Signore, accresci la nostra fede!…
COME UN GRANELLO DI SENAPE (cf.
Lc 17,5-6)
Daniele Fortuna
In Ecclesia Mater 1/2013, pp. 7-14
Leggendo le pagine dei Vangeli, possiamo trovare a più riprese alcune parole
molto dure di Gesù verso i suoi discepoli, parole di rimprovero per la loro
mancanza di fede (apistía). Sebbene tendiamo spontaneamente a rimuoverle,
dobbiamo lasciare che esse ci scuotano e c’interpellino se, in quest’Anno della
fede, vogliamo ascoltare la sua voce e seguirlo.
Facciamo solo cinque esempi.
 Nel Discorso della montagna, Gesù rimprovera i suoi discepoli, chiamandoli
«piccoli di fede» (oligópistoi), addirittura paragonandoli ai pagani, perché
essi si mettono in ansia dicendo: che cosa mangeremo, che cosa berremo, di
che ci vestiremo? (cf. Mt 6,25-33).
 Nell’episodio della tempesta sedata i discepoli, timorosi di morire travolti
dalle onde, sono rimproverati da Gesù così: «Perché siete paurosi? Non
avete ancora fede?» (Mc 4,40 e paralleli.).
 In Matteo 14,31 lo stesso Pietro viene rimproverato come «piccolo di fede»,
perché, a causa della violenza del vento, si è impaurito, ha dubitato e non è
riuscito più a camminare sulle acque.
 Vedendo che i suoi discepoli non sono stati capaci di guarire un epilettico
posseduto da un demonio, Gesù esprime così il suo disappunto: «O
generazione incredula e perversa, fino a quando sarò con voi? Fino a
quando vi sopporterò?» (Mt 17,17 e par.).
 I discepoli di Emmaus vengono apostrofati da Gesù come «stolti e tardi di
cuore nel credere a tutto quello che hanno detto i profeti» (Lc 24,25); essi,
infatti, nella loro tristezza, si sono chiusi a un’intelligenza più profonda del
mistero di Cristo (cf. Lc 24,45).
A dire il vero, tutti questi rimproveri ci sembrano eccessivi e ci stupiscono,
soprattutto se pensiamo che Gesù si sta rivolgendo proprio a coloro che, in fin dei
conti, hanno avuto il coraggio e la generosità di lasciare tutto per seguirlo,
fidandosi solo di lui e delle sue parole. È normale, infatti, che anche un credente si
preoccupi del suo onesto sostentamento e, se ha famiglia, del futuro dei suoi figli.
O chi di noi, di fronte a un’improvvisa e reale minaccia per la propria vita, non
griderebbe a Dio di salvarlo? Nessuno, poi, penserebbe di giudicare incredulo o
perverso chi non è capace di scacciare i demoni o di fare miracoli. Infine, è ben
comprensibile la crisi di speranza dei discepoli di Emmaus, la disillusione di fronte
alla morte in croce di Gesù, se anche i Dodici, una volta percosso il loro pastore, si
sono scandalizzati e dispersi (cf. Mc 14,27).
In realtà, ci viene spontaneo provare una profonda simpatia per questi discepoli
della prima ora, perché ci accorgiamo che le loro difficoltà nel cammino di fede
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sono anche le nostre. Sono le prove della Chiesa, la barca di Pietro chiamata a
prendere il largo per passare all’altra riva tra le tempeste del mondo, e sono le
prove di ogni credente, chiamato a misurarsi ogni giorno con la sua piccolezza e
povertà, con la sua fragilità e i suoi fallimenti, certamente con la sua inadeguatezza
di fronte alle alte mete della vocazione che ha ricevuto come discepolo di Gesù.
Qual è, dunque, il senso profondo di questi rimproveri? Possibile che Gesù, così
mite e umile di cuore (cf. Mt 11,29), si presenti come un giudice tanto severo per
la nostra mancanza di fede?
In realtà, rileggendo attentamente i cinque passi sopra citati, ci si può facilmente
accorgere come il fine del Nazareno non sia certamente quello di mortificare i suoi
discepoli o di deprimerli mettendoli di fronte ai loro fallimenti, bensì quello di
scuoterli dal loro senso di sconfitta, indicare dove stia esattamente il problema e, di
conseguenza, rivelare loro le possibilità insperate di una fede che agisce: non
nonostante le proprie debolezze, quanto piuttosto a partire da esse.
Prendiamo come esempio il brano di Marco (9,14-27 e par.), in cui il Vangelo ci
riferisce che i discepoli di Gesù non sono riusciti a liberare un ragazzo epilettico
posseduto da un demonio. Ci troviamo di fronte a un’esperienza di fallimento
nell’esercizio del loro ministero, un fallimento ancora più amaro per il fatto che i
discepoli avevano ricevuto proprio dal Maestro il potere di scacciare i demoni (cf.
Mc 3,15; 6,7). La prima reazione di Gesù è un moto di sdegno: «O generazione
incredula (ápistos)…». Questa parola, tuttavia, nella sua durezza, suggerisce già
quale sia la radice ultima del problema: proprio la mancanza di fede. Quindi, al
padre del ragazzo che lo supplica, dicendo: «Se tu puoi qualcosa, aiutaci…», Gesù
risponde così: «Tutto è possibile a colui che crede» (Mc 9,23). L’uomo
comprende, e, riconoscendo la propria inadeguatezza, trasforma la sua povertà di
fede in una richiesta accorata: «Credo, aiutami nella mia incredulità». Anche i
discepoli, in un altro contesto, si rivolgeranno a Gesù in un simile modo: «Signore,
accresci la nostra fede!» (Lc 17,5).
In esegesi si discute se in Marc0 9,23 Gesù faccia riferimento alla sua propria
fede (dal momento che il padre gli aveva appena detto: «Se tu puoi qualcosa,
aiutaci…») o, più generalmente, alla fede dei presenti (dato che subito dopo il
padre applica a sé la parola di Gesù: «Credo, aiutami nella mia incredulità»). In
realtà, Gesù stesso è il modello di fede perfetta per ogni credente: egli ha dato
totalmente e incondizionatamente spazio al Padre, cosicché nella sua persona e
nella sua azione già si rende presente la potenza del Regno (cf. Mt 12,28). Anche i
discepoli sono chiamati a condividere la missione di Gesù e, quindi,
l’affermazione: «tutto è possibile a colui che crede», diventa un invito a
partecipare a questa stessa fede, in un atteggiamento di assoluta fiducia
nell’onnipotenza del Padre.
I suoi discepoli, tuttavia, sebbene abbiano già preso posizione per lui e si siano
messi alla sua sequela, mostrano di avere una fede ancora insufficiente per poter
affrontare le sfide del discepolato e le prove della testimonianza. Correttamente
Matteo, per evidenziare tutto ciò, preferisce usare il termine oligópistoi, con cui il
Maestro apostrofa i suoi discepoli (cf. Mt 17,19-20). Gesù li vuole scuotere dal
loro torpore, rivelare come la loro vera mancanza sia quella di non credere
abbastanza alla missione ricevuta e spingerli, così, a trasformare la loro povertà in
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un’umile preghiera, la loro impotenza in un atto di abbandono all’onnipotenza di
Dio, che tanto più può agire attraverso di noi, quanto più gli si fa spazio grazie alla
fede…
Potremmo citare numerosi esempi evangelici, nei quali è evidente come solo
grazie alla fede degli uomini la potenza di Dio ha potuto operare miracoli. Ne
bastano due particolarmente significativi:
In Matteo 8,5-13 un centurione pagano chiede a Gesù la guarigione per il suo
servo, riconoscendo l’autorità del Nazareno attraverso un esempio molto calzante,
preso dalla vita militare e manifestando così una fede molto grande. Gesù ne resta
ammirato e lo rassicura sulla guarigione del suo servo, che avviene proprio in
modo corrispondente a come il centurione ha creduto (da notare che in Lc 7,9-10
Gesù si limita a lodare la sorprendente fede del centurione e non c’è bisogno
neanche di una sua parola esplicita perché la guarigione avvenga!).
In Matteo 15,21-28 / Marco 7,24-30 una donna cananea ha la figlia tormentata
da un demonio e supplica il figlio di Davide per ottenerne la liberazione. Dopo un
iniziale rifiuto, Gesù si lascia convincere dalla donna pagana. Ella, infatti, ha
saputo esprimere una fede così grande da sorprendere profondamente lo stesso
Gesù ed in base alla quale il demonio è subito uscito da sua figlia.
È dunque la fede nel Dio d’Israele, che sta ora esercitando la sua regalità in
Gesù con atti di liberazione per gli uomini, ciò che permette l’avverarsi dei
miracoli. Così anche per la donna che soffriva di emorragia: «Figlia, la tua fede ti
ha salvata» (Mc 5,34); per il lebbroso samaritano e per il cieco di Gerico: «Va’ la
tua fede ti ha salvato» (Lc 17,19 e Mc 10,52). Come controprova di tutto ciò
abbiamo l’esempio opposto degli abitanti di Nazaret, dove Gesù, a causa della loro
incredulità, «non poté fare alcun miracolo», ma soltanto poche guarigioni (Mc 6,5;
cf. Mt 13,58).
Se ora torniamo ai discepoli del Signore, nei quali in realtà ci stiamo
rispecchiando, possiamo chiederci: come farà la loro «piccola fede» a diventare
così grande da… spostare le montagne? Matteo, al termine del racconto di
esorcismo già considerato, ci riporta una parola di Gesù che può aiutarci a trovare
una risposta: «Allora i discepoli, avvicinandosi a Gesù in disparte, dissero: “Perché
noi non abbiamo potuto scacciarlo?”. Ma egli rispose: “Per la vostra piccola fede.
In verità vi dico, infatti: se aveste fede come un granello di senape, direte a questo
monte: spostati da qui a là e si sposterà; niente vi sarà impossibile”» (Mt 17,19-20;
cf. Lc 17,6).
L’immagine del granello di senapa è stata utilizzata da Gesù anche in un’altra
occasione: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senapa, che un uomo prende
e semina nel suo campo. È il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è
più grande degli ortaggi e diventa un albero, cosicché gli uccelli del cielo vengono
e dimorano tra i suoi rami» (Mt 13,31-32 e par.).
Il fatto che il «granello di senapa» appaia solo in questi due passi nei vangeli ci
suggerisce di applicare alle parole di Gesù un metodo ermeneutico giudaico molto
antico, la gĕzērâ šāwâ, che il Maestro stesso ha utilizzato, ad esempio, in
riferimento alla Torah, per formulare il suo comandamento dell’amore (cf. Mc
12,29-30). Cercheremo, cioè, di capire in che modo i due brani, che hanno in
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comune la stessa parola utilizzata come metafora di un’altra realtà, s’illuminano a
vicenda e quale ulteriore senso si può ricavare dal loro accostamento.
La parabola del granello di senapa si trova, sia in Matteo sia in Marco,
all’interno del capitolo delle parabole del Regno. Il fine delle parabole
di Gesù
è quello di esprimere in modo enigmatico i misteri del Regno per quelli che non
sono disponibili a lasciarsi coinvolgere; di rivelarne, invece, il significato nascosto
ai discepoli che hanno accolto l’annunzio del Vangelo (cf. l’opposizione tra «voi »
e «quelli di fuori»; in Mc 4,11 e Mt 13,11). Gesù, infatti, «senza parabole non
parlava loro, ma in privato ai suoi discepoli spiegava ogni cosa» (Mc 4,34). Il
capitolo delle parabole, inoltre, è introdotto da quella del Seminatore. Di
conseguenza, essa, insieme alla sua spiegazione, risulta fondamentale per
comprendere anche tutte le altre (cf. Mc 4,13) e «i misteri del Regno», cui esse
alludono. Ora, senza proporre una lettura esaustiva di questa parabola, ci basta
evidenziarne alcuni tratti essenziali, particolarmente illuminanti per comprendere
meglio quella del granello di senapa.
1. Il Regno di Dio è presentato da Gesù come una realtà che coinvolge tutto
Dio, nel suo uscire generoso e solenne per seminare abbondantemente la sua
Parola, e tutto l’uomo nelle sue variegate possibilità di risposta all’iniziativa di
Dio.
2. L’azione di Dio si dispiega dentro la storia e, nonostante la sua efficacia
dipenda dalla risposta degli uomini (dato che Egli si espone anche al loro rifiuto),
la potenza del seme è tale che, dove esso viene accolto, produce un frutto molto
abbondante, fino anche al cento per uno.
3. Tra la semina e il frutto maturo c’è un necessario tempo di crescita, che è
anche un tempo di prova, durante il quale la pianticella può soccombere di fronte
alle sopraggiunte difficoltà.
Alla luce di tutto ciò, anche il granello di senapa appare come un dono che
viene da Dio, seminato nel cuore dell’uomo: è il dono della parola del Regno che,
per quanto piccolo e apparentemente insignificante, è gravido di enormi
potenzialità, pronte a svilupparsi e portare a un risultato imprevisto e grandioso, se
solo trovano un’adeguata accoglienza. L’accoglienza richiesta è l’ascolto operoso
e fedele, la comprensione di questa parola proprio come Parola efficace di Dio.
Proviamo ora a collegare tutto ciò con il detto di Gesù da cui siamo partiti: «se
aveste fede come un granello di senape, direte a questo monte: “spostati da qui a
là” e si sposterà; niente vi sarà impossibile». Cosa possiamo dedurre da un tale
accostamento? Almeno tre cose.
Anzitutto, la fede richiesta da Gesù ai suoi discepoli non è una fede generica in
Dio o in una serie di verità che lo riguardano; non è nemmeno la «piccola fede»
dei discepoli, oltre la quale essi non erano stati capaci di andare. La fede richiesta
da Gesù, invece, è quella di chi accoglie con gioia la parola del Regno e permette a
Dio di operare le sue meraviglie attraverso la nostra stessa impotenza, è la fede di
chi si lascia trasformare totalmente dall’azione di Dio, senza opporre resistenze o
condizioni. Essa consiste nel credere che la missione data da Gesù ai suoi discepoli
non è opera loro, ma di Dio e, per questo, nella nostra stessa povertà, è
l’onnipotenza di Dio ad agire. Questa fede è così importante agli occhi di Dio, che
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anche la realizzazione del suo Regno sulla terra dipende da essa, dall’accoglienza
o meno della sua parola di salvezza nei nostri cuori.
La fede del Regno, inoltre, come il granello di senapa, può esprimere la sua
fecondità solo se viene seminata nella terra, cioè se s’incarna profondamente nella
storia, vivendo una continua dinamica di morte e risurrezione (cf. Gv 12,24). Tutto
ciò le permette di crescere e svilupparsi proprio attraversando le diverse prove
della testimonianza (cf. 1Pt 1,6-7). Questo dono prezioso, però, va custodito,
coltivato e alimentato con una preghiera costante (cf. Mc 9,29). Bisogna, infatti,
vegliare e pregare, per non lasciarsi sopraffare dalle prove, per resistere anche
durante le difficoltà (cf. Mc 14,38 e par.). La preghiera dei figli del Regno non è,
comunque, una continua ripetizione di parole (cf. Mt 6,7), bensì è uno stare
costantemente alla presenza di Dio, come Elia (cf. 1Re 17,1 e Gv 16,32), un
quotidiano ascolto della sua parola, per vivere di essa come il Servo di JHWH (cf. Is
50,4-5 e Mt 4,4).
Un ultimo prezioso insegnamento, che accogliamo dal granello di senapa, è dato
nella certezza del frutto. Questa parola del Regno accolta nella fede, infatti,
proprio perché è l’opera di Dio in noi (cf. Fil 1,6), compie infallibilmente tutto ciò
per cui il Padre l’ha mandata e realizza in pienezza il suo desiderio di saziare la
fame dei suoi figli (cf. Is 55,10-11 e Lc 11,9-13).
Cosa possono suggerirci queste osservazioni per l’Anno della fede che stiamo
celebrando?
Come i discepoli di Gesù, anche noi oggi possiamo lasciarci prendere da un
senso di sconfitta, verificando la nostra incapacità di scacciare quei «demoni» che
opprimono la società odierna (cf. Mc 9,18); ancor di più, la Chiesa, come fragile
barca chiamata a solcare il mare di un mondo agitato da flutti minacciosi, potrebbe
preoccupasi troppo di salvare se stessa dalle onde aggressive che vorrebbero
affondarla, non tenendo più lo sguardo fisso su Gesù, pioniere e perfezionatore
della fede (cf. Eb 12,2). E ancora, resi ciechi dalla mancanza di speranza nella
presenza attiva del Risorto, come i discepoli di Emmaus possiamo essere tentati di
rifugiarci nel privato, dimenticando la missione ricevuta di predicare a tutte le
genti la buona novella del Regno.
Infine, come Marta e Maria, possiamo anche giungere a rimproverare lo stesso
Gesù, proprio nella sua identità di Emmanuele e Salvatore: «Signore, se tu fossi
stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21.32). La duplice presenza di
questa parola nel vangelo di Giovanni, certamente dura e imbarazzante, ci insegna
che non dobbiamo assolutamente rimuovere ogni grido autentico che sale a Dio,
quando la percezione della sua assenza diventa così assurda e assordante. Così ha
fatto Paolo VI alla morte di Aldo Moro, suo carissimo amico, così hanno fatto tanti
autentici credenti di fronte al manifestarsi del mistero dell’iniquità. Che si tratti
dello sterminio degli Ebrei, del martirio dei cristiani, delle atrocità della guerra e
della fame, delle ingiustizie sociali che stritolano i poveri, della terribile violenza
sulle donne e sui bambini, della devastazione che sfigura la nostra madre terra, la
Chiesa, sorella degli uomini, può legittimamente gridare a Gesù: «Perché non sei
intervenuto? Perché non sei stato con noi, come ci avevi promesso?» (cf. Mt 1,23 e
28,20).
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E Gesù che cosa ci risponde? «Io ti dico che, se tu credi, vedrai la gloria di Dio»
(cf. Gv 11,40), vedrai i morti udire la voce del Figlio di Dio e rinascere a vita
nuova (cf. Gv 5,25 e 11,43), vedrai il sangue dei martiri sconfiggere il mistero
dell’iniquità e fecondare il mondo (cf. Ap 12,11 e 1Gv 5,4), vedrai le chiavi del
Regno affidate alle mani inermi dei piccoli e dei poveri (cf. Mt 18,3 e 25,40),
vedrai le famiglie che hanno smarrito la loro gioia rigenerate dal vino nuovo di
Cana (cf. Gv 2,1-11), vedrai «nuovi cieli e terra nuova, nei quali abiterà la
giustizia» (2Pt 3,13).
Ma tutto ciò potrà avvenire soltanto se tu credi, cioè se accogli la parola di Gesù
nel grembo umile e fecondo della tua fede, nello spazio intimo e infinito di un
cuore che ascolta, nella risposta incondizionata e operosa alla sua chiamata. E se
noi, discepoli di poca fede, sapremo pregare così:
Signore Gesù, accresci la nostra fede:
come un granello di senapa
seminaci nel cuore del mondo,
perché diventiamo come un albero fecondo e accogliente,
che allarga i suoi rami in ogni direzione,
e possiamo così abbracciare tutte le tue creature.
Soprattutto i piccoli e i poveri
trovino accoglienza e protezione nella tua Chiesa
e gli uomini di oggi,
che camminano nelle tenebre e nell’ombra di morte,
vedano le nostre opere belle e buone
e diano gloria al Padre nostro che è nei cieli.
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