Stefano Marzocchi - IIS Severi-Correnti - 3 marzo 2011
Filosofie e mondializzazione
Terra e luoghi nell’età globale
Materiali di lavoro
Le mappe mentono sempre, i veri posti non ci sono mai
Hermann Melville, Moby Dick
Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa, come ci si
smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare. Ché i nomi delle strade devono suonare all’orecchio dell’errabondo come lo scricchiolio di rami secchi e le viuzze
interne gli devono rispecchiare nitidamente, come le gole montane, le ore del giorno.
Walter Benjamin, Infanzia berlinese
11 settembre 2001: fine simbolica dell’era dello spazio
(da Zygmunt Bauman, La società sotto assedio, Laterza, 2003)
Gli eventi dell'11 settembre 2001 hanno molti significati... e tuttavia si è tentati di affermare che alla
fine il significato più pregnante e duraturo di quegli eventi si dimostrerà quello di una fine simbolica dell'era dello spazio...
Sono stati simbolici anche in un altro senso: l'assalto terroristico ai grattacieli più famosi della città
più famosa del mondo, compiuto dinanzi al più alto numero di telecamere che i moderni mezzi di
comunicazione possano concentrare in un dato luogo, ha rapidamente acquisito una valenza di
simbolo a livello globale, che altri eventi, per quanto drammatici e cruenti, non potrebbero neanche
sognarsi di avere. Ha dimostrato, in modo altrettanto drammatico e spettacolare, quanto globali
possano davvero essere gli eventi. Ha dato corpo e sostanza all'idea fino allora astratta di interdipendenza globale e di globo in quanto entità unica. Per tutti questi motivi, si presta al ruolo di fine
simbolica dell'era dello spazio meglio di ogni altro evento del recente passato.
L'era dello spazio iniziò con la muraglia cinese e il vallo di Adriano negli antichi imperi, continuò
con i fossati, i ponti levatoi e le torri delle città medievali, e culminò nelle linee Maginot e Sigfrido
degli stati moderni, per poi concludersi con il patto atlantico e il muro di Berlino... Durante tutta
quell'epoca, il territorio è stato la più preziosa delle risorse, il premio più ambito di qualsiasi lotta
per il potere, il segno di distinzione tra vincitori e sconfitti... Ma soprattutto, in tutta quell'epoca il
territorio è stato la principale garanzia di sicurezza: era in termini di ampiezza e profondità del territorio controllato che si misuravano e affrontavano le questioni di sicurezza. L'era dello spazio fu il
tempo del «profondo entroterra», del Lebensraum, dei cordons sanitaires. Il potere era territoriale, e altrettanto lo erano la privacy e la libertà dall'interferenza di quel potere. Chez soi era un luogo
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con tanto di confini che potevano essere sbarrati e resi invalicabili; ogni forma di intrusione era adeguatamente preclusa e l'accesso severamente regolamentato e controllato. La terra era un riparo
e un nascondiglio: un luogo in cui si poteva scappare e dentro il quale ci si poteva barricare, «entrare in clandestinità» e sentirsi al sicuro. Le autorità costituite dalle quali si desiderava fuggire e nascondersi si fermavano ai suoi confini...
Gli eventi dell'11 settembre 2001 hanno reso perfettamente chiaro che nessuno, per quanto distante, distaccato e dotato di mezzi, può più isolarsi dal resto del mondo.
E altresì diventato chiaro che il venir meno della capacità protettiva dello spazio è un'arma a doppio taglio: nessuno può nascondersi agli attacchi e non esiste luogo tanto distante da non poter essere raggiunto. I luoghi non proteggono più, per quanto massicciamente armati e fortificati possano essere. Forza e debolezza, vulnerabilità e sicurezza sono oggi diventate, essenzialmente, questioni extraterritoriali (e diffuse) che eludono soluzioni territoriali (e focalizzate)...
Fino all'11 settembre... la ricerca di soluzioni alle minacce gravanti sul globo tendeva a essere sostituita da (vani e inefficaci) tentativi di trovare forme localizzate e personalizzate di immunità al pericolo (pensiamo, ad esempio, all'enorme domanda di rifugi nucleari monofamiliari... durante la
Guerra fredda)...
Un attacco terroristico come quello perpetrato l'11 settembre era plausibile e prevedibile già da
molto tempo, alla luce dell'insicurezza globale massicciamente generata all'interno dello «spazio
dei flussi»: non colonizzato, politicamente non controllato, totalmente deregolamentato ed extraterritoriale. Ma è rimasta una minaccia astratta... Il materializzarsi di quella minaccia nella forma
definitiva trasformò repentinamente le previsioni degli studiosi in verità lapalissiane, avendo reso
palpabile l'impalpabile, visibile l'invisibile e prossimo il distante. E così facendo permise che la minaccia fosse convertita dal linguaggio dell'insicurezza globale, difficile da padroneggiare e complicato da utilizzare...
Frontiere
(da Dario Gentili, Confini, frontiere, muri, Lettera Internazionale, n. 98, 2008)
Perché ci sia confine, c'è bisogno che siano almeno due gli ordini politici che si riconoscono la sovranità su un dato territorio. Se l'impero ha ai propri margini frontiere, lo Stato ha confini.
In epoca moderna l'ambivalenza latina di fines e limes... si è perduta a vantaggio del confine. In inglese, lingua marittima e non continentale, invece, la distinzione tra bound e frontier rimane netta... Nello stesso periodo in cui in Europa si afferma la topografia del confine, dall'altra parte dell'oceano la topografia della frontiera ritrova gli spazi sconfinati nel West degli Stati Uniti in via di espansione.
Frederick Jackson Turner è il più noto storico - e apologeta - della frontiera americana... The Frontier in American History del 1920...
«La frontiera americana si distingue nettamente da quella europea, che è una linea di confine fortificata che corre attraverso terre densamente abitate. La cosa più significativa della frontiera americana è che è posta proprio al limite dei territori aperti all'espansione e alla conquista»... non è lineare come il confine ed è mobile, protesa costantemente alla conquista... «In quest'avanzata, la frontiera è la cresta, la lama acuta dell'onda, il punto d'incontro tra barbarie e civiltà». Da un verso, la
frontiera americana, come il limes romano, è a contatto con il barbaricum, la cui conquista è anche
un'opera di civilizzazione... Dall'altro verso, la metaforica della frontiera è marittima piuttosto che
terrestre... «Ciò che il Mediterraneo rappresentava per i greci, perché recideva i legami della consuetudine, offriva nuove esperienze e suscitava istituzioni e attività, questo, e qualcosa di più, ha
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rappresentato direttamente per gli Stati Uniti, e più remotamente per le nazioni d'Europa, la frontiera nel suo avanzare e nel suo conseguente restringersi». Il mare rappresenta l'elemento opposto
della terra: è sconfinato e smisurato. È, insieme al deserto della Terra Promessa a esso affine, l'altra
faccia dell'Occidente, l'alternativa sempre possibile rispetto al radicamento sulla terra: guerra e
viaggio, Iliade e Odissea...
La frontiera americana non può fissarsi, irrigidirsi in confine: la sua espansione non si è arrestata
nemmeno con la conquista definitiva del West... «Sarebbe un profeta ben imprudente chi asserisse
che il carattere espansivo della vita americana sia ora interamente cessato. Il movimento è stato il
fattore dominante, e, se questo allenamento non ha effetto su un popolo, l'energia americana chiederà continuamente un campo più vasto per esercitarsi» (Turner).
La globalizzazione può essere un fenomeno leggibile alla luce dell'esperienza della frontiera, del suo
state of mind, come scrive Turner: è la forma specifica dell'imperialismo americano, del suo sconfinamento di natura prettamente marittima ed economica - in questo più affine al modello imperiale inglese che a quello romano. E tuttavia, la frontiera - e la globalizzazione - comprende in sé, fin
nel suo etimo, il rischio della sua perversione: imporre la linea alla fluidità del mare, innalzare e
militarizzare un "fronte" contro un nemico che non minaccia alcuna guerra, ma serve per mantenere desta la vigilanza su un'identità ormai in crisi...
Uno Stato-nazione che pretende di "regolare" i "flussi" di merci, informazioni e persone, che circolano attraverso uno spazio marittimo e imperiale, in base alla logica lineare e discriminante del territorio; una sovranità che presume di "regolare" le frontiere come se fossero confini - ecco il nuovo
muro. I muri di oggi manifestano la crisi della sovranità e, più in generale, la crisi della modernità...
I muri oggi non vengono eretti per definire confini bensì frontiere; ma non si tratta della tipologia
della frontiera mobile americana - e di ogni colonialismo in generale. Questi muri di frontiera sono
immobili. Pur non riconoscendo alcun ordine politico al di fuori, non sono frontiere di conquista,
bensì di difesa; a differenza del confine, non definiscono entrambe le parti, ma soltanto la rettitudine di una parte, quella interna: sono i baluardi di difesa contro gli attacchi alla democrazia e all'ordine interno, così se ne giustifica sovente la costruzione...
Nel mondo globale, confini e frontiere, piuttosto che venir meno, si moltiplicano, si sovrappongono
e si confondono anche all'interno di un medesimo ordine politico-giuridico. Nell'Unione Europea,
per esempio, i confini sono porosi all'interno degli Stati di Maastricht e rigidi ai suoi margini esterni; allo stesso tempo, torna nel Vecchio Continente anche la frontiera in quanto zona di espansione
verso Est e verso i paesi dell'altra sponda del Mediterraneo. A complicare ulteriormente la topografia politica contemporanea a livello globale, si aggiunge il fronte della sovranità: il muro di frontiera. Dalla parte interna, l'ordine, la democrazia, lo Stato di diritto e la cittadinanza e, dall'altra, il loro contrario speculare - donne e uomini di cui si riconosce esclusivamente la condizione fuorilegge, che non accorda loro nemmeno lo statuto di nemico, tutt'al più di criminale...
I muri di frontiera di oggi comportano allo stesso tempo la differenza qualitativa della frontiera e la
separazione netta tra interno ed esterno del confine. Nel mondo greco, i barbari erano al di fuori
del logos, nel mondo romano al di fuori del limes dell'impero; nel mondo contemporaneo, i barbari
possono essere all'interno dei confini statuali e, al contempo, al di fuori delle frontiere murate...
Estate 1969: Apollo 11 e Arpanet
(da Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, 2009)
1969. Nelle sere di quell'estate eravamo tutti con il naso per aria, a guardare la luna, perché erano
i giorni in cui l'uomo vi posava per la prima volta il piede e in tal modo sembrava iniziasse a farne
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una seconda Terra. Si aveva davvero l'impressione di essere entrati in una nuova era. Ed era proprio così, ma per una ragione per molti versi opposta a quella celebrata dalla televisione e dai
giornali: non si trattava della conquista dello spazio (inteso come cosmo), della sua annessione al
corpo terrestre, ma al contrario della sua fine (della fine dello spazio inteso come moderno modello del mondo).
Negli stessi giorni infatti, in silenzio, nasceva Arpanet, la prima forma della Rete: negli Stati Uniti
due computer, abolendo ogni problema di velocità di trasmissione, dunque di distanza metrica,
iniziavano a dialogare fra loro riducendo gli atomi in bit, in immateriali unità di informazione.
La prossima volta che il saggio indica la luna, non bisogna guardare né il dito né la luna, come vuole il proverbio zen: chiediamoci invece se il saggio è davvero così saggio come si dice, e in ogni caso
continuiamo a guardare la Terra...
La crisi del “modello Westfalia”
(da Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati e Boringhieri 2003)
L'attuale mondializzazione non consiste né in una generica interdipendenza, né in una pura e semplice apertura transcontinentale dei mari: entrambe queste condizioni si erano infatti realizzate
nelle “ondate” precedenti con la scoperta del Nuovo Mondo e con la creazione del mercato moderno. La novità va dunque rintracciata altrove: nella rottura del “modello Westfalia”, ossia del sistema di relazioni internazionali imperniato – a partire dalla fine delle guerre civili di religione del
XVI-XVII secolo – sulla figura dello Stato-nazione sovrano territorialmente chiuso.
Da questo punto di vista, l'odierna globalizzazione innesca, se non la fine (poiché, sotto il profilo
strutturale, la forma-Stato appare per il momento destinata a durare, mentre, sotto il profilo strettamente quantitativo, il pianeta ha conosciuto negli ultimi anni un vero e proprio boom delle nascite di Stati nazionali o subnazionali), certo un declino del Leviatano e un'erosione costante delle sue
prerogative sovrane.
Questo processo si è sviluppato a un ritmo esponenziale a partire dal 1989, in seguito alla caduta
del muro divisorio del mondo su cui si reggevano le sorti del sistema bipolare...
La fine del “modello Westfalia” si manifesta innanzi tutto nello scompaginamento di un Ordine, di
una forma storica specifica delle relazioni internazionali strutturata da una netta linea di demarcazione tra il dentro e il fuori: tra la dimensione interna e quella esterna agli Stati...
Il paradigma “hobbesiano” dell'ordine, sancito dalla pace di Westfalia, viene oggi sottoposto a tensione non in singoli aspetti o implicazioni ma nel suo stesso principio costruttivo... Il destino del
“dio mortale”, di quel “gioiello” dello ius publicum europaeum rappresentato dalla forma-Stato
moderna, è in realtà inscritto – come aveva lucidamente intravisto Carl Schmitt, che pure quel destino tentò disperatamente di contrastare – nella sua stessa genesi. L'entropia del Leviatano ha la
sua lontana origine nell'eterna contesa di Terra e Mare: nell'apertura degli oceani determinata, in
età elisabettiana, dal processo di “insularizzazione” dell'Inghilterra. Abbracciando il modello imperiale marittimo, l'isola britannica operava un distacco dalle vicende del continente ponendosi come
prima potenza globale...
Una modernità che, attraverso globalizzazioni successive, è fuoriuscita dal suo ambito d'origine per
estendersi a tutte le aree e i contesti culturali del pianeta. Ma la conseguenza di tale espansione è il
venir meno di quel confine tra il dentro e il fuori che costituiva il presupposto essenziale della logica e della funzione dello Stato...
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La prima globalizzazione: dai luoghi alle ubicazioni
(da Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, Meltemi, 2006)
È nei porti iberici che per la prima volta approdano le navi appestate del sapere. Di ritorno dalle
Indie, tornati a casa dagli antipodi, i primi testimoni oculari della rotondità terrestre gettano i loro
sguardi mutati su un mondo che da ora in poi prenderà il nome di vecchio. Chi giunge ai patri lidi
dopo la circumnavigazione della Terra – come quei logori diciotto sopravvissuti del viaggio di Magellano durato dal 1519 al 1522... sbarca in un luogo che non può più essere trasfigurato in quella
caverna domestica e natia del mondo, che era. In questo senso Siviglia e stata la prima cittàubicazione della storia universale... Le ubicazioni sono le patrie di un tempo che si offrono allo
sguardo disincantato e sentimentale di coloro che fanno ritorno... non si può più considerare il
proprio luogo di origine come l’ombelico di ciò che è e il mondo il campo ordinato in modo concentrico intorno a esso. Chi vive nell’oggi, dopo Magellano, dopo Amstrong, si vede obbligato a considerare anche la propria città natale come la proiezione di un punto percepito dall’esterno. La metamorfosi del vecchio mondo in un aggregato di ubicazioni riflette la nuova realtà-globo, per come
essa si rappresenta dopo la circumnavigazione. L’ubicazione è il punto, entro il mondo rappresentato, in cui l’indigeno del luogo riconosce se stesso come compreso dall’esterno; in esso i circumnavigati fanno ritorno a se stessi.
Ciò che è maggiormente singolare in questo processo è soprattutto come innumerevoli indigeni europei siano riusciti quasi a ignorarlo per un’intera epoca, a negarlo e a differire il suo compimento
così a lungo, tanto che alla fine del’XX secolo si comportano come se avessero motivi del tutto nuovi per occuparsi di quell’inaudito fenomeno che è la globalizzazione...
Nella sua avanzata la globalizzazione fa saltare strato per strato gli involucri immaginari della vita
collettiva autoctona, vissuta chiusi in casa propria, orientata su se stessa e dotata di per se stessa di
potere salvifico – quella vita che fino a quel momento non si era svolta in nessun altro luogo se non
presso se stessa ed entro i suoi paesaggi natali... Questa vecchia vita non conosceva altra concezione del mondo se non quella autoprotettiva, vernacolare... protetta da alte mura... una fantasia uterina di gruppo, vincolata a terra localmente, centrata su se stessa e monolingue... Ma ora la globalizzazione, che porta l’Esterno ovunque, risucchia nello spazio del traffico le città aperte ai commerci e, alla fin fine, anche i più introversi villaggi, e questo spazio oblitera tutte le particolarità locali con i suoi denominatori comuni – denaro e geometria. La globalizzazione fa saltare le endosfere sviluppatesi autonomamente e le connette alla grata della rete. In essa imprigionati, gli insediamenti dei mortali vincolati alla Terra perdono il loro immemorabile privilegio di essere per se stessi
il centro del mondo...
Sapere e potere: la Sala delle Carte Geografiche di Palazzo Vecchio
(da Franco Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, 2009)
Il programma decorativo di Palazzo Vecchio, da Cosimo affidato a Giorgio Vasari, culminava nella
Sala delle Carte Geografiche... avrebbe dovuto costituire nell'insieme una macchina conoscitiva di
inaudita e mai vista complessità. Tutt'intorno alla sala, sulle ante degli armadi, cinquantatre tavole
dipinte avrebbero raffigurato (e di fatto raffigurano) il mondo di allora, insieme con le immagini
della flora e della fauna delle distinte regioni, e con centinaia di busti e ritratti degli uomini illustri
e dei potenti del passato. La parete di fronte alla porta d'ingresso ospitava a sua volta l'orologio con
i movimenti dei pianeti allora conosciuti. Il soffitto avrebbe invece dovuto recare l'immagine delle
costellazioni celesti, ma con gran stupore ed enorme meraviglia degli astanti si sarebbe aperto a
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comando per far scendere una coppia di globi, uno celeste l'altro terrestre: quest'ultimo fino al pavimento, come la sua natura inferiore comandava, il primo invece destinato a restare a mezz'aria, a
segno del dominio del cosmo (cioè di Cosimo) sulla Terra stessa. Di tale programma, che prevedeva
la riunione delle «cose del cielo e della terra giustissime e senza errori», come lo stesso Vasari scrive, soltanto una parte venne mandata a effetto. Oggi solo le tavole e il globo terrestre... sono visibili
allo spettatore...
Palazzo Vecchio è un edificio che da solo vale alla lettera un'intera città, poiché come in origine la
città esso è il gigantesco simbolo che tiene uniti il cielo e la Terra: ma lo fa modernamente, per un
mondo cioè che proprio in tal modo viene per la prima volta e per intero ridotto senza residui a ciò
che sarà per tutta la modernità, che è appunto l'epoca del mondo ridotto alla sua raffigurazione. La
città antica si riteneva al centro del mondo perché collocata in un punto particolare e privilegiato
della superficie della Terra. Palazzo Vecchio, al contrario, viene pensato al centro del mondo perché
per la prima volta un palazzo contiene, vale a dire tiene strutturalmente insieme in immagine, tutta
la roba del mondo, quella celeste e quella terrestre...
Terra e mare
(da Carl Schmitt, Terra e mare [1942], Adelphi 2002)
Schiumatori del mare di ogni sorta, pirati, corsari, avventurieri dediti a traffici marittimi formano –
accanto ai cacciatori di balene e ai navigatori in genere – la colonna dei pionieri di quella elementare svolta verso il mare che si compie nel XVI e nel XVII secolo. Qui abbiamo una nuova, temeraria
specie di «figli del mare ». Fra loro ci sono nomi famosi, eroi di storie di mare e di pirati come
Francis Drake, Hawkins, Sir Walter Raleigh o Sir Henry Morgan...
In simili schiumatori del mare l’elemento marino si manifesta in maniera dirompente. La loro epoca eroica durò circa centocinquant’anni, press’a poco dal 1550 al 1713, ossia dall’inizio della lotta
delle potenze protestanti contro la potenza mondiale cattolica, la Spagna, fino alla pace di Utrecht...
Le imprese di navigazione oceanica degli inglesi iniziarono relativamente tardi e con lentezza...
Ciò nonostante alla fine furono gli inglesi a imporsi, sconfiggendo ogni rivale e ottenendo un dominio sul mondo costruito sul dominio degli oceani. L’Inghilterra... ereditò i formidabili cacciatori e
navigatori, gli esploratori e gli scopritori di tutti gli altri popoli europei... L’Inghilterra compì una
trasformazione “elementare” in un momento storico e in un modo del tutto differenti da quelli delle
precedenti potenze marittime, trasferendo cioè veramente la sua esistenza dalla terra all’elemento
del mare. Essa così vinse non soltanto molte battaglie navali e molte guerre, ma anche qualcosa di
completamente diverso e di infinitamente più importante, ossia una rivoluzione, e precisamente
una rivoluzione di immensa portata, una rivoluzione spaziale planetaria...
Una piccola isola situata al margine nord-occidentale dell’Europa diventò così, volgendo le spalle
alla terraferma e decidendosi per il mare, il centro di un impero mondiale. In un’esistenza puramente marittima trovò i mezzi per una supremazia estesa su tutta la terra...
La terra, adesso, era vista ormai soltanto dal mare, mentre l’isola si trasformò, da frammento staccatosi dal continente, in una parte del mare, in una nave, o, meglio ancora, in un pesce.
Una visione della terraferma che avvenga coerentemente dal mare, puramente marittima, è difficilmente comprensibile per un osservatore territoriale... Riferendoci al mare parliamo di «vie» marittime, anche se in questo caso vi sono soltanto linee di comunicazione, e non vie come sulla terraferma. Pensando a una nave in mare aperto la immaginiamo come un frammento di terra che solca
le acque, ossia come un «frammento galleggiante di territorio nazionale», così come la si definisce
nel diritto internazionale. Una nave da guerra ci appare come una roccaforte galleggiante, e
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un’isola quale l’Inghilterra ci sembra una fortezza circondata dal mare come da un fossato. Per
l’uomo di mare tutte queste sono solo metafore completamente false, scaturite dalla fantasia di terricoli. Una nave non è un frammento di terra galleggiante così come un pesce non è un cane che
nuota. Al contrario, colta esclusivamente dal punto di vista del mare, la terraferma è una mera costa, una spiaggia con un «entroterra». Perfino un intero paese, osservato dal mare aperto e da
un’esistenza marittima, può essere un mero relitto e un rifiuto del mare... «La Spagna non è altro
che una balena arenatasi sulla costa dell’Europa» (Edmund Burke)...
Il mondo inglese pensava in termini di punti d’appoggio e di linee di comunicazione. Ciò che per gli
altri popoli era terra e patria appariva a esso come mero entroterra. Il termine «continentale» assunse il significato secondario di «arretrato», mentre la popolazione del continente diventò backward people. Ma con ciò l’isola stessa, la metropoli di un simile impero costruito su un’esistenza
puramente marittima, si trova sradicata e «de-terrestrizzata». Come una nave o un pesce, può raggiungere via mare un’altra parte del pianeta, poiché ormai non è altro che il centro mobile di un
impero mondiale frammentariamente diffuso in tutti i continenti.
De-territorializzione
(Da John Tomlinson, Sentirsi a casa nel mondo, Feltrinelli 2001)
Ritengo che sia importante non esagerare il posto che occupa il lungo viaggio nella vita della maggior parte di contemporanei... La vita locale occupa la maggior parte del tempo e dello spazio...
Connettività significa cambiare la natura delle località, e non trasportare di tanto in tanto qualcuno
al di fuori di esse... L’esperienza paradigmatica della modernità globale, per la maggior parte delle
persone, è quella di stare in un posto vivendo comunque l’esperienza della “dis-locazione” che la
modernità globale reca loro.
Interpretare la globalizzazione in questo modo... significa comprendere come qualcuno possa perdere il posto di lavoro a causa della decisione di “ridimensionare” presa da un’azienda la cui sede
principale si trova in un altro continente, oppure comprendere come i generi alimentari che oggi
troviamo al supermercato siano radicalmente diversi da quelli di vent’anni fa, a causa della complessa interazione tra gusto cosmopolita ed economia globale dell’industria alimentare; oppure,
ancora, significa comprendere come il nostro senso dell’appartenenza culturale - dell’essere “a casa” - possa essere sottilmente trasfigurato dalla penetrazione dei media globalizzanti nel tessuto
della nostra vita quotidiana...
La trasformazione della cultura non può essere colta nella figura del viaggio, bensì nell’idea di deterritorializzazione... La connettività complessa allenta i legami tra cultura e luogo. Sotto molti
aspetti questo è un fenomeno preoccupante, in quanto comporta la simultanea penetrazione di
mondi locali da parte di forze remote, nonché il “disancoraggio” dei significati quotidiani localmente costruiti. La corporeità e la forza delle condizioni materiali mantengono la maggior parte
di noi, per la maggior parte del tempo, fissi in un luogo: un luogo che tuttavia si trasforma intorno a noi e che gradualmente, impercettibilmente, perde il potere di definire le coordinate della
nostra esistenza...
La connettività fornisce alle persone una risorsa culturale che non possedevano prima...
l’“intensificata coscienza dell’unitarietà del mondo” (Robertson)... Il “globale” diventa sempre più
l’orizzonte culturale nel quale noi (in varia misura) incastoniamo la nostra esistenza...
“La globalizzazione riguarda l’intersecarsi di presenza e assenza, l’intrecciarsi ‘a distanza’ di eventi
sociali e relazioni sociali con contesti locali” (Anthony Giddens)...
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Nella nostra esperienza quotidiana dei contesti locali manteniamo un senso di familiarità, solo che
questa familiarità non deriva più dalle “particolarità della località”. Le persone possono ancora sentirsi “a casa” nelle proprie località, ma sono in qualche modo consapevoli che si tratta di luoghi
“fantasmagorici”, tali per cui, spesso, le caratteristiche familiari non sono peculiari di questa o
quella località né parte del suo “sviluppo organico”, ma sono state “calate” in essa da forze remote.
“Il centro commerciale cittadino è un ambiente in cui il senso di benessere e sicurezza viene perfezionato dalla disposizione degli edifici e dall’attenta pianificazione degli spazi pubblici. Eppure chi
vi fa acquisti sa che quasi tutti i suoi negozi fanno parte di una catena commerciale presente in
qualsiasi città e che ovunque si trovano centri commerciali di aspetto molto simile” (Giddens).
Dunque, l’esperienza della “dislocazione” nella modernità non è un’esperienza di alienazione, bensì
di ambivalenza...
Esiste una precisa “geometria del potere” rispetto alla globalizzazione, tale per cui... “alcuni determinano flussi e movimento, altri no; alcuni ne traggono più benefici di altri; alcuni ne sono irrimediabilmente imprigionati”... la massa di coloro che subiscono l’influenza della globalizzazione senza
averne alcun controllo: dai migranti in cerca di lavoro e dagli abitanti delle favelas nel Terzo Mondo fino al “pensionato che vive in un monolocale di un quartiere urbano degradato di questo paese,
che ordina fish and chips a un take-away cinese (secondo lo stile della working class britannica),
che guarda un film americano alla televisione (di marca giapponese) e che non osa uscire di sera”
(Doreen Massey)...
Anche quei gruppi marginali per i quali “la località è il destino” hanno esperienza di una località
trasformata, nella quale il mondo più vasto penetra sempre più... Si ritrovano quotidianamente
alle prese con le trasformazioni più violente, mentre i ricchi, che possono permettersi di ritirarsi
nella pace della campagna, possono avere almeno l’impressione di vivere in una “località” protetta e immutabile...
Khalistan
(da Vincenzo Bitti, in Persone dall'Africa, a cura di P. Clemente e A. M. Sobrero, Roma 1998)
Un esempio significativo delle problematiche che entrano in gioco nell'analisi di contesti sociali attraversati da esperienze di immigrazione è il lavoro condotto dalla ricercatrice britannica Marie
Gillespie: Television, Ethnicity and Cultural Change (1995). Il focus dell'indagine riguarda il ruolo
dei media nella formazione dell'identità di un gruppo di giovani adolescenti di origine Punjabi del
quartiere londinese di Southall. Il Punjabi è una regione della penisola indiana a prevalenza etnica
Sikh, percorsa negli ultimi anni da violenti movimenti nazionalistici. Dopo l'assassinio del primo
ministro indiano Indira Gandhi nel 1984, il movimento indipendentista sikh a favore della creazione di un "Khalistan" (la mitica patria dei Sikh), è scivolato gradualmente verso il terrorismo...
Quella studiata è cultura giovanile, scolastica, nazionale; ma è anche il prodotto della disordinata
congerie di messaggi e di modelli diffusi dalle moderne tecnologie della comunicazione...
Radio e televisione, ma anche la vasta gamma dei cosiddetti personal media... Apparecchi stereofonici, videoregistratori, telefoni e fax, hanno oggi... un ruolo non trascurabile nella trasmissione e
riproduzione a distanza della cultura, anche "a distanza": macchine disseminatrici di significati...
“Diaspora” è un concetto emergente dell’antropologia contemporanea per sottolineare non tanto lo
spostamento più o meno forzoso nello spazio, quanto la consapevolezza, da parte di comunità e popolazioni immigrate, di possedere (e di volere preservare) un’identità distinta da quella del luogo di
residenza e legata in qualche modo al luogo di origine. La coscienza della diaspora implica il rico-
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noscimento da parte dell'attore sociale residente in un certo territorio di appartenere anche a un
luogo di origine lontano e diverso da quello dell’attuale residenza...
Il mantenimento di questo "rapporto a distanza" è, in molti casi, reso possibile attraverso le molteplici possibilità offerte dalla vasta gamma delle tecnologie comunicative...
L’indagine della Gillespie mette in evidenza come tra le famiglie di origine Punjabi di Southall le relazioni a distanza hanno rafforzato la coscienza della diaspora, creando una intricata rete di riferimenti oltre i confini della comunità locale del quartiere urbano e della nazione di residenza. L'esperienza di queste relazioni è attivata attraverso due modalità principali spesso intersecate e sovrapposte tra loro: 1) simbolicamente, a livello dell'immaginario, per mezzo della fruizione di film, libri
e riviste e altri prodotti culturali provenienti dalla madrepatria, ma anche soltanto continuando a
conservare alcune particolari abitudini alimentari; 2) concretamente, in forme dirette e personali,
si intrattengono relazioni con amici e parenti rimasti in India o dispersi in qualche altro luogo,
scambi di notizie attraverso lettere e telefonate, ma anche, e in maniera crescente, per mezzo di videolettere, prodotte con telecamere leggere per uso domestico; missive animate attraverso cui vengono condivise, da un capo all'altro del mondo, immagini di nascite, fidanzamenti, matrimoni e altri riti di passaggio familiari.
Questa eterogenea produzione multimediale, in parte "fatta in casa" , in parte confezionata da una
sorta di nuova industria dell'immaginario etnico, viene utilizzata per una vasta gamma di funzioni sociali che vanno dal familiare al politico. Le relazioni a distanza permettono ad alcune famiglie Punjabi
residenti a Londra di mantenere contatti con i loro congiunti rimasti in India; lontani parenti residenti in California possono familiarizzare con le modalità di vita dei loro congiunti a Southall e viceversa; ne risulta un’interessante forma di video-turismo e di scambio culturale a distanza...
Attraverso questo tipo di media si va diffondendo la propaganda del movimento Khalistan (“terra
dei puri”): la campagna per la creazione di una nazione Sikh indipendente nel Punjabi; ma anche
videocassette sulla vita dei santi sikh circolano attraverso il globo, per essere utilizzate nell'istruzione e nel culto religioso.
Nonluoghi
(Da Marc Augé, Nonluoghi, Eleuthera 1993)
Il luogo, il “luogo antropologico”, è simultaneamente principio di senso per coloro che lo abitano e
principio di intelligibilità per colui che lo osserva...
Questi luoghi... si vogliono (li si vuole) identitari, relazionali e storici. La mappa della casa, le regole
di residenza, i quartieri del villaggio, gli altari, i posti pubblici, la divisione del territorio corrispondono per ciascuno a un insieme di possibilità, prescrizioni e interdetti il cui contenuto è allo stesso
tempo spaziale e sociale...
Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né
identitario, né relazionale, né storico definirà un nonluogo... La surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici... Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene
alberghiere e le occupazioni abusive, i club vacanze, i campi profughi, le bidonville)... in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grani magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio “muto”, un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’effimero, propone
all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo...
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Le autostrade... fanno vedere paesaggi, a volte quasi aerei, molto diversi da quelli che può cogliere
il viaggiatore che percorre strade statali... Sono i testi disseminati sul percorso a enunciare il paesaggio e a spiegarne le segrete bellezze. Non si attraversano più le città, ma i punti importanti sono
segnalati dai cartelloni che recano scritti veri e propri commenti. Il viaggiatore è in qualche modo
dispensato dal fermarsi e in anche dal guardare... Il paesaggio prende le sue distanze e i suoi dettagli architettonici o naturali costituiscono l’occasione per un testo, a volte ornato da un disegno
schematico allorché il viaggiatore di passaggio non è in grado di vedere il punto importante segnalato alla sua attenzione e si trova perciò condannato a gioire per il solo fatto di saperlo vicino
Il percorso autostradale... evita, per necessità funzionale, tutti i luoghi importanti cui si avvicina,
ma li commenta. Le stazioni di servizio amplificano questa informazione e si danno sempre più un
contegno da case della cultura regionale proponendo prodotti locali, carte e guide a colui che si
fermasse. Ma, per l’appunto, la maggior parte di coloro che passano non si fermano; anche se prima o poi ripassano, ogni estate o più volte l’anno. In questo modo lo spazio astratto che sono portati regolarmente a leggere più che a guardare alla lunga diviene loro stranamente familiare
In Francia, una trentina d’anni fa le strade nazionali e provinciali e le ferrovie penetravano
nell’intimità della vita quotidiana... L’automobilista di passaggio osservava qualche cosa delle città
che oggi sono solo nomi su un itinerario...
Tutte le interpellanze provenienti dalle nostre vie di comunicazione, dai nostri centri commerciali o
dalle avanguardie del sistema bancario poste all’angolo delle nostre strade mirano simultaneamente, indifferentemente, a ciascuno di noi (“Grazie della vostra visita”, “Buon viaggio”, “Grazie per la
vostra fiducia”); non importa chi di noi: esse fabbricano “l’uomo medio”, definito come utente del
sistema stradale, commerciale e bancario. Se era l’identità degli uni e degli altri, attraverso le connivenze del linguaggio, i punti di riferimento del paesaggio, le regole non formulate del saper vivere, a costituire il “luogo antropologico”, è il nonluogo a creare l’identità condivisa dei passeggeri,
della clientela o dei guidatori della domenica. Indubbiamente, il relativo anonimato derivante da
questa identità provvisoria può anche essere avvertito come una liberazione da coloro che, per un
po’ di tempo, non devono più mantenere il proprio rango, il proprio ruolo o essere sempre presenti
a se stessi. Duty-free: appena declinata l’identità personale (quella del passaporto o della carta
d’identità), il passeggero in attesa del prossimo volo si avventa nello spazio “libero da tasse”, egli
stesso liberato dal peso dei bagagli e degli impegni della quotidianità, forse non tanto per comprare
a un prezzo più conveniente, quanto per provare la realtà della sua disponibilità del momento...
Le radio private fanno la pubblicità dei grandi magazzini; i grandi magazzini fanno quella delle radio private. Le riviste delle compagnie aeree fanno la pubblicità degli alberghi; questi fanno la pubblicità delle compagnie aeree... Tutti i consumatori di spazio si trovano così presi nell’eco e nelle
immagini di una sorta di cosmologia che, a differenza di quelle tradizionalmente studiate dagli etnologi, è oggettivamente universale nonché simultaneamente familiare e prestigiosa... Da una parte, queste immagini tendono a costituire un sistema; esse disegnano un mondo del consumo che
ogni individuo può far proprio, perché ne viene incessantemente interpellato. Qui la tentazione del
narcisismo è tanto più affascinante in quanto sembra esprimere la legge comune: fare come gli altri
per essere se stessi. D’altra parte, come tutte le cosmologie, la nuova cosmologia produce effetti di
riconoscimento. Paradosso del nonluogo: lo straniero smarrito in un paese che non conosce (lo
straniero “di passaggio”) si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere...
Nella realtà concreta del mondo attuale, i luoghi e gli spazi, i luoghi e i nonluoghi si incastrano, si
compenetrano reciprocamente. La possibilità del nonluogo non è mai assente da un qualsiasi luogo; il ritorno al luogo è il rimedio cui ricorre il frequentatore di nonluoghi (che sogna, per esempio,
una seconda casa radicata nel più profondo del territorio)...
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Il nonluogo prende in prestito le sue parole dal territorio, come sulle autostrade dove le “aree di sosta”... sono a volte designate in riferimento a qualche attributo particolare e misterioso del territorio: area del Gufo, area della Tana dei lupi, area della Conca della tormenta...
Archistar: estetica della distanza e utopia
(da Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro?, Eleuthera, 2009)
I grandi architetti sono diventati star internazionali: quando una città aspira a figurare sulla rete
mondiale, cerca di affidare a uno di loro la realizzazione di un edificio che abbia valore di monumento, di testimonianza, che ne provi la presenza al mondo, ovvero l'esistenza nella rete, nel sistema. I progetti architettonici tengono conto, in linea di principio, del contesto storico e geografico,
ma alle loro spalle piomba il consumo mondiale: la massa di turisti provenienti da tutto il mondo
che ne sanziona il successo. Il colore globale cancella il colore locale. Questo, trasformato in immagine e accessorio d'arredo, è un locale dai colori globali, un'espressione del sistema.
La grande architettura mondiale si inscrive nell'estetica contemporanea, un'estetica della distanza
che tende a farci ignorare tutti gli effetti di rottura. Le foto prese dai satelliti, le vedute aeree, ci abituano a una visione globale delle cose. Vista da lontano e dall'alto, la miseria è bella e pittoresca. Le
grandi torri di uffici o abitazioni educano lo sguardo, come hanno fatto e continuano a fare il cinema e la televisione. Le auto che corrono sull'autostrada, il decollo degli aerei sulle piste degli aeroporti, i navigatori solitari che fanno il giro del mondo a vela sotto lo sguardo dei telespettatori, ci
offrono un'immagine del mondo come ci piacerebbe che fosse. Ma questa immagine svanisce se la
osserviamo troppo da vicino e se ci impegniamo, come ci invitava Michel de Certeau, a misurare a
piedi la città, per riscoprirla nella sua intimità violenta, contrastata e contraddittoria...
Ci capita ogni tanto di avere la sensazione che i grandi artisti del nostro tempo siano gli architetti.
Sono loro che sposano il proprio tempo, ne elaborano le immagini e i simboli. I più famosi edificano singolarità ai quattro angoli del pianeta. Singolarità in duplice senso: sono opere singolari, firmate, contrassegnate dalla sigla di uno stile personale, ma anche opere che, al di là della loro giustificazione locale, sono concepite come curiosità planetarie, in grado di attrarre flussi turistici da
tutto il mondo. Nello stesso tempo l'architettura mondiale, nelle sue opere più significative, sembra
alludere a una società planetaria ancora inesistente e propone frammenti brillanti di un'utopia esplosa: una società della trasparenza che non esiste ancora da nessuna parte.
I luoghi e il corpo
(da Massimo Cacciari, La città, Pazzini, 2004)
Ma perché abbiamo bisogno di luoghi? Per qualcosa che attiene alla nostra stessa dimensione fisica
più originaria... È mai concepibile uno spazio-senza-luogo se è vero, come è vero, che 'resiste' quel
luogo assolutamente primo che è il nostro corpo?... Se siamo luogo, come potremmo non ricercare
luoghi? La filosofia del territorio post-metropolitano sembra esigere la nostra metamorfosi in pure
anime, o in pura dýnamis, energia intellettuale. E, chissà, la nostra anima è forse davvero a-oikos,
senza casa, come l'eros platonico, ma... il nostro corpo, la ragione del nostro corpo? E il nomade
stesso non ha comunque a che fare con il luogo? Passa dall'uno all'altro, non si arresta in nessuno ma conosce pur sempre luoghi. E che cosa rappresentavano i suoi grandi tappeti, se non la casa, il
luogo della sua casa, che lo seguiva dovunque e in cui essenzialmente abitava?...
Una volta che riuscissi a trasmettermi come un fax o come una e-mail, il problema sarebbe risolto.
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Se potessimo trattare il nostro corpo come un'informazione tra le altre, il problema sarebbe risolto...
L'energia che sprigiona il territorio post-metropolitano è essenzialmente de-territorializzante, antispaziale. Certo è possibile affermare che questo processo era già iniziato con la metropoli moderna,
ma soltanto oggi tende ad esprimersi nella sua compiutezza. Ogni metrica spaziale è avvertita come
un ostacolo da oltrepassare. L'idea regolativa è sempre più quella di una 'angelopoli' assolutamente
sradicata. Questa è anche l'idea regolativa, o la filosofia di base, delle tecnologie informatiche; per
esse, anzi, il superamento del vincolo spaziale non rappresenta che il primo passo verso il superamento anche di quello temporale, verso, cioè, la possibilità di una forma della comunicazione davvero compiutamente angelica (infatti, gli angeli s'intendono reciprocamente senza mediazione alcuna, nella immediatezza del semplice pensare). Una tale forma di comunicazione rende lo spazio
perfettamente indifferente e omogeneo. Esso non presenta più alcuna 'densità' particolare, alcun
'nodo' significativo...
L’“unificazione del genere umano”
(da Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, Meltemi, 2006)
Modern Times: cinquecento anni dopo i quattro viaggi di Colombo la Terra circumnavigata, disvelata, occupata e sfruttata si presenta come un corpo imprigionato in una fitta ragnatela di movimenti di traffico e routine telecomunicative. Sfere virtuali hanno sostituito un immaginario cielo di
etere; entro i centri del potere e del consumo l’oblio della distanza è stato effettivamente reso possibile grazie ai sistemi radio-elettronici. I global players vivono in un mondo senza distanza. Dal
punto di vista aeronautico la Terra è ridotta alla tratta di volo di un jet che dura un massimo di cinquanta ore; per le orbite dei satelliti e della navicella Mir, e – di recente – per le orbite della stazione spaziale internazionale ISS, le unità di tempo si sono stabilizzate intorno ai novanta minuti; per
i messaggi radio e quelli luminosi la Terra si è ridotta quasi a un punto fermo – ruota come una sfera temporalmente compatta all’interno di una fitta trama elettronica che la circonda come una seconda atmosfera...
Ciò che è stato messo in moto dal XVI secolo è stato perfezionato dal XX: nessun punto della superficie terrestre, una volta che il denaro vi ha fatto sosta, potrebbe sottrarsi al destino di divenire
un’ubicazione: e un’ubicazione non è un punto cieco in un campo ma piuttosto un luogo da cui si
vede di essere visti. La “rivoluzione” della liquidità avanza, le maree salgono... tutte le città sono diventate porti, poiché dove le città non sono andate al mare, sono i mari a essere venuti alla città...
La super merce dell’informazione non giunge al destinatario tramite delle high ways – come suggeriva una metafora errata dei primordi del discorso sulla rete – bensì a opera di flussi in quello
che, più a ragione, ha preso il nome di oceano dei dati...
Anche se fino a poco tempo fa le popolazioni disseminate sulla sua endosfera erano esistite come
stelle separate, nascoste a ciò che stava fuori entro clausure linguistiche, immunizzate dalla non
conoscenza dell’Altro e ammaliate dalla propria fama e dalla propria miseria, esse vengono obbligate dalla “rivoluzione” del Moderno... ad ammettere di vivere tutte su uno e un solo pianeta...
Non bisogna sorprendersi se con il procedere della connessione in rete si mostrano crescenti segni
di misantropia... una risposta naturale a un vicinato indesiderato...
Ciò che fino a pochissimo tempo fa caratterizzava “per natura” e senza eccezioni “tutti gli esseri
umani” era la loro comune tendenza a ignorare la stragrande maggioranza degli esseri umani che si
trovavano al di fuori del loro contenitore etico... Tra gli effetti mentali “della globalizzazione” spicca
che essa ha elevato a norma ciò che è più improbabile dal punto di vista antropologico, il fare co-
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stantemente i conti con un Altro lontano, con un concorrente invisibile, con qualcosa di estraneo al
proprio contenitore...
“L’essere umano” e “l’umanità” si danno soltanto una volta che, dopo secoli di unilaterali viaggi di
andata degli europei verso gli altri, l’orizzonte antropologico viene dischiuso all’Altro come un
plenum di popoli e di culture – un movimento che di recente è bilanciato e complicato da un crescente traffico in senso contrario...
L’“umanità” non si costituisce assolutamente attraverso la libido tesa a costruire un’unione totale...
Piuttosto la riunione antropologica risulta dai vincoli coercitivi del colonialismo e, dopo la loro dissoluzione, dalla necessitante interconnessione che si afferma con il traffico fisico delle merci, il sistema di credito, gli investimenti, il turismo, l’esportazione di cultura, gli scambi scientifici, gli interventi armati di “polizia internazionale” e l’allargamento delle norme ecologiche. Le pretese
dell’attuale seconda ecumene non si palesano tanto nel fatto che gli esseri umani debbano ovunque
ammettere che gli uomini di un altro luogo siano loro pari (benché sia considerevole il numero di
coloro che lo negano apertamente o segretamente), quanto nel dover essi sopportare una crescente
pressione alla cooperazione, la quale, in considerazione dei rischi comuni e delle minacce estese a
livello internazionale, li condensa in una comunità auto-coercitiva...
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