balbo (torino 1789-1853)

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IL FEDERALISMO RISORGIMENTALE
Durante il Risorgimento italiano le idee federaliste furono rappresentate da
correnti importanti ma non vincenti. Molti pensatori vedevano in un’organizzazione
federale lo sbocco del processo di unitá nazionale. La prospettiva di un accordo
federale, che rispettasse le vecchie autonomie, poteva calmare i dissidi regionali. In
ambito moderato prevaleva una concezione del federalismo come somma degli Stati
esistenti: il pontefice, secondo Vincenzo Gioberti, o il monarca piemontese, secondo
Cesare Balbo, avrebbero dovuto esser posti a capo di una lega federale fra gli Stati
italiani. Al pieno rispetto dell’autonomia e della differenza degli Stati regionali
preunitari in senso democratico e repubblicano si indirizzava invece il federalismo di
Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. Di fatto, peró, il nuovo Stato unitario costituito
sotto la monarchia sabauda si caratterizzó per il forte centralismo, provocando le
aspre polemiche sulla “piemontesizzazione” dell’Italia.
Anche altri pensarono progetti federalisti, come l’Anonimo Lombardo, che
consigliava la formazione di tre regni: il primo, col Piemonte, il Lombardo-Veneto e
Parma, Torino residenza della corte e Milano sede del congresso nazionale; il secondo,
con la Toscana, Modena e lo Stato pontificio, Firenze sede del principe e Bologna del
congresso; il terzo, con Napoli sede del sovrano e Palermo del congresso. Roma, città
libera, sarebbe restata al pontefice sotto la protezione dei tre sovrani. Uno statuto
uniforme e una lega doganale avrebbero dovuto stringere i tre regni.
Di questa soprattutto parlarono anche gli scienziati, che si riunivano in
congressi dalle varie parti d’Italia in quegli anni.
1.VINCENZO GIOBERTI (TORINO 1801-PARIGI 1852) E CESARE
BALBO (TORINO 1789-1853)
«Il supporre che l’Italia, divisa com’è da tanti secoli, possa pacificamente ridursi sotto il
potere d’un solo, è demenza […] All’incontro l’idea dell’unitá federativa, non che esser nuova agli
Italiani, è antichissima nel loro paese, e connaturata al loro genio, ai costumi, alle instituzioni, alle
stesse condizioni geografiche della penisola» 1.
Il tema della confederazione risulta nel pensiero di Gioberti sostanzialmente
posto nello scambio di lettere con Terenzio Mamiani della Rovere e Giuseppe Massari
nel 1840-41. In polemica con i mazziniani, Gioberti considera la parola d’ordine
dell’”unitá” mera utopia e vi oppone il principio piú realistico dell’”unione”, perché «il
popolo italiano è un desiderio non un fatto, un germe non una pianta; ma i principi
1
Gioberti, Del primato morale e civile degli Italiani.
italiani sono una cosa reale»2. La soluzione del problema italiano è cosí individuata
nella confederazione di quattro Stati (Roma, Toscana, Piemonte e Napoli), nella
concessione degli statuti e nella cacciata dello straniero. La lega o confederazione
italica è considerata da Gioberti il «primo passo verso l’unitá nazionale», che presentó
nello scritto Del primato morale e civile degli Italiani (1843), concependo, diversamente da
Cattaneo e Ferrari, quel progetto politico di cui mancavano i moderati. Il programma
giobertiano prevedeva una confederazione tra i príncipi italiani, con a capo il pontefice
e col presidio della forza militare del Piemonte, «la provincia guerriera d’Italia». Tale
confederazione avrebbe accresciuto la forza e la potenza dei vari Principi, senza
nuocere alla loro indipendenza.
Il “risorgimento” non consisteva per Gioberti nella creazione di una civiltá
nuova, bensí nel ritrovamento di una civiltá remota, quella dei Comuni e dei grandi
pontefici, nel riannodarsi del filo della storia nazionale al punto in cui le invasioni del
secolo XVI lo avevano spezzato. Un “risorgimento” senza rivoluzioni, congiure,
spargimento di sangue, con il pieno accordo del Papato e dei príncipi. Il Papa avrebbe
rappresentato un’autoritá super partes, conferendo quell’ideale unitá cattolica, che
poteva risultare l’unica possibile o la piú efficace a fronte delle rivalitá, divisioni e
diffidenze regionali. Il progetto rimaneva utopistico, di fronte a Gregorio XVI e
suscitava la diffidenza anche dei cattolici liberali, poco convinti delle capacitá di
rigenerazione del Papato, e delle correnti laiche, che guardavano con sospetto un
progetto che affidava alla Chiesa, estranea ed ostile alla cultura del tempo, una
complessa missione civilizzatrice.
L’importanza della storia è accentuata nel pensiero di Cesare Balbo, che uní
gli studi storico-politici a incarichi effettivi di governo, prima durante l’impero
napoleonico, poi impegnato e perseguitato durante i moti, fino alla presidenza del
primo ministero costituzionale del regno di Sardegna. La politica è per Balbo legata
strettamente alla storia, in quanto ogni nazione deve conoscere bene sé stessa, le
proprie caratteristiche e la propria essenza formatesi lungo il corso dei secoli, per
valutare le possibilitá che possiede, perseguire una coerente azione politica e costruirsi
un avvenire. Egli ritiene l’Europa caratterizzata dal cristianesimo, che le aveva dato
fisionomia unitaria e ogni nazione aveva una missione particolare da realizzare.
L’Italia, che aveva giá diffuso con Roma il cristianesimo, aveva convertito i barbari e
civilizzato gli invasori del Cinquecento, era destinata, poiché accoglieva la sede papale
ed era al centro del Mediterraneo, ad essere promotrice e custode dell’unione fra gli
stati cristiani, senza peró rivendicare vecchi primati ormai superati, ma in condizioni di
uguaglianza con le altre nazioni. Questa missione doveva essere svolta in condizioni di
libertá, requisito essenziale della civiltá, quindi l’Italia doveva riacquistare la propria
indipendenza, motivo che ritorna in tutte le opere di Balbo. Nello scritto Speranze
d’Italia (1844), d’ispirazione decisamente moderata, propose per il programma
giobertiano un correttivo: l’esclusione del pontefice dalla presidenza dell’eventuale
coalizione di stati, che come tutto il Risorgimento nazionale avrebbe dovuto trovare
2
Gioberti, Epistolario, 163.
nel Piemonte il proprio fulcro e nell’espansione dell’Austria nella penisola balcanica la
propria soluzione.
L’eco maggiore nell’opinione pubblica italiana l’ebbe comunque Il Primato, che
suscitó larghi consensi, ma anche profondi dissensi. Da sinistra lo attaccarono laici e
democratici tacciandolo di clericale e reazionario, da destra i Gesuiti. In risposta alle
critiche, Gioberti scrisse il saggio Prolegomeni del Primato, pubblicato a Bruxelles nel
1845. In esso, distinguendo nel suo programma il fondamentale dall’accessorio,
Gioberti presenta come essenziale solo la lega, la confederazione italica; ma l’equilibrio
di essa non poggia piú, come aveva affermato nel Primato, sul pontefice, né sui
príncipi, né sul clero: il genio mediatore della confederazione sará l’opinione pubblica,
che «oggi è vera regina degli Stati e signora del mondo». Essa coincideva
sostanzialmente con il ceto medio, la borghesia, accanto alla quale Gioberti colloca gli
intellettuali e il partito cattolico moderno, capace di organizzare gli “intellettuali
dialettici” e l’intero ceto medio.
Risultato notevole dei Prolegomeni fu la rottura dello schieramento dei
conservatori: parte dei cattolici e del clero era stata attirata dal Primato agli ideali
patriottici e liberali, con l’attacco dei Prolegomeni alle forze retrive della Chiesa, l’abate
guadagnó la simpatia degli ambienti laici, favorevoli ad un programma di graduali
riforme. Si delineava un’area moderata dove ai ristretti gruppi degli intellettuali che
avevano iniziato la battaglia per l’unitá economica, si univano strati piú larghi delle
classi dirigenti che avanzavano prospettive dichiaratamente nazionali. La mobilitazione
delle forze del Centro appariva cosí piú ampia di quella ottenuta dalla propaganda
mazzianiana e preludeva alla politica di Cavour.
La visione di Gioberti poteva trovare nuovo senso a seguito della suggestione
collettiva suscitata dall’elezione di Giovanni Mastai Ferretti il 6 giugno 1846, in fama
di liberale. Pio IX, trascinato dalla logica segreta della rivoluzione a farsi iniziatore di
una lega doganale, che avrebbe naturalmente preluso ad una lega politica, segnó un
trattato doganale con Firenze e Torino, insieme ad altre riforme. Gli altri Stati
emularono l’atteggiamento del pontefice, anche costretti per far fronte all’incessante
pressione popolare. Anche i giornali enfatizzarono questa rinnovata vena politica
liberale, riformatrice, antiaustriaca, trovando spazio per l’idea federale, come il
Salvagnoli che nella Patria propugnava l’accordo della libertá col principato e quindi
una lega di principi per la difesa dell’indipendenza italiana. I moti del ’48 misero
tuttavia da parte la questione italiana, la costituzione di Napoli scrolló tutti i principati
italiani e il contagio rivoluzionario ne rinnovó le divergenze. Questa commistione di
rivoluzione politica e lotta indipendentista contribuí efficacemente a distogliere i
principi e lo stesso Papa dall’impegno nazionale, preoccupati della piega repubblicana
che i moti costituzionali avevano preso. Fu proprio Pio IX a decretare l’equivoco
neoguelfo e ad avere parte importante nella fine del sogno federalista, quando
nell’aprile 1848 dichiaró la propria impossibilitá a partecipare alla guerra nazionale, in
quanto pastore di tutta la Cristianitá, facendo retrocedere dagli impegni bellici anche i
giá diffidenti Leopoldo e Ferdinando, segnando il passaggio da una parentesi
“federalista” della guerra d’indipendenza alla sola “guerra regia”.
Tra il ’49 e il ’51 Gioberti lavorava all’opera Del Rinnovamento civile d’Italia, ove
affermava ancora: «libertá, confederazione, concordia sono dunque le tre leggi del
risorgimento italico, derivanti dalle note specifiche della spontaneitá, italianitá e
moderazione»3.
2. CARLO CATTANEO (MILANO 1801 – CASTAGNOLA, L UGANO,
1869) E GIUSEPPE FERRARI (MILANO 1811-ROMA 1876)
Dopo la soppressione del “Conciliatore (1819), divennero portavoce dei gruppi
avanzati della societá lombarda gli “Annali Universali di Statistica” (1824), rivista
diretta dal 1827 da Gian Domenico Romagnosi, filosofo del diritto che era stato
“patriota”. Intorno alla rivista si raccolsero molti giovani intellettuali, quali Carlo
Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Cesare Correnti. Grazie alla loro collaborazione essa
divenne un centro di orientamento e direzione politica, l’organo del gruppo che fu poi
chiamato dei “liberali radicali” o “federalisti”. L’opera degli “Annali” fu continuata, tra
il 1839 e il 1844, dal “Politecnico”, rivista mensile «di studi applicati alla prosperitá ed
alla cultura sociale», fondata da Cattaneo e da lui quasi interamente scritta. Questi, con
Ferrari, perseguiva una concezione politica realista, intendendo fondarsi «su ció che
esiste» e procedere per via di graduale evoluzione seguendo un programma di riforme.
Contro l’idea moderata di liquidare il dominio straniero e operare un riordinamento
governativo monarchico costituzionale; contro la lotta di liberazione politica e sociale,
destinata ad impegnare astrattamente soprattutto la coscienza e le intelligenze,
Cattaneo e Ferrari consideravano la libertá “valore primario”, concependo il
federalismo come l’unico modo per evitare i pericoli dello Stato accentratore e per
salvare l’unitá con la libertá: «solo il federalismo repubblicano – ripeteva Cattaneo –
assicura l’iniziativa popolare e le libertá locali e individuali: solo al modo della Svizzera
e degli Stati Uniti si puó accoppiare unitá e libertá; il popolo per conservare la libertá
deve tenerci sopra le mani».
Il momento genetico della libertá, caratteristica principale della quale è il
procedere spontaneamente dal basso, è riconosciuto da Cattaneo e Ferrari nella storia
italiana nell’etá comunale, nella lotta per la conquista dell’autogoverno cittadino, che si
consolidó con la civiltá del Rinascimento ma, non potendosi realizzare interamente sul
suolo della penisola, passó in Germania con la Riforma e in Francia con la
Rivoluzione del 1789. Compito della storia successiva sarebbe stato promuovere
l’unitá civile di tutte le patrie, «l’associazione internazionale delle intelligenze», in un
ambito che per Cattaneo si delinea come quello degli Stati Uniti d’Europa, per Ferrari
in una comunitá internazionale socialista.
3
Gioberti, Del Rinnovamento civile d’Italia, 8.
2.1. CATTANEO
«Uomini frivoli, dimentichi della piccolezza degli interessi che li fanno parlare, credono valga
per tutta confutazione del principio federale andar ripetendo che è il sistema delle vecchie
repubblichette. Risponderemo ridendo, e additando loro al di lá d’un Oceano l’immensa America»4.
Cattaneo fu, nel periodo risorgimentale, il maggiore sostenitore della
concezione federalistica dell’unitá italiana, anche se, come è stato osservato da Bobbio,
non dedicó al federalismo «null’altro che pagine frammentarie e incomplete
frammezzo alla mole davvero gigantesca della sua opera di scrittore» 5. Da queste
emerge tuttavia una riflessione unitaria, che coniuga premesse teoriche concernenti la
natura della societá umana e dello Stato, lo studio storico e geografico dell’Italia, le
idee economiche dell’autore.
Il federalismo da lui auspicato era non solo a suo parere un disegno politico di
indiscutibile opportunitá, ma il frutto della storia e della geografia italiana, in una
concezione che superarava il caso italiano: «è la questione del secolo; è per la prima
volta al mondo una questione di tutto il genere umano: - o l’ideale asiatico, o l’ideale
americano: aut aut».
Nel contesto del pensiero politico piú generale di Cattaneo il federalismo è lo
strumento politico-istituzionale che permette alle convivenze umane più complesse di
articolarsi in forme tali da ridurre gli inevitabili attriti e i necessari contrasti tra gli
uomini, le classi e i paesi a un limite di fisiologica tollerabilitá, di civile competizione,
liberatrice e suscitatrice di tutte le energie sociali e individuali, evitando il ricorso alla
forza e all’autoritarismo. Infatti, secondo quanto Cattaneo osserva nelle Considerazioni
sul principio della filosofia, «le nazioni civili racchiudono in sé vari principi, ognuno dei
quali aspira a invadere tutto lo Stato, e modellarlo in esclusivo sistema», sicché
«l’istoria è l’eterno contrasto fra i diversi principi che tendono ad assorbire e
uniformare la nazione». Codesti principi sono identificati da Cattaneo con le
formazioni concrete in cui si articola la societá nella sua triplice dimensione di sistema
economico, sistema giuridico-istituzionale e campo della vita culturale e morale.
Qualunque sistema perpetuo e universale, anche se pacifico e repubblicano,
farebbe piombare in un abisso d’inerzia e viltá, petrefatti «senza emulazioni e senza
contrasti, senza timori e senza speranze, senza istoria e senza cosa alcuna che d’istoria
fosse degna».
Movimento e pluralitá sono dunque le forze vivificatrici della societá umana,
che è tanto piú umana quanto piú è in essa di quei due elementi. L’antitesi tra civiltá e
barbarie è tutta qui, e con essa va congiunta la sorte dell’individuo e dei popoli.
L’Europa e l’Asia sono diventate sinonimi l’una di civiltá e l’altra di barbarie proprio
perché il moto e la pluralitá, presenti nella prima, sono ridotti al minimo nella seconda.
Lo Stato, secondo Cattaneo, viene a essere l’istituzione prima e maggiore che
consente ai molti elementi della vita sociale di estrinsecarsi, di giocare la propria partita
e «la formula suprema del buon governo e della civiltá è quella in cui nessuna delle
dimande nell’esito suo soverchia le altre, e nessuna è del tutto negata».
4
5
Cattaneo, Antologia, 162.
Ibi, 7.
Anche in questo senso, differentemente da Ferrari, Cattaneo non fu sedotto
dalle correnti socialiste; sembrandogli inoltre la contrapposizione rigida e schematica
tra capitalisti e lavoratori «piú apparente che reale», non ritenendo una «calamitá se il
capitale apparentemente sia separato dal lavoro», prefigurando un’«azienda simile a
quella di corpi morali, dove cesserá lo stimolo e l’emulazione di ogni individuo che fa
per sé, e sí facendo, produce meglio per la societá».
Per ció che riguarda il pensiero italiano del primo Ottocento, Cattaneo fu
l’unico ad avanzare un’analisi concreta dei rapporti economici e sociali vigenti in Italia,
con particolare attenzione alla Lombardia, prefigurando dalla congiunzione del
capitale formatosi nei commerci con l’agricoltura l’industrializzazione lombarda e delle
regioni italiane, e dall’unione di queste con la Lombardia il loro inserimento nell’area
della piú progredita civiltá moderna, ovvero lo spazio che abbracciando gli Stati Uniti
d’America e i maggiori paesi dell’Europa Occidentale, forma «un mondo unico, con
punte di ricchezza e di miseria, ma non appartenenti a sfere diverse, la cui
ineguaglianza crei interessi contrastanti o esperienze incomunicabili».
Nel pensiero di Cattaneo la strada seguita dalla Lombardia acquista valore di
esempio: «sta ad indicare una via di sviluppi regionali autonomi, non forzata»
(Cafagna). Per l’autore, a tutti i livelli, valore primario è la libertá, cui nazionalitá e
indipendenza nazionale sono pertanto subordinati. Il federalismo rappresenta dunque
l’istituzione sufficiente e necessaria perché la libertá «alligni e si conservi»6. Sue cellule
sono i comuni, che traducono in istituzione un bisogno e moto spontaneo dell’uomo,
che ricerca la “vita vicinale” e le “convenienze” di essa, perció congrega la propria
famiglia con quelle piú prossime. Essi «sono la nazione nel piú intimo asilo della sua
libertá».
Lasciati alla loro libera vita, i comuni maturano spontaneamente quelle
solidarietá intercomunali ispirate dalla geografia, dalla storia, dall’economia, dalle tante
forme ed esperienze della vita. I piú «vedono nel mondo gli individui, poi le famiglie,
ed è gran ventura; poi vedono anche il comune […]. Poi chiudono gli occhi per tutti
gli altri internodi e ricapiti dell’umana societá; balzano d’un tratto alla nazione, ch’è
quanto dire, alla lingua» 7. Ma se ogni popolo puó avere molti interessi da trattare in
comune con altri popoli, «vi sono interessi che puó trattare egli solo, perché egli solo
sente [e] intende. E v’è inoltre in ogni popolo anche la coscienza del suo essere, anche
la superbia del suo nome, anche la gelosia dell’avita sua terra. Di lá il diritto federale,
ossia il diritto dei popoli; il quale debbe avere il suo luogo, accanto al diritto della
nazione, accanto al diritto dell’umanitá»8. Tale diritto si realizza nel cedere a istituzioni
politiche superiori quella sola parte di potere utile per la migliore funzionalitá della vita
sociale e trattenere tutti gli altri poteri, amministrandoli nell’ambito delle circoscrizioni
che sono nate dalla storia ed hanno in essa la loro patente di legittimitá: «i confini delle
giurisdizioni, quali li fece la lunga serie degli eventi, rappresentano da lungi una
diversitá d’origini felicemente obliterate dalla lingua comune; e rappresentano
dappresso la varietá delle legislazioni, dei costumi, dei dialetti, e l’abitudine di moversi
Ibi, 20.
Ibi, 21.
8 Ibi, 161-162.
6
7
intorno a certi nodi naturali di commercio». Le provincie «sono da secoli aggruppate
in sistemi legislativi, sovra principii capitalmente diversi, rappresentanti nei singoli Stati
della penisola e nelle tre isole ordini molto diversi di civiltá» 9. Le provincie «esistono; e
l’accentramento non esiste» 10. Esso «non potrebbe intrudere, in quel complesso di
provincie che da secoli costituisce uno Stato, un nuovo modo di ereditare e di
possedere e di contrattare e di vivere nella famiglia e nel commune; né senza gravi
danni e turbamenti e sdegni»11.
Il mantenimento di antichi ordini territoriali non impedisce l’unitá nazionale,
che per Cattaneo ha la sua massima manifestazione nell’unitá linguistica. Ma non si
tratta soltanto di rispettare tradizioni storiche, antichi confini, differenze organizzative
e giurisdizionali, utilitá divergenti. Necessaria per l’affermazione di quel valore
primario che è la libertá è la pluralitá dei poteri e la massima partecipazione popolare
possibile: «la libertá è una pianta di molte radici»12. In proposito Cattaneo distingue
accuratamente autonomia garantita dagli ordinamenti federali e mero decentramento
amministrativo, che non significa altro che dislocazione dell’unico potere centrale in
piú sedi. Cosí mostra la storia, con «l’esempio della Francia e della Spagna, a cui la
libertá sanguinosamente conquistata sfugge eternamente di mano, per mezzo delle
immani forze accumulate in mano ai governi, mentre viceversa nella Svizzera e
nell’America, ove ogni singolo popolo tenne ferma in pugno la sua padronanza, la
libertá, dopo un primo acquisto, non andó piú perduta»13. Si trattava «di coordinare la
vera e attual vita legislativa degli Stati italiani a un principio di progresso co mmune e
nazionale»14.
Prima del 1848 Cattaneo sperava che l’Impero asburgico, sotto la pressione
dei sentimenti nazionali di tutti i suoi popoli, si trasformasse in una federazione di
Stati liberi ed eguali. In questa federazione il Lombardo-Veneto, per la sua piú alta
civiltá, avrebbe avuto una sicura preponderanza e nulla gli avrebbe impedito, quando
avesse voluto, di staccarsi dalla federazione austriaca e di associarsi alla federazione
degli Stati italiani. Egli intendeva dunque il federalismo come una tecnica per
l’organizzazione della democrazia su vasti spazi e per il decentramento del potere
politico, criticando serratamente lo Stato uscito dalla rivoluzione francese, giudicato
illiberale a causa della sua struttura rigidamente unitaria e fortemente accentrata.
Dopo il ’48 Cattaneo «non sperava e non desiderava piú per l’Austria una
riforma federale: il Lombardo-Veneto, oramai, doveva staccarsi ad ogni costo e del
tutto dall’Impero degli Asburgo […]. Avrebbe voluto che ciascuno degli Stati italiani si
conquistasse il proprio regime rappresentativo, come aveva fatto oramai il Piemonte;
via via che si rinnovavano, i singoli Stati dovevano confederarsi con patto di
solidarietá perpetua contro ogni pericolo esterno, e aspettare qualunque circostanza di
politica internazionale o una nuova crisi delle nazionalitá in Austria per aiutare i
Ibi, 163.
Ibi, 167.
11 Ibidem.
12 Ibi, 80.
13 Ibi, 160.
14 Ibi, 167.
9
10
Lombardo-Veneti a liberarsi dal dominio straniero ed entrare anche essi nella
federazione italiana; ciascuno Stato doveva cedere alla federazione quel tanto di
sovranitá locale, che fosse necessario per assicurare la soliditá del nodo nazionale; ma
per le riforme interne di ciascuno Stato occorreva dar tempo al tempo: le iniziative
spontanee delle regioni piú civili sarebbero state di esempio e di sprone alle regioni
ritardatarie, senza che la lentezza di queste potesse paralizzare il cammino delle piú
civili» (Salvemini).
Negli anni Cinquanta, fino all’unitá italiana, Cattaneo rimase vicino ai
mazziniani sia riguardo l’unione di tutti gli italiani in un solo Stato, sia riguardo
l’ordinamento repubblicano; ma rimaneva altresí fermo e in disaccordo a proposito
dell’ordinamento federale: «il federalismo è la teorica della libertá, l’unica possibil
teorica della libertá, anche quando non è voluto da diversitá di razze, di lingua, di religione». In
particolare, poi, «in un paese di popoli cosí diversamente educati, è possibile dare
anche a dieci Stati un solo principe o una sola presidenza o altra qualunque
rappresentanza unica in faccia all’estero; ma all’interno bisogna rispettare le istituzioni
d’ogni popolo, ed anche la sua vanitá». Perció affermava che «quando i mazziniani
fanno evviva all’unitá bisogna rispondere facendo evviva alli Stati Uniti d’Italia 15. In
questa formola, la sola che sia compatibile colla libertá e coll’Italia, vi è la teoria e vi è
la pratica». E sosteneva che «quanto meno grandi e meno ambiziose saranno di tal
modo le repubblichette, tanto piú saldo e forte sará il repubblicone, foss’egli pur vasto, non
solo quanto l’Italia, ma quanto l’immensa America».
Dopo il 1859 Cattaneo elaboró piú approfonditamente la propria visione
democratica e repubblicana del futuro dell’Italia, basata su un federalismo che
rispettasse il ruolo delle autonomie locali e delle diverse esperienze regionali presenti
nella tradizione italiana. La sua concezione politica e anche economica rimase ispirata
a un sostanziale liberismo; l’egalitarismo giacobino, la petizione socialista, anche
alcune preoccupazioni mazziniane non rientrarono, se non incidentalmente, nel suo
orizzonte di pensiero.
Le sue idee non gli consentirono di accettare la soluzione unitaria del
Risorgimento maturata tra il 1859 e il 1861, anche se dell’indipendenza cosí
guadagnata non poté che compiacersi. Nel 1867 venne eletto deputato al Parlamento
nazionale, ma non entró mai alla Camera per non prestare il giuramento monarchico.
2.2. FERRARI
«Gli stati a piú centri popolosi, gli stati situati su vaste estensioni di territorio, dove il corso
dei fiumi e dei monti intercettando la libera azione di una sola metropoli, ne crea parecchie di forze
equivalenti, sono federali, hanno capitali moltiplici, a seconda della popolazione e della ricchezza, e si
riuniscono col mezzo di una dieta, spesso nomade, e mancando l’uniformitá imposta dall’alto, la
libertá regna sola con moto che parte dal basso»16.
«Diciamo Stati e non regioni; perché dobbiamo mirare al complessivo delle leggi e consuetudini legali,
per cui tutto il modo di possedere la terra e di coltivarla e di goderla e di tassarla è radicalmente e
interamente diverso». Ibi, 171.
16 Ferrari, Scritti politici, 196.
15
Dottore all’universitá di Parigi e professore all’universitá di Strasburgo, poi
esonerato per le sue convinzioni socialiste, partecipó alla rivoluzione parigina del
febbraio 1848 e si recó nel marzo a Milano. Se Cattaneo aveva criticato l’errore di
trasformare il Risorgimento in questione di guerra contro lo straniero, Ferrari
considerava base indispensabile dell’emanciapzione nazionale il «rinnovare il patto
sociale in ogni stato», in quanto “barbaro” piú dell’austriaco è il prete, il barone, il
possidente. In Machiavel juge des révolutions de notre temps, scritto tra la fine del 1848 e
l’inizio del ’49, unisce all’opposizione totale al giobertismo una critica di fondo alla
teoria dell’unità del mazzinianesimo: la rivoluzione avrebbe dovuto avere tanti centri
quante erano le capitali degli stati italiani, demandando alle singole assemblee, tra
l’altro, le questioni territoriali. L’opportunitá federale è mostrata dalla difficoltá italiana
di stabilire una capitale, dal prevalere della tendenza al decentramento amministrativo,
«a causa dell’impossibilitá di mantenere il predominio di un centro su altri centri
ugualmente popolosi». Il dottrinarismo sociale, il radicalismo repubblicano e
anticlericale conducono Ferrari e gli altri federalisti a lui vicini a congiungere
strettamente la causa repubblicana e federale con l’affermazione del principio
rivoluzionario. La repubblica federale «rappresenta la rivoluzione italiana; rappresenta
adunque la guerra contro il papa, contro l’imperatore, contro i re ed i principi;
rappresenta l’Italia insurta contro l’Europa cristiana» 17.
Secondo Ferrari, «il discentrare e dettar leggi uniformi ad ogni cittá, il
discentrare e proporre capitali ad imitazione dell’antica Roma, il discentrare e
l’affannarsi per l’unificazione dei codici, delle leggi finanziarie, d’ogni regolamento, il
discentrare, in una parola, e il volere che tutto parta da un centro con unica norma,
conduce alla negazione d’ogni idea politica ed amministrativa» 18.
«Il parlamento per cinque anni […] è stato unitario, ha decretate leggi, finanze,
amministrazioni unitarie; ha tutto sagrificato all’unitá […]. Ma la sua unitá ha
cominciato, si è svolta e si è fermata nel mondo morale; nessuna cittá ha ceduto
all’altra una statua, un manoscritto. Milano prosperó come Palermo, Napoli piú di
Torino, e Firenze è decretata capitale provvisoria e mobile, astrazione fatta da Roma,
in guisa che il regno riveste oramai i due caratteri poco unitarii della capitale mobile e
dell’unitá esclusivamente morale, e trovasi in contradizione con sé stesso copiando la
Francia e vivendo come la Svizzera»19.
3. EPILOGO
Ferrari e Gioberti rappresentano un’antitesi. Ferrari, spirito critico, critica tenacemente
il centralismo romano e il piemontesismo, invece Gioberti prima concepisce il
pontefice capo della federazione italiana poi ravvisa nel Piemonte «la stanza principale
della milizia italiana» 20. Cattaneo s’innesta piú solidamente in un realismo storico, che
Ibi, 182.
Ibi, 197.
19 Ibi, 202.
20 Gioberti, Del primato.
17
18
riconosce negli Stati Uniti americani il proprio modello, pur risultando anche la sua
prospettiva mancante di agganci reali con le forze effettive del paese. Comunque
l’interesse per la libertá e l’affermazione dell’impossibilitá almeno contingente di
superare completamente il particolarismo storico italiano sono gli aspetti che forse
piú di altri accomunano gli esponenti del pensiero federalista, seppure li intendessero
in modi diversi. Quello che cercavano era una forza trainante l’emancipazione d’Italia,
fossero i principi, il socialismo, i Savoia, il Papa.
«Che la soluzione unitaria sia prevalsa a conclusione del movimento nazionale italiano
potrebbe legittimamente essere giudicato un paradosso»21; di federazione unitaria si
continuó a parlare fino al 1860, ma è noto come anche coloro che al 1848 erano
arrivati con radicate convinzioni federalistiche non ci misero molto ad orientarsi verso
altre posizioni all’indomani di Novara. In effetti, si puó pensare che la posizione
federalista fosse un espediente per accomunare regionalismi da sempre rivali e poco
compatibili, problema che la soluzione unitaria ereditó e stentó a risolvere; nonostante
possa risultare anche onesta la convinzione dei teorici di quelle dottrine, come
testimonia il fervore del quale molte loro pagine sono intrise. In particolare
l’intransigenza repubblicana, rispetto alla quale soprattutto per Cattaneo puó darsi che
le esperienze del 1848-’49 abbiano segnato un punto di arrivo, che si rivelerá in
seguito saldissimo e irrinunciabile per caratterizzare la sinistra federalista (Ferrari,
Montanelli, De Boni, Maestri). In questo senso, il federalismo va ad alimentare «un
tentativo di impostare in maniera nuova la questione rivoluzionaria italiana»22 e anche
per questo, come si rilevava, incontra presso i príncipi piú diffidenza che adesione.
Anche all’interno del gruppo federalista, unitá e omogeneitá restano lontane dal
realizzarsi, fin dalle questioni piú sottili, come quella se fosse preferibile l’espressione
“federazione repubblicana” o “unione federale”; ovvero se si dovessero mantenere gli
Stati storici italiani e stringerli nel vincolo federale, o fosse da auspicare una loro
dissoluzione, come pensava Cattaneo, «per restituire a pienezza di vita le patrie
singolari, soffocate da vincoli innaturali» 23 e costituite dai piú antichi nuclei comunali e
provinciali esistenti nel paese. D’altro canto diversi erano i punti di riferimento, come
la Francia per Ferrari e le realtá svizzere e americane per Cattaneo. In ultima analisi,
«l’idea repubblicana di Cattaneo sembra risalire inconsciamente indietro nel tempo
sino alla formulazione montesquieuiana della repubblica come regime retto del
principio della virtú; quella degli altri è l’idea della “repubblica sociale” come regime
che realizza insieme giustizia e libertá» 24. Rimanevano uniti dall’ideale repubblicano e
in questo senso furono i veri vinti del moto risorgimentale, mentre i federalisti non
repubblicani, egualmente perdenti sul punto del federalismo, videro peró affermarsi le
loro istanze moderate.
In uno scritto pubblicato alla macchia a Napoli nel 1867, con il titolo La
situazione, M.Bakunin accomuna tutte le correnti ideali e politiche del Risorgimento
nella responsabilitá d’un generale fallimento, coronato dalle classi politiche della
Galasso, Da Mazzini a Salvemini, 177.
Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana, 120.
23 Ibi, 247.
24 Galasso, 200.
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22
Destra parlamentare, «il partito che in nome dell’unitá, della grandezza, della potenza
della nazione monopolizza la cosa pubblica» e della Sinistra, «complemento morale
della Destra». La nuova filosofia materialista propone un programma di rivoluzione
sociale, d’integrale liberazione dell’uomo nell’Ateismo, nel Federalismo e nel
Socialismo.
Michele Cataluddi
Dottore di ricerca in Filosofia
Università Gregoriana di Roma e
professore di storia e filosofia
Istituto De Merode - Roma
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