin nel 1925, ha elaborato una critica nei confronti della politica di Stalin;
critica che faceva leva su due punti: 1) in primo luogo Trockij riteneva che le trasformazioni strutturali ed
economiche attuate dal potere sovietico durante il governo di Lenin rimasero intatte nel momento della
ascesa di Stalin, il quale non aveva fatto altro che imporre una forte autorità sia sulle sovrastrutture che sul
dominio politico andando contro, in questo modo, alle esigenze dell’ordine politico e istituzionale socialista.
2) In secondo luogo, egli si propose di contrastare questa forma di totalitarismo attuata da Stalin (il quale si
proponeva di creare il “socialismo in un solo paese”) mediante una rivoluzione permanente, ossia una
rivoluzione guidata dal proletariato. Esiliato dall’Urss, fondò a Parigi la IV Internazionale la quale entrava in
contrasto con la III internazionale stalinista. Morì a Città del Messico assassinato per ordine di Stalin.
CAPITOLO 7
IL PENSIERO DIALETTICO
1.1 BENEDETTO CROCE (questo è solo uno schema, si consiglia di studiarlo insieme al libro)
Concezione dialettica del liberalismo: riconosce che nell’aperto conflitto tra movimenti e gruppi politici
giunge a compimento e consapevolezza lo sviluppo della storia, che consiste in opposizioni e contraddizioni
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(recupero Hegel). Secondo lui le contraddizioni (essenza stessa della storia) non possono essere risolte una
volta per tutte tramite una razionalità pacificatrice.
VERITÀ = operare umano nel corso della storia  soluzione delle contraddizioni = sta nel vedere in esse lo
sviluppo dell’universale, cioè dello Spirito e della libertà umana.
STORICISMO ASSOLUTO = affermazione che la vita e la realtà è storia.
Per definire l’essenza della politica, Croce si serve di una riforma della dialettica che affianca alla nozione di
distinzione: per Croce, Hegel conosce solo l’opposizione e non la distinzione. DISTINZIONE = articolarsi, per
forme e gradi distinti, dell’unità dello Spirito; opposizione dialettica = si ritrova nel contesto di ogni grado
 gli opposti si condizionano a vicenda, i distinti (i gradi dello Spirito) si condizionano solo in base
all’ordine della loro successione.
Politica = rientra nella sfera pratica e, in particolare, nella forma economica dello Spirito che adempie alla
funzione di ospitare il contingente, l’individuale; a tale forma appartengono anche diritto e Stato. Mondo
della politica = realtà amorale nel senso che precede la vita morale e ne è indipendente. POLITICA =
FORZA, in quanto si configura come azione funzionale al perseguimento di un determinato scopo utile.
Concezione dello Stato come Stato-potenza.
STATO = forma angusta e elementare della vita pratica.
Nella 2° fase del suo pensiero, Croce avverte l’esigenza di precisare la sua concezione su storia e libertà. E
giunge alla concezione dello Stato come istituzione capace di incorporare i valori del progresso morale.
È antifascista.
LIBERTÀ = forza creatrice della storia, vero e proprio soggetto della storia.
Idea liberale ha legame contingente e transitorio con la proprietà privata. È solo muovendo dalla libertà
come esigenza morale che si può interpretare la storia nella quale tale esigenza si è affermata e in cui ha
creato le proprie istituzioni.
È in tale contesto che si sviluppa la controversia tra Croce ed Einaudi sul rapporto tra liberalismo e
liberismo: secondo Croce la libertà come moralità non ha altra base che se stessa: il liberalismo ha bisogno
di “mezzi” economici e politici; il liberismo è una delle molteplici forme storiche che la concezione liberale
può assumere, non la sua necessaria espressione.
3° fase del pensiero di Croce (II dopoguerra): revisiona la categoria dell’utile, trasformandola in quella del
“vitale”. Manifestazioni della vitalità sono, per Croce, i periodi di apparente decadenza/rinnovata barbarie
(come fascismo o nazismo o comunismo sovietico). Ma anche tali fenomeni trovano una giustificazione
come premessa necessaria per un ulteriore progresso dello Spirito e non sono cmq privi di razionalità.
Croce distingue, dunque, tra:
- razionalità storica
- razionalità morale
entrambe proprie dello spirito, anche se non dei singoli individui.
1.2 GIOVANNI GENTILE (questo è solo uno schema, si consiglia di studiarlo insieme al libro)
Filosofia dell’atto: ATTO = “pensiero che pone se stesso, e che in tale processo si oggettiva dando luogo
all’intera realtà”. Non c’è più distanza tra reale e razionale e il soggetto, in realtà, è soggetto-oggetto 
l’atto è l’unità a priori di soggetto e oggetto. La vita dell’atto è un continuo “divenire”, un perenne
superamento-inglobamento di ogni realtà.
L’atto si concretizza come Stato, che è unità a priori delle differenze e che non conosce limiti poiché è
individuale concreto, unità di particolare e universale.
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Aderisce al fascismo: lo “Stato etico” è lo Stato in cui si realizza la libertà dell’atto e che ha quindi missione
culturale e morale: porre in atto la nazione italiana e formare il carattere degli italiani.
Tale Stato etico non garantisce le libertà individuali, ma l’unica libertà dello Spirito, quindi è anche Stato
pedagogico.
Riguardo la società trascendentale: la società, per lui, è manifestazione dell’atto e diventa in lui comunità,
totalità, insieme di tutti  conclude quindi con una visione di immortalità della società e dell’Io.
1.3 GRAMSCI
In Italia, la rinascita del pensiero dialettico si manifestò anche nel marxismo e, in particolare, nel pensiero
del suo maggior esponente: Antonio Gramsci, il quale fu influenzato sia dalla filosofia di Croce che da
quella di Labriola. Gramsci intendeva il marxismo come una concezione dialettica della storia umana la
quale sosteneva che c’era la possibilità di dar vita ad un ordine nuovo mediante la capacità di agire
dell’uomo, attraverso cui egli trasforma le situazioni e i rapporti di forza. Se il rapporto tra libertà e
necessità si spezzava,il socialismo correva il rischio di rimanere prigioniero di quella falsa alternativa di
ribellismo e passività che indicava una situazione di immaturità storico-politica sia della classe operaia che
delle sue espressioni organizzative. Per Gramsci (come anche per molti pensatori del suo tempo) la
rivoluzione d’Ottobre ha segnato una svolta radicale in quanto essa ha messo in luce la capacità del
proletariato di dirigere il processo produttivo anche senza il capitalismo. Per questo motivo egli assegnò ai
“Consigli operai di fabbrica” (ossia ai soviet) la direzione della società, in quanto essi rappresentavano – da
un lato- gli organi della classe operaia nella sua totalità; dall’altro modelli organizzativi in grado di
rispondere alle esigenze produttive e di delineare un nuovo ordine politico. Tuttavia, con il fallimento
dell’occupazione delle fabbriche e l’avvento del fascismo all’idea di dar vita ad un nuovo ordinamento è
subentrata la consapevolezza che la rivoluzione doveva essere un processo lungo e duraturo. Un’opera
molto importante di Gramsci è stata “Quaderni del carcere” in cui egli ha messo in evidenza la sua
riflessione sulle differenze tra Occidente e Oriente; tra paesi dalla società civile debole e arretrata (come la
Russia) e paesi (come l’Italia) con una società civile complessa e articolata. Inoltre egli ha sottolineato che la
rivoluzione d’Ottobre doveva essere interpretata come l’ultimo episodio della guerra di movimento tra il
comunismo e la società borghese, la quale si è riuscita ad affermare in Russia a causa del carattere troppo
debole della società civile; che in Europa – invece- si è rafforzata, complicata e differenziata e – in più- ha
circondato la cittadella dello Stato politico con un sistema di trincee, caserme e bastioni. Per questo
motivo, in Europa la rivoluzione doveva essere più articolata e bisognava rinunciare all’illusione che
sarebbe stato possibile abbattere il nemico mediante uno scontro frontale. Gramsci – inoltre- ha rimesso in
luce l’importanza del Partito Comunista, all’interno del quale trovarono forma ed espressione l’autonomia
di classe del proletariato e l’inconciliabilità teorica del pensiero proletario con qualsiasi altra visione del
mondo. Come sul piano dell’azione politica Gramsci avanzò l’idea della necessità di un organismo collettivo,
ossia del Partito Comunista in quanto era l’unico organo politico in grado di risolvere il problema relativo al
passaggio dalla vecchia società a quella nuova; sul piano produttivo egli oppose al capitalismo una
razionalizzazione del lavoro basata sull’organizzazione del “lavoratore collettivo” capace di gestire
l’industria anche senza il capitalismo. Nella prospettiva dell’autonomia morale e intellettuale del
lavoratore, un’idea molto particolare di Gramsci è quella relativa al fascismo. Egli considerava questo
regime come l’esito di una politica disegnata dai vertici della borghesia industriale, la quale si è avvalsa dei
ceti medi (e in particolare di quelli rurali) per opporsi alla lotta di classe socialista, prima e comunista, dopo.
Inoltre l’esistenza del fascismo ha reso improbabile, in Italia, l’evolversi di una guerra di movimento tra la
borghesia e i proletari, ed è per questo che Gramsci preferì parlare di guerra di posizione. Tutto ciò portò
l’esponente del marxismo italiano a rivedere il concetto di società civile: egli intendeva, per società civile,
l’insieme complesso delle relazioni ideologico-culturali della vita spirituale e intellettuale che avevano un
ruolo decisivo all’interno di uno Stato; mentre per il marxismo l’elemento fondamentale in uno Stato era la
struttura, ossia l’insieme delle relazioni materiali nella produzione. A sostegno della propria tesi Gramsci
affermava che il potere di una classe non si esercitava unicamente con la forza, ma anche mediante
l’egemonia, ossia con la capacità di dirigere le altre classi verso la propria ideologia che, per il filosofo del
marxismo, rappresentava uno strumento autonomi di influenza intellettuale. Alla luce di ciò bisognava
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sottolineare che sull’esercizio della propria egemonia su tutta la società civile doveva puntare il proletariato
il quale era organizzato nel partito comunista che rappresentava la totalità degli interessi dei lavoratori e la
guida delle decisioni collettive e individuali utili per tutta la società. Prendendo in considerazione
quest’esigenza – espressa da Gramsci – di creare una visione del mondo valida per tutto, è possibile
dedurre che egli dava molta importanza alla questione relativa agli “intellettuali organici” che aderivano
intenzionalmente agli ideali di una classe in modo da favorire la loro diffusione in tutta la società civile.
L’incapacità egemonica della borghesia italiana (ossia l’incapacità di diffondere la propria ideologia) oltre
che generare il fascismo, secondo Gramsci si era già manifestata nella questione meridionale la quale aveva
messo bene in evidenza che le classi dirigenti del nord non erano state capaci di condurre fino in fondo la
lotta al feudalesimo e al latifondismo perché avevano lasciato da parte le terre del sud. E’ proprio per
questo motivo che Gramsci si fece sostenitore del proletariato industriale comunista che egli riteneva come
l’unica forza politica in grado di unificare il paese sotto tutti i punti di vista e di risolvere i problemi
generatisi con la questione meridionale. Infine, in ragione dei questa capacità direttiva e unificatrice del
Partito Comunista, Gramsci lo ha riconosciuto come il “moderno principe” capace di creare un nuovo Stato.
2 LA FRANCIA
In Francia la Hegel renaissance (ossia la riscoperta del pensiero ideale) è stata determinata da un gruppo di
intellettuali che, a partire dagli anni ’30, introdussero in questo paese la filosofia di Hegel e – in particolarela fenomenologia dello Spirito, fornendone una lettura in senso umanistico in quanto furono influenzati
anche dall’esistenzialismo e dalla riscoperta dei testi umanistici del primo Marx. La Hegel renaissance non
fu solo un fenomeno accademico in quanto gli intellettuali che hanno diffuso in Francia la filosofia
Hegeliana furono anche coloro che rivalutarono Hegel come il portatore del problema relativo al soggettoconcreto il quale, con la sua finitezza, si poneva in rapporto con lo Stato moderno e con la storia universale.
Uno di questi intellettuali è stato Alexandre Kojèeve che nelle sue lezioni ha interpretato la fenomenologia
di Hegel come un’antropologia storica che ha descritto l’uomo nel suo divenire; ed è per questo che egli
sosteneva che lo Spirito di Hegel coincideva con l’Uomo, concetto storico connotato da una finitezza
radicale e mediante il quale è possibile spiegare anche gli altri concetti hegeliani. Koièeve si è –poisoffermato su 2 figure dell’Autocoscienza della Fenomenologia: la lotta tra servo e padrone e la morte.
Prendendo in considerazione la lotta servo-padrone K. ha affermato che prima e fuori dall’interazione
sociale non c’è soggettività; di conseguenza l’uomo è sempre il prodotto della lotta e del lavoro e anche
l’ordine politico nasce come spazio fondato – in origine- sulla lotta. Questo impianto categoriale servì a K.
Per spiegare anche l’evoluzione del diritto il quale era costituito dal conflitto dialettico tra giustizia di
eguaglianza (che reggeva le società aristocratiche) e la giustizia di equivalenza ( propria della società
borghese). Oltre alla metafora servo-padrone, la dialettica hegeliana era costituita anche dal nesso morte
(o guerra) e libertà, il quale metteva in evidenza che l’uomo può dirsi tale, ossia sostanza concreta, nel
momento in cui rischia la propria vita nella lotta per il riconoscimento, poiché la morte dell’uomo è
autonoma e volontaria e – per questo motivo- generatrice di libertà. Per K. il mondo sociale coincideva con
il mondo della storia il cui movimento dialettico poteva essere concepito come un circolo destinato a
ripetersi solo una volta: la storia – infatti- è soppressione della storia, e cioè cammino verso la fine della
storia, verso la conformità tra realtà e discorso. La storia del mondo occidentale (per K.) si era conclusa nel
1789 grazie alla rivoluzione, la quale aveva generato la trasformazione del mondo dei borghesi in un mondo
cittadino, destinato ad essere superato dal pensiero hegeliano. Mentre per Hegel lo Spirito del mondo si
era manifestato in Napoleone; per K. Si era manifestato in Stalin e nella prima fase del suo pensiero egli era
convinto che proprio grazie alla rivoluzione russa che si era compiuta la storia e c’era stata la
manifestazione dell’Assoluto, ossia il cittadino-saggio dello Stato Universale omogeneo in cui vigeva la
giustizia dell’equità (sintesi della giustizia di eguaglianza e di equivalenza).
3 LA GERMANIA
In Germania la rinascita della dialettica ha avuto degli effetti importanti all’interno del pensiero marxista, il
quale si è liberato dalle influenze positivistiche della II e III internazionale e si è aperto nei confronti delle
istanze di concretezza storica. L’importanza che il pensiero dialettico ha avuto per il marxismo è stata
rivendicata da Gyorgy Lukacs, che ha elaborato un pensiero i cui punti chiave erano i concetti di: totalità
concreta, identità di soggetto-oggetto nella prassi sociale; coscienza di classe e di reificazione(ossia quel
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processo secondo cui nell’economia capitalistica l’uomo e il suo lavoro venivano ridotti al valore della
merce che producevano). Secondo Lukacs, il metodo dialettico era quello più adeguato per comprendere la
totalità sociale e solo dal punto di vista del proletariato la società diveniva visibile come un Intero, ossia
come un sistema dialettico delle relazioni che nascevano dalla produzione economico. Al contrario, la
borghesia, con la sua falsa coscienza, studiava la società come un’insieme di fenomeni isolati, ripresi in
settori conoscitivi parziali privi di qualsiasi rapporto con il tutto di cui fanno parte. Invece è proprio il Tutto
che rende comprensibile le parti ed è proprio per questo motivo che Lukacs sosteneva il proletariato in
quanto esso rappresentava l’unica classe sociale in grado di effettuare una corretta analisi della storia e
della società. inoltre la conoscenza non contraddittoria della realtà era accessibile solo al proletariato
perché la coscienza borghese, essendo limitata e andando incontro alla sua scomparsa, non poteva essere
altro che tragica e contraddittoria. Infatti il pensiero irrazionalistico della cultura europea dell’800 e del
‘900 è stato una reazione disperata del mondo borghese alle proprie contraddizioni e alla lotta di classe. Al
contrario, il proletariato aveva la possibilità di conoscere la totalità sociale (ossia il mondo capitalistico nel
suo vero funzionamento) perché esso era la sua manifestazione: pertanto riconoscendo se stesso come
classe, il proletariato conosceva anche la totalità sociale e viceversa. In questo modo coscienza di classe e
conoscenza oggettiva del processo storico giunsero ad identificarsi e ciò fu molto importante perché nel
momento in cui il proletariato giungeva alla piena conoscenza del capitalismo, aveva la possibilità di
superarlo attraverso il socialismo e di abolirlo nella libertà finale della società senza classe. In questa
prospettiva di Lukacs, il marxismo rappresentava una teoria della totalità sociale. La quale trovava nel
partito (inteso come coscienza di classe del proletariato) il soggetto rivoluzionario rappresentante gli
interessi dell’intero proletariato e il futuro dell’umanità. Il pensiero di Lukacs trovò molti punti in comune
con quello di Krosch, il quale difese il concetto di totalità concreta nell’ambito della polemica in cui si
accusavano pensatori come lui e Lukacs di aver ridotto il marxismo ad un criterio epistemologico di un
sapere specializzato, che spingeva le singole coscienze ad essere indipendenti e ad allontanarsi dalla prassi
rivoluzionaria.
LA SCUOLA DI FRANCOFORTE: È nata nei primi anni di vita della Repubblica di Weimar. La prima
generazione di questa scuola (di cui facevano parte sociologi, economisti, filosofi, storici e psicologi) si
impegnò in una revisione del marxismo che si proponeva di interpretare la trasformazione del capitalismo
(il quale passò dalla sua fase liberale alla sua fase democratica) e dello Stato (che da Stato borghese
divenne Stato totalitario). Molto importante nella prospettiva teorica e pratica della scuola di Francoforte è
stato il dibattito relativo al rapporto tra politica ed economia. Intorno a tale questione nacquero due filoni
distinti: da un lato c’erano coloro come Max Pollock e Max Horkheimer i quali sostenevano che c’erano
delle differenze tra il capitalismo di Stato e le classiche condizioni economiche del capitalismo liberale
concorrenziale; dall’altro c’erano coloro come Franz Neumann ed Herbert Marcuse i quali sostenevano che
tra capitalismo di Stato e capitalismo classico non c’era nessuna differenza particolare e che il fascismo non
era stato altro che il sistema di comando borghese portato all’esasperazione. Uno dei principali filosofi della
scuola di Francoforte è stato Herbert Marcuse il quale aveva tentato di riattivare il marxismo da un punto di
vista teorico, ripristinandone la specifica valenza rivoluzionaria. A tal proposito egli ha sottolineato
l’importanza della filosofia nella ricerca della concretezza, in quanto la filosofia veniva concepita come
scienza pratica capace di incidere direttamente sull’angustia dell’esistenza umana. Solo in questo modoossia riprendendo il pensiero di Hegel, interpretato come espressione di una lotta materiale contro
l’irrazionalità del mondo, mediante la filosofia di Heidegger e la lettura del giovane Marx – il marxismo
poteva riaffermarsi come teoria e prassi dell’azione rivoluzionaria. Contro tale razionalità concreta poteva
porsi solo l’irrazionalismo terminale della borghesia dalla quale è nato il nuovo Stato autoritario. Infatti,
secondo Marcuse, il liberalismo e l’autoritarismo non erano due movimenti alternativi, ma corrispondevano
a due diverse fasi dello sviluppo capitalistico. Inoltre, secondo il filosofo, il mondo borghese non produceva
più forme politiche nuove, ma solo decadenza di quelle vecchie e anche il passaggio da un’economia
liberistica ad un’economia di piano autoritaria è stata interpretata come una omogeneità tra vecchi e nuovi
capitalismo. In accordo a questo suo pensiero Marcuse sosteneva l’inesistenza dello Stato autoritario e
riconosceva il carattere borghese del fascismo ma, in seguito ad una profonda analisi del nazismo, si è
allontanato da questa sua posizione iniziale ed ha cominciato a cogliere le novità del regime totalitario
tedesco. Anche un altro filosofo: Franz Neumann ha compiuto una riflessione sul regime nazista che ha
descritto come uno Stato attraversato dal disordine e dal conflitto. Egli partiva dalla tesi che il totalitarismo
non era una forma di governo nuovo, ma solo l’espressione di una serie di interessi economici borghesi i
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quali erano talmente contraddittori che potevano essere tenuti insieme solo mediante una politica violenta
e il mito, e non più dal diritto e dalla ragione. Per Pollock e Horkeimer il capitalismo di stato esisteva ed
esso coincideva proprio con lo Stato autoritario. A sostegno di questa sua tesi Horkeimer sostenne che la
fine della libera concorrenza segnò l’affermazione di una totalità di dominio in cui non era possibile
distinguere più degli ambiti di dominio. Per questo motivo il totalitarismo era - per lui - una forma politica
nuova e la Germania nazista, nonché l’Urss non erano altro che due manifestazioni equivalenti della forma
estrema di dominio nella quale ha preso corpo la tradizione occidentale dell’oppressione. In Horkeimer e in
molti esponenti della scuola di Francoforte il concetto di dominio implicava che l’alienazione dell’uomo non
era dovuta solo allo sfruttamento capitalistico, ma anche alla convergenza tra principio di organizzazione e
principio di produzione. La politica, quindi, attraverso l’incorporazione autoritaria delle masse nelle
strutture economiche e politiche ha assunto un carattere violento e autoritario in quanto solo mediante
questo tipo di atteggiamento era possibile garantire la sopravvivenza di un sistema socioeconomico.
L’esistenza di forme politiche diverse non ebbe come conseguenza la produzione di diverse qualità di
dominio: il potere politico esercitato dal principio di organizzazione economica, infatti, faceva si che sia ad
Est (dove vigeva il socialismo) che ad Ovest (dove c’era il capitalismo) si produceva la chiusura di qualsiasi
spazio emancipatorio. Durante la seconda guerra mondiale gli esponenti della scuola di Francoforte
cominciarono ad affiancare al nazismo e al capitalismo una nuova forma politica ed economica, nella quale
il dominio non si manifestava attraverso forme violente e autoritarie ma mediante la mercificazione, ossia
manipolazione psicologica e culturale di ogni ambito sia soggettivo che sociale. Nel 1944 Horkheimer e
Adorno unificarono tutta la storia intellettuale, sociale , economica e politica dell’Occidente in una critica
radicale all’illuminismo, nel quale H. (già fino alla sua opera giovanile) non ha visto un progresso della
ragione verso il suo dispiegamento, ma la continua lotta tra il momento ideale della libertà con quello
pragmatico dell’interesse, nonché l’inevitabile compromissione della ragione moderna con il potere di
classe della nascente borghesia. Nella sua opera più matura H. radicalizzò il suo pensiero affermando che la
ragione è potere ed essa – da un lato- poteva essere esaltata perché portava con sé una serie di promesse
di liberazione; dall’altro poteva essere criticata per la sua origine e per la sua struttura che l’hanno portata
a risultati opposti alla libertà, ossia alla schiavitù. Inoltre Horkheimer e Adorno si sono opposti alla
narrazione che la ragione illuministica faceva di sé: lotta contro il mito alla cui conclusione si affermava il
soggetto emancipato. Questa antitesi tra il mito e l’illuminismo rappresentava – secondo questi autori- una
forma di complicità segreta utile per dominare la natura e superare la paura che l’uomo aveva nei suoi
confronti. Inoltre il mito era – per loro- una forma di superamento della magia,la quale era ancora troppo
mimetica rispetto alla natura ed esso poteva essere definito illuministico perché si impegnava ad eliminare
la paura dell’uomo nei confronti della natura; ed era teoria perché gli dei di cui si avvaleva per dare unità e
forma astratta alla natura anticipavano gli universali del logos, della ragione. Da ciò è possibile dedurre che
è stato col mito (trasformatosi in seguito in logos) che ha avuto inizio il processo di razionalizzazione del
mondo per opera del Soggetto che, mediante la ragione, si proponeva di dominare l’oggetto, riducendolo –
in questo modo- ad un concetto che poteva essere afferrato nella mente. L’illuminismo è stato – però- un
momento storico contraddittorio perché mentre da un lato si proponeva di abbandonare il mito, dall’altro
non si è liberato dalla mitologia, e cioè dalla paura nei confronti della natura, e – in più- ha riproposto le
originarie potenze minacciose della costituzione naturale. Inoltre la alla razionalizzazione della natura senza
imporre tale razionalizzazione alla propria natura, ai propri impulsi, desideri e passioni. La repressione delle
passioni naturali e l’autodisciplina del soggetto è stata espressa in due figure: quella di Odisseo e quella di
Sade. Odisseo era un borghese che ha fondato la propria identità facendosi legare all’albero della nave er
non seguire il canto delle Sirene, il quale coincideva con le potenze irrazionali della natura che egli temeva e
desiderava nello stesso tempo in quanto non voleva perdersi l’esperienza di congiunzione tra soggetto e
natura. Sade ha messo in luce il lato oscuro dell’illuminismo perché egli vedeva la natura come una
dimensione infernale in cui il male e la violenza si manifestavano come eventi naturali. Questo giustificava
– in qualche modo- anche il loro sviluppo nella società e metteva in evidenza che l’illuminismo si fondava
solo su pulsioni deviate che rappresentavano, ormai, il destino dell’individuo. Dall’analisi di ciò si è dedotto
che il soggetto razionale non trova – nella propria ragione- la libertà, ma la propria soppressione. Il dominio
si manifesta, quindi, in una totalità filosofica, psicologica, politica ed economica che di per sé rappresenta il
falso in quanto non è altro che l’indice della violenza mediante la quale è stata costruita la storia, le
istituzioni e le forme culturali. Pertanto, secondo i francofortesi, la filosofia e il potere politico non sono gli
unici fattori strutturali che spiegano la nascita e lo sviluppo del dominio, ma in quest’ambito rientra anche
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la psicologia. Gli autori di questa scuola fanno riferimento – in particolar modo- alla psicoanalisi freudiana la
quale metteva in evidenza che la nascita della società e della civiltà esige la repressione e la sublimazione
degli istinti primari di piacere ai quali vengono sostituiti i totem dell’autorità, che vengono introiettati
dall’individuo come principio di subordinazione e come principio di prestazione ( e cioè l’identificazione del
soggetto con il proprio lavoro). Tuttavia i francofortesi non condividevano la tesi di Freud perché essi
puntavano alla costituzione di una società libera dalla repressione individuale e collettiva. Infatti, in molte
loro opere essi hanno analizzato spesso il concetto di autorità, indicandolo come quell’elemento utile per
definire la persistenza del dominio anche in assenza di una coercizione fisica. In aggiunta a ciò hanno
affermato che era attraverso la mediazione della famiglia che la società trasmetteva i tratti della
personalità autoritaria che spingeva i cittadini ad obbedire al comando del Capo o ai pregiudizi che i tiranni
utilizzavano per esercitare il potere. Questi autori della scuola di Francoforte sono stati riconosciuti come
dei personaggi importanti perché essi hanno congiunto la ripresa di una parte della filosofia di Hegel con la
psicoanalisi e il marxismo, al fine di dar vita ad una teoria critica capace di affrontare il dominio e di
superarlo mediante la promozione della libertà. Tuttavia riuscire ad ottenere tale libertà era alquanto
difficile perché non bastava criticare l’economia capitalistica o il totalitarismo, ma era necessario: 1)
criticare la stessa ragione occidentale senza cadere nell’irrazionalismo o nel cattivo romanticismo
sentimentale; 2) smascherare la volontà della ragione di affermare la propria potenza; 3) lasciarla
esprimere le differenze e contrastare la sua tensione verso la produzione dell’unità. In quest’opera
l’atteggiamento dei filosofi della Scuola di Francoforte fu diverso: Horkheimer prese una via mistica (simile
a quella di Schopenhauer); Marcuse tentò fino alla fine di perseguire la libertà per l’uomo e per il
proletariato; Adorno continuò a fare filosofia contro la filosofia, ossa continuò a pensare in senso dialettico
senza mai conciliarsi con la realtà di cui si proponeva di mettere in luce le contraddizioni. Quest’ultimo
proseguì per questa strada perché era convinto che fare filosofia era possibile soprattutto grazie all’arte, la
quale manteneva viva l’immaginazione.
BENJAMIN: Un altro personaggio tedesco che ha appoggiato lo sviluppo del pensiero dialettico è stato
Benjamin, il quale ha dei punti in comune con i francofortesi. Ciò che lo ha avvicinato a quest’ultimi è stato;
il respingimento nei confronti del formalismo razionalistico e la rinuncia alla fiducia nel progresso storico.
Ciò che lo ha differenziato dagli autori della scuola di Francoforte è stato il fatto che mentre essi erano
fedeli alla filosofia come mediazione razionale, Benjamin insistette sulla immediatezza della redenzione.
In uno dei suoi saggi più importanti: “Per la critica della violenza” Benjamin ha messo in evidenza che la
violenza poteva essere equiparata al diritto dello Stato e ad essa poteva essere contrapposto la Giustizia.
Egli vedeva nel diritto la culla della violenza strutturale, la quale era nascosta nelle istituzioni che non erano
il frutto di una mediazione razionale perché esse hanno avuto origine proprio dalla violenza che – in piùhanno incorporato. Pertanto, la violenza – presentandosi come diritto- aveva il potere di attribuire dei ruoli
ai vincitori e ai vinti, nonché di circoscrivere lo spazio politico secondo la propria logica di potere. Da ciò si
evince che mentre per il liberalismo la violenza rappresentava un male necessario per l’affermazione del
diritto, il quale poteva essere considerato il suo contrario; per Benjamin la violenza non era altro che il
diritto stesso e – in linea con questo suo pensiero- egli era convinto che lo sciopero generale proletario
(promosso da Sorel) non era altro che un mezzo attraverso il quale eliminare un èlite di dominatori e
ripristinarne una nuova. di conseguenza, una vera critica alla violenza poteva essere soddisfatta solo
attraverso la distruzione del diritto esistente e il rovescio di ogni struttura di dominio, in modo tale da
provocare una rottura del continuum della storia, la quale si strutturava proprio dalla violenza.
Benjamin sosteneva – poi- che la liberazione della società non passava attraverso la dialettica, ma
assumeva i tratti messianici (ossia relativi ad un messia, mirati alla salvezza) della violenza rivoluzionaria, la
quale rappresentava il riflesso della Giustizia divina nella sfera umana. Quando Benjamni si accostò al
comunismo, continuò a conservare l’utopia di una rivoluzione anarchica in grado di distruggere il presente
e istituzionalizzare una politica teologicamente fondata e capace di far saltare il continuum della storia e di
opporsi al decisionismo che stava all’origine della politica stessa. A tal proposito, lo scritto più importante è
stato “Tesi sul concetto di storia” in cui egli ha fornito una nuova visione del materialismo storico. Secondo
tale visione esso si poneva come obiettivo quello di riscattare il passato piuttosto che il futuro e di
destrutturare la tradizione dei vincitori per far emergere la tradizione dei vinti. In questo periodo
Benjamin si allontanò da Hegel su di una questione relativa al Giudizio: infatti per il primo filosofo erano gli
uomini a giudicare la storia; per il secondo era la storia a giudicare gli uomini. L’ultima filosofia di Benjamin
è stata segnata da una particolare concezione del tempo, in quanto egli non metteva in luce la continuità,
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bensì la discontinuità in modo da rivoluzionare – oltre che il modo di produzione e quello di filosofarel’intero corso della storia. Egli era convinto che la speranza messianica (ossia di un radicale rivolgimento
politico e sociale) non doveva essere concepita come un’utopia destinata a realizzarsi alla fine dei tempi,
bensì come il presente (tempo-ora) perché in esso si rende visibile il processo frammentario e non continuo
della storia e – di conseguenza – tale utopia poteva coincidere con una di queste linee (improvvisa e
inaspettata) di sutura della storia.
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