RISORGIMENTO PER LUMI SPARSI
a cura di
Francesca Rizzo
Le Lettere
INDICE
Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
LUCIANO MALUSA (Università degli Studi di Genova)
I filosofi Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti nell’agone
politico e diplomatico: quale contributo diedero per
l’Unità d’Italia? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
7
9
PAOLO DE LUCIA (Università degli Studi di Genova)
Vincenzo Gioberti. Dall’anticartesianesimo al neoguelfismo
»
49
GIROLAMO COTRONEO (Università degli Studi di Messina)
Il federalismo “etico” di Carlo Cattaneo . . . . . . . . . . . . . . . .
»
71
GIUSEPPE GEMBILLO (Università degli Studi di Messina)
Cinque apostoli del Risorgimento: vie diverse, obbiettivi
comuni. Mazzini, Gioberti, Cattaneo, Ferrari, Pisacane . .
»
93
ANDREA BELLANTONE (Università degli Studi di Messina)
Risorgimento e Rinascimento: Cousin, Ferrari, Quinet . . . . .
» 111
GREGORIO PIAIA (Università degli Studi di Padova)
Jacopo Bernardi, ovvero la filosofia al servizio dell’Unità
nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 135
FRANCESCA RIZZO (Università degli Studi di Messina)
Spaventa, o della «Nazione vivente» . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 155
FULVIO TESSITORE (Università degli Studi di Napoli)
Francesco De Sanctis e la Storia della letteratura italiana . . .
» 181
6
INDICE
SANTI DI BELLA (Università degli Studi di Messina)
Azione e storicità in Luigi La Vista . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 229
EMILIA SCARCELLA (Università degli Studi di Messina)
Preliminari al dibattito sull’Unità: l’Introduzione alla
storia d’Italia di Pasquale Villari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 247
MAURIZIO MARTIRANO (Università degli Studi della Basilicata)
Qualche riflessione intorno a Labriola e l’idea di storia
d’Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 267
GIUSEPPE CACCIATORE (Università degli Studi di Napoli)
Gramsci, il Risorgimento e la storia d’Italia . . . . . . . . . . . . . .
» 283
MICHELE MAGGI (Università degli Studi di Firenze)
Stato nazionale e tradizioni cosmopolitiche dell’Italia:
appunti per una lettura di Gramsci . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 295
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 311
Paolo De Lucia
Università degli Studi di Genova
VINCENZO GIOBERTI.
DALL’ANTICARTESIANESIMO AL NEOGUELFISMO
1. Considerazioni preliminari
Il principio di redenzione è altresì connaturato all’Italia, tra perché
ella sola fra i popoli, abbattuta, sempre risorse per virtù propria e
gode di una vita immortale; e perché le altre nazioni da lei presero
i semi del loro risorgimento. Spente una volta, esse più non risuscitano, e perdono coll’essere persino il nome; ovvero van debitrici del loro riscatto alle influenze italiane; laddove il nome d’Italia è antichissimo, e perpetua la sua civiltà. Due volte Roma spense
la barbarie europea colla forza della parola; prima colla loquela veneranda delle leggi, poi cogli oracoli rintegrati della dottrina e religione primitiva. Tantoché l’Italia, che col potente suo verbo dissipò interamente l’oscurità universale, e mansuefece le fiere popolazioni, rese imagine della parola creatrice, che trasse le cose dal
nulla e l’armonia dal caos, rischiarando le tenebre immense con un
oceano di luce1.
È sufficiente qualche consuetudine con la filosofia italiana dell’Ottocento, per riconoscere in queste parole la prosa ardente di
Vincenzo Gioberti, che proprio nel Primato morale e civile degli
1
V. GIOBERTI, Del Primato morale e civile degli Italiani (Edizione Nazionale
delle Opere edite e inedite di Vincenzo Gioberti, voll. II-III), a cura di U. Redanò,
Bocca, Milano 1938-1939, I, p. 49. In prima edizione, l’opera era apparsa – sempre in due voll. – presso Meline, Brusselle 1843.
50
PAOLO DE LUCIA
Italiani, dal quale sono tratte, dà forma compiuta al neoguelfismo italico, un movimento di pensiero che – come è noto – recherà definitivamente l’impronta del Torinese anche nella consapevolezza dei contemporanei2.
Ora, al di là e al di sotto della apparente caoticità del dettato
giobertiano, nelle pagine del Torinese vige una robusta unità teorica; nella fattispecie, all’interno della sua prospettiva, la discrasia tra il primato morale e civile della nazione italiana e la miserevole condizione della medesima sul piano storico-politico si
spiega in ragione delle molte derive della modernità; tra queste,
si colloca in posizione preminente il carattere ambiguo del ruolo
della Francia nel contesto europeo, ed in particolare del pensiero
francese. Agli occhi di Gioberti, il declino verticale del primato
italico in Europa e nel mondo è sorto e si è sviluppato in dipendenza della funzione cruciale e negativa, svolta sul piano delle
idee dalla prospettiva teorica di Renato Cartesio.
2. L’afondatività del “dubbio metodico”
Una adeguata fondazione del sapere filosofico – a giudizio di
Gioberti – postula una preliminare chiarificazione della natura
delle facoltà del soggetto, che presiedono alle dinamiche costruttive del filosofare; orbene, queste vanno ravvisate senz’altro
nell’attenzione, nella riflessione, e soprattutto nella contemplazione3.
Ciò disegna una prospettiva gnoseologica, la quale si colloca
agli antipodi rispetto alla costituzione del filosofare così come
viene preparata e promossa da Renato Cartesio, vale a dire prendendo le mosse dal cosiddetto “dubbio metodico”. «Il Cartesia-
2
Cfr. U. MURATORE, Rosmini per il Risorgimento. Tra unità e federalismo, Presentazione di F. AROSIO, Sodalitas, Stresa 2010, p. 81 (nota 48); cfr. anche E. PASSERIN D’ENTRÈVES - A. GIOVAGNOLI, Neoguelfismo, in AA.VV., Enciclopedia Filosofica, dir. da V. MELCHIORRE, 12 voll., Bompiani, Milano 20063; VIII, pp. 78277828.
3
Cfr. V. GIOBERTI, Introduzione allo studio della filosofia, Tipografia Elvetica,
Capolago (Svizzera), 4 voll.: I-II-III, 1849; IV, 18508 (d’ora in avanti: ISF); I, p. 221.
GIOBERTI. DALL’ANTICARTESIANESIMO AL NEOGUELFISMO
51
nismo» – infatti – «imprende l’opera più assurda che possa cader
nella mente dell’uomo, qual è il voler piantare il dogmatismo
sullo scetticismo, che è la sua negazione assoluta»4. «Non v’ha
forse un solo articolo del Cartesianismo,» – inoltre – «in cui l’autore sia sempre coerente a sé stesso, e faccia segno d’intendere
pienamente la propria dottrina. Uno dei punti più capitali è,
senza fallo, il dubbio preparatorio, di cui il Descartes parla a dilungo nel Metodo, nei Princìpi, nelle Meditazioni e in altri suoi
scritti, senza né anco subodorare l’intrinseca contradizione [sic]
di questo procedere»5.
In effetti, la ragione teoretica, condotta in modo retto, vale a
dire – semplicemente – secondo le regole che presiedono in via
ordinaria al suo operare, non può non respingere la presunta valenza euristica del dubbio cartesiano. Il concetto stesso di “dubbio metodico” si rivela, ad uno sguardo approfondito, intrinsecamente contraddittorio. Infatti, anche prescindendo dal carattere essenzialmente empio, che la coscienza del credente non
può non scorgere nella obliterazione della fede in Dio, appare
in ogni caso impossibile ed assurdo il voler radicare il fondamento inconcusso del sistema del sapere sul terreno di una totalità nullificata dal dubbio universale.
L’atteggiamento stesso, con il quale il filosofo francese procede nel tentativo di edificare il suo sistema speculativo, adottando contraddittoriamente quale fondamento il dubbio universale, risulta parimenti da respingere, tanto per ragioni teoretiche
– confluenti nella complessiva e radicale inaccettabilità della visione secondo la quale la storia del pensiero, prima di Cartesio,
non avrebbe mai conosciuto un principio veritativo fondato in
maniera indubitabile – quanto per ragioni morali, riconducibili al
carattere riprovevole del connesso disprezzo, riversato in larga
misura da Descartes praticamente su tutti coloro che lo hanno
preceduto sulla scena della tradizione filosofica occidentale.
Tale superbia, abbinata ad una notevole superficialità, induce
Cartesio a porre in atto un paradigma gnoseologico ed ontolo-
4
5
ISF, II, p. 71.
ISF, II, p. 262.
52
PAOLO DE LUCIA
gico teoreticamente inconsistente, come risulta evidente, nel caso
in cui se ne prendano in considerazione i vari aspetti della costruzione sistematica.
A. La fondazione del sapere sulla base del sentimento della
propria esistenza appare come un procedimento di nessun valore,
giacché il concetto stesso di “sentimento della propria esistenza”
non può essere pensato in assenza della nozione dell’essere generale ed astratto, che suppone la sussistenza di Dio quale Idea universale e concreta, con la conseguenza – speculativamente di primaria rilevanza – che al processo conoscitivo occorre assegnare
la medesima radice teologica del processo costitutivo della realtà.
B. La struttura stessa del cogito cartesiano, esaminata a
fondo, si rivela non in grado di reggere al vaglio della ragione
teoretica, allorché questa venga criticamente esercitata: come nel
caso delle obiezioni, mosse a Cartesio da un anonimo, e formalizzabili nei passaggi che seguono.
1.° Il giudizio io penso, dunque esisto, presuppone due idee, cioè il
concetto del pensiero e quello dell’esistenza; non è dunque semplice, né primitivo. 2.° Siccome ogni atto cogitativo non può afferrare sé stesso, ma solo un altro atto cogitativo anteriore, ne segue
che per esso non si può conoscere la presenzialità dell’animo proprio, ma solo la sua esistenza passata; onde, in vece di dire io penso,
dovrebbe dirsi io pensava. Ma siccome l’atto anteriore era la riflessione di un altro atto più antico, e così di mano in mano, senza che
si possa giungere ad afferrare presenzialmente alcun atto cogitativo,
sèguita che il pensiero non si regge da sé, e non può servire di fondamento alla scienza. 3.° Il giudizio io pensava importa la veracità
della memoria e la certezza della propria medesimezza personale;
ma gli elementi di queste due idee non si trovano nella materia del
pensiero riflesso, e non possono venirne legittimati. 4.° Escluso il
pensiero della cognizione primitiva e fondamentale, rimane l’idea di
esistenza. Ma l’idea di esistenza, scorporata dal pensiero concreto
individuale, si riduce a una idea astratta, e l’astratto presuppone
sempre il concreto. 5.° Finalmente l’idea di esistenza astratta e concreta presuppone l’idea di Ente; tantoché il vero primitivo non può
essere il pronunziato cartesiano: io esisto; ma il giudizio: l’Ente è 6.
6
ISF, II, pp. 280-281.
GIOBERTI. DALL’ANTICARTESIANESIMO AL NEOGUELFISMO
53
C. La dottrina delle idee che è sottesa al sistema cartesiano, per
dichiarazione esplicita dello stesso Descartes, contrae la natura
delle idee medesime nei limiti della funzione di nomi denotanti
i cosiddetti concetti universali, finendo così con il porsi in un
orizzonte teoretico di stampo sostanzialmente nominalistico, e
quindi in diametrale opposizione alla tradizione speculativa – incomparabilmente più pregnante – che si articola attorno ai moduli del platonismo perenne.
La riduzione nominalistica delle idee, operata a chiare lettere da Descartes, costituisce l’esito in qualche modo obbligato
di un’impostazione soggettivistica del filosofare, che si ritroverà
– potentemente rigorizzata – nel sistema speculativo di Immanuel Kant. Con il filosofo prussiano, lo smantellamento delle basi
teoretiche e delle strutture epistemologiche che sostanziano quel
filosofare nella fede, il quale costituisce il principale guadagno
del pensiero cristiano, passa dalla fase incoativa, disegnata dagli
scritti di Renato Cartesio, alla fase del compimento integrale7.
E qui si noti un caso singolare; il quale si è che il nemico capitale
della metafisica, l’uomo che diede lo sfratto ad ogni ontologia razionale come ad un tentativo d’impossibile riuscimento, introdusse
in religione un pretto razionalismo teologico. Per tal modo, mentre da un lato apriva allo scetticismo un larghissimo campo nelle
scienze speculative, mutando l’intelligibile in sovrintelligibile, egli
negava, dall’altro lato, il sincero e genuino sovrintelligibile, convertendolo nel suo contrario8.
A chiare lettere, Gioberti attribuisce la presunta alterazione kantiana della religione in direzione del razionalismo teologico, all’opuscolo La religione nei limiti della semplice ragione, edito per
la prima volta nel 17939. Prendiamo dunque in attenta considerazione questa importante dissertazione del filosofo tedesco, allo
scopo di saggiare la consistenza della taccia giobertiana di razionalismo teologico: la valenza storica e speculativa dello stesso
7
Cfr. ISF, I, p. 56; II, pp. 262-394.
ISF, IV, pp. 20-21.
9
Cfr. ISF, IV, p. 21 (nota 1).
8
54
PAOLO DE LUCIA
attacco di Gioberti al razionalismo cartesiano, ne risulterà – per
via del legame istituito dall’Italiano tra il Francese ed il Tedesco
– ulteriormente illuminata.
3. Da Cartesio a Kant e ritorno. Il disegno razionalistico della
Religione nei limiti della semplice ragione
Secondo quanto osserva Giuseppe Riconda, curatore di una valida edizione italiana dei kantiani Scritti di filosofia della religione,
il progetto kantiano di una Religione nei limiti della semplice ragione non importa l’idea di una religione tratta dalla pura ragione, ma quella di una religione situata entro questi limiti. La rivelazione andrebbe intesa – nell’ottica kantiana – come un cerchio concentrico più ampio rispetto a quello, ad esso interno e
più ristretto, della religione della pura ragione, oggetto della riflessione del filosofo. Ma questi può anche prendere in considerazione la più ampia sfera della religione come esperienza rivelata, storico-morale, e vedere se – in questo modo – il suo itinerario teoretico sfocia nel medesimo sistema razionale puro di religione; nell’ipotesi affermativa, Scrittura e ragione risulterebbero, nonché compatibili, persino concordi10.
Per riflettere sulla religione, Kant prende le mosse dalla posizione che ha raggiunto circa la morale. Nella sua prospettiva,
la morale è segnata da una assolutezza talmente radicale, da
porsi come obbligante in maniera del tutto indipendente da
ogni riferimento ad un Assoluto personale con il ruolo di legislatore, garante e retributore dei meriti e delle colpe, e da ogni
riferimento all’attribuzione di una finalità all’azione, sulla quale
si estende il dominio della morale stessa. Tuttavia, l’uomo è condotto, dalla considerazione dell’atto che va a compiere, alla domanda sulle conseguenze dell’atto medesimo. Ora, la pregnanza
e la rilevanza dell’atto morale sono tali, che esso postula – quale
compimento adeguato – il conseguimento di un sommo bene,
10
Cfr. G. RICONDA, Presentazione, in I. KANT, Scritti di filosofia della religione,
a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1989, pp. 5-41; pp. 11-12.
GIOBERTI. DALL’ANTICARTESIANESIMO AL NEOGUELFISMO
55
che non si può non far risalire ad un Essere morale supremo.
«La morale conduce dunque inevitabilmente alla religione, e
così si eleva all’idea d’un Legislatore morale onnipotente, fuori
dell’uomo, e nella cui volontà si trova quel fine ultimo (della
creazione del mondo), che può e deve nello stesso tempo essere
il fine ultimo dell’uomo»11.
«Noi possiamo legittimamente, rispetto al suo fine, distinguere in tre classi, come elementi del destino dell’uomo, la disposizione originaria al bene nella natura umana: 1) la disposizione dell’uomo all’animalità, in quanto essere vivente; 2) la sua
disposizione all’umanità, in quanto essere vivente e, insieme, ragionevole; 3) la sua disposizione alla personalità, in quanto essere
ragionevole e, nello stesso tempo, capace d’imputazione»12.
Proprio in virtù di tale propensione del soggetto umano all’espressione di sé in prospettiva ascendente, lo stesso soggetto
umano può essere ritenuto un vettore di senso, la realizzazione
del quale investe gli ambiti ontologico, etico ed eudemonologico,
ed alla realizzazione del quale l’Essere morale supremo finalizza
l’intero universo.
È precisamente in tale passaggio fondamentale, che il trattato filosofico-religioso del pensatore prussiano disegna un sintagma speculativo teoreticamente qualificabile come una forma
di razionalismo immanentista, giacché il Verbo di Dio, il Cristo,
attraverso il quale il mondo è stato creato, viene senz’altro identificato con l’uomo, al fine della cui realizzazione il mondo stesso
è stato concepito13.
La conseguente rilettura kantiana del Cristianesimo nel suo
complesso in chiave di pretto razionalismo, cioè come un momento decisivo della storia dello spirito, in cui questo ha conosciuto un triplice processo di purificazione, di essenzializzazione
e di razionalizzazione, attraverso una fede positiva penetrata nel
mondo mediante segni sensibili, ma il cui significato profondo ri11
Cfr. I. KANT, Prefazione della prima edizione, in ID., La religione nei limiti
della semplice ragione, a sua volta compreso in ID., Scritti di filosofia della religione,
cit., pp. 65-216; pp. 67-72; il brano cit. è alle pp. 69-70.
12
I. KANT, La religione nei limiti della semplice ragione, cit., p. 82.
13
Cfr. ivi, pp. 107-108.
56
PAOLO DE LUCIA
siede per intero nel triplice processo medesimo, sostanzia il resto
dell’opera in questione, e raggiunge nel brano, che qui mette
conto riprodurre integralmente, rari vertici di pregnanza speculativa, i quali provocano alla fatica del concetto la stessa coscienza del credente.
Se si deve riuscire a fondare una religione morale, che non consiste in dogmi e in osservanze, ma in una disposizione del cuore ad
osservare tutti i doveri umani come comandi divini, bisogna che
tutti i miracoli, che la storia mette in rapporto con la sua introduzione, rendano infine superflua la fede stessa nei miracoli; giacché,
significa rivelare un grado d’incredulità degno di castigo non voler
riconoscere alle prescrizioni del dovere, così come sono scritte originariamente dalla ragione nel cuore dell’uomo, un’autorità sufficiente se esse non sono inoltre accreditate per mezzo di miracoli:
“Se non vedete segni e prodigi, non credete”. È, però, assai conforme al modo comune di pensare degli uomini immaginarsi che,
quando una religione di semplice culto e di osservanze giunge alla
sua fine e deve cedere il posto a una religione fondata sullo spirito
e sulla verità (sull’intenzione morale), l’introduzione di quest’ultima, benché non ne abbia bisogno, debba essere, nella storia, accompagnata e, per dir così, ornata da miracoli, per annunziare la
fine della prima, annunzio che, senza miracoli, non avrebbe avuto
alcuna autorità; è anche cosa naturale che, per guadagnare alla
nuova rivoluzione i seguaci della prima religione, s’interpreti la
nuova religione come il compimento di ciò che nell’antica religione
era il simbolo del fine ultimo che la Provvidenza si propose di realizzare nella nuova religione; e, in tali circostanze, non può giovare
a nulla contestare i racconti di cui parliamo o le interpretazioni che
se ne dànno, ora quando la vera religione ormai esiste e può conservarsi da sé attualmente e per il futuro, mediante principi di ragione, dopo d’aver avuto bisogno a suo tempo di tali mezzi ausiliari
per introdursi; perché, allora, si dovrebbe ammettere che il solo
fatto di credere e di ripetere cose incomprensibili (cose che ognuno
può fare senza che per questo egli sia migliore o che mai lo diventi)
è una maniera, e anzi l’unica maniera, di rendersi graditi a Dio,
pretesa che si deve contestare con tutte le proprie forze. Può darsi,
dunque, che la persona del Maestro dell’unica religione, valida per
tutti i mondi, sia un mistero, che la sua apparizione sulla terra,
come il suo allontanamento da essa, che la sua vita ricca di nobili
azioni e i suoi dolori siano puri miracoli, e anche che la storia che
GIOBERTI. DALL’ANTICARTESIANESIMO AL NEOGUELFISMO
57
deve autenticare il racconto di tutti questi miracoli sia alla sua volta
un miracolo (una rivelazione soprannaturale); noi possiamo quindi
lasciar sussistere il valore di tutti questi miracoli e anche venerare
in essi il verbo che è servito a diffondere apertamente una dottrina
la cui credibilità si fonda su un documento che è conservato incancellabilmente in ogni anima e non ha bisogno di alcun miracolo, a patto però, per quanto riguarda l’uso di tali narrazioni storiche, di non fare della conoscenza di tali miracoli, della fede in
essi e della professione esplicita di questa fede, una parte integrante
della religione, una cosa capace di per sé di renderci graditi a Dio14.
La lettura razionalistica, offerta in questa sede da Kant circa il
contenuto del kérygma cristiano, non si pone – a dispetto delle
apparenze – come una negazione del carattere storico degli
eventi costitutivi della fides quam creditur, ma come una sottolineatura della non traducibilità di essi nel linguaggio della pura
ragione. Nell’opera che stiamo considerando, ciò emerge nel
corso di una nota di capitale rilevanza, che diventa parimenti necessario riprodurre qui per intero, onde avere perfettamente
chiari i termini della razionalizzazione kantiana della religione, al
fine di conseguire la possibilità di tornare a valutare con rinnovata consapevolezza la consistenza della critica di Gioberti a Cartesio, inteso come l’ispiratore speculativo di Kant.
Con essa [con la morte di Gesù n. d. r.] finisce la sua storia pubblica (quella che poteva pure, quindi, servire universalmente da
esempio alla posterità). La sua storia più segreta, che le è stata aggiunta come un’appendice e che narra fatti di cui i suoi soli discepoli sono stati testimoni: la sua resurrezione, cioè, e la sua ascensione (le quali, considerate semplicemente come idee della ragione,
significherebbero l’inizio di un’altra vita e l’entrata nel regno della
felicità, cioè, nella comunione con tutti i buoni), questa storia più
segreta, dunque, pur senza metterne in dubbio il valore storico,
non può essere utilizzata per una religione dentro i limiti della sola
ragione; non già perché essa è un racconto storico (perché tale è
pure la storia che la precede), ma perché, presa alla lettera, ammette un concetto assai conforme, certamente, al modo di rappre14
Ivi, pp. 127-128.
58
PAOLO DE LUCIA
sentazione sensibile degli uomini, ma assai gravoso per la ragione
nella sua credenza al futuro, il concetto, cioè, della materialità di
tutti gli esseri del mondo – il materialismo della personalità dell’uomo (materialismo psicologico) per il quale la condizione indispensabile della personalità è la permanenza del medesimo corpo,
e il materialismo della presenza dell’uomo in un mondo in generale
(materialismo cosmologico), che afferma in linea di principio che
tale presenza non può essere che spaziale – ; mentre, invece, l’ipotesi della spiritualità degli esseri ragionevoli del mondo, per la
quale il corpo può rimanere morto nella terra e, tuttavia, la medesima persona essere sempre viva, e, parimenti, l’uomo in quanto
spirito (cioè nella sua qualità non sensibile), può pervenire alla sede
dei beati senza essere trasportato in un luogo qualunque dello spazio infinito che circonda la terra (e che noi chiamiamo cielo), è
un’ipotesi più favorevole alla ragione, non solo a causa dell’impossibilità di renderci comprensibile una materia pensante, ma,
principalmente, a causa dell’accidentalità alla quale sarebbe esposta la nostra esistenza dopo la morte, se essa dovesse dipendere
unicamente dalla conservazione di un certo mucchio di materia in
una certa forma, mentre, invece, si può pensare la permanenza di
una sostanza semplice come fondata nella sua natura. In quest’ultima ipotesi (quella dello spiritualismo) la ragione non può avere
alcun interesse a trascinare nell’eternità un corpo che (se la personalità si fonda sull’identità del corpo) deve sempre, per quanto purificato lo si supponga, essere composto della medesima materia
che costituisce la base del nostro organismo, e alla quale l’uomo
stesso non si è mai affezionato durante la sua vita; né essa può comprendere che cosa questa terra calcarea, della quale egli è formato,
può avere a che fare nel cielo, cioè in un’altra regione del mondo
dove, presumibilmente, altre materie potrebbero costituire la condizione dell’esistenza e della conservazione degli esseri viventi15.
Alla luce della consapevolezza di tutto ciò, siamo ora in grado di
dimensionare correttamente la critica, storica e teoretica insieme,
mossa da Gioberti al razionalismo cartesiano. Gioberti accusa
Cartesio di aver applicato l’eterodossia religiosa – sostanzialmente, il principio soggettivistico luterano del “libero esame” –
15
Ivi, p. 160 (nota 33).
GIOBERTI. DALL’ANTICARTESIANESIMO AL NEOGUELFISMO
59
alle cose filosofiche, ed addebita a Kant il fatto di essersi appropriato di tale applicazione, e di aver introdotto, proprio nella patria del “libero esame”, la “riforma razionale”, vale a dire l’attribuzione di validità speculativa a quei soli elementi del depositum
fidei rivelato, riconducibili ai moduli della ragione del soggetto.
Agli occhi del filosofo torinese, l’esito di tale percorso speculativo non può non essere ravvisato nella esiziale mutilazione di
ciò che costituisce il proprium della religione cristiana: la dimensione del soprannaturale16.
La maxima culpa di Cartesio, secondo Gioberti, consiste allora nell’aver offerto le basi speculative alla luciferina abrasione,
dal corpo del Cristianesimo, di ciò per cui esso non è riducibile
a mera costruzione dell’immaginazione mitopoietica dell’uomo,
ma sancisce il salvifico collegamento tra la mondanità umana e la
ulteriorità divina.
4. Rifiuto del cartesianesimo e problema dell’intùito
In tempi relativamente recenti, il confronto di Gioberti con Descartes è stato reso oggetto di attenta considerazione in validi
contributi di Emilio Bocca, Giuseppe Tognon e Marcello Mustè.
Alle cure di Bocca e Tognon, si deve l’opportuna edizione delle
Note di lettura, stese dal filosofo torinese – nel periodo che intercorre tra la pubblicazione della Teorica del sovrannaturale
(1838) e l’uscita dell’Introduzione allo studio della filosofia (1840)
– a commento delle Opere di Cartesio curate da Victor Cousin17.
Alla penna di Marcello Mustè, si deve uno studio specifico sull’interpretazione giobertiana di Cartesio, apparso nel 1999, e seguìto, dopo appena un anno, da una rilevante monografia sul
pensatore torinese18.
16
Cfr. ISF, I, pp. 55-56; IV, p. 49.
Cfr. R. DESCARTES, Oeuvres de Descartes. Publiées par Victor Cousin, 11 voll.,
Levrault, Paris 1824-1826.
18
Cfr. V. GIOBERTI, Appunti inediti su Renato Cartesio. La storia della filosofia, a cura di E. Bocca e G. Tognon, Olschki, Firenze 1981; M. MUSTÈ, Gioberti e
Cartesio, in AA.VV., Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso,
17
60
PAOLO DE LUCIA
Mentre i primi due addebitano a Gioberti il mancato coglimento, nella speculazione di Cartesio, delle istanze ontologiche
e trascendentistiche che pur vi sono ravvisabili, Mustè svolge un
ragionamento diversamente articolato. Dalla sua fine analisi, infatti, emerge come il filosofo della formola ideale sia passato da
una adesione quasi entusiastica al dettato cartesiano, visto come
un antidoto a quella che egli percepiva come la decadenza della
filosofia cristiana, addebitabile alla Scolastica aristotelizzante,
alla opposta riconduzione dello stesso Descartes all’indirizzo
analitico ed aristotelico del pensiero occidentale, e quindi alla
perentoria attribuzione, al teorico del cogito, di una responsabilità ben precisa in ordine alla degenerazione razionalistica, molinistica e pelagiana della speculazione filosofico-teologica.
In sostanza, Mustè, in aperto e dichiarato dissenso dalle posizioni di Bocca e Tognon – che praticamente rimproverano a
Gioberti di non aver saputo utilizzare Cartesio ai fini dell’edificazione di un pensiero religiosamente orientato – coglie una perdurante dialettica nell’atteggiamento di Gioberti verso Descartes, per cui il primo ravviserebbe nel secondo una sorta di coesistenza tra due anime speculative: quella incentrata nel cogito, e
quindi protesa ad una lettura soggettivistico-razionalistica della
realtà, e quella imperniata sulle idee eterne, quindi recuperabile
come momento imprescindibile della sempre valida tradizione
del platonismo perenne.
La critica anticartesiana – conclude Mustè – aveva condotto Gioberti fino al tema anselmiano (o almeno ritenuto tale) dell’immediatezza dell’intuito dell’essere reale; ma quando questa immediatezza riappariva nella “visione” di Malebranche, essa si rivelava incapace di fondare la critica del panteismo, e richiedeva, di nuovo,
la mediazione, la relazione, il giudizio. E così, tra la psicologia cartesiana e l’ontologia malebranchiana, la filosofia di Gioberti approdava a quel difficile punto di sintesi e di equilibrio che è rappresentato dalla dottrina della “formola ideale”19.
a cura di M. Herling e M. Reale, Bibliopolis, Napoli 1999, pp. 547-571. Cfr. anche
M. MUSTÈ, La scienza ideale. Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti, Rubbettino,
Soveria Mannelli (Catanzaro) 2000.
19
M. MUSTÈ, Gioberti e Cartesio, cit., p. 571.
GIOBERTI. DALL’ANTICARTESIANESIMO AL NEOGUELFISMO
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Le prospettive ermeneutiche di Bocca e Tognon, da una parte, e
di Mustè, dall’altra, non sono a ben vedere incompatibili, e si
possono, quindi, sottoscrivere entrambe, specificando forse che
sarebbe necessario sottolineare ulteriormente, rispetto a quanto
essi abbiano fatto, la centralità dell’Introduzione allo studio della
filosofia, come opera nella quale tutte le istanze ferventi nella
mente del grande Torinese trovano una prima concrezione strutturata, ancorché incompiuta. La stessa critica del Gioberti degli
Appunti inediti all’autosufficienza del cogito, che non sarebbe in
grado di afferrare sé stesso, ma solo un precedente pensato, critica sulla quale Mustè pone l’accento, si trova perfettamente
messa a punto – come abbiamo visto – nelle organiche pagine
dell’Introduzione20.
Cartesio – si legge in quest’opera – diede lo sfratto a ogni tradizione religiosa e scientifica: si fece scettico a fine di credere: negò
l’Idea, e si accinse a rifarla coll’opera del senso interiore. Questo
spensierato ardimento partorì il psicologismo e il sensismo, come
due gemelli ad un corpo; dai quali, poco stante, uscirono il materialismo, il fatalismo, l’immoralismo, l’ateismo, l’idealismo, il panteismo, lo scetticismo, e gli altri mostri o ludibri della filosofia moderna, che misero in fondo la scienza, riducendola alla nullità presente. La filosofia è morta, o, per dir meglio, la vera filosofia non
vive più altrove che nella religione21.
Secondo Gioberti, proprio dalla religione occorre muovere, per
restituire agli Italiani – a partire dal ruolo del Sommo Pontefice
– il primato che loro spetta: è la proposta neoguelfa, sulla quale
mette conto soffermarsi.
20
Cfr. V. GIOBERTI, Appunti inediti su Renato Cartesio. La storia della filosofia, cit., p. 47; M. MUSTÈ, Gioberti e Cartesio, cit., pp. 562-563; supra, par. 2: L’afondatività del “dubbio metodico”.
21
ISF, II, p. 138.
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PAOLO DE LUCIA
5. Forme del pensiero neoguelfo
Anche grazie al contributo di studiosi come Walter Maturi ed
Arturo Carlo Jemolo, alla coscienza storica, genesi e sviluppi del
movimento neoguelfo risultano sostanzialmente chiari. In particolare, si è potuto collocare, alla radice di esso, un insieme variegato di fenomeni e di circostanze: l’apologetica dell’attività civilizzatrice del Cristianesimo; l’esperienza politica, che si credeva
di poter trarre dalle vicende di Spagna, Grecia, Belgio e Polonia, circa l’efficacia risultante dalla fusione tra sentimento religioso e sentimento nazionale; l’attesa di una riforma disciplinare
nella Chiesa; il riformismo dei prìncipi italiani; la costituzione di
formazioni politiche confessionali in Francia e in Belgio; il senso
d’insoddisfazione, diffusosi in Italia in ragione dell’assetto – inclusivo dell’egemonia austriaca – conferito alla penisola a seguito
del Congresso di Vienna; la percezione del ruolo storicamente
positivo del Papato in ordine alla protezione del popolo italiano
dagli stranieri invasori; e l’idea della sussistenza di una vera e
propria connaturalità tra il medesimo popolo italiano ed il cattolicesimo22. In presenza di tali fattori,
molti pensatori del nostro Risorgimento – osserva Guglielmo Negri
– ritennero punto di partenza ineliminabile per ogni azione politica
la realtà storica presente, e conseguentemente proposero, come
unica soluzione realizzabile al problema dell’assetto politico italiano, la creazione di una confederazione di stati. In tale direzione
si mosse il neoguelfismo che, riproponendo gli ideali della cristianità e dell’opera civilizzatrice del cristianesimo, cercò di fondere il
sentimento religioso e quello nazionale, indicando nella legge cristiana, nel bonum commune internazionale, l’unico valore in grado
di saldare la moltitudine di stati presenti, da secoli, sul territorio peninsulare23.
22
Cfr. A.C. JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi,
Torino 19754, pp. 17-18.
23
G. NEGRI, Il federalismo nel Risorgimento da Gioberti a Montanelli, in
AA.VV., Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del Risorgimento (Atti del
XXVII Corso della “Cattedra Rosmini” - Stresa, 24-28 Agosto 1993), a cura di G.
Pellegrino, Sodalitas-Spes, Stresa-Milazzo 1994, pp. 199-213; p. 199.
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Di fatto, le circostanze favorevoli al sorgere del neoguelfismo
esercitano una sorta di effetto fecondatore in rapporto ad un terreno sostanzialmente arido e refrattario, nel quale cominciano a
conoscere una certa fortuna gli scritti di argomento giuridicopolitico del gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio, fratello del più
noto Massimo d’Azeglio24.
Nell’ottica di Taparelli, le norme che debbono sostanziare
l’ordinamento giuridico, e regolare l’agire politico, appaiono necessitare di un solido fondamento in sede etica. Applicando i
princìpi generali alle problematiche storiche concrete, il filosofo
gesuita stabilisce sì la liceità delle aspirazioni nazionali, ma sottolinea nel contempo l’illiceità di quelle che percepisce come le
intemperanze nazionalistiche; si apre sì alle istanze del liberalismo, ma auspicando la formazione di una comunità di popoli –
che chiama “etnarchia” – la quale si faccia promotrice del bene
comune e garante del rispetto della legalità25.
Certamente, le posizioni di padre Taparelli sulla politica e
sulla società risultano più scaltrite e meglio dotate di senso storico e di consapevolezza del carattere irreversibile dei mutamenti
attraversati dall’Europa nei secoli decimottavo e decimonono,
rispetto al senso comune della cultura dell’epoca, di stampo sostanzialmente legittimista; all’interno di tale contesto, l’impatto
del messaggio del giobertiano Primato finisce con il risultare dirompente.
In esso, il tratto costitutivo della nazione italiana viene ravvisato in un principio ideale: la primazìa religiosa della stessa,
determinata dall’innesto della predicazione evangelica nella tradizione romana, e dalla conseguente assunzione, da parte del Ve24
Cfr. L. TAPARELLI D’AZEGLIO, Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato
sul fatto, 5 voll., Muratori, Palermo 1840-1843; ID., Della nazionalità, Ponthenier,
Genova 1847. Cfr. a riguardo F. TRANIELLO, La polemica Gioberti-Taparelli sull’idea di nazione, in ID., Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Franco
Angeli, Milano 1990, pp. 43-62.
25
Cfr. H.M. SCHMIDINGER, I centri tomisti a Roma, Napoli, Perugia, ecc.: S.
Sordi, D. Sordi, L. Taparelli D’Azeglio, M. Liberatore, C.M. Curci, G.M. Cornoldi e
altri, «Rivista di Filosofia neo-scolastica», 82 (1990), 2-3, pp. 412-435; G. SOLERI,
Taparelli D’Azeglio, Luigi, in AA.VV., Enciclopedia Filosofica, cit., vol. XI, pp.
11285-11286.
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PAOLO DE LUCIA
scovo di Roma, del Sommo Pontificato; la nazione italiana assurge così al ruolo di “nazione sacerdotale”, “nuovo Israele”,
creatore, conservatore e redentore della civiltà europea. Il Risorgimento italiano, concepito da Gioberti sullo sfondo di una
riunificazione religiosa continentale, deve a suo avviso raccordarsi strettamente con la restaurazione dell’ormai declinante potere temporale dei papi, in maniera conforme alle esigenze dei
tempi; nell’ottica del Torinese, la ridefinizione di tale potere renderebbe possibile l’esercizio effettivo – da parte del pontefice –
del ruolo di Presidente della costituenda Confederazione nazionale, e la contemporanea trasformazione della virtuale unità italiana in effettiva unità civile e politica, senza per questo violare i
legittimi diritti dei sovrani preesistenti. Nella prospettiva del filosofo subalpino, questa soluzione dovrebbe assicurare tanto
l’unità d’indirizzo della politica nazionale, quanto la possibilità,
per i singoli sovrani, di governare secondo le esigenze delle rispettive porzioni del popolo italiano, esigenze da raccogliersi per
il tramite di un Corpo scelto di aristocratici dello spirito, i “Veri
Ottimati”26.
L’idea del “primato” – osserva a buon diritto Marcello Mustè –
non è […] una scoperta del 1843, ma attraversa l’intero percorso
speculativo di Gioberti, e fin dall’inizio caratterizza la sua filosofia
[…]. Il Primato scaturì […] dall’intersezione di due linee di pensiero che, fino ad allora, si erano sviluppate indipendentemente e
quasi all’insaputa l’una dell’altra: da un lato il modello metafisico
del “primato”, che è come dire l’intera onto-teologia giobertiana,
quale si era via via precisata e infine definita nell’Introduzione allo
studio della filosofia del 1840; d’altro lato il programma politico
della confederazione, ossia quel federalismo che era sorto non dalle
astratte speculazioni sulla sovranità (quali si leggono nel terzo tomo
dell’Introduzione) ma nel vivo del dibattito risorgimentale, cioè dal
tentativo di pensare il processo di unificazione nazionale nei limiti
del realismo e della moderazione, senza cadere nel progetto de-
26
Cfr. F. TRANIELLO, Gioberti, Vincenzo, in AA.VV., Dizionario Biografico degli
Italiani, vol. LV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2000, pp. 94-107;
pp. 99-100.
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mocratico e rivoluzionario (oppure sabaudo) dell’“unità”. Erano
dunque due princìpi di qualità e natura affatto diversa quelli che,
nella difficile prosa dell’opera del ’43, si incontravano: e il filo con
cui Gioberti cercò di cucirli e di fonderli assieme fu quello della
presidenza papale, che in effetti rappresentava il punto di snodo di
tutto il ragionamento, il fulcro chiamato a saldare, in una sola e
suggestiva immagine, la tesi metafisica del “primato” italiano e
quella, storica e politica, della confederazione. Pensata nei tempi
poco propizi di papa Gregorio XVI, la proposta della presidenza
papale costituisce davvero, sotto questo profilo, la novità sostanziale del Primato27.
Già nel 1844, la proposta giobertiana di una confederazione italiana presieduta dal Pontefice trova una eco di qualche significato nell’opera Delle speranze d’Italia, nella quale lo storico, politico e letterato torinese Cesare Balbo riprende l’idea, sottolineando la necessità di non precisare da subito i contorni della realizzazione del progetto, e intravedendo possibilità nuove per le
genti italiche nei mutamenti in corso all’interno degli equilibri
europei, risalenti da una parte al disfacimento in atto dell’Impero ottomano, e dall’altra alla progressiva espansione dello spazio storico della cristianità28.
Proprio a Cesare Balbo, è dedicato lo scritto Degli ultimi casi
di Romagna, nel quale Massimo d’Azeglio svolge una vera e propria rassegna dei fattori che rendono l’amministrazione dello
Stato della Chiesa arbitraria e retrograda, sottolineando la necessità della definitiva separazione del governo civile da quello
ecclesiastico29.
Critica in termini analoghi le storture dell’amministrazione
pontificia, l’avvocato, saggista e politico toscano Leopoldo Galeotti, da parte del quale – tuttavia – si guarda «alla Chiesa come
alla titolare della missione redentrice dell’Italia, l’unica che, per
27
M. MUSTÈ, Vincenzo Gioberti nella storia del federalismo, Saggio introduttivo a V. GIOBERTI, Il governo federativo, a cura di M. Mustè, Gangemi, Roma 2002,
pp. 7-35; pp. 10-12.
28
Cfr. C. BALBO, Delle speranze d’Italia, Didot, Parigi 1844.
29
Cfr. M. D’AZEGLIO, Degli ultimi casi di Romagna, Ricci, Firenze 1846.
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PAOLO DE LUCIA
natura, non avrebbe potuto farsi alleata del dispotismo bensì si
sarebbe eretta a protettrice dei deboli»30. Per il momento, secondo Galeotti, l’amministrazione pontificia va riformata in direzione di una compiuta razionalizzazione delle competenze, evitando l’instaurazione di un regime costituzionale, il quale trasformerebbe il papa in un pensionato mantenuto dallo Stato31.
Nel periodo che stiamo considerando, paradossalmente vicino alle istanze riformistiche che si esprimono nel movimento
neoguelfo, è un pensatore comunemente ascritto al milieu tradizionalista: il teatino Gioacchino Ventura di Raulica. Dopo la sua
originaria adesione al tradizionalismo rigido di Bonald, il religioso siciliano ravvisa la necessità di integrarne le coordinate con
le più larghe vedute dell’antropologia filosofica della Scolastica,
per approdare ad una posizione secondo la quale soltanto la rivelazione e l’insegnamento possono comunicare all’uomo le verità della religione e della morale, ma la ragione umana dispone
in compenso della capacità di trattare dialetticamente queste verità, dimostrandole, difendendole e sviluppandole.
A partire dalla convinzione della insolubilità della connessione tra epoca moderna e democrazia, Ventura auspica una profonda cristianizzazione di quest’ultima, cristianizzazione che
dovrà prendere le mosse dalla consapevolezza del fatto che la legittimazione del potere, offerta al principe dal popolo, viene preceduta dalla legittimazione dello stesso potere del popolo da
parte di Dio32.
30
G. NEGRI, Il federalismo nel Risorgimento da Gioberti a Montanelli, cit.,
p. 203.
31
Cfr. L. GALEOTTI, Della sovranità e del governo temporale dei Papi. Libri tre,
Guiraudet-Jouaust, Paris 1846.
32
Cfr. F. ANDREU, Ventura di Raulica, Gioacchino, in AA.VV., Enciclopedia
Cattolica, dir. da P. Paschini, 12 voll., Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il
Libro Cattolico, Città del Vaticano 1948-1954; vol. XII, 1954, coll. 1238-1240; F.
WEBER, Ventura di Raulica, Gioacchino, in AA.VV., Enciclopedia Filosofica, cit.,
vol. XII, p. 12039.
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6. Considerazioni conclusive
Il 30 maggio 1849, la Congregazione vaticana dell’Indice, riunitasi a Napoli in una seduta straordinaria (e giuridicamente problematica dal punto di vista della disciplina canonica), decreta
l’ascrizione all’Indice dei libri proibiti delle rosminiane Cinque
piaghe della Santa Chiesa e Costituzione secondo la giustizia sociale, del giobertiano Gesuita Moderno, e del venturiano Discorso
funebre pei morti di Vienna: evidentemente, nel caos quarantottesco e postquarantottesco, l’ala intransigente del Collegio cardinalizio fa sentire tutta la sua influenza sullo spaventato Pio IX33.
Ora, in che modo Gioberti riformula il suo progetto neoguelfo, dopo la mancata realizzazione degli auspici espressi nel
Primato?
In proposito, si può senz’altro affermare che le vicende quarantottesche e postquarantottesche lo inducono a porre in opera
un vero e proprio mutamento di paradigma. «Con la propria
sconfitta,» – nota a buon diritto Francesco Traniello – «Gioberti
ritiene si sia infranta, persino sul piano lessicale, la possibilità di
definire “Risorgimento” il movimento nazionale, che dovrà d’ora
in poi cercarsi altra denominazione, perché non potrà non essere cosa diversa: per parte sua propone “Rinnovamento civile”,
per l’appunto»34.
È nella nazione, corpo storico nel quale il popolo acquista la
sua propria identità culturale, che il Torinese ripone ora le speranze, indirizzandole, in concreto, all’energia volitiva di Vittorio
33
Cfr. G. VENTURA DI RAULICA, Discorso funebre pei morti di Vienna recitato
il giorno 27 novembre 1848 nella insigne chiesa di S. Andrea della Valle, Tipografia
in Via del Sudario, Roma 1848; AA.VV., Antonio Rosmini e la Congregazione dell’Indice. Il decreto del 30 maggio 1849, la sua genesi ed i suoi echi, a cura di L. MALUSA, con Saggi introduttivi di L. MALUSA - L. MAURO - P. MARANGON - S. LANGELLA - P. DE LUCIA, Sodalitas, Stresa 1999.
34
F. TRANIELLO, Ermeneutica giobertiana del Quarantotto, in AA.VV., Giornata Giobertiana (Atti del Convegno organizzato da: Accademia delle Scienze di
Torino, Dipartimento di Discipline Filosofiche dell’Università degli Studi di Torino, Centro Studi Filosofico-religiosi Luigi Pareyson - Torino, 20 Novembre
1998), a cura di G. Riconda e G. Cuozzo, Trauben, Torino 2000, pp. 69-88; p. 69.
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Emanuele II35. Ma dov’è finita l’originaria impostazione neoguelfa? È ancora Traniello ad avvertirci che
per Gioberti continuava a restare inconcepibile un’idea di Stato
nazionale che non si radicasse, pubblicamente e istituzionalmente,
su una base religiosa, e che pertanto rinunciasse a svolgere la funzione di cerniera nei riguardi della riforma cattolica […]. Appunto
perché nazionale – e tanto più in quanto democratico o tendente
alla democrazia – lo Stato assumeva dunque su di sé una finalità religiosa, in quanto traduzione storica di un cattolicesimo riformato,
di cui entrava a far parte integrante il principio della libertà religiosa sul piano civile36.
Non a caso, nel suo volume postumo su Giovanni Gentile, Augusto Del Noce potrà inserire Gioberti all’interno di una linea di
riformatori religioso-politici italiani, da Giordano Bruno allo
stesso Gentile, accomunati tanto da una varietà di posizioni ambigue nei riguardi del cattolicesimo, quanto da una riconoscibile
avversione nei confronti del protestantesimo37.
In generale, merita a nostro avviso particolare considerazione
la diagnosi formulata da Claudio Vasale, secondo il quale il neoguelfismo va inquadrato «come il tentativo di superare l’antitesi
fra principio tradizionale di legittimità e principio moderno di
nazionalità attraverso una trasvalutazione neo-giusnaturalistica
di quest’ultimo come nuovo principio di legittimità che la storia
moderna ha il merito di aver scoperto»38.
In particolare, occorre osservare che, in un contesto storico
nel quale ormai della Cristianità sopravvivono soltanto le forme,
35
Cfr. V. GIOBERTI, Del Rinnovamento civile d’Italia (Edizione Nazionale delle
Opere edite e inedite di Vincenzo Gioberti, voll. XXI-XXIII), a cura di L. Quattrocchi, Abete, Roma 1969. Originariamente, l’opera era stata edita in due volumi,
presso Bocca, Parigi-Torino 1851.
36
F. TRANIELLO, Ermeneutica giobertiana del Quarantotto, cit., p. 86.
37
Cfr. A. DEL NOCE, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della
storia contemporanea, il Mulino, Bologna 1990, pp. 12-13.
38
C. VASALE, Il significato del federalismo giobertiano nella storia d’Italia, in
AA.VV., Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del Risorgimento, cit.,
pp. 215-245; p. 236.
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il valore della proposta di Gioberti risiede nel tentativo di conferire al Romano Pontefice il ruolo di garante di un ordine eticopolitico teologicamente fondato, in luogo dell’indebita funzione
– retaggio del passato – di garante dell’ordine sociale autoritario.
In quanto alla realizzabilità storica, le vicende italiane del movimento sociale cattolico e delle sue espressioni politiche, si incaricheranno di dimostrare che se Gioberti non aveva dalla sua
parte il presente, era solo perché la concrezione delle sue prospettive sarebbe spettata al futuro. Noi che viviamo a un secolo
e mezzo dalla morte di quel grande protagonista del Risorgimento credente, non possiamo che prendere atto che quel futuro è anche il nostro.