“Le donne: il management della differenza”, Bra, 18 febbraio 2016 ALCUNI DATI DI CONTESTO Già la Strategia “Europa 2020” redatta nel 2010 indicava agli Stati membri la necessità di “trasformare l’UE in un’economia intelligente, sostenibile e inclusiva caratterizzata da alti livelli di occupazione, produttività e coesione sociale” (Comunicazione della Commissione COM(2010)2020 del 03.03.2010), proponendo come strategie di intervento lo sfruttamento dei punti di forza dell’economia europea e la mobilitazione di tutte le forze presenti, a partire dalle risorse umane. Anche in risposta a tali sollecitazioni – fatte proprie dall’Italia e declinate in chiave di genere nel documento “Italia 2020. Programma di azioni per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro” – una delle modalità per migliorare la competitività dell'Europa consiste nel promuovere la maggiore partecipazione alla crescita economica anche con la promozione di un maggiore equilibrio tra donne e uomini, partendo dal cogliere la sfida data dallo squilibrio di genere all’interno dei luoghi di decisione e, fra questi, dei CdA. Nel novembre 2012, la Commissione Europea ha emanato una Proposta di Direttiva “Women on boards” (COM(2012)614 del 14.11.2012) che fissa, per i Consigli di Amministrazione delle società quotate, l’obiettivo di una presenza femminile del 30% entro il 2015 e del 40% entro il 2020, partendo dalla considerazione che l’equilibrio di genere ai vertici aziendali incide in maniera positiva sulla competitività e sui profitti dell’impresa stessa e, quindi, della crescita economica nel suo complesso. Per il raggiungimento di questo obiettivo, esistono tre modelli basati su strategie differenti: le quote (applicate da Italia, Francia, Spagna, Norvegia e Germania); i codici di regolamentazione (preferiti da Regno Unito, Svezia, Finlandia); la trasparenza e il merito nel processo di selezione con obiettivi di rappresentanza fissati (modello della Proposta di Direttiva europea). Il Parlamento Europeo nel novembre 2013 ha approvato una versione emendata della proposta con 459 voti a favore, 148 contrari e 81 astensioni. Il testo del Parlamento prevede, tra le altre cose, sanzioni per le imprese che non rispettano l’obiettivo del 40% come l’esclusione dagli appalti pubblici, e che la Commissione Europea presenti una relazione non solo sull’applicazione della direttiva, ma su come la parità di genere è applicata all’interno delle istituzioni ed agenzie europee. Da fine 2013 la proposta è sul tavolo del Consiglio, che fatica però a trovare un accordo. La Presidenza sta cercando un accordo per aggiungere tra le eccezioni il caso in cui all’interno della società i membri del sesso sotto-rappresentato detengano almeno il 25% del numero totale di tutte le posizioni di consigliere non esecutivo il 20% del numero totale di tutte le posizioni di direttore e il livello di rappresentanza sia aumentato di almeno 7.5 punti percentuali nel corso di un recente periodo di cinque anni. Il 2 dicembre 2015, deputati socialisti e popolari sono intervenuti alla sessione plenaria del Parlamento europeo per sottolineare come, tra novembre 2012 e oggi, la percentuale di donne tra i membri del Consiglio sia cresciuta dal 15,8% ad oltre il 20%. Hanno poi ricordato come l’obiettivo della proposta preveda un sistema di nomine aperte, trasparenti ed eque per tutti i candidati, rispettando inoltre la sussidiarietà e lasciando agli Stati membri sufficiente margine di manovra, senza il vincolo di quote obbligatorie. Nella riunione del 7 dicembre, il Consiglio avrebbe dovuto avviare i negoziati con il Parlamento per la definitiva approvazione della direttiva, ma le posizioni contrastanti non hanno permesso di raggiungere un accordo. L’obiettivo è condiviso (almeno in linea di principio) anche dall’opinione pubblica, come dimostrano i sondaggi condotti a livello europeo, che parlano di una piena condivisione sulla necessità di eliminare lo squilibrio di genere: a dicembre 2014, il 24% delle donne europee intervistate da Eurobarometro (e il 21% degli uomini) auspicano una maggiore parità di rappresentanza nei vertici aziendali. A seguito di queste sollecitazioni e grazie anche a interventi normativi specifici, la percentuale femminile di donne nei CdA di società quotate tocca il 21%, con una percentuale italiana superiore alla media europea di 4 punti. Interessante è soprattutto la variazione negli ultimi anni: tra gennaio 2012 e aprile 2015, nell’intera Unione Europea c’è stato un incremento di presenza femminile nei CdA di 7 punti percentuali, passando dal 14% al 21%, (con la sola esclusione di Malta, in cui non ci sono state variazioni e della Repubblica Ceca, in cui c’è stato un leggero decremento). Spicca l’Italia, che ha avuto una variazione misurabile in 20 punti percentuali: del 6% nel 2012 rispetto al 26% del 2015 (erano solo il 2% nel 2004). Statistiche CONSOB calcolano, a fine giugno 2015, una quota femminile nei CdA del 27,6% (contro l'11,6% del 2012) e rilevano come, nella quasi totalità delle imprese, almeno una donna sieda nel board. La maggioranza delle donne è Amministratore indipendente, mentre solo 16 ricoprono il ruolo di Amministratore Delegato. L’ottima performance italiana è attribuibile soprattutto alla legge emanata nel luglio 2011 (Legge “Golfo-Mosca” n. 120 del 12 luglio 2011 "Modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati"), che, cogliendo le sollecitazioni europee, ha sancito che gli organi sociali delle società quotate in Borsa e delle partecipate pubbliche debbano essere rinnovati riservando alle donne una quota pari almeno a un quinto, salendo almeno a un terzo nel secondo e terzo mandato. Le nuove regole consentono alle società a controllo pubblico di modificare i propri statuti per assicurare l’equilibrio tra i generi, che si considera raggiunto quando il genere meno rappresentato all’interno dell’organo amministrativo o di controllo ottiene almeno un terzo dei componenti eletti. Il processo, se osservato, dovrebbe esaurirsi nel 2023, giacché la legge si applica solo per tre mandati consecutivi. Per monitorare l’applicazione della legge, le società interessate devono comunicare al Dipartimento per le Pari Opportunità la composizione degli organi sociali e le eventuali variazioni in corso di mandato; inoltre, chiunque può segnalare situazioni non conformi alle norme e, nel caso di diffida formale e mancato ripristino dell’equità tra i generi, la sanzione è la decadenza della carica. Le cariche ricoperte dalle donne nei CdA sono, comunque, in larga misura non esecutive (per il 64% come Amministratori indipendenti e solo per il 3,1% con ruolo di Amministratore Delegato) e ciò suggerisce quanto, oltre alla migliore presenza numerica, sia ancora fortemente da ricercare un aumento delle donne nelle posizioni più alte dei CdA, quelle nelle quali esiste una reale possibilità di presa di decisioni. Si tratta di un’attenzione che vale su tutto il territorio europeo, giacché, osservando la posizione di presidenza all’interno dei CdA, la percentuale femminile si abbassa notevolmente, tanto da essere pari a zero in 7 Paesi sui 28 membri dell’Unione Europea (Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi), mentre a spiccare positivamente sono i Paesi dell’Est. Anche l’andamento italiano è meno brillante, fermandosi, nel 2015, a una percentuale di donne Presidenti di CdA al 5%, che, comunque, è interessante considerando come negli anni precedenti fosse del tutto assente.