Anno 1 Numero 21b - 28.05.2008 Bomba (che cura l’allestimento), Simona Sala (in scena), Luca Pancetta (immagini luminose) e Silvio Marino (suoni) ci propone nell’angusto ingresso della Villetta – l’ex sede Pci che ospita la parte conviviale di Teatri di Vetro. Le immagini di una danza da discoteca sfrenata, in stile «Footloose» (anche la musica è decisamente anni Ottanta), si alternano con quelle repentinamente silenziose di una goccia che cade, forse di sangue, ma di un sangue viola. Il resto è una narrazione per suoni e immagini, fatta di simboli e visioni che si avvicendano con la sapienza di un teatro d’ombre cinese realizzato con gusto contemporaneo: mani insanguinate, un corpo senza testa, il rumore dei passi. Frasi appena percettibili ci riconducono alla dinamica della storia (“sono sicura d’averlo ucciso”, “bacerò la tua bocca”) finché due volti si guardano, in una simmetria da far pensare che uno si specchi nell’altro. Che forse l’uno è soltanto il riflesso dell’altro. E che la danza autistica in cui si chiude il piccolo cerchio di Sineglossa possa non essere altro che la stanza dei giochi di una solitaria principessa contemporanea, che vive la sua gloria e il suo dramma nel cono d’ombra della sua testa. Remembering games Le stanze dei giochi di Sineglossa e Katharina Trabert di Graziano Graziani La visione che ci propone Sineglossa in Pneuma è un gioco d’ombre che si sviluppa nello spazio di una porta. Si entra otto per volta, al buio, distribuiti su una rampa di scale, a osservare dal basso verso l’alto l’alternarsi delle immagini e dei suoni ascoltati in cuffia. Il breve spettacolo si riconnette a un lavoro più ampio, Pleura, che il gruppo di Bologna ha sviluppato a partire da una riflessione sul personaggio di Salomè, per poi distanziarsene. Perché Salomé è un personaggio che non c’è (nella bibbia non compare mai il suo nome) e una vicenda che non esiste; ma allo stesso tempo è una delle storie più universalmente conosciute, di quelle che si raccontano di generazione in generazione. È per questo che la si riconosce istintivamente nelle immagini che la lanterna magica di Federico Sempre nello spazio della Villetta, stavolta nella tenda, si svolge la performance di Katharina Trabert dal titolo liebesgeSCHICHTEN, gioco di parole in tedesco in cui si fondono le storie (geschichten) e gli strati (schichten) d’amore (liebe). La performance comincia nel tardo pomeriggio e va avanti per ore, sviluppandosi lungo una struttura aperta che come scrive Katharina – danzatrice e performer tedesca trapiantata nella provincia di Rieti – “non si potrà mai concludere”. Perché le storie e le dinamiche che racconta, in una sorta di stanza dei giochi piena di oggetti e ninnoli dall’apparenza insignificante ammassati su un tavolo, si sommano a strati appunto, l’una sopra l’altra, in un gioco di variazioni sul tema e accumulazione che ricorda molto da vicino il lavoro di artisti contemporanei come Sophie Calle. personaggi letterari e di film; un percorso che sporca di autobiografia i nessi e le considerazioni dei capitoli, anche qui secondo lo schema documentaristico e antidiaristico caro ad artisti concettuali come la Calle. In mezzo, momenti tra l’assurdo e la poesia, tra lo scolarsi l’acqua dei fiori e il ballare timido di bambina. Difficile e anche pleonastico raccontare tutte le immagini che scorrono e nascono nell’arco di più di tre ore di performance, che Katharina Trabert costruisce e porta avanti con un’incredibile presenza scenica, sospesa tra il naif e l’ironia. Eppure a volte la performance sembra condensarsi e sprigionare tutto il mondo che descrive per strati in un’unica, poderosa immagine. Come quando Katharina, a terra, disegna con il gesso il perimetro del suo corpo, per poi compiere nuovamente l’operazione mentre “abbraccia” la sua sagoma precedente. Gli amanti stilizzati che restano al suolo sembrano un mostro con quattro gambe e due teste – come gli uomini primigenei di Platone, che conoscevano l’unità prima di essere divisi da Zeus in due metà. O, forse, come il mostro dell’ossessione amorosa, del fondersi totalmente con l’altro, che solo nel corso dell’adolescenza sa sprigionarsi in modo dirompente e leggero a un tempo. Un’altra Antigone in un altro Calderon Il Pasolini immemoriale di Triangolo Scaleno di Attilio Scarpellini Introdotti con un diaproiettore da capitoli numerati, gli “strati” d’amore si sommano l’uno sull’altro, creando pian piano una realtà a parte dove l’avvicendarsi delle storie supera la sua somma. Katharina racconta, gioca con i pupazzi presi dal tavolo, fa delle pause, canta appresso alle musiche – anche qui come un’adolescente nella sua stanza – mentre le ascolta con un i-pod, a volte le posa davanti a un microfono e le fa ascoltare al pubblico. Tutto si somma per delicate intuizioni e analogie. Racconta di come tra adolescenti non ci si bacia subito, ma bisogna creare un gioco che ti consenta di avvicinarti all’altro; canta sussurrando «Voglio il tuo profumo» di Gianna Nannini; poi ci fa sprofondare in una storia bizzarra dove una donna cerca di ricreare l’odore di nicotina della mano del suo amante stringendo le mani dei fumatori che incontra. (Per un caso singolare, mentre nell’edificio accanto scorrono le ombre di Salomè, in una delle storie dice che “non ci si può fidare di uno che si chiama Giovanni”…). È un gioco di possibilità e ricordi, personali, di amici, di Forse non ci saranno altri luoghi in cui svegliarsi. E neppure sogni da confondere con la realtà. O incubi da cui destarsi con un finale diverso da quello che invece ebbero. Forse, quella lunga declinazione della lotta tra la diversità e l’omologazione che è il Calderon di Pier Paolo Pasolini non poteva suscitare altro nel pubblico d e l Pa l l a d i u m c h e l ’ a p p l a u s o p i e n o d i riconoscenza, ma soprattutto di stupore che ha suggellato la messinscena di Roberta Nicolai: le parole di questo poema snervato, grondante dove anche la citazione, il nome proprio – Barthes e Picasso, Brecht e Machado – rotolano nel vento di una nostalgia più che inguaribile, ormai senza rimedio, sono così lontane da noi che a renderle vicine può essere soltanto il sogno, o il teatro. Pasolini ci parla e nel momento in cui scatta la consapevolezza che le sue parole – una finta profezia del Maggio ’68 divenuta la vera descrizione di quel che stiamo vivendo solo ora: ora che il genocidio della povertà sta per essere ultimato – si voltano dall’ombra in cui erano immerse (assieme al mito dello “scrittore sacrificato” di cui ogni tanto il teatro ci ripropone il feticcio della voce registrata) per rivolgersi a noi, in quel momento vecchi e giovani si ritrovano impegolati in una commozione che non prevede più confini tra chi ricorda e chi per la prima volta sente. E’ inutile – e sarebbe facile – pensare che quell’ultimo sogno detto da Tamara Bartolini con la fragilità di una bambina in sottoveste che scava con la voce una notte senza stelle noi non l’abbiamo sognato a nostra volta, solo perché quel brechtismo grave che Michele Baronio incarna così bene lo respinge come un’assurdità tra i vani sospiri delle anime belle (solo perché così “deve essere” come, fin da Shakespeare, comanda la ragione). E’ talmente evidente, invece, che proprio nell’anacronismo degli operai spagnoli con il fazzoletto rosso che irrompono nel lager per liberare gli ebrei si nasconda il segreto meno confessabile del fallimento del movimento comunista - che molti spettatori abbandonano il teatro rimasticandone l’enormità visionaria come se appartenesse a un sogno che hanno fatto in proprio e che l’intemperanza sentimentale del teatro ha finalmente rivelato. Ma è altrettanto evidente che quel sogno non ci si poteva limitare ad ascoltarlo compitato nella retorica asciutta, da oratorio laico, che il suo autore voleva assegnare a un “nuovo teatro” (equidistante dall’urlo pregrammaticale delle avanguardie e dalla chiacchera borghese): bisognava dopo tanti anni avere il coraggio di restituirgli un corpo. Bisognava poterne distillare i colori sontuosi – “tra il rosso, il rosa e il viola” - che la sua poesia smodata non riesce a trattenere, a costo di stilizzare l’immaginario barocco di una Spagna né vecchia né nuova, ma semplicemente immemoriale (cattolica e rivoluzionaria, franchista e antifranchista) di cui la Lupe di Marzia Ercolani è la disperata rappresentante. Roberta Nicolai ha “spazializzato” il Calderon – tutto all’opposto del gesto con cui Latella schierò il concerto di Bestia da stile sul proscenio - in una danza di geometrie familiari dove gli attori sono sempre in scena perché, di sogno in sogno, i loro ruoli si ridefiniscono, senza mai riuscire a morire: lancette su un orologio che si deforma, corpi che la velocità di modificazione del Potere lascia feriti e senza memoria, fino a ridurli all’evanescenza di un fantasma. Così la Torre di Sigismondo in La vida es sueno, da cui parte il Calderon, proprio come la casa mutante di certi incubi, diviene lo spazio di una trasformazione senza rotture: magione pretenziosa e altolocata di una nobiltà decaduta nel fascismo, baracca proletaria, appartamento borghese, lager. Un interno sfoderato nell’esterno della Storia che lo determina, lo maschera, lo illumina, vestendo e spogliando i suoi hidalgo e le sue damigelle, fasciandone i corpi con la voluta di un drappo rosso che, ritirandosi come un’onda, lascia scoperta la desolazione di un tavolo usato come letto nel tugurio di una prostituta. Immagine è ciò che sale dal fondo: con il suo contrappunto di immagini, la scrittura scenica della Nicolai risponde al testo di Pasolini senza mai commentarlo, cioè senza piegare la libertà della poesia in quella del teatro, ma andando dall’intensità all’evidenza, come nella scena più smagliante dello spettacolo, quella in cui Francesca Farcomeni, Marzia Ercolani e Tamara Bartolini avvicinano e allontanano dai propri volti tre specchi riccamente incorniciati (e nel fondo di quella visione i loro volti si stagliano e si confondono al riflesso scuro, luttuoso che viene dalla sala, ma è difficile non intravedervi anche un altro riflesso dove lo sguardo di Pasolini si incrocia con quello di Foucault sul famoso specchio mimetizzato tra i quadri in Las Meninas di Velazquez). La recitazione si spartisce tra i gruppi umani che compongono e scompongono i quadri dello spettacolo come l’unico punto fermo nell’incessante modificazione delle identità: ma più che dividere gli individui, distingue i generi del sogno calderoniano. Negli uomini, a cominciare da Enea Tomei – che nella prima parte del Calderon riporta la figura autobiografica del poeta traditore della propria classe che campeggia anche in Bestia da stile insiste il tono di un’animosità dialettica condannata a tornare su se stessa (esemplare la partita a ping pong dove al posto della rete c’è una fila di calici), più aspra nei ruoli paterni e maritali di Baronio, più sfumata in quelli curiali e dottorali di Antonio Cesari. Nelle donne prevale l’incertezza fisica di chi la Storia (questa ossessione negativa che Pasolini ha condiviso con tutto il Novecento) non la fa, ma la subisce, anche quando come donna Lupe (Ercolani) la sfrutta nella forma di una devozione alla terra sempre umiliata o vi si adatta come le figure sororali cui dà vita la Farcomeni, un’Ismene rassegnata all’esistente e alle mode che da una parte spalleggia dall’altra scoraggia i risvegli allucinati della sua Antigone. Perché è questo la Rosaura interpretata da Tamara Bartolini, un’altra Antigone in un altro Calderon, e dunque un’altra infanzia, perennemente sospesa tra la realtà e il sogno – trubsinnig per usare la parola con cui Holderlin definisce Antigone che va alla morte: “confusa fino alla demenza” – ma refrattaria a dissolvere nell’ultimo risveglio la memoria di tutte le vite che la attraversano. Non la lucida memoria politica, ma la traccia sensibile e dubbiosa delle diversità che siamo quando sognando incontriamo in noi stessi gli altri, quel poetico corpo di corpi che il presente eternizzato del neocapitalismo si appresta a seppellire nella più vasta e inattaccabile delle prigioni. Ieri, negli anni di Pasolini e del Calderon. Oggi, quando il teatro ci fa sentire il lontano che avvicinandosi ci sfiora – per ricordarci che anche noi un tempo abbiamo sognato il sogno che non si può più sognare. quadro), mentre l’ombra è immensa, cangiante, moltitudinaria, come se del corpo avesse ereditato tutta la libertà e la sofferenza, la disperata volontà di continuare a essere oltre i confini che lo inchiodano nello spazio della Storia. Come l’ombra staccata di Peter Schlemil che nel racconto di Chamisso se ne va errante e solitaria in cerca del proprio corpo. Come l’ombra dell’amato che la fanciulla di Corinto trattiene sul muro dove la luce di una lanterna l’ha proiettata, riempiendola di creta, un racconto di fondazione sull’origine della pittura che in (a+b)3 rivela apertamente il suo carattere reliquiale (se non addirittura di evocazione magica) nel momento in cui Claudia Sorace ritaglia, accartoccia e nasconde, nel suo seno, la figura fissata sulla tela della testa del fidanzato (Riccardo Fazi) che poi nell’ultima scena si premerà sul viso. Veronica o mandylion, statua dolorosa o maschera estrema di bellezza e comunque “vera icon” che non sopravvive al suo modello perché, ombra che riveste la pelle, finalmente, lo incarna: come tutte le storie d’amore che si rispettano, anche quella dei Muta Imago celebra la propria impossibilità nella volontà di aderire al corpo dell’altro, di essere non più davanti ma teatralmente dentro un’immagine… E qui sta, per così dire, il segreto della sua animosa trasformazione visuale: non nell’immagine, come sempre, ma nel tempo che la rompe e la scandisce, non nella theoria – che viene dalle pagine sull’ombra di Victor Stoichita come potrebbe venire da quelle di JeanChristophe Bailly – ma nella istorié che la permea e la drammatizza e, per quanto la contestualizzazione romanzesca di (a+b)3 sia un leggero arabesco - un’aria delicatamente anacronistica soffiata sui corpi e sulle cose - la traduce nella tragica singolarità di un destino. Il corpo e l’ombra I Muta Imago e il “discorso della guerra” di Attilio Scarpellini Ripubblichiamo in occasione di Teatri di Vetro 2008 la recensione di (a+b)3 dei Muta Imago già apparsa sul numero 16 di questa rivista Cosa dicono i Muta Imago? E soprattutto cosa raccontano le immagini che senza posa si compongono e si scompongono, affiorano e si ritraggono nel cineteatro del cubo magico di (a +b)3? Anche volendolo, non c’è tempo per indovinare il “prestigio” di questo alto illusionismo che trasforma una storia semplice – la più semplice possibile: quella di due amanti separati dalla guerra – in un balletto di apparizioni dove il corpo è in un luogo e l’ombra in un altro: dove il corpo è piccolo, raccolto in una scorza di luce assediata dalla notte, composto in un’immaginetta come quella, accurata fino ad essere leccata, della cena a due (con quel vino color rubino che gorgoglia e ipnotizza, attraendo e nel contempo deviando lo sguardo dalla sensualità discreta dell’intero La guerra è l’altro di questo spettacolo e cioè il suo ritmo, la musica di una modificazione continua e inesorabile, l’onda d’urto che fa rotolare il piccolo mondo dei protagonisti sulla china rovinosa di una precoce rivelazione del dolore. E la guerra che si riversa nel cubo di (a +b)3 come un liquido di contrasto che espande la sua macchia è anch’essa (al pari del “mito” della fanciulla di Corinto) una guerra immemoriale tutta giocata sulla parallasse e sulla riconoscibilità dei suoi anacronismi: le immagini che scorrono su un televisore che occupa visibilmente il posto delle radio anni ’40 sono quelle dei combat film angloamericani della seconda guerra mondiale, ma le parole solenni della propaganda che le sostiene, alternandosi alle note di It’s long way to Tipperary, sono quelle con cui George Bush Junior ha lanciato l’operazione enduring freedom. Così l’unica parola articolata che penetra l’aria fredda della scena è una parola destinata a dire, in ogni senso, il falso e a produrre due corto-circuiti retorici: il primo, sicuramente consapevole, è di restituire un’immagine di continuità tra le guerre novecentesche e le presunte operazioni di polizia internazionale che le hanno rimpiazzate negli anni’ 90. Vista dal basso, mentre il buon soldato interpretato da Riccardo Fazi avanza sul posto sferzando l’aria con una lampadina, percepita nel tuffo al cuore degli scoppi di granate che non si sa da che parte arrivino e nell’intermittenza dei bengala che tracciano la notte, la guerra non è mai cambiata. Fu proprio il presidente Bush del resto – ed è il secondo corto-circuito – a giustificare le offensive militari dopo l’11 settembre del 2001 come una ripetizione ideologica dello scontro tra civiltà che aveva opposto le potenze democratiche al nazifascismo nella guerra del ‘40. Ed è per questo che le sue parole (false) suonano così credibili sovrapponendosi alle immagini d’epoca. Quando la storia si ripete, come diceva Marx, molto spesso si ripete in farsa. Ma il paradosso è che proprio nel suo essere identica a sé, prigioniera di un anacronismo e di una retorica che si ripetono – con gli aerei che si alzano in volo e le città rase al suolo - la guerra “aeropolitica” di (a +b)3 si iscrive indifferentemente nel nostro passato e nel nostro futuro, è prima e dopo di noi. La guerra è l’altro dell’amore perché essa è l’altro del desiderio e dell’immagine: ci volevano degli artisti di venti anni per distillare di nuovo la sua essenza immemoriale dall’alambicco delle banalizzazioni geopolitiche e farci ripensare l’arte dell’ultimo secolo come il lungo tremito di dissoluzione del volto umano nello specchio delle guerre. Il campo Da quello di concentramento a quello di calcio nei lavori di Proyecto JDPL e Biancofango di Mariateresa Surianello Due fili di ferro spinato sono tesi sul boccascena e sul pavimento altri pezzi arrotolati ne delimitano pericolosamente lo spazio. Dietro questa barriera concentrazionaria si muovono sei figure di nero vestite, avanzando minacciose verso il pubblico. Ma nei suoi cinquanta minuti di svolgimento Carne non porterà mai gli spettatori nella zona di pericolo, lo scontro resterà chiuso oltre la barriera spinata. In assenza di parola, la danza assume già nell’incipit una cifra fortemente narrativa, si fa linguaggio descrittivo di azioni ripetute all’infinito pur nella loro variazione coreografica. Presentato sul palco del Palladium da Proyecto JDPL, acronimo di Juan Diego Puerta Lopez, coreografo e regista colombiano che, trasferitosi in Italia alla metà degli anni 90, sembra aver portato con sé il pesante bagaglio delle feroci dittature militari che hanno sconvolto di sangue le società dell’intero continente sudamericano. Puerta Lopez mostra la cultura della violenza fascista assunta come unica possibilità di relazione, per giungere alla sopraffazione degli uni sugli altri, in una marmellata indistinta di individualità omologate. Con i suoi undici quadri, Carne però non è costruito per raccontare una storia compiuta, non c’è un inizio, uno svolgimento e una fine, quello che accade è sempre una sequenza di attacchi alla persona, spesso a mani nude e talvolta con manganelli, in un continuo scambio di ruolo carnefice/vittima. Un effetto spirale, nel cui gorgo si consuma la carne e l’anima. Tra colpi fracassanti e il collasso dei corpi, il movimento per qualche istante assume tratti classici e disegna un’attitude, allungata poi in arabesque, su una musica che sfonda le note bachiane per approdare al suono sintetico, all’indistinto stridore e al pauroso scricchiolio della corrente elettrica. Dall’immediatezza del messaggio di Proyecto JDPL, si passa allo scavo introspettivo di Biancofango, che lentamente dispiega l’incapacità di vivere del personaggio, Mastino. En plain air prende forma In punta di piedi, nel Lotto 16 della Garbatella, luogo ideale per trovare refrigerio dallo scirocco che ha infuocato la città all’improvviso. Basta una panchina e una linea bianca, che Andrea Trapani traccia come prima azione dello spettacolo, per definire lo spazio scenico. Due elementi essenziali alla scansione della scrittura drammaturgica e al disegno registico, ritornanti nella seconda parte della trilogia dedicata all’inettitudine (ha debuttato qualche giorno fa, nel romano Teatro Colosseo, La spallata, costruita su “una sola” memoria dal sottosuolo di Dostoevskij), inaugurata nel 2006 proprio da questo In punta di piedi, scritto e diretto da Trapani con Francesca Macrì. Un interessante progetto che si concluderà intorno a Il soccombente di Thomas Bernhard. Se l’ispirazione dostoevskiana è servita alla coppia di autori per analizzare la giovinezza, nel primo lavoro la compagnia analizza la condizione del perdente nel momento dell’adolescenza, impiantando l’azione in un luogo e in un tempo topici per l’esistenza giovanile, un campo di calcio nel corso di una partita. Zona franca in cui dare sfogo agli istinti più bassi, alla competizione spinta fino alla sopraffazione e all’annientamento dell’avversario. «L’unico grande rito del nostro tempo» – diceva Pasolini già nel ’70 (ricordano i due autori). Qui incontriamo Mastino di tutto punto abbigliato, con scarpini tirati a lucido ma destinati a restare intonsi, ai piedi di colui che entrerà in campo solo per dimostrare a se stesso e ai compagni la sua totale incapacità di giocare con la palla. Siamo in un campetto terroso alla periferia di Firenze, città d’arte, elegante e cosmopolita che degenera spesso in un provincialismo chiuso e competitivo. Città che presta la sua lingua, quella sboccata della strada, al monologo di Trapani, regalando dei momenti di forte comicità. Seduto sulla panchina l’attore è bravo a cambiare passo alla recitazione, dai toni spavaldi del mister a quelli pacati e remissivi di Mastino. Su quella panchina il flusso del dialogo scorre in parallelo alla partita che si sta giocando, con gli esilaranti commenti dell’allenatore ai suoi uomini, i rimbrotti e la spietata ironia nei confronti del giovane in panchina. Invece quando il protagonista si alza e oltrepassa la linea bianca si entra in un tempo sospeso, quello dello sguardo verso l’interno, il momento della sofferta solitudine. Ma forse, sono proprio questi quadri poetici a rallentare il ritmo di uno spettacolo ben scritto e ottimamente interpretato, in cui il flusso verbale è coniugato a un incessante movimento, quasi una partitura coreografica di finti palleggi e lanci di palla. Forse, andrebbero asciugate un po’ queste scene, ne guadagnerebbe d’intensità il lavoro. Quando si dice le regole… “Opera” di Vincenzo Schino ci ricorda che in teatro niente è scontato di Gian Maria Tosatti Forse bisogna leggere gli appunti di Vincenzo Schino alla fine della sua Opera. Bisogna ricorrervi perché si esce con un senso di smarrimento non tanto emotivo, quanto logico. Sulla scena si sono susseguite diverse immagini, appartenenti sì ad un immaginario unico e visivamente coerente, ma nella loro natura piuttosto eterogenee. Manca il nesso, e allora bisogna andarlo a cercare negli appunti di regia, ma il nesso non c’è. Negli appunti c’è proprio la volontà di costruire una specie di rassegna sospesa di esplosioni emotive che si richiamano a questioni del profondo, come il rapporto fra essere e apparire, fra il sé e l’altro. Punti critici sulla cima dei quali compiere un’acrobazia artistica per avere il pretesto di puntarvi sopra un occhio di bue e mostrarne tutto il delicato tremore. Per fare questo Schino ricorre ad una metafora condivisa, quella del circo, che da sempre è assai più di uno spettacolo viaggiante, è un mondo parallelo, un mondo in cui ci si strappa le maschere dei volti abituali per trovarvi sotto la faccia del clown interiore, che appunto non è che un essere umano in potenza, il bambino atavico che vive dentro ognuno di noi. Se dunque alla fine del lavoro sembra mancare il “nesso”, non è per via di una leggerezza nel modo di pensare il proprio discorso e il sentimento espanso – che nelle note di regia scandite da date non può che farsi sentimento del tempo – di cui si vuol essere amplificatori. E a dirla tutta Schino sa anche che il teatro esiste appunto per amplificare le sensazioni di tutti quei nervi scoperti che nella vita quotidiana non servono a niente, ma senza i quali non esiste una “vita” quotidiana, quei nervi che sono scoperti perché sono i fili annodati e attorcigliati del burattino che siamo, appeso appunto alle corde del cuore. Il cuore, che - come diceva Butor citando Giacometti (presente in scena con un richiamo piuttosto esplicito) – di cui «vorrei tradurre tutti i rallentamenti e le accelerazioni, il cuore che vorrei cogliere tra i palmi delle mani per accarezzarlo, calmarlo, guarirlo». Eppure manca il “nesso”. L’universo dei sentimenti è chiaro e chiara è anche la metafora che si vuole metateatrale. E allora, appunto, ci si sorprende che il nesso mancante sia proprio una delle regole fondanti di quel teatro che Schino vuole utilizzare come lingua ed immaginario archetipo. Una dopo l’altra si susseguono immagini che esprimono una grande consapevolezza visiva, alcune decisamente belle, come quella del clown che piange davanti al microfono o quella dell’altro pagliaccio che ride triste, singhiozzando contro la porta chiusa del fondo palco. Sono belle, ma non riescono ad essere forti, perché sono tagliate ai margini, gli è tagliato il respiro. La prima regola della composizione teatrale (che poi è regola dell’arte se non che nel teatro essa si relaziona direttamente con l’elemento tempodurata) è che ogni immagine deve avere una preparazione. Ad ogni immagine bisogna arrivare. Maestro ne è il Nekrosius degli Shakespeare e la scuola russa in genere. L’immagine è una questione d’amore. E’ forte se si passa per il corteggiamento, per i momenti stentanti che preludono l’amplesso. Ma se si salta tutto e ci si trova di fronte ad un corpo nudo che si offre non è affatto scontato che qualcosa si consumi. Schino fa questo errore. Espone l’ultima stilla del sangue, quella che fa vibrare, è vero, ma che senza il lungo e sofferto dissanguamento non è che una goccia come tutte le altre, senza epica. Questo è quanto si può dire di Opera, un lavoro che somma lampi di un immaginario complesso che al suo interno avrebbe tutto quel che serve per essere catartico, ma che nel portarsi in scena decide di lavorare per estratti anziché per sintesi. I misteri dei giardini del Lotto numero 16 Sabrina Broso: cronaca di una fugace apparizione di Attilio Scarpellini Una figurina liberty smarrita in un parco, una fata caduta da un albero che fatica a rimettersi in piedi: questa è Sabrina Broso. Fin quando aderisce al blocco di pietra su cui ha posato la testa, sotto il grande ulivo del Lotto numero 16, le sue lunghe chiome sembrano anch’esse pietrificate come quelle di certe sculture che ancora si vedono nei cimiteri monumentali di mezza Europa. E’ quel che più profondamente vuole essere: una musa addormentata priva di uno scultore. Il pubblico raccolto in un cerchio di sedie bianche sistemate nel giardino la attende con il cuore sospeso, si chiede che farà ora, dopo i primi minuti di immobilità, come si evolverà quella che anche i più sprovveduti, i più innocenti, hanno compreso sarà una metamorfosi. Ma una volta che la musa è a terra, rannicchiata, poi stesa con le spalle al pubblico, i più maliziosi, i più sprovveduti, i meno innocenti, non riescono a non fissare le spalle nude e i fianchi ben formati (da viola di Man Ray) che si disegnano sotto la tunica attillata: essere acqua, come recita il titolo della performance, vuol dire anche non riuscire più a nascondersi, emergere in una trasparenza. Così comincia il giro lento, straziante di un corpo che si contorce, si accovaccia, striscia sulla terra, finisce a gambe all’aria come Gregor Samsa nel racconto di Kafka, nel tentativo di cancellarsi, di esalare un’anima virginale ed appartata nella materia che lo circonda, ma alla quale – per statuto – non appartiene del tutto perché tra sé e il primordio liquido in cui vorrebbe scomparire c’è pur sempre lo sguardo degli altri. C’è l’attenzione protesa e piena di rispetto delle due anziane signore sedute accanto a me, composte e un po’ accaldate – ma ora un lieve alito di vento fa rabbrividire l’ombra scura degli alberi placando un po’ il ronzio delle televisioni accese che soffiano più calore nel giardino – forse le due persone al mondo che, in questo momento, esprimano maggior fiducia nell’arte contemporanea e nella capacità di Sabrina Broso di portare, se non più senso nelle loro vite, più meraviglia nei loro occhi. Ma la danzatrice dai lunghi capelli corvini – che sono un altro corpo e raccontano persino un’altra storia – si limiterà a miniaturizzare un immane sforzo per ritrovare la posizione eretta per mimetizzarsi tra le edere del muretto lungo il quale si srotola la sua performance con le ombre che le istoriano il volto come nella peggiore immagine del peggior Peter Greenway. Per poi fermarsi, voltarsi un momento verso il pubblico, lanciargli uno sguardo in tralice, un po’ timido e un po’ falcato, e sparire dietro l’angolo. Tutta qui la “tensione sospesa” che, tra “fumi vegetali e segrete ossa profumate di nulla” si avviava “verso lo svanire” in un tempo variabile e indefinito: il tempo di registrare il passaggio di uno strano animale – o fate voi: dell’assolutamente altro – insieme troppo lento e troppo fugace, troppo remissivo e troppo altezzoso. Come l’albatro di Baudelaire, Sabrina Broso non può condividere la stessa terra del nostro filisteismo. Dalla bocca socchiusa di una delle signore si libera un piccolo sospiro, una specie di gemito involontario. L’arte è difficile e la critica troppo facile per non diventare difficilissima, qui nei giardini di Compton House. la differenza settimanale di cultura on-line su www.differenza.org direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.